Silvano Tartarini

Carlo Cassola: la letteratura dell'infinito e il suo sbocco antimilitarista


Indice

Prefazione ………………………………………………..p. 5

Introduzione……………………………………………….p. 9        

Capitolo I

Carlo Cassola: la letteratura dell'infinito e il suo sbocco antimilitarista.

I.1   Letteratura e disarmo……… ……………………….p. 11
I.2  Cassola, uomo scisso?.................................................p. 12.
I.3   Un politico sui generis………………………………p. 19

I.4   La priorità storica della “scelta descrittiva”       di Cassola rispetto alla école du regarde……………p. 26

I.5. Lo stile paratattico come elemento programmatico dell’epica cassoliana……………………………………..p. 30

I.6. I suoi personaggi-esistenze divergono dall’impegnodi un neorealismo agiografico…………….,…………….p. 33

I.7. Il paesaggio cassoliano come segmento  dell’infinito………………………………………………...p.   37

I.8. Il sentimento dell’infinito…………………………...p.  44

I.9.   I personaggi cassoliani sono personaggi del tempo infinito…………………………………………...p.  45

Capitolo II.

La letteratura come il pensiero dell’uomo vecchio

II.1 L’amore cassoliano per la vita……………………p.53

II.2  L’ultimo sperimentalismo di Cassola……………..p.55

II.3   La realutopia al posto della realpolitik…………..p.56

II.4  L’assillo modifica qualcosa di profondamente     radicato……………………………………………p.60

II.5   Il partito del progresso e della sopravvivenza         è il paese della poesia…….…………………………p.62 

II.6  Un gioco pericoloso e perverso………… …………..p.67

Capitolo III

Il sublimine

III.1  Cassola e Cancogni…………………………………p.68       

Capitolo IV

Carlo Cassola - Racconti e romanzi

IV.1 I Meridiani…………………………………………..p.73

IV.2 La consolazione del bello?..........................................p.76

IV.3  La nascita della memoria…………………………...p.80

IV.4  Conclusioni………………………….……………..p. 83

Capitolo V

L’ultimo Cassola: la grandezza di un testimone

V.1  Cassola “politico” antimilitarista……………………p.86

V.2 La lotta per la pace in continuità della       Resistenza…………………………………………….p.88

V.3 L’impegno per Cassola………………………………p.90

V. 4 La strategia del disarmo unilaterale e i puntidi contatto di Cassola con la nonviolenza………………...p.95

V.5     La LDU…………………………………………..p.102

V.5.1    La seconda LDU………………………………..p.105

V.5.2.     Risultati ottenuti dal movimento deiCostruttori di pace……………….………………………p.107

V.6   Il “molto” di Cassola………………………………p.113

Bibliografia……………………………………………...p.117

Ringraziamenti…………………………………………..p.120


Prefazione

L’aggettivo infinito inserito nel titolo scelto da Silvano Tartarini per il suo saggio dedicato a Cassola, fa immediatamente pensare al breve ma celeberrimo canto XII di Leopardi. Non ci pensava invece Cassola quando nell’aprile del ’35 a Roma, parlando con me di letteratura, e, in particolare di poesia, insisteva soprattutto sul nome di Pascoli (che egli allora giudicava il maggior poeta italiano dopo Dante) come il vero poeta dell’infinito. A testimoniarlo c’è solo, oltre lo scrivente, il primo numero di Il Pellicano, il giornaletto d’arte e letteratura che facevamo assieme in quella lontana primavera. Siccome di quel periodico si tiravano solo cinque copie non credo che ne esista ancora un esemplare.

Sarebbe un vero miracolo altroché la prova di un infinito amore per la poesia come solo allora, in tempi di dittatura, era possibile.

Per Cassola e per il sottoscritto, la sensazione dell’infinito che il giovane conte Giacomo prova stando seduto sul monte Tabor, l’ermo colle, vicino alla casa paterna di Recanati, era un fatto più fisico che emotivo, e l’infinito in questione più spaziale che metafisico. L’infinito per Carlo, per noi oserei dire, era un’emozione ben più profonda, unica e inconfondibile, tale da riempire tutta la coscienza colmandola di una gioia quasi paurosa come accade davanti al mistero. E non occorreva uscire di porta e prendere la via dei campi per provarla, o meglio, per esserne sorpreso all’improvviso, magari sedendo in casa intento a far colazione o sfogliando le pagine di un giornale magari la rosa “Gazzetta dello sport”.

Era una scossa, un trasalimento dell’anima traducibile in una domanda. Perché? Chi sono? Perché esistiamo? Il da-sein, l’essere qui heideggeriano insomma, fonte di angoscia per lui, di estasi per noi. Pascoli l’aveva espresso soprattutto nei Poemi Conviviali, specie in uno della raccolta, intitolato L’ultimo viaggio, protagonista Odisseo che, vicino al definitivo naufragio, sugli scogli implora: «Vi prego!/ Ditemi almeno chi sono io! chi ero!/». Una domanda destinata a restare senza risposta a meno di cercarla nella religione, cosa per noi, allora cristiani senza Dio, addirittura improbabile. Perché l’essere e non il nulla o se preferiamo perché l’esistente (dell’uomo, del singolo) sul gran mare dell’Essere?

Passò la primavera e passò l’estate di quel memorabile ’36, e quando ci ritrovammo in autunno sempre a Roma, molte cose erano cambiate. Al nostro Sturm und drang giovanile, pieno di astratti furori (contro la famiglia, la società, la patria, il fascismo, la morale borghese ecc. ecc.) era seguita in entrambi, separatamente, (lui aveva trascorso le vacanze come sempre tra Cecina e Volterra, io a fare il soldato tra gli alpini sulle Alpi Orientali per concludere la massacrante esperienza di marce e contromarce di valli in valli, di cime in cime, di nevai in nevai, in ospedale), una profonda e analoga pacifica rivoluzione intima. Basta con le sciocchezze, ideologiche, morali, sociopolitiche, basta con le parole sopra le righe, basta con le proteste e gli eccessi, basta, oserei dire, con il nostro, anticipato di trent’anni, sessantottismo! C’era qualcosa di molto più importante, che diamine! C’era la vita, la vita quotidiana, semplice e dimessa, un dato, questo sì, universale, comune a uomini e donne comuni, senza eroismi, senza passioni, senza esaltazioni (tutte falsità, bugie), la vita ridotta a semplice esistenza. E come chiamare questo nuovo corso, questa nuova scelta di vita, questo modo di essere che prestava fede, bandite le idee, solo alle sensazioni, a certe sensazioni? Non ci preoccupava dargli un nome. Non eravamo mica dei filosofi. Non avevamo bisogno di molte parole e definizioni per intenderci. Poesia dell’infinito, forse come suggerisce oggi il titolo del saggio di Tartarini. Sì, ma la parola, di cui s’era abusato nella tempestosa primavera del ’36, ci sembrava un po’ logora oltre a richiamare fastidiosi ricordi. E fu così che venne fuori come equivalente aggiornato il sublimine.

   È doveroso confessare che la parola non era di nostra completa invenzione. L’avevo trovata io leggendo, o meglio scorrendo, una voce della Treccani al nome Myers (Frederic W. H.), uno psicologo britannico dell’ottocento che lavorava negli Stati Uniti, oggi dimenticato. Veramente il Myers scriveva sub-liminal e quindi, in italiano, subliminale mentre noi traducevamo subliminare.

   Sub-limen comunque: sotto la soglia. Myers pensava che là sotto ci fosse una zona buia e impenetrabile, un guazzabuglio tenebroso ma attivo che faceva sentire la sua presenza indirettamente, ad esempio per mezzo di un lapsus o altri sintomi del genere. È lui il vero scopritore dell’inconscio; non Freud, anche se il geniale medico viennese ha esteso i confini della scoperta dell’oscuro britannico.

   Noi al sub-limine si dava comunque un significato diverso e addirittura opposto. Per noi sotto quella soglia non c’era l’oscurità; c’era, nascosta, l’estrema chiarezza; c’era il balenare della verità, un balenare che ci mostrava le cose come sono in loro stesse, non come ci appaiono normalmente deformate dalle nostre necessità pratiche, dai nostri interessi, dal nostro ragionare che sempre ci accompagna.

   Gli uomini, normalmente, sono assuefatti a questo continuo lavorio della coscienza che riveste la realtà con un velo di parole, immagini, concetti, idee. Solo a tratti, in certi momenti di stanchezza dell’attenzione che portiamo alle cose (momenti felici di distrazione), imprevedibilmente, improvvisamente, e soprattutto involontariamente, “il velo di Maya” come lo chiamava il grande Schopenhauer, si lacera e noi vediamo per brevi istanti. Brevemente, ma quanto basta per colmarci di una gioia profonda e totale e anche sgomenta come si può provare nell’atto di scoprire una terra sconosciuta o un volto amato e da tempo perduto. Brevi momenti purtroppo. O forse provvidenzialmente brevi. Perché come si potrebbe resistere più a lungo a tale estasi?!  

   Ma è tempo, dopo questa lunga digressione, di tornare a Tartarini, al suo saggio dedicato a Cassola e alla sua tesi centrale. Una tesi enunciata con esemplare chiarezza: non ci sono due Cassola, quello dell’infinito e quello del disarmo unilaterale, in contraddizione tra loro, ma uno solo saldo e indivisibile che invoca il disarmo in difesa della vita e quindi della poesia. Tartarini, pacifista dalla nascita, era un seguace convinto della non violenza, già prima di incontrare Cassola e diventarne il segretario e l’interprete accreditato negli ultimi anni della sua vita, quando l’autore di La ragazza di Bube era stato praticamente abbandonato e quasi non aveva più voce per esprimere il suo verbo. Il messaggio cassoliano del resto è riassumibile in poche parole: disarmo, niente più guerra, non c’è guerra giusta, la vita è il valore supremo, meglio schiavi che morti. Parole semplici e sospette anche di cinismo, che Tartarini ha inteso nel loro profondo significato morale ed eroico. Cassola era un soldato. Lo era stato a più riprese oltre i periodi di servizio militare, come partigiano, come antistalinista nel ’49, come nemico della legge maggioritaria di Scelba nel ’54, e infine, già vecchio e malato, come campione della pace perpetua. Tartarini ne ha raccolto le ultime parole fioche ma ardenti di fede.

          

Manlio Cancogni

Marina di Pietrasanta 9 settembre 2011

Introduzione

In questi ultimi tempi mi sono sempre più convinto che la poesia come la prosa siano, nella loro essenza, nonviolenza, e come la nonviolenza abbiano i loro mezzi e i loro fini.

Se il fine della scrittura di un contemplativo come Cassola era rappresentare il sentimento della presenza dell’esistenza nel quotidiano, sia come solo fatto di “essere” sia nel momento del suo passaggio, il mezzo adoperato, il “sublimine”[1] era coincidente con il suo fine, esattamente come c’è coincidenza tra i fini ed i mezzi nel metodo nonviolento.

Cassola, fin dalle sue prime prove di scrittore, si era affidato tutto all’impegno, sapendo bene che solo attraverso questo suo impegno nella scrittura poteva raggiungere il fine che si era stabilito. L’impegno era quello di affinare una scrittura che rappresentasse al meglio la sua lettura, o, più precisamente, il suo vedere, il suo sentire il “sentimento della vita” attraverso l’involucro delle cose e dei personaggi. Ma per lo scrittore anche l’impegno è creativo come sono creativi tutti gli altri mezzi della scrittura.

Ricordo qui che la creatività dei mezzi è un concetto della nonviolenza gandhiana, nella quale esiste un primato della pratica diretta, per cui il fine del disarmo non si può ottenere che attraverso il disarmo: “Se vuoi la pace, prepara la pace.”

Pur non essendo un nonviolento - almeno in senso stretto Cassola era tutt’altro - tuttavia egli ci ha spiegato,  attraverso la sua scrittura, sia la prima che l’ultima, che la vita non può essere considerata un mezzo.

Come per Gandhi la nonviolenza era il massimo del coraggio, così per Cassola la sua scrittura disarmata, che poteva divenire disarmante e disarmista, sosteneva il disarmo unilaterale come la risposta più alta e più coraggiosa in difesa dell’esistenza.

Questo studio si propone di dimostrare:

a)     che in Cassola non esiste frattura tra lo scrittore e il politico antimilitarista;

b)     che, nell’ultimo periodo della sua vita, Cassola ha tentato di modificare la propria originaria scrittura esistenziale (la scrittura subliminare) per raccontare una verità che gli urgeva dentro;

c)      che esistono vari punti di contatto del “violento” Cassola con la nonviolenza gandhiana e che il mondo antimilitarista-pacifista e anche nonviolento gli deve molto e ancora non glielo ha del tutto riconosciuto.

Per fare questo partirò da alcune considerazioni critiche fatte da C. Garboli e da F. Fortini sullo scrittore e sull’ideologo Cassola e su ciò che rappresentava la vita per lui, per poi cercare di dimostrare queste ipotesi anche direttamente dai testi cassoliani. Tra questi, citerò più volte Mio padre, Rizzoli, 1983 e non a caso, ma proprio per dare voce all’autore, per portare direttamente in campo una sua testimonianza autobiografica, che, in queste circostanze, mi pare appropriata.

Poi cercherò di spiegare il collegamento carsico, ma non per questo meno presente, tra letteratura e disarmo e, infine, di raccontare gli antefatti e i percorsi del politico antimilitarista.

Poiché, compito precipuo di questo studio è di riportare ad unità quanto, anche recentemente, molta critica ha scisso, prenderò anche in esame Cassola, Racconti e romanzi, uscito nel 2007 da Mondadori nella collana i Meridiani. In fine, prenderò brevemente in esame la scrittura subliminare per individuare gli elementi-categoria che ritengo siano stati preparatori alla scoperta del sublimine anche per indicare alcuni punti sia di contatto che di divergenza tra Cassola e il suo sodale Cancogni.

Capitolo I

Carlo Cassola: La letteratura dell'infinito e il suo sbocco antimilitarista.

«Ciò che distingue l’arte da ogni altra attività intellettuale è l’egoismo».[2]

I.1 Letteratura e disarmo 

Quando il 4 aprile 1987 si tenne a Firenze il convegno su Cassola Letteratura e disarmo erano passati poco più di due mesi dalla morte dello scrittore. Il convegno nacque, mi pare, da un suggerimento di Mario Capanna, ma fu voluto e organizzato dalla LDU per un'urgenza. L'urgenza era quella di rimuovere l'idea di un Cassola scisso in due ad un certo punto del suo percorso di scrittore, e di più colpito da una sorta di insinuante monomania antimilitarista, arrivata alla fine dell'esaurirsi della sua vena poetica. Il titolo, ripreso, era Letteratura e disarmo. Dove, ovviamente, per chi era, allora, della LDU, la “e” era chiaramente una congiunzione e non rappresentava certo alcuna contrapposizione. Tuttavia, nel momento del convegno, il nome rimaneva così volutamente ambiguo.
Devo ricordare che, quando, il 29 gennaio 1987, Cassola morì, lo scrittore era ormai un isolato. Destino di molti, ma destino a cui Cassola avrebbe, a detta dei più, potuto tranquillamente sfuggire. Si trattava, in fondo, di amministrare “saggiamente” il proprio patrimonio di scrittore e di non confondersi in un assordante tam-tam antimilitarista che, a molti, parve uscire dal nulla.

Riguardo a questo, fu sintomatico il giorno del funerale di Cassola. Ricordo che era un giorno freddo e ventoso. Mi pare che piovesse anche. C’erano pochi intimi e, fra questi, Mario Capanna e l’amico Eugenio Baronti, che è poi stato assessore regionale toscano con vari incarichi, fra cui la ricerca e l’università.

Il funerale partì dalla sua casa di Montecarlo di Lucca. Fuori dalla porta c’erano i fiori inviati dalla Presidenza del Consiglio di allora. Tanta stima “ufficiale” strideva con il non consenso reale alle sue idee delle istituzioni e dei media.

L’isolamento rimaneva totale anche nel momento della morte. Posso sbagliare, ma non ricordo di aver visto un solo giornalista presente quel giorno al funerale. Fu un bel funerale, se l’aggettivo si può usare per un funerale. Sarebbe piaciuto a Cassola. Un funerale del dopoguerra: scarno, solitario, senza fronzoli, importante come la morte.


Sì, sarebbe piaciuto a Cassola.

I.2  Cassola, uomo scisso?

Prenderò spunto per partire ora con questa riflessione, sul tema della guerra, da due interventi che all'epoca fecero Cesare Garboli e Franco Fortini, che, purtroppo non sono più con noi, perché mi sembrano ancora oggi significativi per spiegare il rapporto tra la prima (’37-’49) e la seconda scrittura cassoliana sull'esistenza (’61-’70) e la prima scrittura cassoliana politica (decennio dal '50 al '60) e la seconda scrittura cassoliana politica-antimilitarista dal 1978 in poi.

Garboli, in quell'occasione, affermò che:

«Cassola era un uomo in qualche modo scisso, era un poeta da una parte, e un ideologo dall'altra, ma il poeta e l'ideologo non stabilivano uno scambio dialettico fra loro. Essi si univano, piuttosto, nel comune rifiuto di ogni ideologia che non fosse la difesa a oltranza della purezza, dell'integrità e della contemplatività esistenziale. Tutto il resto, per Cassola, erano falsi problemi».[3]

Garboli centrò allora uno degli elementi di fondo: Cassola era indubbiamente uno scrittore dalla punta dei piedi alla punta dei capelli e la purezza, l'integrità e la contemplatività esistenziale erano la vita della sua scrittura, cioè tutta la sua vita, e mi pare certamente condivisibile che tutto il resto fosse un falso problema. Tuttavia mi sentivo e mi sento di negare che non esistesse uno scambio dialettico tra lo scrittore e l’ideologo, e mi sembra oggi degno di rilievo ricordare che lo stesso Garboli ammetteva che la vis politica si univa in Cassola alla sua scrittura quando era la vita ad essere in totale pericolo.

Riguardo a questo problema della “scissione” in Cassola devo almeno ricordare le posizioni di quattro autori che, in maniere diverse, ma decisamente complementari, negano questa supposta “scissione”.


Il primo autore che segnalo è Gianni Bernardini, che, con argomentazioni non troppo diverse dalle mie, si esprime così in un suo libro uscito di recente:


     «Mi sembra, intanto, che il contributo di Garboli, negli argomenti riportati, pecchi di genericità nei confronti di Cassola. In altri termini, appare a Garboli una scissione in Cassola, e insieme ha presente un solo Cassola, contemporaneamente artista e “ideologo”, ma senza che le due anime si incontrino, se non, appunto, nella contemplazione dell’esistenza, dello spettacolo della realtà: senza avere, invece, davanti il Cassola di un certo periodo, con la sua ideologia e la sua produzione, e lo stesso autore di un altro periodo, con una diversa, corrispondente attività».[4]

Molto vicino a questa linea dell’unità di percorso del Cassola scrittore-ideologo, è anche Carlo A. Madrignani, il quale, pure se parla di un nuovo Cassola, preso dal demone della predicazione, non può non rilevare che:

   

«Il percorso fatto da Cassola negli ultimi anni non può essere ridotto all’illanguidimento di uno scrittore stanco. Egli ha rotto il raccoglimento del narratore intimista per dare alla sua narrativa una nuova identità etica e conoscitiva».[5]

Non meno preciso nel negare la frattura e nell’averlo fatto tra i primi, è Renato Bertacchini :

«Il passaggio cassoliano non è un transito contrapposto, divaricato; ma semmai conseguente, articolato in fasi successive, motivato nel tempo sul denominatore comune fedelmente mantenuto, di una narrazione in difesa della vita, prima, durante e dopo la grande metamorfosi, con testi ogni volta pertinenti, significativi».[6]

Per Bertacchini, dunque c’è in Cassola un fattore comune, che è la sua narrazione in difesa della vita.

Forse, però l’intervento più illuminante per tanti aspetti mi pare quello di Romano Luperini, che, intervenendo al Convegno su Cassola del 1989, esordisce convenendo con Garboli  che i risultati migliori di Cassola vadano individuati nell’arco del periodo che va da Una visita a Un cuore arido e Paura e tristezza, ma non condivide la scissione tra lo scrittore e il politico - ideologo in Cassola.

L’intervento di R. Luperini mi pare significativo non solo per una sua impostazione culturale, che è quella di chi viene da un’altra parte, e che lo avvicina a Fortini, più che a Cassola, ma, soprattutto perché fissa la connessione tra il prima e il dopo della scrittura di Cassola precisamente all’origine del suo percorso di scrittore. È da quel “grumo” iniziale che hanno origine per Luperini i tre impegni cassoliani: letterario, critico e politico.

«E tuttavia non mi sentirei di condividere sino in fondo l'assunto di GarboIi. Un nesso fra Cassola scrittore e Cassola saggista (ideologo del disarmo e critico letterario) esiste, e va ricercato alle origini stesse del suo impulso alla scrittura, nella dimensione esistenziale che ne è premessa, in quel grumo profondo e oscuro - ferita, vocazione e destino - in cui affondano le motivazioni e da cui si dipartono i rami, pur distinti e diversi, dell'impegno letterario e di quello politico e critico».[7]

Indicativo è anche che Cassola per Luperini si appelli, nella sua difesa politica della vita, al privilegio dell’arte, perché questo non è altro che il privilegio della poesia cassoliana dell’esistenza a cui Cassola aveva fatto sempre riferimento:

«la salvezza - avverte Cassola - non potrà venire che da “un piccolo gruppo di uomini di cultura” capace di influenzare “vaste masse»[8]

Ma chiudiamo ora questa parentesi e torniamo a Garboli. Per quanto fossi convinto che Cassola, in buona sostanza, rifiutasse ogni ideologia che non fosse l'ideologia dell'esistenza, tuttavia, Garboli mi metteva davanti “due orbite parallele” non comunicanti, dove in una di queste orbite c'era l'ideologo, che era sempre disposto a scendere in campo e a prendere posizione politica in difesa delle sue idee. Garboli indicava una sensazione vera: poteva realmente sembrare che l'ideologo prevalesse nel momento resistenziale, come in altre occasioni, sul poeta.

Fortini, da parte sua, sostenne allora che di Cassola non accettava la sua idea centrale e cioè che la vita fosse un valore di per se stessa: «La vita è il contenitore dei valori, la vita è condizione dei valori, non un valore in sé» [9]

La questione sollevata da Fortini aveva ed ha un suo rilievo notevole poiché accusa Cassola di una semplificazione antintellettulistica che Fortini indicava venire da lontano, dalla sua scrittura dell'immediato dopoguerra, dal contatto con certi ambienti “flaubertiani” toscani. Per Fortini, quindi, Cassola, semplificando, finiva per banalizzare.
E vengono in mente le polemiche, in particolare su La ragazza di Bube, che portò a Cassola, tra le altre accuse, anche quella di qualunquista (Piero Caleffi).

Ma torniamo a Fortini. È vero che qui Fortini sembrava, in parte, dimenticarsi della sua affermazione che la vita è condizione dei valori; giacché qualsiasi ideale di vita presuppone la vita. E c'era il fatto che se Fortini aveva poi cambiato idea scrivendo sul “Corriere della sera” alla fine degli anni '70: Cassola aveva ragione, forse non era semplicemente perché la situazione si era aggravata, nel giro di pochi anni, a tal punto, da fargli cambiare idea.

Tuttavia l'affermazione aveva una sua verità forte: Cassola era portato a semplificare; la sua scrittura dell'esistenza aveva necessità di semplificare. Il sentire la vita come un valore assoluto lo portava a questo.

E anche Garboli aveva evidenziato questo aspetto affermando che:

«La capacità di escludere l'ideologia era in Cassola più importante della sua ideologia».[10]

Ma allora dov'è il punto? Cos'è, se c'è, che lega il prima con il dopo nella scrittura cassoliana? Cos'è alla fine che fa di una scrittura esistenziale e di una scrittura politica un'unica scrittura in difesa della vita? Cosa trasforma la guerra da una tragica possibilità del quotidiano, una disperazione collettiva, se vogliamo, non poi tanto diversa dalla disperazione di Arnaldo[11] che si getta dalle Balze, in una non-possibilità, in una non-scelta che riguarda tutti e che, solo per questo, dovrebbe unire l'etica con la politica?

Vale la pena ricordare che Moravia, per esempio, non credeva alla possibilità di un conflitto nucleare, né tantomeno alla possibilità della fine della vita sul pianeta; tuttavia, pensava, che l'equilibrio del terrore atomico fosse un cancro che avrebbe alla lunga impedito qualsiasi forma di arte. E qui sta il punto.

lo penso semplicemente che mentre gli altri non credevano veramente possibile la fine della vita sul pianeta, Cassola lo credeva possibile. È tutta qui la differenza. E non è una differenza da poco. La consapevolezza della possibile fine di tutto aveva portato Cassola a ritenere che niente potesse più essere pensato come prima e lo aveva portato a scendere nuovamente in campo da politico. E con una novità: l'urgenza.

Se prima dell'urgenza una certa oscillazione c'era stata tra lo scrittore e l'ideologo, perché in qualche modo lo scrittore si poteva anche dimenticare dell'esistenza, che non rischiava di perdersi, che avrebbe comunque ritrovato; ora che si rendeva conto della possibilità della fine dell'esistenza e questa “urgenza” scavava dentro di lui, nessuna oscillazione era più permessa e lo scrittore assumeva in sé la veste del politico.

I.3 Un politico sui generis

Tuttavia Cassola non era un politico, nell'accezione normale del termine, almeno.

C'era sì stata nella sua vita più di un'occasione e più di una voglia di fare la storia:

«lo sono sempre stato intollerante della situazione esistente, in cui vorrei avere le mani in pasta e modellarla come credo»[12] ;

ma, e Garboli in questo aveva piena ragione, Cassola era sempre stato un politico delle lotte perse; gli mancava l'astuzia del calcolo, la capacità di tessere, di costruire consenso. Il suo temperamento andava per linee dritte, non certo accattivanti e credo lo sapesse:

«Perciò scrivo questo racconto, perché gli altri capiscano finalmente e mi diano il loro appoggio nell'impresa disperata a cui mi sono votato».[13]

In realtà per Cassola la scelta, come ho già detto, era obbligata e questa sì veniva da lontano. Credo fin dalla sua prima giovinezza, quando a diciott'anni, per sua ammissione, decise di fare lo scrittore:

 «lo ho sempre esaltato la vita, anche se non sono stato capito».[14]


Per capire che cosa abbia rappresentato la guerra per Cassola e quindi cosa significhi relativamente alla sua scrittura bisogna, credo, riflettere su quanto si è appena detto e sul fatto che la guerra non ha avuto per Cassola sempre lo stesso significato. Cancogni testimonia che nel 1939 Cassola era ormai un convinto antifascista e non avrebbe voluto la guerra, ma, nel caso che ciò fosse avvenuto, era contro i tedeschi e non certo contro gli inglesi e i francesi che si sarebbe dovuta fare. E appena ne ebbe l'occasione, fece la sua parte da antifascista.

La guerra era un evento pesante, ma il destino aveva voluto che appartenesse al suo quotidiano, che a sua volta stava nell'infinito dell'esistenza. Ma non era allora in discussione più della sua vita e di quella dei suoi cari, non era certo in discussione la fine dell'umanità. Era un evento che si doveva affrontare, era tragico ma si doveva scegliere. E Cassola lo fece come molti altri, portando nella Resistenza anche l'impegno della sua “solitudine” intellettuale, cercando la strada della sua libertà tra gli altri, che erano allora i compagni comunisti, come aveva cercato in “solitudine” la libertà della sua scrittura. Cassola ammirava quella naturalezza coraggiosa, quella fede totale e innocente dei lavoratori comunisti nel partito, quella semplicità antintellettulistica che doveva essergli familiare, almeno come ingrediente base della sua scrittura subliminare del nudo esistente. La solitudine era nell'amore verso tutto questo, nel riconoscersi diverso e nel non voler barare con se stesso, nell'accettare la condizione dell'intellettuale che deve sempre mettere in conto la possibilità di trovarsi solo.


 «Ciò che mi ha tenuto lontano dal comunismo, sono stati gli intellettuali che bevevano le sue frottole. Non certo Baba e Lidori, due alabastrai volterrani, conosciuti durante la Resistenza (di cui ebbero il maggior merito)».[15]

Cassola scoprì e ritrovò nell'esperienza della Resistenza il bisogno di sentirsi parte degli altri, di quel sentimento del Tutto che la sua scrittura inseguiva da sempre, ma anche la voglia di fare qualcosa di più consistente delle chiacchiere da caffè. L'agire, il lottare e il rischiare per un'idea metteva sì ora in primo piano l'ideologo, ma era anche un impegno sotterraneo per la verità della sua scrittura, un impegno che ritroverà negli anni settanta assieme ad una piena unità di sentire e di intenti tra l'ideologo e lo scrittore:

«lo ormai credo solo nella letteratura impegnata, cioè in una letteratura che si impegni a far capire ai lettori la verità del nostro tempo».[16]


Cercherò ora di spiegare meglio che affermare che Cassola era in tutto e per tutto uno scrittore non è assolutamente in contraddizione con il suo impegno politico né con il suo impegno finale antimilitarista. La scrittura antimilitarista ultima, a mio modo di vedere, non è che uno sbocco perfettamente conseguente della scrittura cassoliana subliminare.

E qui mi conforta rilevare non solo quanto Manlio Cancogni concordi con questa mia interpretazione, rigettando l’interpretazione di una scissione di  Cassola, ma, soprattutto, quanto ricordato da lui al Convegno del 1989 di Firenze, perché lega, quasi in fotocopia, il primissimo Cassola all’ultimo:

«Ancora al proto-Cassola appartiene un romanzo, scritto nel '35, intitolato Uomini di Val di Sterza e che potrà interessare specialmente quanti si sono occupati dell'ultimo Cassola, quello, per intenderci, del disarmo e della minaccia nucleare. Era infatti un romanzo fortemente impegnato, un romanzo ideologico dove si prospettava una società futura, fondamentalmente egualitaria, non comunista però. All'epoca Cassola aveva solo delle idee vaghe sul marxismo anche se proveniva da una famiglia di socialisti. Era, diciamo, un ideologo di stampo illuminista.

La società ch'egli rappresentava nel suo libro poggiava principalmente su una regola: il passaggio automatico del potere da una generazione all'altra in modo che i giovani fossero sempre al comando. I giovani sono la parte buona della società, sono loro i portatori della novità, della verità, e quindi è necessario che non vi siano istituzioni stabili che possano paralizzare il naturale avvicendamento delle generazioni. Se ci sarà una generazione prevalentemente comunista avremo una organizzazione della società su basi collettiviste. Se ad essa ne seguirà un'altra di ideali liberali o libertari, le cose cambieranno. E così via, considerando che il cambiamento è un fatto positivo, anzi necessario alla salute della società. Altro particolare: le donne saranno stipendiate in modo da essere libere dalla schiavitù del matrimonio e i giovani, per non dipendere dai genitori (la famiglia sarà abolita) riceveranno anch’essi uno stipendio.

Io non so se esista ancora il manoscritto di questo libro. Sarebbe interessante trovarlo per stabilire un nesso fra quell'impegno (che fu di breve durata) e i successivi periodi di impegno politico vissuti da Cassola (Resistenza, “Legge truffa”) fino all'ultimo relativo alla campagna per il disarmo che tutti hanno ben presente».[17]

Il nesso di congiunzione che indica Cancogni tra il proto-Cassola e l’ultimo Cassola lo indicherei nella sua scrittura, nella sua poesia del sentimento della vita e credo che Cancogni possa, senz’altro, concordare con me su questo. Tuttavia, anche chi la pensa diversamente, chi non vede in questo il filo rosso della continuità di scrittura del percorso cassoliano, dovrà ammettere che questo Uomini della Val di Sterza, pur senza la presenza del suo testo, ci dice già molto, perché è veramente singolare che i primissimi passi di Cassola incontrino i suoi ultimi passi. È la conferma, quanto meno di una presenza in nuce, di un impegno nella ricerca del senso della vita, di una verità tutta sua che unifica l’uomo e lo scrittore, perché per Cassola la vita è sentimento o non è nulla e così è per la sua scrittura.

Colloquio con le ombre si apre con una dichiarazione intitolata  L'umanità in marcia. Riporto le prime righe:

«L'umanità in marcia verso il futuro dà un senso alla mia vita personale: che non ne avrebbe più nessuno se questo flusso s'interrompesse. Non mi scalda il cuore la visione di un futuro luminoso; solo quella di un futuro qualsiasi. La mia vita personale può spegnersi in qualsiasi momento, a patto di lasciare dietro di sé la vita di tutti».[18]

La vita di tutti è condizione della vita della sua scrittura, e cos'è la scrittura se non il vero grande amore della sua vita? E se per salvarla bisogna capire che è necessario difendere la vita di tutti, perché non capirlo? Perché esitare? Se la minaccia è una sola, il due è ricondotto a uno e la risposta anche è una sola e la deve dare lo scrittore. L'ideologo può trascinarlo in campo, ma la risposta tocca allo scrittore.

È allora che:

 «Uno scrittore deve passare, dall'originale attività esistenziale, all'interesse e all'amore per gli altri. In altre parole, prima gli è consentita una letteratura esistenziale, ma poi gli può essere consentita solo una letteratura sociale, che giovi agli altri».[19]

Quel “poi”, è chiaro, non è una unità di tempo, ma una unità di spazio, di situazione. È la situazione che è mutata e il realismo utopico e antimilitarista cassoliano parte da qui. Un realismo particolare che mi sentirei di dire nasce da un annuncio della poesia.

Ho appena detto che la guerra per Cassola non ha sempre lo stesso significato. E non è una questione di tempi, di maturazione della sua scrittura o di una spallata che l'ideologo dà al poeta o viceversa. È anche qui una questione di situazione o se vogliamo di paesaggio.

È da Baba e Lidori, gli umili alabastrai, che Cassola individua il nesso Vita-Resistenza. La vita in questo caso è quella quotidiana, quella semplice, che ignora le complicazioni intellettualistiche, che più si avvicina alla vita esistenziale, originaria, quella che è fonte della scrittura cassoliana. Una vita fatta di un quotidiano di fatica e sofferenza, che si attacca a pochi valori, ma chiari: il partito e la coscienza di classe, con i padroni da una parte e gli operai dall'altra, e l'amicizia che è solidarietà contro l'ingiustizia.

 «E quando Lidori, sindacalista, veniva irriso da quelli del mio ambiente avrei dovuto dichiarare la mia solidarietà con lui. Avrei dovuto dire che egli era sempre stato così, desideroso della giustizia sociale, senza guardare troppo ai metodi impiegati. Invece non l'ho detto, ed è questo che mi dispiace».[20]

 

Dalla generosità spontanea, di un istinto pre-consapevole, forte di un soffio vitale che transita, cioè dalla poetica del sentimento della vita, o meglio dell'esistenza, a una generosità quotidiana parzialmente consapevole, ma fortemente convinta, che crede, che ha fede ed è pronta a pagare per la sua fede.

«Fui partigiano e rischiai più volte la vita».[21]

 e subito dopo:

 

«Sono convinto che, nel momento stesso in cui m'accorgevo di rischiare la vita, credevo fosse doveroso agire in questo modo».[22]


Tutta la poetica cassoliana risente di questo alternarsi-incrocio tra l'esserci e il fare, dove l'esserci prevale sempre perché Cassola era un contemplativo e, se non i motivi, il fondale della sua poetica era nato nell'epoca adolescenziale. E l'adolescenza è l'età in cui si scopre che tutto passa e che il tempo trasforma tutto e ci scopriamo mortali e confrontiamo la nostra vita breve con il tempo infinito dell'esistenza.

C'è indubbiamente un filo rosso che lega in Cassola l'uomo, col suo quotidiano, con le sue idee, la sua voglia di cambiare, allo scrittore. È un filo rosso che, a mio modo di vedere, sta all'origine della sua poetica e che, nel tempo della scrittura cassoliana, si presenta come un fenomeno carsico, che può per lunghi tratti apparire di non esserci; ma, in realtà, è sempre presente, passa solo sotto. È un filo rosso che lega il quotidiano della storia (che si materializza nel quotidiano dei suoi personaggi) con il quotidiano dell'esistenza, o, meglio, con la presenza dell'esistenza nel quotidiano.

È il sentimento di questa presenza in moto, che esiste e passa, che genera la poetica subliminare cassoliana: il film dell'impossibile.

I.4. La priorità storica della “scelta descrittiva” di Cassola rispetto alla école du regarde.

   La migliore scrittura di Cassola è, per sua dichiarazione, il film dell’impossibile ed ha come trama  il transito, cioè le innumerevoli esistenze che attraversano il tempo e si realizza attraverso la tecnica visiva dello sguardo sulla realtà. Lo sguardo viene adoperato dallo scrittore esattamente come una macchina da presa.

Cassola decide fin dall’inizio della sua attività di scrittore dove posizionare la macchina: non su personaggi rilevanti, ma sulle umili esistenze.

Questa tecnica filmica gli permette di entrare nel racconto della realtà in transito attraverso la nuda descrizione di ciò che vede.

«Il treno era affollato di operai che tornavano dalla miniera. Fuori dei finestrini le ombre dei vagoni si stendevano al di là dell’altro binario, segmentandosi sul balzo della scarpata. I grandi prati, i lontani monti e il cielo limpido erano illuminati da un sole dolce. E passavano nella corsa del treno i filari di viti allineati nel senso della ferrovia, le cantoniere fra le canne bruciate dei pomodori e le case coloniche su cui erano impressi i nomi della lontana gente dei Gherardesca. Anche il castello di Bolgheri si avvicinava sul costone del monte, girandosi sotto la velocità del treno che divorava i chilometri. Gruppi d’alberi radevano la ferrovia scomponendosi, e si allontanavano immobili. I fili del telegrafo si abbassavano lentamente per rialzarsi distendendosi all’attacco del palo. A un passaggio a livello due ciclisti immobili dietro le sbarre guardavano passare il treno».[23]

Alla visione naturale di persone ed oggetti si unisce nello scrittore il sentimento del tempo in transito. Questa commistione di realtà e sentimento genera la scrittura subliminare di Cassola, ma passa anche attraverso una tecnica che pone le condizioni per poter indicare una priorità storica di Cassola riguardo alla cosiddetta école du regarde di A. Robbe-Grillet, C. Simon, M. Butor, che furono anche tra i massimi esponenti del cosiddetto Nouveau roman.

Cassola, per sua dichiarazione, intende parlare del punto-esistenza in movimento e per farlo decide di usare la tecnica dello sguardo. Il punto-esistenza si muove in forza dello sguardo esattamente come verrà poi  fatto dagli scrittori dell’école du regarde riguardo alla loro narrazione, e , in particolare, da Robbe Grillet.

Semmai, si potrebbe notare, che lo sguardo di Cassola è più interiore, mentre quello di Robbe Grillet è più esterno, più fisico. Infatti, a Cassola basta spesso un aggettivo per stabilire il clima dei personaggi, mentre questo non avviene con Robbe Grillet che enumera in una forma minimalista quello che il suo sguardo fisico vede.

L’ècole du regarde in sostanza affermava che vi era romanzo perché vi era lo sguardo, e ne sottolineava l’aspetto formale della tendenza descrittiva e oggettiva e questo era esattamente quello che aveva già, se non esplicitato, prefigurato la scrittura cassoliana che tendeva alla eliminazione del personaggio tradizionale trasformato in una nuda entità destinata a dissolversi nel passaggio temporale. 

Le condizioni che determinano questa priorità ( di almeno tre lustri) sono l’assenza di una vera e propria trama e l’assenza di personaggi marcati, messi in rilievo, unitamente a una descrizione accurata e attenta di ciò che la “ sua macchina da presa” vede.

   Ho già detto che gli accidenti dell’esistenza sono trascurabili per Cassola, perché è il tempo, l’esistenza nel suo moto, che solo conta. Tuttavia, proprio per questo, le piccole cose, proprio perché sono parti della realtà, assumono per lo scrittore grande importanza. Sono infatti queste cose insignificanti che significano, che segnano, in definitiva, la vita che transita. Fermarle con gli occhi ha la forza di renderle eterne. È allora che la descrizione si fa necessaria e particolarmente meticolosa, proprio in uno sforzo di comprendere il mistero di questa eternità, di questa linea retta fatta di miliardi di segmenti in transito.

È questa descrizione minuziosa e organizzata, ma, spesso, anche volutamente “casuale”, che è presente fin dalle sue prime prove di scrittura, che finisce per anticipare sia l’école du regard che il Nouveau roman che si realizzeranno poi tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso.

   Il fatto che Cassola, fin dalle sue prime prove, descriva e non racconti, attraverso uno sguardo filmico, anche se la sua descrizione è certamente condotta in tono forse meno neutro degli scrittori dell’école du regarde e del Nouveau roman, è di certo anticipatrice di quella tecnica. Questo perché non solo in Cassola è assolutamente assente, come ho già detto, ogni caratterizzazione dei personaggi, così come è assente una trama, ma anche perché, nello stesso tempo, il racconto è decisamente non lineare e non tende ad affermare alcunché oltre la rappresentazione della nuda esistenza in transito.

Si può quindi dire che Cassola costruisce una narrazione che genera se stessa esattamente come, a suo tempo, è stato detto, da tanta parte della critica, del Nouveau roman.

«Nel chiaro pomeriggio Dànroel era in piedi davanti alla casa; la moglie seguiva con lo sguardo una scena di caccia. Una lepre correva sulla sommità della collinetta inseguita dai cani: il cacciatore la indicava col braccio ai servi. Un’ora dopo, al crepuscolo,  la casa era impressa sullo sfumato verdolino della foresta. Le chiome degli alberi erano leggere macchie in cui si distinguevano le nervature dei rami.

  La nave fluttuava nella solitudine del mare. Gli uccelli stridevano intorno alle alberature, girando in fitti nugoli sulla superficie lucente dell’acqua».[24]

Ovviamente, le differenze esistono, basti citare solo l’uso del monologo interiore, a cui fanno ampio ricorso gli scrittori del Nouveau roman e che, altrettanto ovviamente, non appartiene a Cassola; ma credo che sia giusto vedere in Cassola un precursore della tecnica dell’école du regarde, proprio per la capacità di descrivere un fatto senza altro significato che il fatto descritto e attraverso il meccanismo filmico di sequenze e sovrapposizioni di immagini, perché è proprio il procedimento filmico che genera l’impressione di un tono neutro, distaccato, quasi privo di emozioni. Poi, che la migliore scrittura di Cassola, proprio perché distaccata, quasi priva di emozioni, generi “emozioni” è allo stesso tempo il segreto di una scrittura e di una complessa e difficile fatica.

«Boxando s’era scomposto e i capelli gli ricadevano sulla fronte dalle due parti. Quando ebbero deciso sul da farsi, entrò nel bagno, si rimboccò le maniche e si lavò il viso facendo rumore con l’acqua».[25]

I.5. Lo stile paratattico come elemento programmatico dell’epica cassoliana

Proseguendo in questo mio studio ho finito per scoprire con una certa meraviglia come in Cassola tutti i “pezzi” finiscano per andare sempre al loro posto, cioè come tutto nella sua scrittura finisca per coincidere.

Uno di questi “pezzi” cassoliani è certamente lo stile paratattico, che lo scrittore usa frequentemente.

Questo stile, che è ricorrente nella scrittura cassoliana, anche se, ovviamente, è ben presente l’ipotassi, serve allo scrittore per creare uno stile volontariamente povero, disadorno, che mira a non farsi sentire, quasi a sparire, ma c’è di più: lo stile paratattico è per Cassola, nello stesso tempo, anche un elemento programmatico della sua scrittura subliminare.

Vale la pena ricordare qui che per Cassola un’opera letteraria doveva dare l’impressione della naturalezza e la naturalezza per Cassola si sarebbe potuta raggiungere solo attraverso la semplicità dell’espressione. Più semplice fosse stata l’espressione e più naturale sarebbe stata la scrittura. Nella semplicità disadorna esiste per Cassola l’essenza dell’esistenza in transito, il sentimento della vita, c’è l’esistenza in nuce, che non è subordinata a nessun valore superiore poiché è essa stessa il valore superiore, o meglio il primo valore, quello solo che può contenere ed esprimere tutti gli altri valori. L’esistenza nuda è il punto zero della scrittura cassoliana, ed è, in definitiva, il sublimine, dove il finito e l’infinito convergono. Lo stile paratattico è per Cassola una necessità, un percorso obbligato perché paratassi e sublimine sono complementari, sono entrambi elementi programmatici dell’epica cassoliana.

La scrittura paratattica cassoliana allora non solo mira ad una semplice e immediata naturalezza comunicativa, qual è certamente la naturalezza del parlato, ma mette anche in relazione tra loro esistenze equivalenti e le mette sullo stesso piano anche e proprio in forza del discorso paratattico. Qui si vuole dire che i personaggi cassoliani possono agire, ovviamente, anche su piani diversi nella storia, ma restano sempre come “esistenze” eguali sullo sfondo, eguali nel transito: nude presenze. Presenze che sono sì finite ma che abitano, in forza del transito, un paesaggio infinito.

   L’intento programmatico di Cassola è chiaro: ogni vita è equivalente ad un’altra vita nel moto infinito delle esistenze in transito e la parola si deve come adeguare, non deve occupare molto spazio, deve tendere a fluire, a sparire. Le parole si accostano allora lievi e nello stesso tempo frante, smozzicate, come fossero quasi eccessive, superflue a rappresentare l’esistente, che è l’unica ragione che le tiene assieme e le giustifica. Così le parole cassoliane sono essenzialmente brevi, quasi stanche. È una stanchezza essenziale, povera che viene da lontano, che ritorna e si ripete nel giro dell’infinito. Le parole, in fondo, non devono dire alcunché di particolare, si sforzano di rappresentare degli stati d’animo, che sono si di un personaggio singolo, ma che, in definitiva, singolo non è perché appartiene comunque al personaggio plurale cassoliano: l’esistenza in transito; e allora le parole non devono significare altro perché esistere è già lo scopo e tutto il resto è impreciso. Come lo sguardo cassoliano allineava tutto, persone ed oggetti, in una descrizione lineare, così le presenze cassoliane sono comuni denominatori che servono a sillabare la storia dell’esistenza, che nella sua essenza è sempre uguale a se stessa.

   Se il personaggio è l’esistenza che passa, la complessa semplicità cassoliana serve in funzione antiretorica e la scrittura dialogica non serve come mimesi del personaggio, perché non vuole ricreare le caratteristiche di un parlato regionale ma semmai lo stato d’animo, la psicologia del personaggio, che è poi la psicologia dell’autore attraverso il personaggio. Anche il rifiuto del dialetto nasce da questo, dalla ricerca di non caratterizzare mai i personaggi, di rendere naturali, starei per dire silenziosi, solo i sentimenti, che lo scrittore assegna a loro. La risposta dello scrittore finisce così per approdare ad una lingua sostanzialmente inventata.

Se si può rintracciare nel discorso inventato una mimesi fattuale, questa tende solo a caratterizzare socialmente i personaggi, che, in genere sono di umile estrazione. Nasce da tutto questo un linguaggio artificiale fatto di discorsi diretti e di discorsi indiretti liberi, che è stato definito italiano colloquiale o italiano quotidiano. È un linguaggio socialmente medio carico di anafore, pleonasmi e di dislocazioni a sinistra e a destra, tutti difetti caratteristici di un italiano medio comune. Questo rappresentare i suoi personaggi attraverso una parola popolare,che, a volte, è anche quasi antica, finisce per dare una certa epicità allo stile cassoliano. Del resto, cosa c’è di più epico del transito? Cassola finisce così per rappresentare programmaticamente, anche con l’aiuto del discorso paratattico, l’epica di un’umanità perennemente in marcia.

Inoltre, il discorso paratattico aiuta Cassola nella sua tecnica del “non detto”, che gli consente di interrompere il discorso e passare ad altro, accostando così più vicende, più esistenze in transito. Tutto questo aiuta l’epica cassoliana, tutta rivolta verso l’interno, quello dello scrittore, che racconta una sola storia: il sentimento del perenne transito delle esistenze.

1.6. I suoi personaggi-esistenze divergono dall’impegno di un neorealismo agiografico.

Con Cassola possiamo dire che tutto ha origine all'inizio e in maniera formata, matura. Poiché Cassola è scrittore visivo, mi sento di paragonare la vita e la scrittura di Cassola a un quadro, in cui il fondale, dai colori morandiani, è la sua poetica, il suo sentimento dell'esistenza, e il disegno è il quotidiano che, a tratti, sembra staccarsi dal quadro, prendere un suo autonomo rilievo, ma in definitiva, a ben guardare, è tutto dentro il quadro, non solo nella sua fisicità, ma nel suo clima. Ma, per rimanere nell'esempio del quadro, è Il Quarto Stato, di G. Pellizza da Volpedo, che mi appare davanti quando penso alla letteratura cassoliana. Nel quadro citato ci sono delle persone in primo piano e molte di più sullo sfondo. Ecco, Cassola racconta lo sfondo. Per citare Garboli, è presbite. Lo sfondo è per Cassola l'esistenza, l'infinito dell'esistenza sempre in moto. Cassola prende i personaggi dal fondo e li porta in primo piano: li trasporta, cioè dall'esistenza alla vita. Con la sua fantasia fa clic come su delle immaginarie icone in un computer, e le apre alla storia. Se teniamo presenti le due maggiori categorie antagoniste cassoliane, vita-esistenza (o finito-infinito) e esserci-fare, capiremo meglio il meccanismo. Cassola decide di raccontare l'esistenza, di fare cioè “una letteratura dell'infinito”, dove l'oggetto del racconto è “il transito”, “ il battito dell'esistenza”.

C’è nella scrittura cassoliana dell’esistente che ricerca una naturalezza nei personaggi e nell’ambiente anche una certa adesione all’astrazione e, quindi, alla convenzione, perché ogni personaggio è posto all’interno di un sistema razionale ( il transito) che esiste solo nella mente dello scrittore nella prospettiva dell’infinito.

Se il disegno della scrittura cassoliana genera il battito dell’esistenza; il segno e i colori sono allora il sentimento del transito e la prospettiva è la coscienza dell’infinito.

    È per questo che Cassola scrive come se rivivesse nella sua memoria i fatti narrati. È quella nascita e rinascita della memoria che G. Pampaloni ha così bene evidenziato in diversi sui scritti e che mi trova pienamente concorde.

Così, quell'icona su cui lo sguardo dello scrittore “clicca” per aprire o, meglio, per trasporla dall’esistenza infinita, immobile, alla quotidianità della vita che si muove, si fa persona per necessità di storia, ma persona “tipo”. E per raccontare quella che non vuole essere che una storia dell'infinito, che s'invera nel quotidiano e lo attraversa, Cassola s'inventa una scrittura “tipo”. Una scrittura “tipo” che deve risolvere il problema di dare voce a due piani diversi di storia: l'esistenza in moto, infinita, e la vita con il suo quotidiano breve, il suo passare finito. L'infinito richiede una voce alta, una totale intensità espressiva, mentre il quotidiano è colloquiale, franto, popolare, dimesso. Mi trovo molto d'accordo con Giannelli quando dice, anche se limitatamente al romanzo La ragazza di Bube,:

«Cassola creerà quindi sostanzialmente una lingua sua, polimorfica, ma tendenzialmente regolare, che media tra questi opposti alla ricerca poi di elementi di semplificazione». [26]

Gli opposti a cui si riferisce Giannelli sono la langue della tradizione e la langue dei personaggi del romanzo.

Il personaggio, dicevo, è un personaggio “tipo”, determinato dal paesaggio sociale e a cui, nello stesso tempo, non si può chiedere una presenza nella storia che non sia quella silenziosa e vitale di un figlio dell'esistenza.

Anche quando la storia è un fatto triste e tragicamente corposo come la guerra, Cassola la racconta come “dimenticandosene”, cioè inframmezzando fughe dal fare all'essere, dal quotidiano all'esistenza:

«Quando Fausto fantasticava di essere un bolscevico o comunque un rivoluzionario, e di partecipare a una riunione, sceglieva per sé il posto d'angolo, e si sentiva dotato di un potere straordinario, fatto d'immobilità e di silenzio... ».[27]

L'immobilità e il silenzio è qui sì il genio del capo bolscevico, ma è anche il genio silenzioso dell'esistenza e il modo di raccontarlo di Cassola.

Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che la guerra della Resistenza non abbia avuto importanza per Cassola e quindi successivamente anche per la sua scrittura:

«per la prima volta, fui messo a contatto col popolo, da pari a pari. Non era solo il fatto che per la prima volta mi dessi del tu con artigiani, operai, contadini: il fatto che il rischio fosse comune creava una solidarietà tra noi, annullava la distanza sociale tra me, che ero un signorino, un borghese, e quei proletari». [28]

Fausto e Anna è anche un romanzo dove si muovono personaggi impegnati, anche se in qualche modo indifesi e precari rispetto agli avvenimenti; come del resto ne I vecchi compagni dove in più c’è quel senso di delusione, di perdita imminente. La scrittura della vita, se così si può dire, preme ora sulla scrittura dell'esistenza; o meglio, i personaggi dal fondo fanno qualche passo avanti, ma senza uscire mai dal fondo. Nasce da qui la polemica col neorealismo e sull'impegno. Cassola entra sì con la propria scrittura in argomento o, se vogliamo, in un clima culturale, ma prendendone le distanze, rimanendo da sé.

È la sua scelta, fatta dall'inizio, che gli impone questo: scrivere dell'infinito attraverso il finito, esprimere l'assoluto attraverso il relativo, raccontare l'esistenza che passa eternamente in un moto diverso, quasi immobile, tramite le dinamiche del quotidiano. E qui va rilevato che le presenze cassoliane nel quotidiano di dinamismo ne hanno giustamente ben poco, poiché sono la proiezione del sentire dello scrittore, della propria poesia, che cerca sprazzi di luce:

«La vita che dà barlumi/ è quella che sola tu scorgi». [29]

Sono figure pressoché immobili, che vivono in un fragile presente, dove passano sole. Il senso dell'infinito stacca Cassola dal contingente o almeno lo tiene sempre a distanza di sicurezza. Ecco perché i suoi personaggi non sono mai messianici, ma, anche nell'impegno, “nuclei” di riflessione e di verità esistenziale, ed ecco perché la sua rappresentazione della Resistenza rompe un neorealismo agiografico e verrà, come ho già detto, accusata anche di qualunquismo.

La ragazza di Bube è, in questo senso, forse il romanzo più sociale di Cassola, cioè il romanzo dove di più si apre ai temi politici del quotidiano, che sono qui i temi dell'antifascismo e della Resistenza. Ma anche qui tutto avviene in forza di quella capacità che ha Cassola di scrivere dei fatti la loro verità interiore, dove la Storia c'è solo come sfondo dei destini individuali.  Le persone sono qui piccoli ingranaggi di un meccanismo troppo più  grande di loro e non hanno colpa.


«La colpa, se lo vuoi sapere, non è di nessuno» disse Mara recisa. Io figurati quante volte ho ripensato a quel giorno maledetto. Non ho fatto altro che ripensarci, in tutti questi anni. E mi sono convinta che la colpa non è stata di nessuno...» [30]

I.7 Il paesaggio cassoliano come segmento dell’infinito

La poetica cassoliana prende forma nella sua adolescenza e nella sua prima giovinezza e si riferisce quasi unicamente a luoghi scoperti e amati in quel periodo. È per questo che il paesaggio, il posto cassoliano non è che un segmento dell'infinito e, nello stesso tempo, una specie di rifugio dove lo scrittore si sente sicuro.

Possiamo immaginare di disegnare questo posto con la lettera alfa, con l'entrata e l'uscita dell'esistenza alle due estremità del suo disegno e all'interno di quella specie di cerchio che otteniamo possiamo collocare un punto.

Bene: quello è il punto focale della scrittura cassoliana, è da lì che Cassola legge tutto, anche il periodo della guerra.


«Certo che nell'adolescenza ero maggiormente attaccato a Cecina, e c'ero maggiormente attaccato perché ci abitavano le ragazze che amavo. Ma poi Volterra ebbe il sopravvento, per le esperienze che ci feci da grande, una specialmente, quella della Resistenza» [31]


E nel suo paesaggio, la donna è quasi sempre l'altra parte dolce, inerme; l'animale più vicino al flusso dell'esistenza, che segue naturalmente. È nell'infinito della narrativa cassoliana (al fianco della realtà della donna “tipo” vista da una cultura popolare periferica, chiusa nel confine culturale dell'ambiente domestico) l'umano ultimo; il meno colpevole; dopo sarà solo l'animale. La differenza nello spessore dei personaggi è dovuta, mi pare, all'esserci e al fare, alla distanza, cioè, che riesce a prendere Cassola dalla storia, dalla sua capacità di agganciarsi saldamente al sentimento del moto continuo, che rende sì piccolo qualsiasi accadimento di una esistenza finita, ma nello stesso tempo lo illumina, lo rende parte del tutto, di quello sfondo infinito che gli dà spessore. Il paesaggio è il luogo dove scorre la vita in eterno. Conta più delle persone finché è aperto il passaggio. Quando appare la possibilità della sua chiusura, le persone conteranno più delle cose.


Se in Fausto e Anna e ne La ragazza di Bube la quotidianità di una storia, che si snoda in dialoghi e in rapidi scorci dell'anima, dove le cose dette si sommano al non detto, è anche storia di un ambiente piccolo borghese e di una stagione politica, che è quella della lotta partigiana (resa col realismo di chi viene da un'altra parte e anche fa parte a sé e può quindi guardare con distacco), è, soprattutto, storia di una quotidianità che si confronta perché il passaggio è ancora aperto e sceglie di esserci per costruire assieme con gli altri una risposta, che è anche un tentativo di riscatto. Il cercare assieme agli altri, con il proprio bagaglio di solitudine, è riannodare un patto, che è sì, ora,  fiducia nelle possibilità del fare e nello stesso tempo tristezza per le delusioni che si intravedono ( come ne I vecchi compagni), ma che non è poi così diversa questa fiducia dal sentimento poetico della vita, da quel patto che la sua scrittura, fin dalle sue origini, ha realizzato con essa, per il solo fatto che la vita c'è e può essere sentita e raccontata. Nonostante questo Cassola non è assolutamente uno scrittore elegiaco, non perché non ci sia anche malinconia, a volte, nella sua scrittura, ma perché il quotidiano che racconta è solo un pretesto per scrivere semplicemente e interamente del sentimento insito nel flusso della vita. Non è elegiaco perché la sua intensità percettiva non si ripiega su se stessa, ma si protende in avanti, si immerge tutta nel flusso dell’esistenza, dove la sua curiosità fantastica si emoziona. Se c’è la malinconia per la propria sorte, per il tempo che passa, c’è anche e soprattutto la gioia dell’occhio che vede e gode della vita in transito. Insomma, in Cassola manca la tristezza della perdita; c’è sì l’elaborazione del lutto, ma non c’è mai il rifiuto della verità, né rabbia, né depressione, c’è solo una consapevolezza che è accettazione della verità dell’Esistenza. E per Cassola guardare all’esistenza è come guardare a un bambino con gli occhi di un bambino. Cassola non racconta, descrive. È nel descrivere che riesce mirabilmente, e a tratti, a far emergere il sentimento della sua visione. I sentimenti che suscita la pagina cassoliana vanno al di là di quello che i personaggi fanno o non fanno.

Garboli, in un suo intervento alla tavola rotonda che si tenne a chiusura del Convegno di Firenze nel novembre del 1989, parlò di un Cassola che aveva scelto di rappresentare un mondo defunto o che andava verso la morte.

 «L’Italia rappresentata da Cassola è un’Italia defunta. Cassola non lo sapeva, non ne era consapevole? No, lo sapeva benissimo, è una scelta. E non è affatto un segno di ritardo rispetto ai tempi. Al contrario, Cassola è stato lungimirante, ha isolato e circoscritto quello che lui doveva fare, ciò di cui doveva parlare».[32]

Per Garboli, Cassola aveva scelto di parlare di un mondo che non esisteva più, legando la sua eternità a questa scelta.

In quello che disse Garboli, c’è del vero: il mondo a cui Cassola dava vita poteva apparire come un mondo morto, ma, in realtà, direi che era solo un mondo “inventato eterno”, preservato dalla consunzione quotidiana.

Io credo che Cassola, nel suo mondo, “inventato eterno”, nel suo mondo preservato, parlasse solo dell’esistenza in transito, di quei bagliori che ogni esistenza, anche la più umile emette e si dà a tutti come un punto in movimento, come una lucciola di notte.

Garboli citò allora la visita:

«La visita nasce da un affresco, da due persone figurate su una parete morte tanto tempo fa, è da lì che viene fuori la visita, è la ricreazione di un mondo, io insisto sulla parola morto, di un mondo morto. Perché annettere Cassola alle poetiche sui materiali morti è secondo me dargli la sua vera importanza nella letteratura del Novecento.[33]

Ora Cassola, nel film dell’impossibile ci ha spiegato le sue idee, che stanno a monte della sua scrittura e, in particolare de La visita.

«Non il punto fermo, ma la vita che è in moto doveva essere l’oggetto della mia scrittura». [34]

Ora, è vero che la vita che è in moto va inevitabilmente verso la morte, tuttavia, non credo che a Cassola interessasse parlare in particolare di un mondo morto; credo che a Cassola interessasse, soprattutto, parlare di sé, di quei segni, di quegli spiragli che la sua innocenza preservata, che la sua poesia riusciva a captare. Cassola, in definitiva, era un rabdomante e scriveva solo di quella realtà che colpiva la sua fantasia. La sua invenzione poteva dare l’idea di ricreare mondi morti, ma, in realtà, Cassola cercava di riprodurre un solo mondo: quella vita che per gli altri non esisteva, ma che lui sentiva viva al di là e al di sotto della realtà, quella vita che lui chiamò il film dell’impossibile.

«Io sono per quella narrazione in cui il sentimento di un personaggio ha lo stesso valore del suo vestito».[35]

E io penso che volesse dire che lui non era uno scrittore naturalista e voleva guardare il personaggio a tutto tondo e voleva guardarlo dentro e anche potergli cambiare sentimento e colore di vestito per leggere nel personaggio solo quello che lui trovava giusto leggere, la sua verità nascosta, umile e dimessa, ma insospettabile per gli altri, la sua epifania: il suo sentire pulsare la vita che era l’unica verità che lo scrittore accettava del personaggio.

Dicevo prima che Cassola non era un elegiaco. Ma Cancogni, su questo mi ha spiazzato. Parlando con lui di questo, qualche giorno fa, ho scoperto, con mia sorpresa, che, invece, lui lo ritiene decisamente uno scrittore elegiaco. Ora, Cancogni non è certo l’ultimo arrivato. Credo che sia il più profondo conoscitore di Cassola, e non solo per il suo lungo sodalizio con l’amico, ma per la sua capacità di leggere una scrittura che gli è molto congeniale. Di recente, ho letto per la prima volta il suo libro Parlami, dimmi qualcosa e l’ho trovato bellissimo. Una scrittura essenziale, limpida e lirica nello stesso tempo. Se c’è un libro subliminare è certamente questo. Quindi, Cancogni sa di sicuro di cosa si parla. Cancogni per confermare Cassola scrittore elegiaco mi citò, giustamente, Il taglio del bosco.

Riflettendo, credo che Cancogni abbia molte ragioni per definire elegiaco Il taglio del bosco.

Ma, allora, perché continuo ad avere questo rovello, a non sentire Cassola elegiaco? Non credo affatto che sia perché a sentirsi definire scrittore elegiaco Cassola andava in bestia, perché questo significherebbe ben poco.

Il fatto è che sono convinto che Cassola amava il sentimento della vita in maniera estrema e l’elegia non lo riguardava più di tanto; e ha perfettamente ragione Geno Pampaloni quando riferendosi a Un cuore arido, Ferrovia locale e Paura e tristezza afferma:

«Ciò che gli interessa in questo intransigente ritorno alle teorie giovanili del sub-limine, nel suo concentrarsi sull’arduo confine tra l’ovvio e l’ineffabile, ciò che gli interessa, è di seguire e di condurre un’operazione letteraria sempre meno idillica e sempre più estremista».[36]

L’estremismo di Cassola era scarnificare la parola, renderla sempre più povera, più essenziale. Vale la pena ricordare qui che Cassola era un operaio della parola. Faceva otto ore il giorno come un metalmeccanico; piegato su quelle parole, continuamente a mettere e levare, finché il suo anelito verso la vita in movimento non ne incrociava il sentimento e fermava la parola con la presunzione di entrarci dentro.

Dunque, per Cassola non c’era bisogno di aggiungere colori, di aggettivare troppo, poiché nella vita, in ogni sua forma più umile, nel grigio quotidiano c’era già tutto. Anzi, credo che per Cassola il grigio fosse il colore più luminoso. Quando la incrociava la vita che dà barlumi, doveva trovare la parola giusta per possederla, per raccontarla, e si può esser certi che la parola giusta era per lui nuda, povera, dimessa, di colore grigio.

In fondo, per Cassola bisognava solo ascoltare tramite il sentimento, il suo, e riferire nella maniera più lieve, più semplice.

Dunque, se non riesco a dar del tutto torto a Cancogni, mi sento, tuttavia, di dire che se Cassola è stato, forse, anche  elegiaco, lo è stato malgré lui.

Sinceramente, non vedo nessuna voglia e nemmeno intenzione di elegia in Cassola. Glielo vietava il suo estremismo di scrittore e la distanza che Cassola prendeva sempre per impostazione, direi per punto preso, dal personaggio. Una distanza necessaria e dettata proprio da quella cinematografia dell’impossibile, che cercava la vita al di là del suo limite.

Non a caso amava gli oggetti di uso quotidiano dipinti da Morandi e i segni scarni del pittore Marcucci, perché dell’esistenza amava raccontare il fiato, quel sottile filo, quel sentimento che attraversa il paesaggio. Un paesaggio che è certamente anche abitato dai personaggi, che dei personaggi, va detto, non hanno lo spessore, perché, in definitiva, non sono che semplici esistenze. È un'esistenza-paesaggio, quindi, che si muove con tutto il suo bagaglio di quotidianità, come un sistema solare, e, come un sistema di stelle e pianeti, dà l'idea dell'immobilità. È la somma-incontro dell'esistere perenne con l'accadimento della vita, l’incontro dell’infinito con il finito. È qui, forse, che nasce la sua lirica, nel suo sapere trasmetterci il sentimento dell’esistenza con quella chiarità dolorosa che è il timbro della sua miglior scrittura.

I.8. Il sentimento dell’infinito

Il quotidiano può essere grande o banale, ma di fronte all'infinito esistere è comunque di una piccolezza estrema; forse è per questo che Cassola decide che tutto sia piccolo e insignificante. È il messaggio particolare racchiuso nella sua migliore scrittura che non solo ci dice del sentimento dell'esistenza-infinito in Cassola come sede della vita prima e ultima, ma anche della sua altissima presunzione di appartenervi, di entrarvi dentro con una tecnica di percezione rabdomantica, fatta di vibrazioni, che necessitano per esprimersi di uno stato di appartenenza totale all'innamoramento dell'esistenza-infinito, che ne fa un personaggio complesso. Nell'esprimere il sentimento poetico dell'esistere, la parola, come i personaggi, per Cassola non può che rannicchiarsi, spogliarsi, farsi piccola e povera, ma, non mi pare doversi leggere questo come un’umiltà rassegnata; è piuttosto un rientrare in un enorme grembo materno, scegliere il tempo lungo, infinito contro il tempo breve. La grande forza di Cassola sta, certamente, nell’essere riuscito ad alternare nella sua scrittura la tristezza del quotidiano, del tempo finito, allo stupore e alla felicità dell’esistere, del tempo infinito. Come avviene in Anna di Paura e tristezza quando di notte ascolta il fievole e accorato canto dei grilli.

«Era triste veder morire gli esseri che c’erano cari e non poter far nulla per loro. Si poteva tutt’al più fare come il babbo di Pia ( il padrone del cane), alleviare le sofferenze affrettando la morte.

Non s’era accorta del canto dei grilli. Se ne accorse ora, era un cri-cri-cri fievole ma continuo che veniva dal campo. Ognuno cantava con la sua vocina, come se chiamasse gli altri, e tutti insieme facevano un coro. No, non era un coro, era un pianto accorato. Era cominciato a buio, e sarebbe durato tutta la notte. Anche lei aveva voglia di piangere sul povero Ras, su se stessa, su tutti quanti».[37]

La tristezza della condizione umana si scioglie in dolcezza per il canto “eterno” dei grilli e la tristezza può così sciogliersi in pianto.

L’esistenza-infinito è per Cassola un rifugio dolce per la sua fantasia, e se vogliamo è anche una fuga dal quotidiano, dalla storia spesso crudele e stupida degli uomini per trovare la sua real-utopia, che non è altro che la sua verità, il suo sentimento esistenziale.

I.9.  I personaggi cassoliani sono personaggi del tempo infinito

La solitudine sconfitta degli antifascisti nel racconto «Esiliati»,[38] dove Maggiorelli nel resistere ritrova una pace e realtà interiore e l'altra resistenza innocua, semplice e fedele, della signora Turri[39] che finisce per creare rimorso e commozione nel fratello che si è iscritto al Fascio, non sono che personaggi, frutti della scelta del tempo lungo contro il tempo breve. Cassola è essenzialmente uno scrittore esistenziale visivo con il sentimento dell'infinito ed è chiaro che in lui il tempo lungo e il tempo breve non possono che convergere o intersecarsi. Difficilmente entrano in conflitto, se non come stonatura del testo. Credo che nella scrittura di Cassola si ha un po' di tutto questo. È lo stesso problema del fare e dell'esistere ed ha nella sua scrittura la stessa soluzione. Raramente prevale il fare: semmai s'intreccia e converge, assimilandosi il tutto in un impasto che è contemplazione del tempo lungo, infinito, dove la necessità di sopravvivenza della specie umana sopravanza il bisogno di sopravvivenza personale.

«Bisogna pensare agli altri, e ci si può pensare in un solo modo. Allora la malinconia per la propria sorte personale svanisce»[40]

L'operazione di aggancio del tempo breve (il quotidiano) con il tempo lungo (l'esistenza) nella scrittura cassoliana avviene, a volte, tramite il supporto del non detto, che apre al dietro e all'oltre della storia. E cosi Pepo, in “Un matrimonio del dopoguerra”, dopo l'arresto per furto di Lido, Testina e Alfonso, letto dagli amici sul giornale:
 

«Dico... che mi dispiace. Mi dispiace perché sono dei nostri compagni. Mi dispiace soprattutto di Lido, che ha moglie e due figlioli».[41]

Ora credo che sia necessario tornare ancora a Garboli e Fortini e al perché dell'importanza, per me, delle loro affermazioni fatte al primo convegno fiorentino nel 1987.

Il fatto che Garboli, giustamente, rilevi che l'ideologo da una parte e lo scrittore dall'altra sono due coordinate presenti in Cassola, è la necessaria premessa per tentare di dimostrare, che una di queste due coordinate, l'ideologo, è decisamente subalterna alla seconda, lo scrittore.

Fino alla scelta antimilitarista, esplicitatasi nell'appello che Cassola fece sul Corriere della Sera del 25 settembre 1976, la scelta della letteratura si poneva in antitesi con la politica, nel senso, almeno, di delegarla agli altri; anche se le interruzioni a questa delega ci furono a più riprese; ma interruzioni alla delega non alla supremazia dello scrittore che manteneva sempre per sé l'impegno di una letteratura libera e cosciente delle proprie responsabilità e che fu la ragione della polemica con Vittorini ed altri, dove lo scrittore ed il contemplativo non potevano rinunciare alla possibilità della solitudine e ad affermarla come fatto di cultura.

Dopo la scelta antimilitarista lo scrittore non delega più niente, e anzi, direi che sveglia l'ideologo alla difesa dell'esistenza, che è sempre stata patrimonio dello scrittore. Ed è qui, nel momento che si realizza nella mente dello scrittore, la possibilità della fine di tutto, della chiusura del passaggio, che la guerra diventa quella non-possibilità che va evitata ad ogni costo anche a prezzo della libertà.

«Non c’è nessuna possibilità che l’Italia sia invasa; comunque meglio invasi che morti».[42]

È allora che la pace preserva il mondo ed è attività dove la ragione e la fede nella vita si incontrano in una specie di illuminismo esistenziale, che è anche cristiano, se vogliamo, in forza di un rispetto della vita, che salva tutti nella fraternità dell’amore, mentre la libertà può diventare attività anticristiana quando si rende prioritaria alla pace e mette in rischio l'esistenza di tutti. E qui entra in ballo quello che diceva Fortini, il quale contestava che la vita fosse un valore di per se stessa.

«dimenticatevi di tutto il resto, e ricordate di essere membri del genere umano»

è una frase di Einstein che citò padre Balducci, in quella stessa occasione del primo convegno di Firenze del 1987, per affermare poi che:

 «con il crinale di Hiroshima è nata un'etica nuova; è nata non per la perorazione di qualche grande profeta, ma appunto per la provocazione oggettiva dello stato delle cose».

 

E proseguiva:

«Mettere tra parentesi tutto il resto significa alla fine prendere le distanze dalle identità ideologiche, non per qualunquismo riduttivo, ma per sorpassamento». [43]

Credo che padre Balducci avesse colto nel segno, ma credo anche che l’attardato Cassola, che Garboli, in un suo intervento chiamò:

«…un macchiaiolo toscano che si innamora delle epifanie…»[44]

arrivi tra i primi, per “sorpassamento”, alla coscienza del suo tempo (che è quella che Balducci chiamò l'epoché, che era appunto dimenticarsi di tutto il resto fuorché l'esistenza), in virtù anche di alcuni “ritardi” che Fortini denunciava.
E Balducci indicava anche un avverarsi nel Cassola antimilitarista di una vocazione anarchica.

«Chi è l'anarchico? L'anarchico è l'uomo che nelle sue attività, nei suoi orientamenti sociali e politici, si sente organico al genere umano e nient'altro».[45]


Bene, io credo che questa vocazione anarchica di Cassola si salda ottimamente alla sua scrittura subliminare, che io mi sentirei di chiamare letteratura dell'infinito.

Del resto, Cancogni ricordava questo qualche anno fa:

«Ringrazio Mario Luzi per una parola: l’infinito. Era molto cara a Cassola, molto prima dell’altra, sublimine, che l’avrebbe accompagnato per tutta la sua carriera. La sensazione dell'infinito: era un'espressione che ricorreva frequentemente nei suoi discorsi sulla poesia.. »[46]

La sensazione dell'infinito è, quindi, presente fin dall’inizio nel percorso letterario di Cassola; ed è questa sensazione che lo porta a cercare di entrare in contatto col sentimento dell'esistenza. Ma, per farlo ha bisogno di considerare l’esistenza un valore assoluto. E per arrivare a sentire questo probabilmente non servono le complicazioni intellettuali, ma al contrario, forse, servono proprio le semplificazioni, che Fortini denunciava presenti in Cassola. E va dato atto a Fortini di averlo compreso interamente in quei sei versi che lesse a Firenze nel 1987, parte di una poesia dedicata a Cassola e scritta molti anni prima. E non è un caso che sia l'intelligenza del poeta e non dell'ideologo a colpire nel segno:

«Tu che i miei anni stessi hai misurato,/ ostinato al tuo vero,/ insegnami il sentiero/ astuto e triste dove sei passato,/ la soglia d'aria/ dove resisti e vinci /».[47]


La soglia d'aria è in pari tempo la poesia e l'esistenza in pericolo che resiste.

Garboli e Fortini hanno quindi il merito di aver colto i due aspetti principali della difficoltà di lettura di una scelta intellettuale come quella di Cassola, che da una scelta iniziale, che è anche semplificazione, arriva al cuore di una verità complessa. Mi vengono in mente le parole di Gjeorgji Lush, consulente di Rugova e Presidente dell'associazione kossovara Madre Teresa, che qualcuno potrebbe anche chiamare un utopista nonviolento, il quale, parecchi anni fa, prima che parte del popolo kossovaro lasciasse la strada della nonviolenza, che aveva sempre seguito, ribadiva che loro tra gli obiettivi “migliori e quelli possibili”, continuavano ad optare per i secondi.

Poi, le cose, come si sa, sono andate diversamente, e, come troppo spesso avviene, la violenza ha preso il sopravvento e la pulizia etnica continua, praticata ora da chi prima la subiva; ma ciò non toglie che questo rimanga un caso di realismo politico che sembrerebbe cozzare con l'utopia nonviolenta, ed è, invece, una conferma di questa per chi sa che gli obiettivi “migliori” spesso sono destinati a scatenare la violenza e la guerra.

Certo, questo tipo di approccio graduale nonviolento non era proprio di Cassola, che, invece, era dominato dall’urgenza e dall’estremismo dell’azione. In apparenza, quindi, sembrerebbe che le due posizioni divergessero completamente. Ma non è così, perché entrambe le posizioni salvano prima il transito, cioè accettano tutto, anche il peggio purché sia il possibile, cioè purché si dia la possibilità di proseguire, che per Gjeorgji Lush è continuare a fare politica di pace, mentre per Cassola è preservare la vita sul pianeta.  

Di fronte alla possibilità della fine dell'esistenza sul nostro pianeta il disarmo unilaterale è per Cassola l’unica possibilità, cioè l'unica utopia e l'unico realismo e bisogna capirlo.


Il fatto che la vita in sé non basta, ma deve anche essere giusta, è certamente vero, ma viene dopo, dopo che ci siamo garantiti la vita. Salvare la vita di tutti è salvare la vita della sua scrittura. Ecco che tutto è esattamente come all'inizio: tutto il resto non conta.

Devo ribadire qui che, anni fa, alcuni amici nonviolenti e disarmisti unilaterali, che non intendevano, allora, certo rinunciare alle proprie idee di verità e di giustizia e che sapevano e sanno bene come tutto nella vita è complesso, di fronte al dramma della ex-Jugoslavia si sono spesso detti che avrebbero voluto una pace giusta per tutti; ma sapendo bene che questo non era possibile, convenirono allora tutti che era necessaria e urgente una pace, certo la migliore che si potesse ottenere, ma, al limite, qualsiasi pace per poter continuare a sperare di avere un giorno una pace giusta.
Se la guardiamo bene, è esattamente l'idea di Cassola: salviamo prima la vita, poi si vedrà; un'idea nata ben prima del 1989 quando nessuno avrebbe mai potuto prevedere quello che sarebbe poi successo. E il fatto che grande parte del mondo pacifista, pur non aderendo all'idea del disarmo unilaterale, la faccia propria oggi, ci deve far riflettere sulla valenza della semplicità di Cassola, della sua semplificazione antintellettualistica, del suo mettere l'ideologo a rimorchio del poeta.

 

Oggi sono per la letteratura impegnata, ne dirò in seguito la ragione; sono cioè convinto che uno scrittore debba trovare la verità del proprio tempo ed esporla agli altri». [48]

E ancora:

«Di fine del mondo parlano anche i giornali: ma come di un'ipotesi che a questo punto è lecito fare e che, a sentir loro, non deve distoglierci dalle nostre occupazioni abituali».[49]

Tra il pensiero e la realtà ci sarà sempre un abisso e la storia è incoscienza[50]: sono parole di Cassola, e se vogliamo sono anche semplificazioni, ma hanno costruito coscienza e sono espresse da una coscienza che ha impegnato tutta se stessa per modificare la Storia e, poiché ogni sforzo non bastava, ha tentato di modificare, infine, anche la propria scrittura per impegnarla nella lotta antimilitarista.

Capitolo II

La letteratura come il pensiero dell’uomo vecchio.

«La politica non deve informare la cultura, è semmai il contrario».[51]

II.1 L’amore cassoliano per la vita

Per Cassola, dunque, la letteratura nasce come fatto privato di una esistenza che partecipi o contempli,  riflette su se stessa,  e attraverso la sua fantasia, racconta. La letteratura non è che il cammino di un io errante, spesso incerto, smarrito, disarmato sempre, che insegue le tante occasioni e i perché della vita.

«La vita è qualcosa di misterioso, d’inspiegabile e d’imprevedibile: sfugge a ogni definizione, non può essere riassunta in una formula né ridotta a una cifra, La vita è la vita: essa sorpassa infinitamente le nostre possibilità di rappresentarla, d’interpretarla e di definirla».[52]

Cassola aveva aderito naturalmente fin dalle prime prove letterarie, alla letteratura pura o esistenziale; aveva scelto cioè la contemplazione della vita, ma con una struggente partecipazione. Il suo particolare stile, il suo occhio subliminare, che costruisce trame invisibili, dove si respira una strana infelicità, che è anche malinconia per la vita che passa, sta ad indicare questa sofferta partecipazione.

Non si può capire la letteratura e l’impegno disarmista di Cassola se non si comprende questa adesione particolare alla vita, che diventa prima stile letterario e poi impegno civile. Cassola riversa nella scrittura il suo impegno e impegna la sua letteratura. I tempi sono diversi, ma sono tracce di un unico disegno, che è poi il disegno della sua esistenza. Una esistenza in cui, in un certo momento, Cassola avverte la sua letteratura come il pensiero dell'uomo vecchio, dell’uomo che deve in qualche modo uscire dalla “contemplazione” per continuare a rimanere legato ai messaggi nuovi della vita.

Cassola, come uomo, non era mai stato con le mani in mano. Aveva sempre cercato di lottare per quello che aveva ritenuto giusto. Non si era mai sottratto ai rischi della partecipazione. Era stato così nella Resistenza ed era stato così al tempo della Legge-truffa.

 Cassola si era rimboccato le maniche ed aveva lottato perché quello che riteneva torto non prevalesse. Ma ora si trattava di qualcosa di più, di qualcosa di intimamente suo: si trattava del suo lavoro, della sua scrittura, del contributo estremo che le sue capacità potevano dare alla vita; quella vita che Cassola vedeva ora come una terra che andava in malora, un podere senza più braccia. Il bisogno di impegnarsi totalmente per il disarmo unilaterale, nasce così come disubbidienza alla distruzione, come voglia di costruire una realtà diversa, e rappresenta un impegno a tutto rischio che chiama in causa anche la sua maniera di essere scrittore.

Lo scrittore aveva attraversato cento paesaggi, dove la vita sembrava nascere d'autunno e resistere indifesa a tutte le altre stagioni. È attraverso questo percorso di “paura e tristezza” che lo scrittore riconosce il mistero e la persistenza della vita nei luoghi, come se questi fossero in qualche modo coscienti o superiori alle persone, che di contro sono inconsapevoli. Le persone passano, i luoghi restano. È nato certo lì il suo essere nuovo, nel riconoscersi uguale alle persone che passano in un transito senza progetti, nell'amore verso l'uomo inconsapevole.

È il transito pieno di poesia per Cassola. Qualsiasi progetto, in fondo, è secondario. Quello che conta è che non va bloccato il transito. Bisogna che le persone continuino a passare. Così le persone contano più dei luoghi. Ma non è che un rovesciare la medaglia, solo impone di guardare diverso e l'impegno dello scrittore è chiamato in causa.

 

II.2 L’ultimo sperimentalismo di Cassola

Sono convinto che Cassola si è posto seriamente il problema di uno stile nuovo ad un certo punto del suo cammino di scrittore. Credo che cercasse una scrittura, che avvertiva dentro di sé necessaria, per spiegare che le persone contano più dei luoghi.

«Oggi sono per la letteratura impegnata, ne dirò in seguito la ragione; sono cioè convinto che uno scrittore debba trovare la verità del proprio tempo ed esporla agli altri».[53]

E ancora:

«la riuscita letteraria è così rara perché deve soddisfare due condizioni opposte e quindi difficilmente conciliabili.

Per fare un esempio: l’opera letteraria deve dare insieme l’impressione della libertà e della necessità. La filosofia ci ha insegnato che sono due concetti opposti».[54]

Poiché in Cassola, negli ultimi anni della sua vita certamente, l'uomo e lo scrittore erano tutt'uno, la critica deve decidersi a considerare questo nuovo impegno letterario come ricerca del nuovo e non certo come parabola del vecchio.

Dal punto di vista della scrittura, è la serie dei romanzi politici che va riconsiderata unitamente ai romanzi avveniristici. Come ho già detto, non ci troviamo di fronte alla nascita improvvisa di un impegno sociale che investe la scrittura, ma ad una vecchia presenza che si concretizza in una scrittura nuova. Certo, va detto, non sono in questa scrittura nuova i migliori risultati di Cassola, anche se in alcune parti de Il superstite[55] ci sono elementi di felice saldatura tra un “prima” e un “dopo” cassoliano, ma è, tuttavia, certamente anche qui la chiave di lettura di tanta sua scrittura precedente.

II. 3 La real-utopia al posto della real-politik.

L'idea del disarmo unilaterale nasce in Cassola come necessità di lasciare aperto il transito e sul piano più strettamente personale come intima consolazione che l'agnostico si dà per la propria morte individuale. Cambia il paesaggio interno all'uomo, e lo scrittore che lo attraversa non può che tentare di essere nuovo, di non perdere il contatto con quel paesaggio esistenziale che lo ha accompagnato per tutta la vita.

Battersi per il disarmo unilaterale vuol dire scrivere per il disarmo unilaterale. È un impegno gravoso, che aliena amicizie, crea incomprensioni, ma il paesaggio impone ora quel percorso.

«Il mondo infatti può salvarsi solo in seguito a un intervento chirurgico, che distrugga gli apparati militari e le frontiere. In altre parole, oggi la causa del progresso e quella della sopravvivenza si identificano».[56]

E nell'esporre la verità disarmista, Cassola non usa mezzi termini, anzi, iperbolizza spesso, non cerca di essere accomodante, va dritto al bersaglio. In definitiva, racconta da “estremista” il paesaggio che vede.

Come nei suoi romanzi non si era mai posto il problema di tradire il paesaggio con una trama accattivante, cosi non tenta ora, nel suo impegno disarmista, di vestirsi da politico. È per questo che a molti, nella stessa area disarmista, non è piaciuto. Più d'uno si deve essere sentito come scavalcato da quella semplicità “violenta” che tirava dritto. II disarmo unilaterale nasce di lì, da questa geometria innocente ed estremista e, nello stesso tempo, oltremodo realista, concreta. L'uomo che si impegna è così un uomo politico nuovo, pronto a pagare i costi di una scelta, a dimenticarsi le comodità del consenso, anche ad essere smentito dai fatti, ma non a rinunciare mai a credere negli uomini, nella loro socialità di fondo.

È la real-utopia cassoliana, un progetto di generale fiducia nella positività dell’uomo, che si contrappone alla real-politik, che è la negazione dei sentimenti ed è stupida, poiché non si accorge che la possibilità di distruzione del genere umano ha mutato definitivamente i termini del confronto politico. Un modello statale malato: la Società in armi non può rispondere al bisogno di libertà, di uguaglianza e di partecipazione che esprimono gli uomini nel nostro tempo. È il bisogno di recuperare, in ultima istanza, i sentimenti positivi che abitano l’uomo, troppo facilmente accantonati e violentati da una real-politik cinica e assurda; assurda, poiché ha finito per operare su un tessuto umano immaginario, troppo ricalcato sul fantasma dell'uomo lupo all'altro uomo.

Intimamente è sostituire il pensiero degli altri all'egoismo individuale. Una società senza vincitori né vinti, fuori dallo schema della competizione, una società completamente disarmata da ogni forma di aggressione, è l'obiettivo dell'impegno cassoliano, l'impegno dell'uomo nuovo, che rovescia l'angolo della visuale e parte da sé, dalla risposta possibile perché unilaterale.

Cassola punta da estremista alla rivoluzione, non si pone più né sopra né al lato degli altri; semplicemente scopre di essere una parte del tutto, di quel tutto inconsapevole che rischia di esser annientato dalla follia dei governi, e si ribella. È un estremista, ma è anche un testimone di una casa che va a fuoco. Che fare? Tutti sono distratti, in mille altre faccende affaccendati; come richiamare la loro attenzione? Può lo scrittore continuare a comunicare con gli altri come prima che la casa andasse a fuoco?

Se il paesaggio, la sua materia narrativa, brucia, non deve lo scrittore, come un uomo modificherebbe la propria voce urlando, modificare la propria scrittura, il proprio stile letterario? È certo possibile che non vi riesca, ma, se, addirittura, nemmeno ci prova, non condanna allora a una non-vita la propria scrittura?

È con questo assillo, con questa emergenza, che Cassola avverte, ad un certo punto della propria vita di scrittore, di avere bisogno di qualcosa d'altro, di mezzi nuovi.

Come Lucky ne Il superstite aveva bisogno di rumori che gli facessero compagnia e non della luce muta delle stelle, così lo scrittore scopre che la bellezza silenziosa del paesaggio non è più sufficiente: è necessario che il bello si leghi alla verità e al rumore che sta dentro le cose, perché solo così la bellezza può rimanere e sopravvivere negli altri.

Nasce così nuovamente, ma in maniera del tutto diversa, in Cassola il bisogno del linguaggio della poesia, un linguaggio cercato ed accarezzato spesso in passato, e perso sempre come un vento leggero. E qui vorrei fare un inciso per affermare che Cassola era, a suo modo, un nostalgico. E mi spiego: il suo sentimento della vita era fatto della felicità della scoperta, quindi di stupore, ma, nello stesso tempo, era fatto anche di nostalgia. La nostalgia di Cassola era la nostalgia della poesia, perché Cassola prendeva le distanze dal personaggio, dal personaggio ma non dall’esistenza.

Il sentimento dell’esistenza, che era il sentimento della sua poesia era continuamente ricercato da Cassola e con nostalgia. Anche da qui, forse, nasce l’impressione che aveva avuto Garboli, che Cassola parlasse di un mondo, perso, morto.

Anche scoprire nella realtà dei suoi personaggi e del paesaggio una ininterrotta epifania era un sentimento nostalgico, perché era sempre come abitare la poesia in una specie di ritorno.

Così Cancogni:

«Diciamo che in Cassola non ci sono epifanie perché tutta la sua narrazione è epifania in quanto rappresenta il fluire dell’esistenza attraversata pacificamente, senza scatti o soprassalti lirici, dal sentimento dell’Essere, o dell’infinito».[57]

È, forse, anche per questo, che Cassola dà l’idea di guardare indietro, di essere passatista. Se si somma a un Cassola passatista la sua “poetica dello squallore”, si può, giustamente, pensare che Cassola abbia intenzionalmente deciso di parlare di un mondo moribondo.

Ma la nostalgia di Cassola è data dallo stupore della poesia dell’esistente, attraversata dal tempo, ed è anche la possibilità che lo scrittore si dà di ricreare una continua epifania più avanti e senza tempo, cioè al di fuori della Storia.

II. 4   L’assillo modifica qualcosa di profondamente radicato

È significativo quello che scriveva Cassola su Gandhi:

«Gandhi si considerava discepolo di un uomo che, oltre ad essere un grande politico, è un grandissimo poeta, forse il massimo poeta moderno: Leone Tolstoj. Non sorprende quindi che gli scritti politici di Gandhi non siano aridi come in genere questo tipo di letteratura, ma al contrario, vi si rintracci uno straordinario fervore immaginativo». [58]

È evidente che Cassola avrebbe voluto che il poeta fosse anche un grande politico e che fossero pagine fresche di poesia ad indicare alle popolazioni del mondo la giusta strada.

Per lui era il linguaggio della poesia che si sarebbe dovuto fondere con il linguaggio del predicatore.

Ma non era certo cosa da poco. È vero che, in passato, aveva saputo già usare il linguaggio della poesia, ma solo per raccontare una verità, che era il suo sentimento della vita, mentre ora si trattava di raccontare una verità diversa, che era il rischio dell’estinzione di tutta l’umanità sul pianeta.

E, inoltre, Cassola pensava che non gli sarebbe bastato costruirsi questo linguaggio “nuovo”, “gandhiano”, fatto di freschezza e verità, perché avrebbe dovuto anche fare presto.  Valeva ora per lui l'indicazione e il bisogno di cercarlo con assillo. È questa, a mio modo di vedere, l'eredità più preziosa.

L'assillo, in definitiva, è in scrittura il rifiuto di un professionismo appagante, l'assunzione della coscienza del dilettante, e socialmente è la ricerca di farsi sentire, di dare grande voce alla sua poesia, che è ora il tema del disarmo.

«Ma forse la trasposizione, la metafora, non è di vitale importanza per la riuscita dell’opera letteraria? Non lo so più; so solo che oggi il problema principalissimo è diventato quello d’impedire che il secolo ventesimo sia anche l’ultimo della storia dell’umanità».[59]

Cassola sa di non essere un politico, e non vuole essere nemmeno una Cassandra. Sa di essere uno scrittore, che deve rinnovarsi per parlare agli altri se vuole avere consenso nel fermare la logica della guerra. Io credo che Cassola abbia fatto una delle scommesse più alte che sia concesso tentare al libero arbitrio. La scommessa di cambiare pelle è per Cassola tentare di modificare la realtà di un'impronta di scrittura, naturalmente legata ad avvenimenti insignificanti, dal tessuto leggero, esistenziale, per produrre un testo letterariamente importante e nello stesso tempo immediatamente fruibile come parola politica.

Cassola non pensa mai di esservi riuscito;

«Mio padre non è dunque un esempio della letteratura del futuro, ma un modo di arrivarci».[60]

tuttavia sa di aver toccato qualche corda che lo avvicina a quel tono, a quella musica cercata.

«L’amore per gli altri e l’amore per la vita è sicuramente la stessa cosa» [61]

Modificare qualcosa di profondamente radicato, che viene dalla origine del suo viaggio personale, trasformando la scrittura in uno strumento di lotta, anzi nello strumento principe, è un percorso terribilmente difficile, è una scommessa altissima. È qui che avviene che l'uomo nuovo, nato progressivamente dal cuore dello scrittore, arriva prima ad un traguardo ideale, sul filo di una giovinezza cerebrale, di un messaggio poetico raziocinante, mentre il sentimento e gli umori stanchi, appesantiti da vecchie proteste contro la morte individuale, rimangono indietro.

La rivoluzione nella scrittura, se mai fosse potuta avvenire, non ha tempo, purtroppo, di compiersi, poiché arriva la cesoia, l'alt che blocca la metamorfosi. Tuttavia l'intenzione è chiara e illumina il percorso cassoliano.

Nell'ultimo inedito letterario pubblicato da “Nativa” nel 1985, scriveva:

«Come immagino la mia morte? Intanto senza sofferenze. Il che è già molto. Come scrissi in una poesia giovanile: “se il corpo geme,/l'anima latra e bestemmia,/ né sa più correre gli oceani penombrati, /né sa più ritrovare nelle cose di terra/la nota sonante/ che arriva a percuoterti il cuore».[62]

La “nota sonante” è il sublimine.

II. 5   Il partito del progresso e della sopravvivenza è il paese della poesia

Una letteratura che disarma l'uomo, che lo riscopre innocente, non rappresenta solo, per Cassola, la meravigliosa luce della poesia subliminare, ma è lo strumento complessivo, l'unico mezzo in suo possesso per salvare l'umanità dalla catastrofe.  Quella che per Cassola era, insieme un'idea, un sentimento di vita, una verità da raccontare e una proposta politica, non può essere per noi una ragione di riscatto? Un veicolo per tutti per uscire da un mondo violento, senza speranza, dal tunnel nero del militarismo? Le ragioni della poetica cassoliana si saldano alle ragioni della politica concreta, della real-utopia e sono le ragioni della poesia e di tutti coloro che intendono cambiare uno stato di cose  inaccettabile.

Forse queste ragioni stanno in un ossimoro: illuminismo cristiano? Forse, ma non è importante il nome; importante è che non perdiamo di vista la scelta unilaterale, la carica rivoluzionaria e l'impegno nuovo che Cassola porta nella vita sociale come nella letteratura. Il partito del progresso e della sopravvivenza è per Cassola il paese della poesia, il paese del rifiuto, del gesto solitario, come è solitaria ogni avventura di scrittura.

Come non c'è invidia verso nessuno nelle occasioni della poesia, ma solo rabbia verso la stupidità che nega l'evidenza, che insiste ad esorcizzare il nuovo con i vecchi pregiudizi, così non c'è spirito di concorrenza nell'uomo nuovo, non c'è voglia di vincere sulla pelle di nessuno, non c'è compromesso con la logica della forza e del potere.

Comincia di qui il cammino di una speranza solitaria, di quel semplice che è difficile a farsi: abitare assieme, convivere usando lo strumento della ragione, rispettando le leggi della sopravvivenza. Non è l'amore cieco, l'amore costrittivo: è l'amore dettato dalla ragione, imposto dall'evidenza. Cassola non vive alcuna ideologia; il suo non è l'impegno di chi crede, è l'impegno di chi conosce, di chi sa che è nel reciproco rispetto, o meglio, nel reciproco aiuto, che si può trarre la massima utilità, il massimo guadagno per tutti.

La scienza, che ha percorso strade di distruzione, è arrivata al punto di non ritorno, e solo per questo impone, come fatto di scienza, come conclusione raziocinante, l'alt alla distruzione, e un nuovo metodo di ricerca della verità e dei percorsi umani. E non è possibile contrattare, per una questione di tempo e per una questione di logica oggettiva. È la politica che contratta, la scienza impone. È come se Cassola non dovesse più attingere dalla sua fantasia, ora che conosce, ora che sa, ma dovesse fare semplicemente della sua scrittura uno strumento scientifico, un bisturi per squarciare le tenebre del pregiudizio e dell'ignoranza. È così che la sua scrittura viene ad avere il compito di filtrare una spiegazione, di lavare una verità dalle incrostazioni dell'abitudine alla menzogna, al sovvertimento del dato reale, all'accettazione del mito della violenza originaria dell'uomo, delle ragioni della forza di cui si cibano il nazionalismo e il militarismo, una forza che si presenta senza più spazio per esprimersi, gonfia come una città del suo gas di scarico, che non è più forza per nessuna costruzione umana, ma è nociva a sé e agli altri;  per tornare forza deve difendere il diritto di sopravvivenza di tutti, e può farlo solo con un rifiuto, con un atto di obiezione di coscienza alla società militarista.

È su questa linea che il disarmo unilaterale apre la strada alla rivoluzione disarmista.

Una rivoluzione che non è “progetto culturale”, che non vuole essere solo pensata, ma pienamente attuata attraverso una serie di gesti concreti di pace. Questa unità tra parola, e quindi letteratura, ed azione, è per Cassola il mezzo per recuperare il senso originario della politica.

«Finché ci saranno speranze e ricordi/ ci sarà poesia!»[63]

Citò in un suo scritto queste parole del poeta spagnolo Bécquer a ricordare a tutti che la politica dei governi e la cultura delle intelligenze dominanti non vedono il rischio della fine, il pericolo della sparizione della specie umana.

Al di là di ogni altra considerazione, mi pare che si debba prendere atto della novità di una intelligenza dominante che abdica a se stessa e sceglie di muovere i primi decisivi passi verso una condizione nuova, che vuole unire alla sensibilità poetica personale la conoscenza dei rischi della possibilità di un reale non ritorno per la specie umana, per costruire una scrittura in cui, inevitabilmente, si respiri l'aria malsana del nostro tempo incerto, ma dove anche si legga e si prefiguri una società nuova.

Non è un caso che nel suo ultimo scritto letterario abbia citato S. Francesco nel Cantico di Frate Sole. Nel crogiolo della sua vita, ogni disciplina umana si era in ultimo amalgamata nel pensiero della legge dell'amore-sopravvivenza.

«Fortunatamente Guerrazzi è smentito da Grazia Deledda: “La vita è una cosa da niente, è un nome scritto nel vento, ma è bella così e in nessun altro modo.”

E soprattutto da S. Francesco, il quale nel suo Cantico di Frate Sole scrive:

Laudato sì, mì Signore, per sora nostra morte corporale,

da la quale nullu homo vivente po’ skappare:

guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;

beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,

ka la morte seconda no ‘l farrà male»[64].

Un amore-sopravvivenza, che si pone come muro all'ignoranza, è lo strumento per liberare le energie umane verso la strada della rivoluzione disarmista, dove l'uomo nuovo, che non costruisce idoli a cui sacrificare se stesso, potrà vivere lo spazio della rivoluzione e il tempo dell'intelligenza.

Ecco perché Cassola rivendica il diritto di intervenire nella politica come persona comune, come semplice cittadino, perché, in definitiva, rivendica un impegno che non sia caricatura di alcun potere. Un impegno che sta in una scelta esistenziale, senza e al di fuori di ogni ideologia, e che trasforma il piccolo uomo inconsapevole in una forza che si scopre enorme, depositaria del potere dell'esistenza.

Ecco perché del '68 amava l'immaginazione al potere. L'immaginazione serve per scrivere e per guardare lontano, e ogni disarmista sa quanto è miope il potere.

Il cerchio del percorso cassoliano si chiude. Il poeta, così, in virtù di questa sua naturale immaginazione, è un rivoluzionario, un impegnato totale che si adopera perché l’umanità eviti la catastrofe.

II. 6.   Un gioco pericoloso e perverso

Sessantasette anni sono passati da quando fu sganciata la prima bomba, e la vita di tutti noi prosegue su un pianeta pieno di bombe nucleari. E vero che sono state concordate ed attuate delle riduzioni dell’armamento nucleare, ma è anche vero che di bombe ne rimangano a sufficienza per far esplodere tutto il pianeta svariate volte. È come se gli Stati della Terra volessero suicidarsi più di una volta. In più, non si ferma la corsa-vocazione al nucleare da parte di nuove nazioni e, anche se il nucleare è considerato da molti più arma di potenza e di contrattazione tra gli Stati che arma effettiva, e sono in tanti quelli che pensano che non verrà mai adoperato, non mi pare che si possa stare veramente tranquilli e che non ci sia proprio niente da temere. Mi pare, invece, un gioco pericoloso e perverso praticato dalla quasi totalità delle classi dirigenti degli Stati del nostro pianeta.

Cassola ci ha insegnato che dobbiamo rompere le regole di questo gioco entrandovi dentro e dicendo di no ognuno di noi individualmente, senza attendere l’altro, senza attendere niente che non venga da noi, che non dipenda da noi. Ci ha insegnato del disarmo unilaterale il gesto unilaterale come la chiave di una politica nuova, di una politica finalmente intelligente che s’impossessa della scienza e la divide per sempre dalla guerra. Sapremo farne tesoro? Forse non possiamo domandarci altro, ché già questo è sufficiente a suggellare un patto. Da parte mia credo che il paese della pace e del progresso non può essere una democrazia armata, perché nessuna libertà sarà mai intera all’ombra delle armi e non posso che invitare a rileggere Cassola in questa direzione, nella direzione del “paese disarmato”.

Capitolo III

Il sublimine

III. 1   Cassola e Cancogni

Il sublimine, o scrittura subliminare, è la caratteristica della narrativa di Cassola e di Cancogni. Fu una scelta e un’impronta di scrittura che i due amici si vollero dare, come a stabilire tra loro un patto in un’epoca particolare, quella della prima giovinezza, dove tutto deve essere ancora fatto, dove tutto può ancora nascere.

Il nome glielo dette Manlio Cancogni, mediandolo dal termine dovuto al parapsicologo britannico della seconda parte del secolo XIX, Frederic W. H. Myers, che lavorava negli Stati Uniti.

Per questo la scrittura del termine adottato avrebbe dovuto essere subliminale, ma Cancogni, per sua ammissione, scrisse da sempre scrittura subliminare.

Partiamo, per verificare in cosa consista questa scrittura subliminare, da Carlo Cassola.

Come è noto, lo scrittore fece la sua dichiarazione di poetica subliminare ne Il film dell’impossibile, introduzione alla Visita dell’edizione di Einaudi del 1963.

In questa sua dichiarazione di poetica, dove Cassola precisava che animare una stampa è tentare il film dell’impossibile; lo scrittore fissava alcuni punti fermi:

1-     immobilità del personaggio (una immobilità che allude al movimento);

2-     la mancanza di vita che allude alla vita;

3-     l’assenza del tempo che allude al fluire del tempo;

4-     l’anelito verso la vita che ci è preclusa (evidenziato dalla citazione dei famosi versi di Montale che indicano che non abbiamo che uno spiraglio, una fugace visione dell’inconoscibile);

5-     infine, la precisazione che è il punto fermo che allude alla vita, non la vita cui è rivolta l’allusione.

Per Cassola, dunque, l’oggetto della sua scrittura doveva essere la vita che è in moto, ma tenendo presente il punto fermo, cioè l’immobilità, che è, in sostanza, l’eternità della vita. Solo questo sentire tutto attraverso il sentimento è per lo scrittore subliminare la chiave che permette di riprodurre la vita, ma non quella che appare evidente ai più, bensì quella che è nascosta, che gli altri non vedono, che sta sotto e al di là del limite, che sta altrove e appare solo per dei cenni, per degli spiragli, che solo chi è preparato a questo, può leggere. È, in definitiva, il sentimento della poesia e mi vengono in mente i versi di un altro poeta Umberto Saba[65]Malinconia amorosa/ della mia vita,/prima del cuore ed ultima ferita;/chi a cogliere i tuoi frutti/ama l’ombre calanti, i luoghi oscuri,/lento cammina, va rasente i muri,/non vede quello che vedono tutti,/ e quello che nessuno vede adora.

Per lo scrittore subliminare quando c’è la poesia c’è tutto.

La poesia è il muro che ti si apre davanti e ti illumina. Non succede nulla fuori di te perché succede tutto dentro. Lo scrittore descrive solo degli spezzoni di vita, non ha messaggi da dare, né ritiene di dover fare cose importanti, perché è lui che è importante in quanto parte di quella vita di quell’infinito magico che lo prende. In questo Cassola e Cancogni sono uguali, non c’è praticamente differenza nel modo di approcciarsi al sentire. E si capisce anche perché il cinema abbia avuto fin dall’inizio un ruolo importante nella vita dei due amici scrittori subliminari. Il cinema era allora l’arte di più facile contatto e di più forte attrazione e, soprattutto, il cinema era l’America, il mondo anglosassone che era per i nostri due amici subliminari la patria del sublimine. Poi per loro ci fu anche il cinema francese, che fu considerato persino superiore perché più letterario. Amavano tutti e due  molto le dissolvenze alla René Claire.

Vale qui appena notare che se la percezione del sublimine è identica, la sua resa nel testo scritto è poi decisamente diversa nei due autori. Cassola descrive, Cancogni racconta. Questo avviene perché Cassola è una voce che descrive ciò che vede, quasi astraendo dal partecipare alla vicenda, tenendosi lontano da ogni regia, quasi annullandosi, Si potrebbe dire che Cassola scrive con l’occhio, perché è uno scrittore visivo, Cancogni con la testa, perché è uno scrittore che entra nella storia, ci mesta dentro. Ovviamente, è solo un modo di dire, ma vuole indicare le due strade in cui si realizza concretamente la scrittura subliminare. Se l’approccio alla visione del film della vita è identico nei due sodali, se la predisposizione è la stessa, la resa è diversa perché è legata allo specifico di ognuno dei due, alla loro diversa maniera di essere e di rapportarsi alla realtà.

Qui è ora interessante capire in cosa consista questo percorso esistenziale, questa preparazione al sublimine. È interessante per due motivi:

1-     perché si scopre che gli elementi-categorie della preparazione, questi ingredienti della cucina subliminare, si trovano in un libro che non è di Cassola, bensì del suo sodale Cancogni;

2-     perché l’esperienza preparatoria, che coinvolge i due scrittori e li lega, per tanto tempo, all’unisono, evidenzia subito un elemento-categoria superiore che è l’amicizia.

Il libro che contiene tutte le “categorie” preparatorie all’esperienza del sublimine è Azorin e Mirò.

È in questo libro che si racconta che le due diverse personalità, in forza dell’amicizia, realizzano una comune esperienza di scoperta della poesia della vita.

Va rilevata subito una “categoria”, che, attraverso il suo libro, ci indica Cancogni, e che esiste prima dell’amicizia, ed, anzi, crea l’amicizia tra i due personaggi scrittori, ed è una sorta di egotismo che li fa fantasticare sulle proprie possibilità. È il vivere, in sostanza, il sentimento di scrittore solitario e felice, il fantasticare in attesa di produrre capolavori. La possiamo chiamare “la solitudine felice”.

L’altra “categoria” è “l’attesa dell’amore”; una attesa che, mi pare,  fosse da loro assaporata con intensità e che occupava, assieme al pensiero della scrittura, ogni loro giornata. Era, probabilmente, nella prima giovinezza, come un tesoro nascosto, che sentivano dentro se stessi, un sole che scaldava anche senza la presenza dell’oggetto dell’amore.

Un’altra “categoria” è “l’amore per le cose nascoste, ma che appartengono a una quotidianità familiare”.

Il rovescio della medaglia di questo amore è la ripulsa per il tragico e il grandioso.

Un’altra “categoria” ancora è “il pudore”, che nasce subito all’inizio della conoscenza tra i due scrittori. Il pudore mi pare una “categoria” importante per capire il sublimine. È, infatti, attraverso questo sentimento che si manifesta il punto di contatto tra i due amici e le cose quotidiane, con la vita che è in moto. È un quotidiano umile e pieno di pudore quello che si rivela al sentimento dei due scrittori. Ed è questo lo spettacolo prediletto dallo scrittore subliminare, che si avvicina in silenzio con pudore al pudore delle cose.

Poi c’è l’amore per lo sport di una volta, per i nomi dei vecchi atleti famosi, che sono subliminari in forza della memoria e della fantasia, come accade, del resto, con la geografia e con la vecchia Dublino.

Poi l’eccitazione di scoprire nella solitudine che c’è un altro uguale a te, che pensa come te e la distinzione, che si scopre e si fa propria, tra il vero e il falso.

A tutto questo si unisce la non sopportazione della politica, ingombrante e inutile perché la vita vera è sempre la stessa e, in definitiva, è eterna.

Così preparati, il sublimine, quando arriva, è come la grazia per i due scrittori.

E solo il possesso della grazia permette di spezzare il banale contatto con le cose e di sentire con i sensi quello che ancora non era stato visto. Così preparati, il sublimine dà loro il senso del trascorrere fermo del tempo, della vita infinita. E si tratta, allora, in questo caso, di sentire e non di capire, poiché non c’è niente da capire, la felicità va toccata dentro di noi, va assaporata. È la parte più profonda della persona, l’io subliminare che deve, infatti, entrare in gioco, che deve aprirsi alla grazia dell’epifania.

Lo scrittore subliminare è, dunque un innocente, abitato dalla grazia. È così che tutto, luoghi, persone e cose, si dividono in due: subliminari e non subliminari. Il tutto avviene in forza di un comune sentire dei due scrittori, il cui percorso letterario, pure nella sua sostanziale differenza, trova dei forti punti di contatto nella scrittura subliminare. È un modo di sentire, di intendere la vita che l’accompagna tutta, in una contemplazione comune e, direi, quasi in un muto raccoglimento, che ha molto di religioso. Il termine religioso potrebbe sembrare strano per due personaggi che sono stati interamente laici per tanto tempo, ma non lo è e, non solo perché Cancogni è poi approdato felicemente alla fede, ma soprattutto perché il sentimento della poesia non è affatto distante dal sentimento religioso. Inoltre, in uno scrittore come Cassola, la sua poesia dell’infinito si saldava con l’amore per la verità illuminista e ne determinava la “religiosità” del sentire subliminare.

Infine, un ruolo nella scrittura subliminare ce l’ha anche la memoria. È una memoria, quella dei due scrittori sodali, che, pur nelle differenze, è pronta al richiamo, e finisce sempre per attingere all’infinito. È una comune memoria-scrittore, che potrebbe scrivere tanti romanzi, che raccoglie tante storie, che, quando serve, le riporta davanti intatte, che fa anche dubitare che esista veramente il tempo perché è una memoria ferma, viva, presente, che non ha stagione, in definitiva. È come un’edicola che è sempre lì e ti si apre davanti, con tutto quello che c’è, se vuoi, da leggere.

Ci sono senz’altro molte differenze tra i due scrittori, e, un giorno, qualcuno potrà decidere di rilevarle, da parte mia, ho fatto solo un accenno, perché io qui ho inteso unire solo le cose simili e non le numerose differenze.

Questo in forza del tema da me sollevato e anche perché è indubbio che è sotto il segno del sublimine che sono nate due importanti e diverse biografie letterarie: Cassola e Cancogni.

Capitolo IV

Carlo Cassola - Racconti e romanzi

IV.1 I Meridiani

È uscita, all’inizio del 2007 nei Meridiani della Mondadori, una corposa raccolta antologica degli scritti di Cassola a cura e con un saggio introduttivo di Alba Andreini. Tra racconti e romanzi vengono scelti:

Paura e tristezza, racconto che esce nel 1937 su “Il Meridiano di Roma”, La visita, raccolta di racconti, che esce in volume presso Parenti, Firenze 1942, Le amiche, racconto che esce sulla rivista “Botteghe oscure” nel 1949, Il taglio del bosco che esce su “Paragone” nel dicembre del 1950, Fausto e Anna, romanzo che esce da Einaudi nel 1952, I vecchi compagni, romanzo breve, Einaudi 1953, Rosa Gagliardi, racconto che esce su “Botteghe oscure” nel 1956, La ragazza di Bube, romanzo Einaudi 1960, Un cuore arido, romanzo Einaudi 1961, Il cacciatore, romanzo, Einaudi 1964, Paura e tristezza, romanzo, Einaudi 1970.

La scelta editoriale è chiara e viene anche enunciata in una nota all’edizione:

«Per quanto corposo, un volume dei Meridiani non basta a includere tutte le opere significative di uno scrittore fecondo fino all’eccesso come Carlo Cassola.

È stato perciò necessario, innanzitutto, circoscrivere agli anni dal 1937 al 1970 l’arco cronologico della produzione da cui trascegliere, produzione che a partire dal 1952 è quasi interamente di marchio einaudiano».[66]

È indubbio che i migliori scritti di Cassola siano quelli qui selezionati, ma il problema è che non offrendo nemmeno un breve “assaggio” del Cassola dopo il 1970, si corre il rischio di non chiudere, anche ontologicamente parlando, il personaggio Cassola nella sua interezza. Inoltre, dall’ottimo lavoro della professoressa Alba Andreini, che pure rileva con puntualità la difficile ricerca di stile in Cassola e nel contempo la complessità del personaggio, viene negata una unitarietà, starei per dire una “fedeltà”, di percorso che nasce in Cassola, invece, fin dall’origine della sua scrittura e lo accompagna in tutta la sua difficile ricerca.

«La discontinuità, non la linearità, presiede ostentatamente all’esistenza di Cassola come alla storia dell’intero secolo appena trascorso. E per nessuno quanto per lui la fortuna si è rivelata ancipite.[67]

Oltre che di discontinuità, la curatrice parla anche di antinomia, cioè di una contraddizione insanabile, che, mi pare di capire, sarebbe per lei il vero filo rosso cassoliano.

«Anche letterariamente, l’antinomia contraddistingue il suo cammino». [68]

E continua:

«Su entrambi i fronti della vita civile e letteraria, spesso connessi, la conflittualità si afferma vistosamente come tema natale dell’oroscopo di Cassola e rende dicotomico il suo stesso carattere sviluppandone, a contrasto con la pacata riservatezza di superficie, un sostrato irto e infiammabile che la disintegra a ogni divampare di polemica».[69]

A me pare che la curatrice, nel voler fondere l’uomo con lo scrittore attraverso la categoria della conflittualità, finisca per  cadere in contraddizione, perché se è condivisibile la dicotomia del carattere di Cassola, non è accettabile l’antinomia nella sua scrittura, a meno che i “tradimenti”, che lo scrittore confessa in una lettera a Ferretti del novembre 1962, fossero non necessari al proprio percorso artistico, cioè non servissero per non tradire se stesso, come precisa, invece, lo stesso Cassola a Ferretti e poi confessa a Camon.

«La storia della mia formazione è nient’altro che la storia di un chiarimento all’interno di me stesso».[70]

Quindi, mi pare che la contraddizione in cui cade Alba Andreini stia in questo: mentre, da una parte riconosce decisamente a Cassola una onestà intellettuale e una innocenza mai dismessa e anche afferma che:

 

«la poesia accompagna Cassola come un amore costante e irrinunciabile» [71]

dall’altra negando il filo rosso che lega il prima al dopo nel suo percorso di scrittura, cioè che lega in maniera lineare il sentimento irrinunciabile della  vita che era proprio dello scrittore, e che era, in definitiva, la sua poesia, finisce per affermare un tradimento che è possibile solo con un distacco da quel suo amore costante che è la poesia, distacco che Alba Andreini afferma non esserci stato.

IV. 2. La consolazione del bello?

Infatti, nello spiegare che il nemico cui opporsi su entrambi i piani, sia politico che letterario, è per Cassola l’ideologia (cosa senz’altro condivisibile), usa il termine bello come finalità dell’arte cassoliana; infatti scrive:

 «…a suo avviso, (l’ideologia) allontana dalla realtà la politica, contamina inopportunamente, snaturandone la finalità, l’arte, che deve perseguire la consolazione del bello (corsivo mio)».[72]

E usa il termine “bello” volutamente o non accorgendosi che nello scritto che cita immediatamente dopo (a Ferretti, 15 novembre 1962)  lo scrittore dice diversamente e, infatti, il termine ”bello” non compare:

 «L’arte deve aiutare gli uomini a vivere e ad essere felici. La conoscenza poetica della realtà (poetica e quindi vera) ci mostra come la vita sia un bene inestimabile e quindi ci rende felici (i corsivi sono miei)». [73]

Cassola usa il termine conoscenza poetica della realtà e fra parentesi aggiunge, a mo’ di spiegazione, poetica e quindi vera. Non bella, ma vera. La conoscenza a cui qui si riferisce Cassola non è del bello ma del vero.

Mi sarei, quindi, aspettato che la curatrice si fosse riferita alla ricerca della verità piuttosto che alla consolazione del bello. Anche per la semplice ragione che, mi pare, la consolazione del bello sia abbastanza estranea a tutta la ricerca cassoliana, anche se in passato fu accusato di avere avuto contatti con ambienti flaubertiani toscani ( Romano Bilenchi). Mi pare che la poetica dell’esistenza tragga la sua linfa vitale solo dalla conoscenza della verità del valore infinito della vita.

«Se Giacomo Debenedetti mirabilmente osservò che Tozzi narra in quanto non può spiegare ciò che il naturalismo intendeva spiegare, di Cassola si può dire che narra in quanto non c’è niente da spiegare, ma solo, ricordiamo, da descrivere: la realtà coincide con la verità, e la poesia è il mediatore, il maieuta di tale

equivalenza». [74]

La semplicità di Cassola è complessa proprio perché lavora per dare risalto alla esistenza in nuce, e su questo certamente concorda Alba Andreini che, non a caso, cita  un intervento di Mario Luzi, dove il poeta spiegava che per lui Cassola è uno degli scrittori più difficili che ci siano.

È bene ricordare che Alba Andreini vede giustamente in Cassola uno scrittore né semplice, né lineare:

La semplicità è conquista del rovescio della complicatezza pure sotto il profilo del carattere: introverso e rimuginatore, Cassola era organicamente deputato dall’indole schiva e spigolosa a nutrire rovelli segreti, propenso a imboccare strade scomode e “porte strette. [75]

E inoltre, questo riferimento al “bello” arriva per contrasto alla fine di un percorso ragionato dove Alba Andreini esemplifica molto bene il rovello umano e letterario di Cassola, a partire dal chiarimento che cercava indubbiamente con se stesso fino a quel sofferto dissidio con gli altri, che ne segna in parte anche il cammino letterario.

Ma, tuttavia, la curatrice continua ad individuare il filo rosso cassoliano nella discontinuità e questo la porta ad usare il termine “bello” al posto del termine “verità”.

Io credo che questo avvenga anche perché Alba Andreini mutua da Garboli l’idea di un Cassola scisso nelle sue due anime di scrittore e ideologo, e la ricerca caparbia della “verità” nel Cassola scrittore antimilitarista le si contrappone idealmente alla ricerca del “bello” nel Cassola letterato.

L’uscita dalla storia, per entrare nella visionarietà (corsivo mio) dell’estinzione del mondo, costituisce la nuova forma che prende ora l’engagement di Cassola. Come nelle precedenti svolte, anche in questa partenza lo scrittore ha tutto il suo passato in valigia, scorie comprese: rimescolando ancora una volta le carte dell’archivio di sé con la collaudata tecnica dello spostare al centro quanto risulta momentaneamente relegato ai margini, e senza mai mettere “ una pietra sopra” definitiva, recupera la sorpassata esperienza dell’impegno e riunifica in sintesi, oltre al dualismo storia-natura, le sue due anime di letterato e politico: due orbite per lo più scisse, tra le quali è ritenuta ora più importante la seconda.[76]

Infatti, non  a caso, ritornano le due orbite garboliane e compare anche la visionarietà.

Ma, non c’è visionarietà in Cassola, c’è solo paura della morte collettiva. E che questa possa avvenire è un fatto di cui Cassola è profondamente convinto. Scrittura subliminare e real-utopia sono tempi diversi di uno stesso percorso perché Cassola ha sempre e solo ricercato la verità insita nel sentimento della vita, sia quando questo sentimento doveva narrare, sia quando il suo sentimento doveva predicare perché vedeva la possibilità che questa vita sparisse dalla faccia della terra. È non accettare questo che, mi pare, porti inevitabilmente a un salto nel percorso letterario, a una contraddizione insanabile. Non si tratta qui di definire se quello che è venuto dopo il 1970 valga di più o di meno di quello che è venuto prima, il problema non è questo, perché è ovvio che il prima vale più del dopo. E il problema non è nemmeno se Cassola attinga o meno al suo vecchio e usuale bagaglio letterario, al passato in valigia, per trovare strade nuove perché questo non lo rende diverso da qualsiasi altro scrittore e non sposta i termini del problema. Il fatto è che, non accettando una unitarietà di percorso dello scrittore e dell’ideologo, cioè un Cassola non scisso, il critico è giocoforza costretto a far intervenire, a un certo punto, una forza esterna e estranea a tutto il percorso della scrittura cassoliana. È allora che ciò che si fa intervenire è una “pazzia”, una monomania antimilitarista, che, non a caso, si fa nascere alla presunta fine della sua vena di scrittore e che lo costringe a perdersi in tentativi che vanno in più direzioni senza un disegno che non sia solo la sua caparbietà nel denunciare i rischi della morte collettiva.

IV. 3. La nascita della memoria

Cassola dà voce ai sentimenti, inevitabilmente vaghi e indeterminati, di una umanità che attraversa la vita in paura e tristezza, una umanità che passa  annullata sì dal tempo, ma mentre è anche in sintonia con questo e coglie la sua lunga epifania. Il tempo si impone su tutto nella scrittura di Cassola e nessuno lo ha spiegato meglio di Pampaloni:

In Paura e tristezza noi assistiamo, per forza d’arte, al processo della “nascita della memoria”: fatti figure e immagini di paesaggio vivono nella pagina entro una sorta di eco silenziosa, di misterioso rintocco che si propaga con sottile vibrazione nel tempo; portano con sé uno struggente aldilà terreno, il delicato rinvio a quando non saranno più che larva o ricordo[77].

E il tempo esiste ed esiste infinito perché lo misurano gli uomini e le donne, quell’umanità in itinere che porta con sé lo struggente aldilà terreno. È quell’infinito che misura l’umanità in cammino, quel tempo che resta dopo di Lei e dopo tutti gli altri che verranno poi, quel tempo che è pieno di poesia perché tiene la poesia di tutti.

È quel tempo che la scrittura di Cassola ha cercato di catturare, quel filo esile, quel transito che è di tutti, dove non c’è cronaca (ecco perché non amava fare il giornalista), ma solo il filo dell’esistenza, bella, piena, importante e vera anche e proprio perché priva di grandi avvenimenti. La vita, insomma, delle persone umili, anonime; è quella la vita che Cassola descrive mirabilmente, perché Cassola descrive l’infinito che respira in ogni vita che passa. È lì che abita il suo sublimine, la sua poesia.

L’innocenza e la fedeltà a se stesso, che Alba Andreini riconosce giustamente a Cassola, impone di capirne la scelta conseguente, perché, evidentemente, Cassola, che era andato sempre controcorrente pur di difendere il filo rosso della propria scrittura, non poteva non difendere poi la vita della propria scrittura, convinto com’era che questa sarebbe potuta scomparire definitivamente con la morte collettiva sul pianeta.

Inoltre, mi sembra che la convinzione di avere a che fare con un Cassola scisso in due orbite non comunicanti, non le faccia vedere lo sforzo che lo scrittore invece compie per adeguare la propria scrittura alla nuova realtà, che gli si para di fronte.

Sforzo che, invece, individua molto bene Madrignani in una analisi attenta al sostrato culturale cassoliano.

Per Madrignani:

«Si potrebbe generalizzare e costatare che il caso Cassola fa emergere le ragioni lontane della difficile e mai realizzata modernità in Italia quando il romanzo imperante in tutta Europa non riuscì a diventare “oggetto d’arte” per tutto il Settecento e all’Italia toccò in sorte il suo avvio romanzesco con Manzoni invece che con Prévost o Fielding».[78]

Ora va però detto che Alba Andreini tratta del romanzo delle origini e che nella nota all’Edizione dei Meridiani dichiara di aver scelto di circoscrivere dal 1937 al 1970 l’arco cronologico della produzione cassoliana. Tuttavia, nella stessa nota all’Edizione scrive anche:

«Risultano pertanto esclusi, da un lato, gli esercizi poetici adolescenziali anteriori al 1937; dall’altro, il cospicuo numero di romanzi pubblicati dopo il 1970 da Rizzoli (editore con cui lo scrittore finisce per accasarsi definitivamente, salvo la successiva coda di tipi editoriali minori): opere difficilmente campionabili, oltre che per la discontinuità di resa artistica, per la molteplicità delle direzioni intraprese (corsivo mio).[79]

Da una parte, mentre la curatrice vede nell’ultimo Cassola solo un “rivisitatore” del proprio passato:

«Esauritasi per entropia la quiddità della sua cifra artistica, a Cassola non resterà che imitare se stesso, smarrendo l’originale nell’ennesimo remake delle copie, dove l’autoscarnificazione diventa tautologia o truismo ( per usura delle strade percorse) e la mole quantitativa altera l’unicità nella riproducibilità, sformata dal suo stesso peso».[80]

che corre il rischio di non esistere più in quanto scrittore ma solo in quanto profeta visionario:

 «Sull’orlo della propria eclissi, Cassola intravede quella del mondo: veste i panni del profeta del disarmo e del pacifista, per agitare temi dei quali il futuro riscoprirà l’attualità e il valore. Alla loro causa asservisce come scrittore la propria letteratura con romanzi che vanno ad ingrossare, con esiti artistici controversi, il filone apocalittico del Novecento Italiano». [81]

dall’altra, nella nota all’Edizione, solleva anche il problema della molteplicità delle direzioni intraprese.

L’ultimo Cassola viene, dunque, espunto dai Meridiani, per ragioni editoriali; ma, nel farlo, si precisa anche che si trattava ormai di un Cassola visionario e disorganico, disorientato, sotto lo sforzo di una collera perché inascoltato, un Cassola che non sa più dove dirigersi in scrittura e che si ingolfa per smarrimento nella lotta ideologico-politica.

Molto meritorio è senz’altro, invece, il lavoro svolto riguardo la cronologia e la bibliografia. Riguardo a quest’ultima, e più precisamente riguardo alle interviste, devo, tuttavia, fare presente che alla curatrice è sfuggita un’intervista, certamente solo perché non ne ha trovato traccia, che Cassola dette a Nativa nel febbraio del 1984 e che uscì poi su quella rivista nel maggio dello stesso anno. Anche in quell’intervista, Cassola affermava:

«Non so per gli altri, ma per me l’uomo e lo scrittore hanno sempre fatto tutt’uno»[82].

IV.4   CONCLUSIONI

A me pare che non riconoscere il filo rosso che lega il prima al dopo nella scrittura di Cassola, sia la causa di questa “liquidazione” dell’ultimo Cassola, che si sarebbe potuta evitare e che avrebbe permesso di inserire nella scelta antologica de I Meridiani almeno Il superstite.

Inoltre, è un gran peccato, perché così si vanifica molto dell’ottimo lavoro svolto da Alba Andreini, la quale, a mio parere, ha il solo torto di credere in una discontinuità che non esiste.

Le categorie di antinomia e dicotomia da lei sollevate possono anche essere accettate per l’uomo Cassola, ma assolutamente non riguardano lo scrittore, che ha cercato sempre di chiarirsi con se stesso alla ricerca del proprio libro, della propria verità.

Questo mancato riconoscimento dell’unitarietà di fondo del percorso letterario di Cassola non riconosce inoltre allo scrittore lo sforzo compiuto per esprimersi verso e con una scrittura nuova per un nuovo inizio, dettato stavolta dall’urgenza.

Cassola è uno scrittore esistenziale visivo e la sua scrittura migliore è limpida e scarna, e se vogliamo, anche lirica, malgré lui, perché legge l’esistente alla ricerca di una poesia e di una verità che è del sentimento e non della ragione. Io l’avevo chiamato un illuminista cristiano, ma credo che la formula più giusta sia quella data da Romano Luperini: un illuminista esistenziale.

I suoi personaggi, attraverso la scrittura subliminare, che ha anche l’importante  caratteristica di essere stata unita e parallela a un’altra vicenda letteraria importante, incarnano la sua idea della vita, il suo amore estremo per l’esistenza.

Forse, Cassola può essere anche definito estremista e fanatico, ma il suo estremismo e il suo fanatismo nascono solo dall’amore estremo per la vita e per la vita della sua scrittura.

Il primo Cassola subliminare, il Cassola resistenziale, il secondo Cassola subliminare e l’ultimo Cassola antimilitarista, sono tutti legati da questo amore estremo. Cassola scrittore è, in definitiva, lo spettatore innamorato di uno spettacolo meraviglioso, che è lo spettacolo dell’esistenza e che si pensa eterno. Quando lo spettatore Cassola vede lo spettacolo della possibile fine dell’esistenza, il suo sentimento diventa l’urgenza del predicatore e si alza in piedi a predicare tra il pubblico che, nella grande maggioranza, va detto, non vede, purtroppo per lui, lo stesso spettacolo. È qui, agli occhi degli altri che nasce allora l’estremista e il fanatico.

L’ultima considerazione che vorrei fare è sui “debiti” di Cassola. Molto è stato detto sul “debito” verso il primo Joyce. Personalmente credo che Cassola, senza saperlo, perché tutti questi sono “debiti”, in definitiva, sotterranei, sia più in “debito” verso Lawrence che verso Joyce. Da Joyce, forse, ha tratto molto della sua scrittura essenziale, ma da Lawrence ha tratto la sostanza subliminare del suo paesaggio. È da Lawrence che ha mutuato il rapporto fondamentale città-campagna, che per Cassola ha rappresentato molto, sia nel suo impegno di scrittore che di ideologo. Il rapporto cassoliano centro-periferia nasce da qui e attraversa tutto il suo impegno sia in scrittura che in politica.

E, come ha fatto notare Cancogni,[83] l’influsso di Lawrence su Cassola, anche se, forse, in maniera meno evidente di quella esercitata da Joyce, è stato un influsso decisamente più duraturo, che si è fatto sentire fino agli anni della piena maturità dello scrittore.

«Si è detto mille volte dell’influenza che su lui ebbe Joyce de I dublinesi, ma io mi sento quasi di affermare che quella di Lawrence fu forse più profonda, non del Lawrence mistico della sessualità de L’amante di lady Chatterly, de Il serpente piumato o de La vergine e lo zingaro, ma del Lawrence di Figli e amanti autobiograficamente legato all’esperienza dell’adolescenza e della prima giovinezza».

Capitolo V

L’ultimo Cassola: la grandezza di un testimone

« Il compito della poesia è di darci il senso della vita».[84]

V.1  Cassola “politico” antimilitarista

Mi è parso, in fondo, il titolo più congeniale, anche se è un titolo lievemente forzato, che va forse stretto al “rivoluzionario disarmista” Cassola; un titolo, quindi, necessariamente approssimativo. In realtà, ho sempre pensato che più che una vis politica in Cassola esistesse una vis prepolitica. Inoltre, Cassola, ha poco del politico per come è comunemente inteso. Tuttavia Cassola ha fatto sua con tanta forza la causa antimilitarista, che sarei tentato di dire che l'ha come inventata di nuovo. E poi perché Cassola era uno scrittore e contava sulla capacità creativa, che quasi sempre tira dritto e manca dell'astuzia e del tatto del politico. Inoltre era anche modesto, nel senso che in parte era alieno da ambizione sterile o vanità, ma tendeva anche a rimettersi spesso al giudizio di chi stimava a lui superiore. In politica, per esempio, per tutto un periodo, fu, per sua ammissione, rinunciatario:

« ... mi trovai in contrasto con Codignola, ma non mi opposi mai a lui».[85]

Nel 1952, Cassola costituì il raggruppamento di “Giustizia e Libertà”, con l'intento di raccogliere gli azionisti che, dopo lo scioglimento del partito d'azione, non si erano iscritti ad altri partiti e quello di far fallire la cosiddetta” Legge truffa” che era stata varata nell' autunno '52 dai partiti al governo.

In questa iniziativa fu aiutato da Aldo Capitini, il quale gli organizzò la prima riunione a Pisa. Quando un gruppo di socialdemocratici e di repubblicani uscì dai rispettivi partiti per reazione alla “Legge-truffa”, fu costituito un unico movimento che prese il nome di Unità Popolare. In quell'occasione Cassola ebbe quello che, poi, lui stesso definì un comportamento politico rinunciatario.

Tristano Codignola divenne il capo di “Unità Popolare”. Cassola lo seguì sempre senza interferire anche quando, per sua ammissione, non ne condivideva molto le scelte. Perché ricordo questo? Perché si lega con lo sbocco antimilitarista di Cassola. Quello che voglio dire è che Cassola si sentì sempre un politico di complemento per quella sua modestia o insicurezza che dicevo e che gli faceva dire:

«Ma io sono solo un ragazzo, non ho esperienza sufficiente. Vuoi mettere con chi è stato in galera o al confino o in esilio? lo sono stato solo partigiano ...» .[86]

Tuttavia Cassola si gettava con passione nelle cose in cui credeva. Fu così  che, per sua affermazione, convinse Parri e Carlo Levi ad aderire a Unità Popolare. E fu anche, forse, la stessa passione, che lo faceva muovere con generosa irruenza, che non riuscì a convincere allora Pannunzio ad aderire ad Unità Popolare, o, forse, più semplicemente, Pannunzio aveva già fatto la sua scelta. Comunque, nessuno può negare che Cassola non mettesse passione nelle cose che faceva.

In Cassola, come lui stesso riconoscerà, l'impulso creativo che lo portava a scrivere era lo stesso che lo portava ad occuparsi di politica. Solo che per molto tempo, questo suo sentirsi” insicuro”, ad altri inferiore sul terreno della politica, lo aveva portato a scegliere la scrittura delegando ad altri la politica. Il politico stava, come dire, in seconda fila. Questo fino a quando Cassola è come folgorato sulla via di Damasco; vede, in buona sostanza, la casa comune che brucia. Scopre, cioè, il baratro su cui siamo seduti, e il fatto che altri non lo veda lo rende forzatamente, direi per necessità delle cose, testimone e protagonista. Ecco che sparisce ogni modestia politica e l'uomo Cassola può anche, allora, essere apparso a taluni irritante e monocorde. Ma, Cassola non fa altro che dire la verità che vede, non insegue altro che la sua creatività, come ha sempre fatto, e quell'immaginazione che è propria dello scrittore, ma dovrebbe anche essere utile alla politica. Per questo amava del '68 “l'immaginazione al potere”. La verità scoperta, cioè la possibilità che una guerra atomica distrugga la vita sul pianeta, porta, dunque, il politico in prima fila. Ma è, necessariamente, un politico diverso, perché agisce attraverso i sentimenti radicati nello scrittore e sempre prevalenti.

V.2   La lotta per la pace in continuità della Resistenza

È così che la verità che Cassola ci viene a dire è impastata di urgenza e di creatività. Cassola voleva che fosse la letteratura, e in senso più lato, la cultura, a dettare legge alla politica. E qui va notato che è proprio in questo indirizzo etico, su cui deve fondarsi l’agire politico, che è l’essenza del disarmo unilaterale.

Inoltre per Cassola l’impegno per il disarmo unilaterale è un impegno-continuità con il progresso della ragione illuminista e con la Resistenza.

«Abbiamo dunque appurato che la lotta per la pace, cioè la lotta contro il militarismo nostrano, s’innesta sul passato antifascista e lo continua. S’innesta più in generale sul moto del progresso che si è manifestato per la prima volta nel Settecento»[87].

Tuttavia, Cassola era convinto che gli intellettuali italiani non avessero le carte in regola, malati di conformismo, incapaci quindi di rimettere in discussione le scelte fatte avendo, da tempo, rinunciato ad una propria autonomia di pensiero. Tuttavia è a questi intellettuali che Cassola si rivolge. E si scontra contro un muro di NO.

«Bé, dirà qualcuno, cosa pretendeva costui, che in omaggio alla sua fama di romanziere venisse preso sul serio anche come politico?».[88]

Sono parole di Cassola e fanno pensare. Credo che Cassola, tutto sommato, si potesse aspettare dagli scrittori (anche se poi continuò sempre a sperare nel contrario) un largo diniego alle sue proposte di disarmo unilaterale e volesse, piuttosto, cercare di richiamare la cultura all'ordine della sua funzione.

lo non so se un politico completo nell'accezione del termine, non so come dire, più tradizionale, più avveduto, sarebbe riuscito dove Cassola non ce l'ha fatta: cioè nel dare più potere immediato al “civile”, alla parte debole della società militarista. So solo che è una domanda che non esiste. Questo politico non c'è stato. Per questo mi sento di dire che Cassola è stato un buon politico, come lo è stato Capitini. Del resto chi guarda lontano spesso racconta cose che non vengono subito intese. E per quanto semini, spesso, non trova il tempo di raccogliere, anzi, credo che sappia che non vedrà il tempo della raccolta.

Chi sa che l'urgenza della politica antimilitarista di Cassola, al di là della verità politica di questa urgenza, non si leghi anche a questo? Al fatto di avvertire di aver capito tutto troppo tardi: quando sentiva dentro di sé che ormai il pianeta si avvicinava con lui verso la fine? E, poiché Cassola identificava la fine della vita della sua scrittura solo con la fine della vita sul pianeta, la difesa dell'una si imponeva in difesa dell'altra, e l'urgenza è allora in Cassola, più che una qualità, un sentimento, che impasta l'unica alternativa strategica alla fine di tutto: il disarmo unilaterale.

V.3 L’impegno per Cassola

Ricordo un numero di Allegoria dedicato a Fortini, dove Leonetti, in un suo intervento, ci dice che Fortini arriva a contrapporre la funzione dell'intellettuale al ruolo dell'intellettuale.

«Afferma insostituibile la funzione intellettuale di approfondimento specifico e di precisione professionale - nell'atto stesso in cui si nega il ruolo dei portatori specializzati di questa funzione, ossia degli intellettuali».[89]

Leonetti ci ricordava che Fortini chiedeva il suicidio degli intellettuali, per divenire eguali tra gli eguali, purché, al momento, ne venisse esaltata la funzione, che tendeva a far emergere la precisione nella verità e l'approfondimento di questa. Perché cito questo? Perché ho già ricordato qui un intervento di Fortini, in un convegno che si tenne a Firenze nell'aprile del 1987, a poco più di due mesi dalla morte di Cassola, dove Fortini accusava Cassola di semplificazione antintellettualistica e affermava di non accettare di Cassola la sua idea centrale, cioè che la vita fosse un valore di per sé stessa. La posizione antintellettualistica di Cassola significava dunque mettere tra parentesi tutto ciò che non fosse la pura e semplice difesa della vita. Cassola (come ebbe a dire padre Balducci nello stesso Convegno di Firenze del 1987) prendeva le distanze dalle identità ideologiche non per qualunquismo riduttivo, ma per sorpassamento. Io credo che l'elemento che rendeva Cassola più sganciato dalle ideologie di quanto non lo fosse Fortini è un bisogno forte di concretezza, che Cassola si era sempre portato dentro. Una concretezza che in qualche modo, se vogliamo, era anche il frutto del ritardo di cui veniva accusato, che era poi il modo cassoliano d'intendere la vita come presenza dell'esistenza nel quotidiano.

È l'infinito del moto continuo dell'esistenza che mette in secondo piano l'ideologia, che rende tutto, in definitiva, secondario che non sia l'avvento perenne dell'esistenza in forma concreta di vita. Ricordo che per Cassola la credibilità di un personaggio e della vicenda narrativa è il dato essenziale del lavoro di uno scrittore. La necessità che la rappresentazione sia persuasiva abitua, direi allena, lo scrittore nella rappresentazione della realtà e finisce così per ancorarlo alle cose concrete. Cassola era, quindi, uno scrittore visivo abituato a partire dai fatti. Per questo Cassola era contrario ad ogni forzatura della rappresentazione verso una qualsiasi tesi. A proposito di Uomini e no di Elio Vittorini osserverà che quel romanzo parlava di partigiani in un modo assolutamente inverosimile.

A suo tempo, Cassola aveva partecipato (ed era anche stato bersaglio di polemiche), a una querelle sull'impegno, cioè sulla funzione e il ruolo dell'intellettuale. Ciò che mi pare che non sia stato ancora sufficientemente rilevato è che Cassola, per il suo precipuo sentire di scrittore, aveva da sempre cercato un impegno reale, non ideologico. In questo senso poteva affermare:

«La cattiva letteratura nasce dai libri; la buona letteratura nasce dalla vita». [90]

Di fronte ad un mondo che vedeva ora condannato  all'autodistruzione, l'intellettuale, per Cassola, non poteva che assumere il ruolo che la propria funzione indicava, anzi, determinava. È prima che di fronte ad impegni ideologici e partitici, e quindi secondari, lo scrittore doveva rimanere scrittore.

«È allora che in letteratura la politica è fuori posto: Arte e propaganda politica sono inconciliabili ...»[91]

Ma non certo ora che è in discussione la vita sul pianeta. Ecco che funzione e ruolo non possono essere che una cosa sola e obbedire solo alla verità. E l'intellettuale non può allora che suggerire un intervento politico in difesa della vita minacciata.

«Un intellettuale deve vedere ciò che gli altri non vedono, a costo di attirarsi l’accusa di presunzione».[92]

E il coraggio di essere uomini di cultura metteva in conto la possibilità della solitudine. L'intellettuale che obbedisce solo alla propria coscienza era per Cassola una specie quasi estinta. Prevaleva su tutto l'intellettuale impegnato a servire il potere, immerso e integrato nella cecità presente, l'intellettuale che Cassola chiamava organico ad un establishment d'imbecilli.[93]

Del resto cosa è cambiato in questi ultimi venticinque anni? Sotto questo aspetto poco o niente. Dopo il disastro di Chernobyl e quello recente del Giappone, dopo la caduta del muro di Berlino e più di dieci anni di guerra “preventiva” al terrorismo, invece di lavorare per quell'internazionalismo necessario a mettere mano, non dico ad un risanamento, ma almeno a creare le condizioni minime che garantissero la continuità della vita sul pianeta, si è assistito al fiorire dei nazionalismi, più o meno pilotati e invece del disarmo si è avuto un ampio ammodernamento delle tecnologie distruttive. Sul fronte del terrorismo poi si è fatto fuori solo Osama bil Laden, ma non certo il terrorismo, e tanto meno si è messo mano ad un avvio di sanatoria delle cause che lo determinano, e, da più parti, si insiste, ancora oggi, nel parlare di nucleare pulito. Si continua, quindi, a non tener conto dei fatti, con quella logica idealista storicista crociana, che Cassola denunciava perniciosa, si torna a ragionare esattamente come negli anni Cinquanta, quando l'energia nucleare veniva presentata come “economica, pulita e sicura”. Caratteristiche completamente disattese perché false e il pericolo che corriamo oggi è sotto gli occhi di tutti. Inoltre l'ampia diffusione delle centrali nucleari sul pianeta rende tutto più preoccupante. Nessuno sa realmente oggi cosa fare per chiudere le vecchie centrali nella dovuta sicurezza e dove poi mettere le loro scorie radioattive. Per non parlare del nucleare militare e dei traffici che determina. Ricordo che bastano da 5 a 10 chilogrammi di plutonio per costruire una bomba atomica e poiché un reattore nucleare da 1000 megawatt produce un paio di quintali di plutonio l'anno, basta che uno stato possieda un solo reattore ed è teoricamente in grado di costruire qualche decina di bombe atomiche all'anno. Così, in caso di conflitto mondiale, il pianeta rischia di saltare in aria. Ma anche augurandoci che il conflitto mondiale non avvenga mai, e che il nucleare abbia solo una funzione di deterrenza, l'altro rischio che permane è quello che il pianeta muoia lentamente avvelenato, perché va detto che il disastro di Chernobyl fa il paio con quello recente giapponese, per non parlare delle esplosioni nucleari sperimentali che si fecero nell'atmosfera prima del 1963, e che la Francia poi cocciutamente realizzò fino a non tanti anni fa. A causa di tutto questo, esiste ormai sul pianeta un livello di inquinamento radioattivo che produce effetti dannosi per la salute dell'intera umanità presente e futura. Questi sono i fatti e dovrebbero bastare.

Purtroppo, non è così.

«Oggi il sonno della ragione di cui bisogna avere maggiormente paura è che la gente non si accorge dell'approssimarsi della fine del mondo; o crede che non ci si possa far niente».[94]

Cassola credeva in questo come credeva che bisognasse evitarla a qualsiasi costo. Al di là dei modi, della qualità cassoliana dell'approccio al problema, il problema rimane. Ed il problema di oggi degli antimilitaristi, è il problema, ancora scansato, della necessità della pace.

V. 4    La strategia del disarmo unilaterale e i punti di contatto di Cassola con la nonviolenza

Ma veniamo allo specifico della lotta politica cassoliana: il disarmo unilaterale.

Nell' estate del 1976, 34 uomini di cultura francesi lanciano un appello per il Disarmo Unilaterale della Francia. Tra i firmatari c'è il fisico, premio Nobel, Alfred Kastler e l'attore-cantante Yves Montand. In Italia la notizia non viene pubblicata. Cassola ne viene a conoscenza alcuni mesi dopo e subito pensa di rilanciarla in Italia. Cassola sa che proponendo il Disarmo Unilaterale dell'Italia non propone una riforma, ma una rivoluzione, quella che più tardi chiamerà la rivoluzione disarmista.

«Il nuovo è la rivoluzione. Ed è facile capire perché: l'intelligenza non fa mai le cose a mezzo. Quando si applica all'esame del problema politico, pretende di risolverlo in via definitiva».[95]

Cassola voleva che si capisse una cosa in via definitiva: se non si salva la vita sul pianeta non ha senso discutere di altro, cioè di libertà e di giustizia sociale.

Qualche anno fa, la rivista del Movimento Nonviolento Azione Nonviolenta ha incluso Cassola nella rubrica “Profili” tra i servitori della nonviolenza. Anche se trovo questo, in definitiva, giusto (soprattutto se si pensa che per Cassola morale e politica non sono mai state in antitesi); tuttavia, devo precisare, che Cassola non è un nonviolento nell'accezione comune del termine.

Cassola non mi pare avesse mai sentito il bisogno di scegliere tra violenza e nonviolenza, ma bensì, tra il disarmo e la fine dell'umanità. Perché Cassola considerava l' antimilitarismo un fine e non un mezzo. Vedeva, cioè, nel militarismo la struttura portante della società. E se si voleva cambiare, ma, soprattutto se si voleva salvarsi, bisognava abbatterlo.

«Il militarismo, sia rosso o sia nero, sia democratico o sia fascista, è sempre un male e un pericolo. Per cui l'umanità potrà fare un passo avanti solo sbarazzandosene: non cambiandogli nome».[96]

Se per Capitini la nonviolenza era il punto della tensione più profonda ed era tesa al sovvertimento di una società inadeguata, per Cassola questa funzione la svolgeva il disarmo unilaterale, che era il punto di rottura e al tempo stesso il punto più alto della coscienza di un popolo.

Nei confronti della nonviolenza metteva sempre un distinguo, come se lui intendesse ricordare che veniva da un'altra strada. Credo che lo facesse perché la Lega per il Disarmo Unilaterale potesse essere considerata sempre una “casa per tutti”, dove i nonviolenti potessero convivere con coloro che non intendevano abbracciare nella sua totalità le ragioni della nonviolenza, ma credo anche che Cassola non si sentisse affatto nonviolento. Perché ricordo questo? In onore dell'onestà intellettuale, che era propria di Cassola e che tutti noi gli dobbiamo riconoscere, e di quell'obbedire solo alla propria coscienza che 1'accomuna a Capitini. Bene, è in nome di questo che mi sembra giusto che si presti attenzione a non assegnare troppo a Cassola di quello che non era di Cassola. Per Cassola, inoltre, come già accennato, il problema era anche legato all'urgenza. Ora è vero che l'urgenza non va confusa con la fretta o con qualcosa di necessariamente violento, ma è comunque un modo di sentire che non accompagna tradizionalmente la nonviolenza, perché questa si basa sulla trasformazione delle coscienze. E le coscienze si trasformano in tempi necessariamente lunghi. Questo sentimento del tempo lungo (che, per altro, è un ingrediente di fondo della scrittura cassoliana), questo seminare mille perché uno nasca, pur nella sua positività, finisce spesso in alcuni per “istigare” alla calma, o peggio, per fissare tutto nella logica della testimonianza privata, che sta, a volte, da un' altra parte rispetto alla politica, e che finisce spesso per svilire l'azione. Ancora oggi, mi sento di dire che non sono pochi coloro che, nell’area nonviolenta, pensano ancora alla testimonianza come all’unica azione possibile, cioè che pensano che fuori della testimonianza non ci sia altro che un vuoto affannarsi senza risultato e, quindi, senza senso.

Per Cassola, invece, bisognava svegliarsi e darsi da fare subito, e con il sentimento dell'urgenza, se si voleva salvare il mondo. Non si poteva aspettare troppo che le cose cambiassero dentro ognuno di noi, perché non ce ne sarebbe stato il tempo.

«Se il popolo sapesse che il militarismo ci condanna tutti quanti a morte a breve scadenza e nel frattempo condanna la maggior parte di noi alla miseria, non ne tollererebbe più la presenza». [97]

Semmai, la nonviolenza in Cassola la individuerei nel fatto che credeva molto nella forza della verità, e il suo cruccio rimase sempre quello di non aver potuto diffonderla più di tanto. Inoltre, per Cassola la causa del progresso e della sopravvivenza si identificavano.

«Così il disarmo è il solo modo razionale di provvedere alla nostra sicurezza, ammesso che sia un problema (mentre non lo è). È un problema sempre più urgente la sicurezza del mondo, di cui nessuno si preoccupa».[98]

Questo lo portava a concepire naturalmente uno sviluppo “dolce” (che cos'altro era il disarmo unilaterale se non questo?) che non potesse mettere in alcun modo a rischio la vita sul pianeta. Mentre ciò è inevitabile in un mondo del profitto a tutti i costi, dove la violenza è la legge che regola quello che viene chiamato sviluppo e progresso e ogni persona, ogni gruppo umano per vivere, o meglio per sopravvivere, deve combattere contro tutti gli altri e contro la natura. È in questa corsa suicida, dove tutto ciò che viene realizzato, per quanto folle esso sia, diventa razionale, etico. Così è etico produrre e vendere armi, non diversamente che da produrre scarpe o insalata. È lavoro anche questo e va difeso, senza nemmeno tanta riflessione, senza perderci tempo sopra.

È contro tutto questo che Cassola vedeva nel disarmo unilaterale l'unico passo possibile, decisivo per l'avvio di una società ecopacifista, che ci portasse finalmente fuori dalla miseria e dalla paura. Inoltre era internazionalista, per un mondo senza frontiere:

«Ahimé, il nazionalismo non può assicurare la pace - per la contraddizione che nol consente. I casi infatti sono due: o si è patriottici, quindi internazionalisti, quindi cittadini del mondo, e in tal caso si può operare per la pace; o si è nazionalisti, e in tal caso si può operare solo per la guerra». [99]

E sognava una realtà che sapeva possibile:

«Al disarmo generale potrà arrivarci solo quel popolo che abbia avuto l’intelligenza e il coraggio di disarmare per primo: dando l’esempio più luminoso della storia.

Da patriota italiano, mi auguro che sia il mio popolo a dare il buon esempio al mondo».[100]

Ma Cassola, dicevo, veniva da un'altra parte e non faceva sempre sua la strada della nonviolenza, perché era anche pronto al “tanto peggio, tanto meglio” e, inoltre, voleva salvare la vita sul pianeta a “qualsiasi costo”, perché sosteneva che le cose, dal punto di vista della pace, non potevano andare peggio di come andavano. Cassola era estremista e andava al sodo del problema e domandava:

«L'Italia è armata, si o no? E allora è responsabile anch'essa della tensione internazionale».[101]

E ancora:

«Oggi veniamo invitati a tener su questo stato di cose. Rispondo: rendete inoperante l'art. 52 e attuate di fatto il disarmo unilaterale, e sarò con voi. Prima no». [102]

Inoltre, la nonviolenza non è solo uno strumento di lotta politica, è già un modo completo di intendere la vita: è una maniera di essere a fianco della verità, è una rivoluzione permanente che deve convincere e che è necessario costruire anche assieme all’avversario. Cassola sentiva, invece, di dover liberare urgentemente il mondo dal militarismo e non sentiva il bisogno di avere niente di pronto nel senso della nonviolenza. Spesso avevano accusato il suo disarmo unilaterale di essere manchevole, perché non indicava che tipo di vita, che qualità della vita avremmo dovuto lasciare ai nostri figli. E lui rispondeva sempre che il discorso sulla qualità della vita veniva dopo, dopo che avevamo salvato e messo al sicuro la vita.

Questo e solo questo era quello che dovevamo fare perché qualsiasi tipo di vita era sempre meglio dell'assenza di vita.

Tuttavia, il problema di uscire dal potere militare lo avvicinava alla nonviolenza, che poneva il problema del potere in una sintesi di potere dal basso di tutti nella nonviolenza. Per eliminare il militare, anche Cassola desiderava un potere insieme con tanti altri e, in definitiva, con tutta la popolazione mondiale, Era così che la rivoluzione disarmista, la sua real-utopia, si avvicinava alla nonviolenza: nell’opporsi alla violenza militare di pochi eserciti o Stati con la richiesta di disarmo che sarebbe dovuta provenire dal basso dalla maggioranza della popolazione del pianeta.

In questo Cassola aveva una coscienza rivoluzionaria come l’aveva Gandhi che scriveva:

«Odio il privilegio e il monopolio. Tutto ciò che non si può dividere con le masse è tabù per me. Nella società i ricchi non possono accumulare ricchezza senza la collaborazione dei poveri. Se questa consapevolezza penetrasse e si diffondesse tra i poveri, essi diventerebbero forti e imparerebbero a liberarsi con la nonviolenza dalle schiaccianti ineguaglianze che li hanno portati al limite della fame. Spogliato di ogni mimetizzazione, lo sfruttamento delle masse in Europa è sorretto dalla violenza…Mi sembra perciò che prima o poi le masse europee dovranno ricorrere alla nonviolenza, se vogliono ottenere la liberazione».[103]

Cassola sapeva che dalla pace si può poi risalire alla libertà e alla giustizia, mentre fuori della pace non si può fare niente. Non ha forse dimostrato questo quello che è successo nella ex-Jugoslavia? E quello che sta succedendo in tante disgraziate parti del nostro pianeta, oggi che la guerra, con un notevole passo indietro rispetto a Clausewitz, non è più uno strumento di continuazione della politica, ma la politica tout court? Il disarmo, con il suo gesto unilaterale, che è anche un modo di pensare e di essere, di rapportarsi, era la nonviolenza di Cassola, quella in cui il “politico” si riconosceva completamente ed era tutt'uno con lo scrittore. Entrambi difendevano fino in fondo la semplice esistenza.

Ma Cassola sapeva anche che la pace non si può costruire con un semplice aggiustamento dell'esistente. Non a caso in un suo “saggio” che s'intitola La rivoluzione disarmista scrive:

«L'utopia può diventare realtà solo mediante la rivoluzione. Un'evoluzione graduale e pacifica è impensabile: come può il male evolvere verso il bene?».[104]

E qui torna di nuovo un distinguo rispetto all'ideologia nonviolenta, perché appare la possibilità della violenza per salvare il mondo. E si unisce all'urgenza, di cui dicevo, ancora come distinguo rispetto ai percorsi ortodossi nonviolenti:

«Sono queste vecchie, stupide e malvage istituzioni che ci portano alla rovina. Dobbiamo distruggerle prima che sia troppo tardi. Non bisogna distruggerle gradualmente (non ne avremmo il tempo) ma tutte d'un colpo. Occorre un taglio netto col passato. Questo taglio netto è appunto ciò che chiamiamo rivoluzione».[105]

V.5     La LDU

La Lega per il Disarmo Unilaterale (LDU) nasce nel 1979 dalla fusione della Lega per il disarmo dell’Italia[106] e la Lega socialista per il disarmo, di matrice radicale.[107]

Pur avendo un “prima” e un “dopo”, la storia della LDU è inevitabilmente legata alla storia del suo presidente. Va detto subito che la vera LDU è, certamente, la “prima”, quella che vede Cassola presidente. Gli aderenti alla LDU provengono da aree politiche diverse, dall’area radicale, dall’area verde e nonviolenta, dall’area azionista-socialista, dall’area anarchica fino a certa sinistra laica e minoritaria e fino all’area cattolica. Per quest’ultima, basti pensare, per fare solo due nomi, alle adesioni di padre Balducci e di Don Sirio Politi. Questa “prima” LDU è un’organizzazione convinta che non esista alternativa al disarmo unilaterale ed è, quindi, tutta orientata a convincere di questo, in tempi brevi, le istituzioni ed i potenti della terra. L'uscita dal militare è vista attraverso un taglio netto, senza la ricerca di strade intermedie. Non è previsto nessun transarmo; anzi, ogni indugio sulla strada maestra è una iattura che farà solo perdere il breve e prezioso tempo rimasto.

Questa è, in sintesi, sicuramente l'impostazione della prima LDU, ma, va, tuttavia, anche detto, che, nel 1982, Cassola fonda con altri la Campagna Nazionale di Obiezione alle Spese Militari (OSM), che aveva in definitiva, già allora, un obbiettivo gradualistico, che era quello di ridurre le spese militari nel nostro paese. Questa scelta è degna di rilievo per due ordini di motivi:

1)      perché evidenzia che, a fianco della scelta netta e rivoluzionaria del disarmo unilaterale, si unisce, a partire dal 1982, una strada gradualistica, che, del resto, era già stata ipotizzata dal manifesto Einstein-Russel del 1955, che chiedeva all'umanità di abolire le armi nucleari, e, per farlo, non si sarebbe potuto, ovviamente, allora come ora, che invertire la corsa agli armamenti;

2)      perché la Campagna OSM, andando avanti negli anni, ha poi finito per proporre un progetto costruttivo in favore di una Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta (DCNAN) che chiede una modifica strutturale dell'istituzione difesa, in alternativa al militare.

Quindi, anche nella “prima” LDU, a fianco della proposta trancheant del disarmo unilaterale che chiede esclusivamente l’abolizione degli eserciti, almeno a partire dal 1982, sono già presenti alcuni dei temi portanti dell'attuale dibattito, che lavora alla costruzione di proposte alternative di difesa civile per l’uscita dal militare, e che attraversa i movimenti nonviolenti e, più in generale, l’area pacifista e antimilitarista.

Va detto che, nel 1982, Cassola prende questa via sostanzialmente perché ogni iniziativa che potesse andare contro il militare, e contro i danni che questo faceva al paese, era la benvenuta, e non certo perché intraveda la possibilità di un percorso gradualistico, che non avrebbe accettato. E non l’avrebbe accettato perché, per lui illuminista convinto. l’intelligenza era il solo motore del progresso e l’intelligenza non faceva le cose a metà: era rivoluzionaria. Va detto che per Cassola la rivoluzione non era una possibilità tra le altre, ma una scelta obbligata e l’unica etica. L’unica scelta etica perché solo la scelta rivoluzionaria del disarmo unilaterale avrebbe salvato la vita sul pianeta. La sola gradualità e la lentezza di un progetto antimilitarista sarebbero bastate a squalificare ai suoi occhi il progetto stesso. Un progetto gradualista era per Cassola il progetto dello struzzo. Di fronte alla possibilità della fine del mondo, Cassola non sopportava che si fosse attendisti, che si stesse tutti con le mani in mano; bisognava invece svegliarsi e darsi da fare. Inoltre Cassola pensava che le rivoluzioni le possono fare solo i sognatori, i poeti, e che le rivoluzioni non possono essere che internazionaliste, perché l’internazionalismo che affratella i popoli è contro il militarismo e contro la divisone del mondo in stati sovrani. Per queste ragioni il suo messaggio saltava i politici e si rivolgeva agli intellettuali (nei quali non credeva) ma soprattutto si rivolgeva a ognuno di noi. Se c’è una ragione più sentita, oltre l’avversione al militare, forse è qui quella che porta Cassola a partecipare alla fondazione della Campagna Nazionale di Obiezione alle Spese Militari (OSM): il fare appello a tutti per un gesto concreto contro il militare a partire semplicemente da noi e senza aspettare altro. Inoltre il fare appello a ognuno di noi si sposava con la richiesta che Cassola aveva fatta propria del cambio del punto di vista. E qui va notato che c’è un sicuro aggancio con il progetto costruttivo che verrà molto dopo. Il cambio del punto di vista da parte di Cassola che vedeva ora, per colpa del militare la fine certa dell’umanità, portava e portò, infatti, a cercare altra sicurezza. Se è vero che l’uscita dal militare, cioè il disarmo unilaterale, era per Cassola “l’unica sicurezza”, è anche vero che “l’altra sicurezza”: il transarmo, ha lo stesso punto di partenza. L’attuale ricerca degli amici della nonviolenza, di chi vuole costruire veramente la pace sul pianeta, è partita, infatti, dalla considerazione che non c’è e non ci sarà mai sicurezza attraverso l’uso della violenza, e, che, se non si aprirà una strada concreta alla difesa civile nonviolenta uscendo dal militare, non metteremo mai fine alla tragedia della guerra.

V.5.1 La seconda LDU

Cassola muore a fine gennaio del 1987, alle soglie di avvenimenti epocali e lascia una LDU ridotta ai minimi termini, ma ancora proprietaria di un messaggio forte.

Chi scrive ha fatto parte della LDU per parecchi anni, prima e dopo la morte di Cassola, ed ha partecipato sempre alla direzione della “seconda” LDU.

Dopo il crollo del muro di Berlino e la fine del bipolarismo, erano cambiati molti degli scenari dei possibili conflitti.

L’ONU aveva inteso darsi, nel 1992, con l’Agenda per la Pace del suo segretario B.B. Ghali, una nuova, possibile e necessaria, capacità di  intervento.

Il tentativo sembrava, allora, quello di coinvolgere i civili nella risoluzione dei conflitti e di convincere i governi a dare una parte dei loro bilanci della Difesa e dei loro eserciti all’ONU, in maniera che l’ONU avesse, finalmente, una capacità operativa autonoma per mantenere la pace nel mondo.

Anche se le cose, fino ad oggi, sono andate diversamente, con l’Agenda per la Pace si misero le premesse culturali e politiche per l’inizio di una uscita dal militare.

Due anni prima, nel 1990, c’era stata l’iniziativa dei Volontari di Pace in Medioriente,[108] che vedeva, per la prima volta, un intervento di opposizione alla guerra in zona di possibile conflitto, da parte dei pacifisti nonviolenti e non, come una proposta di opposizione totale alla guerra e di una nuova e costruttiva iniziativa pacifista. L’iniziativa partiva praticamente, dalla sola LDU, appoggiata, anche se solo molto parzialmente, dalla Campagna Nazionale OSM, tramite un suo organismo: la Segreteria Scientifica per la Difesa Popolare Nonviolenta e coinvolse persone che sentivano fortemente il bisogno di difendere in maniera nonviolenta ogni individuo oppresso e ferito dalla guerra ovunque si trovasse. Quell’iniziativa fu espressa dal  sentimento dilatato della necessità della pace come solidarietà con tutti, che era proprio del sentimento cassoliano della ripulsione unilaterale della guerra e del militarismo. Stavolta non erano i militari, ma una parte, seppur piccola, della società civile che interveniva unilateralmente per fermare la guerra. E fu questo messaggio che entrò nell’Agenda per la pace di B.B. Ghali due anni dopo.

L’intervento civile in Iraq nel 1990 dette la stura ad una serie di iniziative che si realizzarono da prima in Bosnia e Kossovo e poi un po’ ovunque sul nostro pianeta.

Queste iniziative portarono all’ordine del giorno, in primis, per i movimenti nonviolenti e poi per tutto il movimento per la pace, il tema del progetto costruttivo per uscire dal militare. Dalla proposta di Cassola del disarmo unilaterale ci si avvicinava velocemente al transarmo e questo grazie anche al contributo antimilitarista cassoliano che si era travasato nei nuovi aderenti alla LDU e si era trasformato con il formarsi di nuovi eventi e all’apparire di nuovi scenari. Va detto che questo sentimento della necessità dell’uscita dal militare avveniva non solo in Italia, ma in tutta Europa e nel resto del pianeta.

A Nuova Delhi nel 2002 fu fondata una Associazione Internazionale (Nonviolent Peace Force) di matrice anglosassone, con l’obiettivo di realizzare i Corpi Civili di Pace (volontari preparati ad intervenire con modalità nonviolenta nelle zone di conflitto), a cui aderirono da subito almeno due associazioni italiane impegnate su queste tematiche.

Dunque, se è vero che Cassola non avrebbe certamente mai accettato la strada del transarmo, è anche vero che, grazie all’eredità del suo pensiero del “gesto concreto”, eredità sopravvissuta nella seconda LDU, fu aperta una strada che ha finito per contribuire a traghettare la proposta ultimativa del disarmo unilaterale alla progettualità graduale del transarmo. La singolarità è che questo è avvenuto grazie a Cassola e malgré lui.

V.5.2. Risultati ottenuti dal movimento dei costruttori di pace

Io credo che un po', forse, è grazie anche a tutto questo lavoro svolto se il 17 maggio 1995, il Parlamento Europeo, nella sessione plenaria a Strasburgo, adottò il rapporto “Bourlanges- Martin”, che mirava a costruire delle forze civili di pace (i caschi bianchi). Quella decisione fu molto importante, perché per la prima volta  il Parlamento Europeo riconosceva necessario e possibile il ruolo della società civile per controbilanciare il militarismo e le guerre sul nostro pianeta. Su questa strada poi non si è andati avanti, ma rientra nella vecchia logica delle cose che vede i governi ancora incapaci di uscire dai percorsi della guerra e incapaci, quindi, di darsi strumenti operativi di difesa nonviolenta per fare una politica estera di pace.

Oggi, a tanti anni di distanza dalla sua prima formulazione, troviamo ancora la presenza della proposta del disarmo unilaterale nei tre obiettivi della Campagna OSM-DPN 2011 che sono:


1- la riduzione delle spese militari (comprese quelle facenti parte del "ciclo atomico"), per la loro conversione in spese civili e sociali;


2- il cambiamento progressivo del modello di difesa attuale in un modello difensivo nonarmato e nonviolento;


3- il riconoscimento giuridico dell'opzione fiscale come diritto soggettivo che consenta al cittadino italiano di scegliere tra pagare per una difesa armata o pagare per una difesa non armata e, quindi, che consenta a chi lo vuole di non finanziare, con le proprie tasse pagate, gli apparati armati e la preparazione bellica.

Come si legge, l’obiettivo del disarmo viene tenuto fermo, anche se ora si vuole raggiungerlo attraverso la gradualità dell’uscita dal militare ed è affiancato dal progetto costruttivo di realizzare una alternativa al militare. La costruzione della pace sia per l’odierna Campagna di Obiezione alle Spese Militari, sia per una grande parte del movimento nonviolento e antimilitarista, passa oggi attraverso la costruzione di strumenti di intervento non armato e nonviolento come le ambasciate di pace[109] e i corpi civili di pace, visti come utili strumenti nonviolenti per costruire una alternativa di sicurezza separata e distinta dal militare.

Questo Movimento per l’alternativa al militare ha già ottenuto, in Italia, notevoli successi  a livello legislativo. Basti per tutti citare qui la legge 64/2001 istitutiva del Servizio Civile Nazionale, dove il servizio civile viene definito espressamente: “finalizzato a concorrere in alternativa al servizio militare obbligatorio, alla difesa della Patria con mezzi e attività non militari”. Inoltre, la legge prevede all’art. 9, la possibilità di svolgere servizio civile all’estero “in strutture per interventi di pacificazione e cooperazione tra i popoli”.

Sul tema della nonviolenza e del ripudio della guerra si è costituito in seno all’Ufficio Nazionale per il servizio civile il Comitato per la difesa civile non armata e nonviolenta (DCNAN). Questo Comitato, che ha una importante funzione consultiva, è il risultato di numerose iniziative che si sono proposte nel tempo a seguito di quanto disposto dall'articolo 8, comma 2, lettera e), della legge 8 luglio 1998, n. 230 che affida all'Ufficio nazionale per il servizio civile il compito di "predisporre, d'intesa con il Dipartimento della Protezione civile, forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta". Questo Comitato è in procinto di attuare due progetti sperimentali di servizio civile nazionale orientati alla DCNAN e secondo criteri condivisi. È un primo passo perché i civili siano messi in condizione di svolgere un ruolo importante nel mantenimento nonviolento e nonarmato della pace.

Va poi detto che una delle dieci promesse fatte in campagna elettorale da Barack  Obama, attuale Presidente degli Stati Uniti d’America, diceva: «Stabilire l’obiettivo dell’eliminazione totale delle armi nucleari dal pianeta come elemento centrale della politica nucleare statunitense».

Se ricordiamo che Cassola, nel portare avanti la sua iniziativa disarmista, si era rifatto alla proposta Einstein-Russell, che voleva sostanzialmente le stesse cose, vediamo che il cerchio, almeno in teoria e apparentemente, si chiude.

Dal 1955 al 2011 di strada ne è stata fatta molta, specie sul versante del progetto costruttivo, e, anche se l’obiettivo del disarmo rimane ancora da conquistare, come la conseguente uscita dal militare, tuttavia, la sensibilità verso questi temi è cresciuta tantissimo, anche nelle istituzioni e il messaggio disarmista unilaterale cassoliano rimane vivo e attuale nella coscienza collettiva.

Detto tutto questo non dobbiamo farci però soverchie illusioni, perché, purtroppo, anche i fatti, quando riguardano la pace, assomigliano troppo ai fiocchi di neve. La strada per uscire dalle guerre e dal militare non è che appena iniziata e troverà ostacoli a non finire. È del mese di agosto del 2011 un dibattito relativo al fatto se la legge 230/98 è stata abrogata o meno nel silenzio generale di tutti. Ma il fatto più grave è che la cosa è stata scoperta solo un anno e mezzo dopo, grazie ad un resoconto giornalistico su una relazione ministeriale. Insomma, la strada rimane tutta in salita, vuoi

per l’enorme differenza tra le forze in campo, sia perché la miseria globalizzata arrivata in occidente rischia di inchiodare quasi tutti alla sedia dell’egoismo e del proprio particolare, ma, soprattutto, perché i costruttori di pace, parlo del vasto associazionismo, sono sparpagliati e privi di capacità politica. Ogni associazione, per non dire ogni singolo, ha il suo progetto vincente, che, ovviamente, non vince.

La prima cosa da capire oggi, per un vero e autonomo rilancio del Movimento per la Pace, è la necessità di fare sinergia all’interno di un progetto comune, che, guardando bene, non è poi così impossibile da fare. Basti pensare che in un momento nel quale ai lavoratori italiani si è appena chiesto un sacrificio da venti miliardi, mentre se ne spende altrettanti per mantenere in piedi un inutile e pericoloso apparato militare per una difesa che non ci serve se non per una politica di intervento armato all’estero, che è un vulnus alla nostra Costituzione e non mi pare che poi aiuti molto la sicurezza internazionale, avremmo dovuto puntare sull’eliminazione delle spese militari,[110] che sono un’enorme palla al piede del paese che ci tira tutti a fondo, specie in tempi come questi di politica recessiva e antipopolare. Il solo obbiettivo dell’eliminazione delle spese militari avrebbe dovuto essere, quindi, un collante sufficiente per costruire sinergia e rilanciare il Movimento per la Pace. Ma così non è stato e questa sinergia non si è ancora trovata.

Per rilanciare il Movimento per la Pace e avviare nel nostro paese una nuova stagione di lotte nonviolente, credo che dovremmo tutti guardare ancora al messaggio cassoliano dei gesti concreti. È solo cambiando l’angolo della visuale e nel “fare” assieme agli altri che si possono trovare le risposte che non abbiamo e la forza che oggi ancora ci manca.

Ho ritrovato il primo appello all'obiezione fiscale, una campagna di disubbidienza civile che, come già detto, esiste in Italia da ventisei anni e di cui la LDU fa oggi ancora parte, avendola a suo tempo promossa. Il primo firmatario è Carlo Cassola. L'appello, non a caso, richiama gesti concreti e si lega a quel bisogno cassoliano di concretezza, contrario a dibattiti astratti, che mette sempre al primo posto il problema elementare della conservazione della vita. Cassola voleva contribuire a una rivoluzione che affratellasse i popoli e rendesse inutili gli armamenti. Era, in sostanza, un politico utopico, l'unico politico utile e, dal suo punto di vista, l'unico in grado di fare quella rivoluzione che lui chiamava anarchia. Mi viene in mente qui una frase di Hugo, tratta dai Miserabili:

«Gli illuminati piangono, non foss’altro per quelli che sono nelle tenebre».[111]

Era quello che credeva l’illuminista Cassola e, soprattutto, lui avrebbe voluto squarciare le tenebre perché non voleva piangere per la fine della sua scrittura che non sarebbe certo sopravvissuta alla fine dell’umanità.

 

Appello all' obiezione fiscale (1982)

La spirale di violenza inasprita dalla corsa al riarmo, ad Est come ad Ovest, non potrà essere spezzata da impossibili e falsi equilibri militari. Il disarmo è possibile: possiamo incominciare da oggi solo se ognuno di noi saprà assumersi la responsabilità del proprio futuro, praticando, se necessario, la via della non-collaborazione, dell' obiezione di coscienza, della disobbedienza civile. Al di là degli slogans, dei facili appelli alla pace, delle vane speranze di disarmo, occorrono gesti concreti!

Noi sottoscritti esponenti del mondo religioso, politico e della cultura, venuti a conoscenza dell'iniziativa dei movimenti nonviolenti (Movimento Internazionale Riconciliazione, Movimento Nonviolento, Lega per il Disarmo Unilaterale) sull'obiezione fiscale e la restituzione dei congedi militari, proponiamo di non pagare quella parte di tasse (5,5%) altrimenti destinate agli armamenti, e chiediamo che vengano utilizzate per vere opere di pace.

Hanno finora sottoscritto questo appello, aderendo cosi all'iniziativa e rendendosene responsabili:

Carlo Cassola (scrittore); Pietro Pinna (obiettore di coscienza); Don Sirio Politi (prete operaio); Jean Fabre (segretario generate di Food and Disarmament International); Giorgio Bertani (editore); Alberto Torniolo (consigliere regionale veneto); Roberto Cicciomessere (deputato); Marco Boato (deputato); Massimo Gorla (deputato); Marco Pannella (deputato europeo); Mario Capanna (deputato europeo).

V.6   Il “molto” di Cassola.

 

Alla fine della sua vita, Cassola, come scrittore aveva dato molto alla letteratura, e come antimilitarista aveva dato molto al mondo pacifista e nonviolento. Anche la sua morte solitaria testimoniava di questo “molto”. Credo che sia giusto ricordare qualcosa di quel “molto”.

  
Cassola era stato e rimane il “padre” del disarmo unilaterale in Italia. E il gesto “culturale” del disarmo unilaterale, quel partire da sé, senza chiedere prima agli altri, abita ancora tra gli antimilitaristi e, soprattutto, tra gli amici della nonviolenza fin da quando era ancora vivo Cassola. Di lui ci resta il suo insegnamento semplice e forte, che va dritto al bersaglio e che ci insegna che il militare è sbagliato e che la guerra è la faccia violenta di una realtà violenta, e che, se non la togliamo di mezzo, non potremo avviarci a cambiare la realtà presente, che è, in gran parte, purtroppo ancora oggi, una realtà militare. Di lui ci resta l’amore per l’intelligenza e l’amore per il transito e, quindi, anche l’amore per la nostra storia che non può tornare indietro, né può essere fermata perché la nostra storia è in cammino e la sua marcia è inarrestabile.

 Io credo che per traghettare questa nostra vita armata e piena di insicurezza a una vita disarmata, più vivibile e più serena, perché capace finalmente di guardare a un futuro degno di questo nome, servirà anche il pungolo delle idee antimilitariste di Cassola. Del resto, le sue idee sono già servite, oggi, come abbiamo visto, a partorire, in parte, altre idee sulle quali i pacifisti e i nonviolenti stanno attualmente lavorando. Una di queste, nata da non molto, è, mi pare, l’idea delle ambasciate di pace e dei corpi civili di pace; l’altra, che viene da più lontano, è impedire il fuoco atomico.

 Ed è giusto ricordarlo oggi che, su questi temi, mi sentirei di dire, anche su suggerimento di Carlo Cassola, è la società civile che scende in campo in difesa della vita, messa in pericolo, ovunque sul pianeta, dalla violenza e dal militare.

Mi piace ricordare queste sue parole che mi appaiono oggi decisamente attuali:

«Chi non capisce che è questo il terreno dello scontro decisivo tra progresso e reazione, tra civiltà e barbarie, è di destra, anche se si proclama di sinistra. In altre parole, o la sinistra vince la battaglia per la pace, o non avrà un'occasione di farsi valere, perché il mondo salterà in aria».[112]

Queste sue parole sono tratte da un testo dove Cassola è impegnato a convincere tutti della necessità di sbarazzarci del militare, come un pericolo grave e un peso, anche economico, inutile e pesantissimo. È in questo testo che Cassola, lui agnostico e illuminista, ricorda che il Cristianesimo aveva le carte in regola per trasformare completamente la società, ma che, purtroppo, non ci fu nessuna rivoluzione cristiana e perciò

«Il flagello biblico della guerra continua ad esistere, con sopportazione generale». [113]


Cassola vedeva il militarismo come una catena che avvolge l'intero pianeta nelle sue spire mortali. E  chiedeva a tutti noi di spezzare quella catena.

Questa sua posizione, come ho già ricordato, gli è costata molto. Anche se a più d’uno, nell’area nonviolenta, l’antimilitarismo di Cassola non piaceva, perché, andando dritto, sembrava deviare dalle complessità del problema, sembrava semplificare troppo, la realtà che abbiamo di fronte è ancora una realtà tutta militare e il disarmo è ancora, purtroppo, una lotta di questi giorni e sarà ancora di più la lotta di domani. Poi vorrei fare una osservazione sulla semplificazione: semplificare è necessario per tutti noi. Aiuta a capire e aiuta a vivere. Semmai, sono alcune semplificazioni che, spesso, sono sbagliate; ma non era certo il caso di Cassola nella sua lotta contro il militare, anche perché l’uscita dal militare è una necessità così alta e così semplice, e lo sarà sempre di più nel futuro, che non può essere che complicata dal potere. E lo è tutti i giorni attraverso mille forme di disinformazione e di prevaricazione. Per questo, credo che sia giusto che gli amici della nonviolenza ricordino Carlo Cassola come l’antimilitarista difensore della vita, l’ideologo dell’esistenza, il compagno generoso con il quale si è fieri di aver fatto un pezzo di strada assieme verso la costruzione faticosa della pace. E mi piace qui ricordare che per Cassola la salvezza dell’Umanità poteva arrivare solo dalla gente stessa e non da altri. In questo suo pensiero, guarda caso, si ritrovava unito a quel poeta della scienza che è stato Einstein, il quale ne “Il mondo come io lo vedo” scriveva sostanzialmente le stesse cose.[114]


Bibliografia

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Alba Andreini, Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Mondadori 1987 (“i Meridiani”).


Gianni Bernardini, Narrativa e ragione rivoluzionaria, La filosofia pacifista di Carlo Cassola, Pisa, Edizioni Plus – Pisa University Press, 2007.

Aldo Capitini, Le tecniche della Nonviolenza, Milano, Libreria Feltrinelli, 1967.

Francesco Leonetti, Carte e conti con Fortini (1988;1995;1986), in Allegoria, 21-22 anno VIII, n. s., Palermo, ed. Palumbo, 1996.

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G. Pampaloni, Carlo Cassola, in Storia della Letteratura italiana, diretta da E, Cecchi e N. Sapegno, vol.IX, Il Novecento, Milano,

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Volontari  di  Pace  In Medio Oriente, I quaderni della D.P.N., numero 21, (a cura di Alberto L’Abate e Silvano Tartarini), Edizioni La Meridiana Molfetta (BA) 1993.

Opere di Carlo Cassola

Carlo Cassola, I vecchi compagni,Torino, Einaudi, 1953.

Carlo Cassola, La Visita, Torino, Einaudi, 1963.

Carlo Cassola, Paura e tristezza, Torino, Einaudi 1970.

Carlo Cassola, Il superstite, Milano, Rizzoli, La Scala, 1978.
Carlo Cassola, Letteratura e disarmo, Milano, Mondatori, 1978.

Carlo Cassola, La casa di via Valadier, Milano, Rizzoli, BUR, 1979.

Carlo Cassola, Fausto e Anna, Firenze, Sansoni, 1979.

Carlo Cassola, I vecchi compagni, Un matrimonio del dopoguerra, Rizzoli, BUR, 1979.

Carlo Cassola, Il romanzo moderno, Milano, Rizzoli, BUR, 1981.

Carlo Cassola, Colloquio con le ombre, Milano, Rizzoli, 1982.

Carlo Cassola, Mio padre, Milano, Rizzoli, 1983.

Carlo Cassola, La rivoluzione disarmista, Milano, Rizzoli, BUR, 1983.


Carlo Cassola, Il mio cammino di scrittore, Firenze, Pananti, 1984.

Carlo Cassola, Paura della morte, Racconto, “Nativa”, a. 1, n 1, Massa, R.N.G. Notizie, febbraio 1985.

Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Milano, Rizzoli, Superbur, 1989.

Carlo Cassola, Conversazione su una cultura compromessa,  “ Il Vespro”, Palermo,1977, a cura di Antonio Cardella.

Carlo Cassola, Gandhi: la pace come utopia, “Corriere della Sera”, 28 gennaio 1978.

Carlo Cassola, Gandhi: la pace come utopia, “Corriere della Sera”, 28 gennaio 1978.

Carlo Cassola, La lezione della storia, Milano, Rizzoli, BUR, 1978.


Carlo Cassola, Paura della morte, Racconto, “Nativa”, a. 0, n 0, Massa, R.N.G. Notizie, maggio 1984.

Carlo Cassola, Basta con le armi, periodico LDU, maggio 1987 (carteggio inedito tra Cassola e Nello Bardini).


Ringraziamenti

Questa mia fatica deve più di un ringraziamento agli amici disarmisti unilaterali Roberto Dami e Sandra Vannoni, per avermi procurato parecchio materiale cassoliano di cui ero sprovvisto. Devo un forte grazie all’amico Carlo Milani per avermi procurato vecchie copie di Nativa, di cui eravamo assieme redattori; come devo un abbraccio all’amico Roberto Bugliani per avermi procurato le notizie relative all’intervento di Leonetti in Allegoria. Devo molto anche all’amico e disarmista unilaterale Gianni Bernardini per avermi gentilmente inviato il suo libro su Cassola. Un grazie anche a Beppe Cordoni, poeta e amico tenerissimo per il suo contributo riguardo ad alcuni giudizi della critica sull’école du regarde. Devo, infine, un particolare ringraziamento a Teresita Picardi per le utili indicazioni e correzioni al testo e un grazie importante a Giorgio Montagnoli, che si è prestato a leggere questa mia opera con tutta la sua dolcezza e, soprattutto, per le verifiche che, con il suo amore e la sua pazienza, mi ha permesso di fare riguardo al mio saggio su Cassola.



[1] Il termine "sublimine", introdotto da Cancogni nella prefazione, è spiegato al cap. III, p.67.

[2] C. Cassola, Il fiore della poesia, in Il romanzo moderno, Milano Rizzoli, BUR, 1981, p.217.

[3] C. Garboli, in Carlo Cassola,  Letteratura e Disarmo,  Atti del     Convegno, Firenze, 1987, a cura della Lega per  il   Disarmo Unilaterale , Massarosa, Massarosa Offset, 1988, pp. 53-54 .

[4] G. Bernardini, Narrativa e ragione rivoluzionaria. La filosofia pacifista di Carlo Cassola, Pisa, PLUS-Pisa University Press,  2007, p.176.

5  C. A. Madrignani, L’ultimo Cassola, Roma, Editori Riuniti,1991, p. 18.

[6]  R. Bertacchini, in Carlo Cassola, Letteratura e disarmo, Atti del convegno, a cura di LDU, Firenze 4 aprile 1987, Massarosa, Massarosa Offset, 1988, p. 26.

      

[7] R. Luperini, in Carlo Cassola, Atti del Convegno-Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, Pontassieve, Becocci Editore,  (a cura di Giovanni Falaschi), p.31.

[8] Ivi, pag.35, cit. da Ultima Frontiera, p.121.

[9] F.Fortini, in Carlo Cassola, Letteratura e disarmo, Atti del convegno, a cura di LDU, Firenze 4 aprile 1987, Massarosa, Massarosa Offset, 1988, p. 99.

[10] C. Garboli,  in C. Cassola, Letteratura e disarmo, Atti del convegno, a cura della LDU, Firenze 4 aprile 1987, Massarosa, Massarosa Offset, 1988, p. 55.

[11] C. Cassola, I vecchi compagni, Torino, Einaudi,1953.

[12] C. Cassola,  Mio padre,­ Milano, Rizzoli, 1983, p. 21.

[13] Ivi, p. 22.

14 Ivi,  p.14.

[15] Ivi, p. 47.



16  Ivi, p.23.

[17] M.Cancogni, in  Carlo CassolaAtti del Convegno, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, Pontassieve, Becocci Editore, 1993, (a cura di Giovanni Falaschi), p. 44.

[18] C. Cassola, Colloquio con le ombre, Milano, Rizzoli, 1982, p. 7.

[19] C.Cassola,  Il mio cammino di scrittore, Firenze, Pananti,  1976, p.23

20 C. Cassola,  Mio padre, Milano, Rizzoli , 1983, p.49.

[21] Ivi, p.20

[22] Ibidem

[23] (Alba Andreini, Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Mondatori, 2007 ( “i Meridiani”), Ferrovia locale, p.28.

[24] (Alba Andreini, Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Mondatori, 2007 ( “i Meridiani”), Dànroel, p.43.

[25] (Alba Andreini, Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Mondatori, 2007 ( “i Meridiani”), Giorgio Gromo, p.55.

[26] L. Giannelli, in  C. Cassola­, Atti del Convegno- Firenze 3-4 novembre 1989, Pontassieve, Becocci Editore, 1993, (a  cura di Giovanni Falaschi), p.82.

[27] C.Cassola,  Fausto e Anna­, Firenze,  Sansoni Editore, 1979, p. 149.

[28] C.Cassola, Letteratura e disarmo, Milano, Mondatori, Oscar, 1978 p.7 .

[29] C. Cassola, Il romanzo moderno, Milano, Rizzoli, BUR, 1981, p.7, cit. di versi di E.Montale, nella prima poesia di ”Le occasioni

[30] C.Cassola,  La ragazza di Bube, Milano, Rizzoli, Superbur, 1989, p. 260.

[31] . Cassola, Mio padre, Milano, Rizzoli, 1983­,  p. 60.

[32] C. Garboli, in  Carlo CassolaAtti del Convegno, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, Pontassieve,  Becocci Editore, 1993, a cura di Giovanni Falaschi,, pp.238-239).

[33] Ivi, p.240.

[34] C.Cassola, Il film dell’impossibile, in La visita, Torino,  Einaudi 1963, p.8.

[35] Ivi, p.9.

[36] G. Pampaloni, in  C. CassolaAtti del Convegno, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, Pontassieve,  Becocci Editore, 1993, (a cura di Giovanni Falaschi), p.193.

 .

[37] C. Cassola,  Paura e Tristezza, Torino, Einaudi, 1970, pp.34-35.

[38] C. Cassola, La casa di via Valadier, Milano, Rizzoli, BUR, 1979.

[39] Ibidem

[40] C. Cassola, Paura della morte, Racconto, “Nativa”, a. 1, n 1, Massa, R.N.G. Notizie, febbraio 1985, p. 10.

[41] C. Cassola,  I vecchi compagni, Milano,  Rizzoli, BUR, 1979, p. 225.

[42] C. Cassola, La rivoluzione disarmista, Milano, Rizzoli, BUR, 1983, p.77.

[43] E. Balducci, in C. Cassola, Letteratura e Disarmo,  Atti del Convegno, Firenze, 1987, a cura di Lega per  il Disarmo Unilaterale ,Massarosa, Massarosa Offset, 1988, p.61.

[44] C. Garboli, in  C.CassolaAtti del Convegno, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, Pontassieve, Becocci Editore, 1993, a cura di Giovanni Falaschi, p.218.

[45] E. Balducci, in C.Cassola, Letteratura e Disarmo,  Atti del Convegno, Firenze, 1987, a cura di Lega per  il Disarmo Unilaterale ,Massarosa, Massarosa Offset, 1988, p. 62.

[46] M.Cancogni , in  C. CassolaAtti del Convegno, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, Pontassieve, Becocci Editore,1993, (a cura

 di Giovanni Falaschi), pag.235.

[47] F. Fortini, in C. Cassola, Letteratura e Disarmo,  Atti del Convegno, Firenze, 1987, a cura di Lega per  il Disarmo Unilaterale, Massarosa, Massarosa Offset, 1988, p. 101.

[48] Carlo Cassola, Il mio cammino di scrittore, Pananti, Firenze, 1984, p.7.

[49] C.Cassola, La rivoluzione disarmista, Rizzoli, BUR, 1983, p.78.

[50] Ivi. P.81

[51] C.Cassola, Le confessioni in  Il romanzo moderno, Milano, Rizzoli, BUR, 1981, pag.216.

[52] C.Cassola, Perché si scrive in  Il romanzo moderno, Milano, Rizzoli, BUR 1981, p.6.

[53] C.Cassola, Il mio cammino di scrittore, Firenze, Pananti, 1984, p.7.

[54] C.Cassola, Il romanzo moderno, Milano, Rizzoli, BUR, 1981, p.65.

[55] C.Cassola,  Il superstite, Milano, Rizzoli, “La scala”, 1978.

[56] C.Cassola, La rivoluzione disarmista, Milano, Rizzoli, BUR, 1983, pp. 130-131.

[57] M. Cancogni, in Atti del Convegno in memoria di Carlo Cassola, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, Pontassieve, Becocci Editore, 1993 (a cura di Giovanni Falaschi) p.237.

[58] C. Cassola, Gandhi: la pace come utopia,  “Corriere della sera”, 28 gennaio 1978.

[59] C. Cassola, Il romanzo moderno, Milano, Rizzoli, BUR,  1981, p.179.

[60] C. Cassola, Mio padre, Milano, Rizzoli, 1983, p.114.

[61] C. Cassola, Il romanzo moderno, Milano, Rizzoli, BUR, 1981, p.216.

[62] C.Cassola, Paura della morte, Racconto, “Nativa”, a. 1, n 1, Massa, R.N.G. Notizie, febbraio 1985, p. 9.

[63] C. Cassola,  La rivoluzione disarmista, Milano, Rizzoli, BUR, 1983, p.59.

[64] C. Cassola, Paura della morte, Racconto, “Nativa”, a. 1, n 1, Massa, R.N.G. Notizie, febbraio 1985, p. 10.

[65] U. Saba, Antologia del “Canzoniere”,  La malinconia amorosa, da “Trieste e una donna”, Einaudi Editore, Torino 1963.

[66] Alba Andreini, Nota all’edizione in Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Arnoldo Mondadori editore, 2007, (“ i   Meridiani”),  p. CXXXI.

[67] Alba Andreini, Il romanzo delle origini in Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Mondatori, 2007 ( “ i  Meridiani”), pag.XIV.

[68] Ivi, p.XIII.

[69] Ibidem.

[70] Alba Andreini, Il romanzo delle origini in Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Mondatori, 2007 ( “ i  Meridiani”), p. XXVIII, cit. F. Camon, Il mestiere di scrittore, p.84.

[71] Alba Andreini, Il romanzo delle origini in Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Mondatori, 2007 ( “ i  Meridiani”), p.XLIX.

[72] Ivi, p.XXI.

[73] Ibidem

[74] G. Pampaloni, in Carlo CassolaAtti del Convegno, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, Pontassieve, Becocci Editore, 1993, a cura di Giovanni Falaschi, p.195.

[75] Alba Andreini, Il romanzo delle origini, in Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Mondatori, 2007 ( “i Meridiani”), pag.XII.

[76] Ivi, p. LVIII, LIX.

[77]  G. Pampaloni, Carlo Cassola, in Storia della Letteratura italiana, diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, vol.IX, Il Novecento,  Garzanti, Milano 1987, p.544.

                         

[78] C.A. Madrignani, L’ultimo Cassola, in Carlo CassolaAtti del Convegno, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, Pontassieve,  Becocci Editore, 1993, a cura di Giovanni Falaschi, p. 200.

[79]Alba Andreini, Nota all’edizione, in Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Mondadori editore, 2007, ( “i Meridiani”), p. CXXXI.

[80]Alba Andreini, Il romanzo delle origini, in Carlo Cassola, Racconti e romanzi, Milano, Mondatori, 2007 ( “i Meridiani”), p. LIV.

[81] Ivi, p. LVIII.

[82] C. Cassola, Paura della morte, Racconto, “Nativa”, a. 0, n 0, Massa, R.N.G. Notizie, maggio 1984, p. 5.

[83] M. Cancogni, in  Atti del Convegno in memoria di Carlo Cassola, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 3-4 novembre 1989, Pontassieve,  Becocci Editore, 1993 (a cura di Giovanni Falaschi) p. 44.

[84] C.Cassola, Le confessioni  in  Il romanzo moderno, Milano, Rizzoli, BUR, 1981, pag.7.

[85] C. Cassola, Conversazione su una cultura compromessa, a cura di Antonio Cardella. Palermo, Editrice de “il Vespro”, 1977, pag.42.

[86] Ibidem

[87] C. Cassola, La lezione della storia, Milano, Rizzoli, BUR, 1978, pag.68.

[88] Ivi, pp.47-48.

[89] F. Leonetti, Carte e conti con Fortini (1988;1995;1986)Allegoria, 21-22, anno VIII, n.s., 1996, Palermo, G.B.  Palumbo Editore, pag.257.

[90] C. Cassola, Il romanzo moderno, Milano, Rizzoli, BUR, 1981, p.59.

[91] C. Cassola, Basta con le armi, Montecarlo, periodico LDU, maggio 1987, da un carteggio inedito fra Cassola e Nello Bardini.

[92] C.Cassola, La rivoluzione disarmista, Milano, Rizzoli, BUR, 1983, p.97.

[93] Ivi, p. 98.

[94] Ibidem.

[95] Ivi,  p. 13.

[96] Ivi, p.124.

[97] Ivi, p. 129.

[98] Ivi, p. 77.

[99] Ivi, p. 96.

[100] Ivi, pp.117-118.

[101] C. Cassola, Conversazione su una cultura compromessa, ( a cura di Antonio Cardella), Palermo, Editrice de “il Vespro”,  1977, p.53.

[102] Ibidem

[103] Gandhi in  A.Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Milano, Feltrinelli 1967, p.171, cit. da Gandhi, Antiche come le  montagne, pp. 216, 218, 230.

[104] C. Cassola, La rivoluzione disarmista, Milano, Rizzoli, BUR, 1983, p.13.

[105] Ibidem

[106] Fondata da Cassola ed altri a Firenze il 4 dicembre 1977.

[107] Notizie abbastanza approfondite  della LDU dal 1979 al 1980 si possono trovare in G. Bernardini, Narrativa e ragione  rivoluzionaria, Pisa, ed. PLUS- Pisa University Press, 2007.

[108] Volontari  di  Pace  In Medio Oriente,  a cura di Alberto L’Abate e Silvano Tartarini, I quaderni della D.P.N., numero 21, Edizioni La Meridiana Molfetta (BA) 1993.

[109] L’Ambasciata di Pace è uno degli strumenti della società civile, diverso ma complementare ai corpi civili di pace, per intervenire stabilmente in zone di conflitto, nella progettazione e realizzazione di un modello di difesa, alternativo a quello militare. È auspicabile che il suo intervento “stabile” avvenga sempre prima di un possibile intervento di corpi civili di pace.

[110] Le spese del bilancio della Difesa 2011 (più le voci dello "sviluppo
economico" che comprendono gli armamenti) ammontano a circa 25 miliardi
di euro. Il volume finanziario "ufficiale" a disposizione del Ministero della difesa è pari a 20 miliardi e 494,6 milioni di euro, nel 2011, a 21 miliardi e 16 milioni di euro, nel 2012, e a 21 miliardi e a 368 milioni di euro, nel 2013. E' una spesa, quella militare complessiva, pari a circa l'1,5% del PIL ed al 4% del
bilancio dello Stato, ottavo posto nel mondo, che va a tradire il principio costituzionale del "ripudio della guerra".
Investimenti del tutto inaccettabili, anche da un semplice punto
di vista pacifista e democratico, sono quelli per gli F35 (131 velivoli per 15 miliardi in 14 anni) o gli Eurofighter ( 96 velivoli per 10 miliardi in 10 anni), in Aeronautica, o per le Portaerei, in Marina: sono sistemi d'arma concepiti per missioni offensive al di fuori dei confini nazionali, come quelle che, al costo di circa 1,5 miliardi l'anno, troppo pacchianamente, da anni, vengono spacciate per "operazioni umanitarie di pace" (dalla Ex Jugoslavia all'Iraq, dall'Afghanistan alla Libia...).
Se si vuole completare in modo più dettagliato l'elenco possiamo aggiungere le fregate Fremm ed il  relativo sistema Aster della Marina; il programma Meads per un nuovo sistema di difesa missilistica antiaerea; l'acquisizione di ulteriori due sommergibili dalla Germania; il rinnovamento in atto del parco mezzi blindati e corazzati dell'esercito e il programma "Soldato futuro".
L'industria bellica italiana è un settore, scandali o non scandali (vedi Finmeccanica e Guarguaglini), in piena espansione: con un fatturato record da circa 4 miliardi; l'Italia ha superato la Russia, divenendo il secondo esportatore mondiale di armamenti, dopo gli Stati Uniti. Tra i "gioielli" dell'industria militare nostrana, il veicolo tattico multiruolo Lince e l'elicottero d'attacco A-129 Mangusta; ma a far lievitare il made in Italy sono anche armamenti meno "prestigiosi", e - diciamolo pure - "sporchi", come le bombe a grappolo messe al bando da recenti convenzioni internazionali, non ancora ratificate nella loro piena applicazione.

Fonte: Lega Obiettori di Coscienza (L.O.C.) Milano.

[111] V.Hugo, I Miserabili, parte quarta, libro settimo, L’Argot, pag.648, Newton Compton Editori, I Mammut, Quinta Edizione dicembre 2010,

[112] C. Cassola, La rivoluzione disarmista, Milano, Rizzoli, BUR, 1983, p.142.

[113] Ivi, pag.7.

[114] A. Einstein, Il mondo come io lo vedo, Grandi Tascabili Economici Newton, Newton Compton editori, Seconda edizione, giugno 2009.