Dure Lezioni Da Genova E Una Proposta Alle Tute Bianche
di Gary Brackett del Living Theatre

C'è stata un'eloquente scena venerdì 20 luglio (Il Giorno dell'Azione) a piazza Dante, a Genova, al confine della Zona Rossa (una zona chiusa da uno sbarramento di sicurezza per il G8). Questa piazza, sebbene designata come non-violenta, è stata nondimeno testimone dell'uso di idranti e gas lacrimogeno contro manifestanti pacifici. Qui le azioni di protesta andavano da quelle creative di canzoni, musica e lancio di palloni a quelle meno pacifiche di battere sulle barriere di acciaio, lanciare bottiglie d'acqua e insultare la polizia. A un certo punto gli organizzatori, sentendo che la tensione stava crescendo troppo, ritennero fosse il momento giusto per presentare lo spettacolo del Living Theatre "Resist Now". Appena lo spettacolo cominciò, occhi e orecchie si focalizzarono sulla performance e ci fu un silenzio attento e profondo. Il contrasto con il rumore, la confusione e il potenziale di violenza immediatamente precedenti era singolarmente drammatico per i manifestanti e forse anche per la polizia.
(Da vari punti della città giungeva notizia di scontri, cassonetti bruciati e cariche della polizia.)

Sfortunatamente un errore nell'organizzazione interruppe questo cambio di atmosfera quando un gruppo di comunisti vecchio stile, gli Socialist Worker's Party, arrivò improvvisamente scan-dendo slogan, battendo ritmicamente e gridando, con il generale clima di ostilità verso la polizia che ne seguì. (Lo spettacolo del Living continuò, sebbene la pienezza e la potenzialità del nuovo stato fisico e mentale che solo il teatro può dare fos-sero state compromesse.) Così, dove lo spettacolo del Living avrebbe potuto aprire a nuove forme di partecipazione e comunicazione fra i manifestanti (e magari i poliziotti), seguì invece, come in molte altre piazze di Genova quel giorno, l'attacco delle forze dell'ordine con idranti, gas lacrimogeno e qualche manganello. Stavamo per assistere agli adesso famosi scontri, al sangue, ancora una volta alla morte, che tutt'ora continuano a monopolizzare la discussione del movimento anti-globalizzazione; cioè il tema della violenza, sia essa lo stato organizzato o le autonome tattiche di guerriglia del "colpisci e fuggi" (il cosiddetto Black Bloc), o infine le azioni "difensive" delle Tute Bianche.

Adesso le importanti questioni dell'antiG8, la cancellazione del debito, l'ambiente, la capi-talizzazione globale, lo sviluppo del terzo mondo ecc. sbiadiscono fra la pubblicità, le distorsioni e le esagerazioni dei media (di destra e di sinistra), fra le dichiarazioni ufficiali, le inchieste e le indagini del governo, e fra la tristezza, la rabbia e il desiderio di voler riparare i torti fra i manifestanti e alcune persone della polizia.

Abbiamo cominciato con il quadro dei contrastanti, stili e strategie di protesta per far luce sulla questione di base di quanto è accaduto a Genova: in che modo gli obiettivi e i desideri del 90% dei manifestanti - lavoratori, vecchi e nuovi hippies, femministe, punk, cattolici, comunisti, pacifisti-, tutti professanti l'azione non-violenta, hanno potuto essere fermati, deviate e monopolizzati dall'azione del rimanente 10% di "anarchici" violenti, elementi di centri sociali, infiltrati della polizia, nazi-fascisti e hooligans, in questo confronto con le forze di polizia del governo Berlusconi, ben organizzate, ben armate e con una chiara strategia?
Prima del summit, si è discusso moltissimo sulla paura, sulla violenza e su come evitarle. Dopo, possiamo parlare dell'inevitabilità da parte delle
forze dell'ordine dell'uso eccessivo di violenza. (Dopotutto, le tecniche della violenza costituiscono il loro training. Perché ci meravigliamo tanto quando fanno così bene ciò per cui sono addestrati?) Né è nostra intenzione a addossare le responsabilità al movimento anti-G8, o sem-plicemente biasimare il governo. Queste lezioni devono essere utili per il lavoro e le strategie futuri e dobbiamo guardare in modo spassionato a quanto è venuto fuori da Seattle a Praga, a Gothenburg, a Nizza, a Napoli e adesso Genova.

E’ chiaro che il movimento anti-globalizzazione ha spesso tentato di volgere a proprio vantaggio eventi orchestrati da un'organizzazione di potere. E' come un party privato ed esclusivo rovinato da "indesiderabili".
Dopo Seattle "gli organizzatori di party" non volevano la ripetizione di questi eventi, così l'ar-senale, il talento e la capacità degli 8 hanno potuto ( e potranno) reprimere ogni tentativo di disturbo. Così sono state preparate, per esempio a Genova, diverse strategie difensive: zona rossa, mani-polazione e rottura di accordi, mistificazione e trattenimento delle informazione. Sono stati uti-lizzati tutti i modi possibili per rendere la protesta inefficace. Come abbiamo visto a Genova ( e come diciamo nel football americano) la miglior difesa è l'attacco. Così è stato che le forze dell'ordine hanno spesso attaccato per prime i manifestanti, giocando
sull'anticipo, come nella rottura dell'imponente marcia dei 200.000. Il fatto che la polizia usi una forza eccessiva, come alla scuola Diaz, è una reazione punitiva e un'estensione logica di ciò che la polizia fa meglio. Specialmente se alcuni tra i manifestanti distruggono la proprietà e rimangono violentemente ribelli e provocatori. Il clima generale di odio e di disprezzo verso la polizia di larga parte (la maggioranza?) dei manifestanti, insieme con la mancanza di ordine e obbedienza assoluti, facevano sì che venissero fuori i tratti più sadici da parte di individui della polizia. Noi crediamo che quando si stabilisce un contesto di scontri di strada la polizia vede tutti i manifestanti come fossero uno solo, cosicché diventa difficile o strategicamente non necessario separare i Black Bloc dagli anarchici grigi, dalle Tute Bianche (che non erano in bianco come d'abitudine), dai pacifisti. E quando da entrambe le parti vengono usati maschere, caschi, fazzoletti sul viso, scudi, imbottiture di difesa- creando così un senso di generale anonimità il comportamento disuma-nizzato e spersonalizzato di tutti si capisce ancora meglio.

Dopo aver guardato la situazione di un governo che vede a tutti i costi la necessità di neutralizzare i disordini e che ha a disposizione una larga forza di polizia addestrata, obbediente e preparata alla battaglia, volgiamoci alla strategia del Genova Social Forum (GSF) come rappresentativa del più largo blocco di dimostranti e delle Tute Bianche, che potrebbero essere descritte come l'avanguardia del movimento attivo giovanile. (Ci sono naturalmente altri altrettanto importanti, come i pacifisti della rete di Lilliput, i più militanti COBAS, e un vastissimo contingente di comunisti.) In verità sembra che il GSF abbia fatto ogni sforzo per presentare un gruppo di protesta unito, producendo forse così un tono, una strategia e delle tattiche piuttosto militanti, che farebbero appello a elementi del movimento più militanti. Presentando una grande forza che comprendesse gruppi diversi in opposizione al G8, si realizzava la strategia di varie piazze a tema, ciascuna con il proprio livello di militanza. Ciò rendeva molto più facile alla polizia identificare, separare e neutralizzare i gruppi più violenti il Giorno dell'Azione. Tale strategia venne replicata nella grande marcia del giorno seguente quando la polizia separò agevolmente le diverse tendenze presenti nel corteo.

Le Tute bianche, come pure il GSF e altri fuori da questo blocco avevano il proposito di attaccare la Zona Rossa, per esercitare il proprio diritto a una città libera. In una lettera precedente (vedi appendice) abbiamo esposto i possibili problemi e limiti di questa e di altre tattiche di interrompere il G8. Bisogna dire che sembra più del 90% delle organizzazioni pacifiste abbiamo chiuso un occhio perfino sul contingente apertamente violento - il cosiddetto Black Bloc - che aveva espresso questa tattica. Non c'era da aspettarsi che altre forze oscure di provocatori della polizia, fascisti, hooligans e altri ai margini della società avrebbero colto l'opportunità di esprimere la propria rabbia e il proprio malcontento verso la società? così è stato deludente che le Tute Bianche abbiano deciso di non essere identificati dalla loro "uniforme" bianca. Dobbiamo dire che il loro discorso sulla "protezione difensiva" non è chiaro, è vago e non nel vero spirito della resistenza non-violenta, e che
l'uso di caschi, scudi, volti coperti, maschere antigas - sembrano gli specchi del poli-ziotto/soldato - sembrava essere l'attesa (l'invito) alla violenza, e che quest'aspetto veniva assunto come stile da parte dei più violenti tra i mani-festanti - e tutto ciò rendeva minima l'efficacia delle Tute Bianche. (Vedi oltre altri suggerimenti e strategie che speriamo le Tute Bian-che vorranno considerare).

Mettiamo insieme una presenza di protesta parzialmente unificata, specialmente sulla ques-tione di violenza e non- violenza, (la strategia di dividere i vari gruppi in campi d’azione separati, la presenza conosciuta di cosiddetti "anarchici" pro-violenza, la strategia dichiarata di entrare nella zona rossa da parte di alcuni, un largo contingente di comunisti "rossi" e di altri non del tutto pacifisti, i quali non escludono di ricorrere all’insurrezione violenta per prendere il potere, la possibilità cono-sciuta della presenza di hooligan, nichilisti e di portatori di violenza gratuita) e il leader, egual-mente militante, dell’attuale governo italiano: credo che sia merito del GSF e della gran parte dei manifestanti che amano la pace, che i feriti e i morti non siano stati di più. Sebbene il movimento anti-globalizzazione sia già d’accordo sulla maggior parte degli obiettivi, sembra che la questione saliente sia la strategia da adottare per neutra-lizzare la violenza all’interno del movimento e quali
ambiti, quali campi d’azione scegliere.

Non è nelle intenzioni di questo scritto sviluppare una strategia di un movimento anti-globalizzazio-ne, anche se è possibile accennare ad alcune tendenze e idee di base che possono essere utili. E’ prioritario il bisogno di una forza unita che vada oltre ogni connotazione religiosa, politica, tattica, filosofica, razziale ed etnica. E ciò che può essere alla base di questa unità è solo l’impegno a una resistenza non-violenta.

Nel calore e nella passione dell’ultima domenica del G8 di Genova, dopo il brutale raid della polizia alla scuola Diaz, perfino dai più convinti giovani pacifisti si levava un giustificato grido di rabbia e di appello ad un azione di rivalsa. Quale azione? per capire che genere di azione, per scoprire davvero il principio della non-violenza, dobbiamo capire l’i-naffllibilità di quest’idea: affrontare l’odio (vio-lenza) con l’odio (violenza) può solo portar fuori un odio (violenza) ancora maggiore. Naturalmente dobbiamo e condanniamo con forza le azioni di brutalità e gli eccessi della polizia. Possiamo perfino provare odio e rabbia verso queste azioni. Ma trovare una soluzione ad azioni violente condannando e odiando il singolo poliziotto non è una soluzione. Non puoi aiutare con l’odio. Come disse Gandhi: "Non è non-violenza amare solo chi ci ama. E’non-violenza solo quando amiamo quelli che ci odiano".

Chi siamo noi per giudicare un altro essere umano che non conosciamo, i milioni e i miliardi di cause che hanno condotto il destino di una persona che deve decidere per se stesso, per esempio, di essere un poliziotto? Se la misura di giudizio della vita di una persona dev’essere il grado di servizio al-l’umanità, allora servire coloro i quali siamo contro, alle cui azioni ci opponiamo risolutamente, dovrebbe essere il nostro primo imperativo. Così l’odio non avrebbe parte in questo servizio.

Noi crediamo non ci sia nessun problema nel mondo che non possa essere risolto con un attiva resistenza non-violenta. Dalla Palestina all’Africa, all’ambiente, allo sviluppo del terzo mondo. Semplicemente è la "forza dell’anima" (satya graha) degli individui del passato e del presente che ha creato il mondo nel quale viviamo oggi. Non la forza del denaro e delle banche, della guerra e del potere, dello sfruttamento e della violenza, ma piuttosto la semplice cooperazione pacifica e immaginazione, innate nella nostra specie, costru-iscono ospedali e case, inventano medicine, adattano la tecnologia, creano metodi nuovi di organizzazione e sopravvivenza. Come un lavo-ratore può, anche a costo di morire (il sacrificio estremo), rifiutarsi di obbedire, di lavorare, fino a quando le sue richieste non vengano accolte, così un popolo o una minoranza risolutamente preparati a soffrire le conseguenze di non-sot-tomissione possono mettere in ginocchio qua-lunque governo, polizia o economia, per quanto potenti possano essere: il nostro potere di pro-duttori e di consumatori di rifiutare e di resistere è invincibile. Finché il momento della violenza si incontra con altra violenza, tutta la solidarietà con coloro che sostengono e amano la pace (per esempio i cittadini di Genova) viene compromessa, e la possibilità di vincere i cuori dei nostri op-positori (nemici?) è perduta.

Riferendoci a noi, se a Genova ci fosse stata una forza veramente unita di attivisti di satya graha preparati a fare l’estremo sacrificio come pacifisti; se decine di miliardi di artisti, infermieri, lavoratori, poeti, attivisti, madri avessero creato una zona pacifica di rispetto, amore e non violenza, in mezzo alle forze potenzialmente violente; se queste intenzioni fossero state rese note al governo, alla polizia, ai manifestanti e ai media, allora la storia avrebbe potuto prendere una direzione più positiva.

Nello stesso spirito sfidiamo le Tute Bianche a mettere da parte le loro bandane, gli scudi, i caschi e le protezioni per diventare una reale forza di verità di resistenza non-violenta, a frapporsi tra le parti in lotta nell’interesse di entrambe, a mettere in gioco per la pace i loro corpi senza difesa, e a lasciar cadere i sentimenti di odio e di vendetta contro la polizia. Così, potrebbero ispirare un movimento di giovani, e l’intensità e l’impegno che abbiamo visto nei guerrieri di strada a Genova potrebbero essere trasformati in una forza che, usando l’immaginazione, creerebbe nuove forme di protesta. Ecco il modello di un nuovo attivismo: un’alternativa alla spesa governativa di bilioni di dollari per bombe, soldati, carri armati, per risolvere i conflitti interni, sarebbe che gli attivisti della pace andassero nei punti caldi per insegnare, guarire, rappresentare, parlare, condividere.

Noi del movimento anti-globalizzazione e GSF, dobbiamo determinare noi stessi i nostri campi d’azione e non aspettare un altro summit in cui potremmo correre il rischio di trovarci in un altra situazione di assedio. Noi dobbiamo prendere l’iniziativa, organizzare il nostro summit globale, sviluppare le nostre forme e le nostre tattiche, rendere chiaro che cerchiamo ogni alternativa alla violenza, rendere semplicemente ovvio che la violenza non avrà alcun ruolo in tali eventi. Magari forse fra un anno potremo ritrovarci a Genova il 20 di luglio per un summit di pace a ricordo della prima vittima del popolo di Seattle, sottolineando il desiderio che egli sia l’ultimo sacrificio alla violenza, ma forse non l’ultimo sacrificio per la pace. Il sentiero verso un mondo più giusto ed egualitario non si può creare con la separazione insita nel paradigma "noi e loro". La questione è: vogliamo creare nemici negli inevitabili confronti con i nostri oppositori, o vogliamo in modi pacifici e con l’immaginazione, vincere i cuori e le menti delle masse in cui le forze dell’ordine reclutano i loro soldati? Una strada può portare alla guerra civile, l’altra a nuove possibilità.

"Solamente un’alternativa più efficace della violenza può compiere quello che la rivoluzione significa veramente." Julian Beck

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