Foreign Policy in Focus
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10 dicembre 2013

Un’insurrezione non violenta per la protezione del clima?
di Jeremy Brecher
traduzione di Giuseppe Volpe

Laddove le vecchie istituzioni hanno fallito, i cittadini globali devono insorgere per difendere il clima direttamente e preservare l’ambiente per le generazioni a venire.

Il Quinto Rapporto di Valutazione, del 2013, del Gruppo Internazionale su Cambiamento Climatico (IPCC) ha confermato che gli esseri umani stanno distruggendo il clima della terra. Ma ha anche rivelato qualcosa di ancor più allarmante: venticinque anni di sforzi umani per proteggere il clima sono falliti anche soltanto nel rallentare le forze che lo stanno distruggendo. Al contrario, la percentuale di aumento delle emissioni di carbonio derivanti dal consumo di combustibili fossili è triplicata tra la pubblicazione del primo rapporto dell’IPCC, nel 1988, e oggi.

Quando gli scienziati avevano stabilito per la prima volta che il consumo umano di combustibili fossili stava causando il riscaldamento globale, la soluzione sembrava evidente e a portata di mano. I governi nazionali dovevano concordare di operare modeste riduzioni annue della quantità totale di gas serra (GHG) che stavano emettendo nell’atmosfera. I negoziatori si erano recentemente accordati – nel 1987 – per eliminare gradualmente un altro inquinante, gli idrocarburi clorurati, che avevano causato un buco nello strato dell’ozono. I gas serra sembravano controllabili attraverso misure analoghe assunte dallo stesso tipo di istituzioni.

Venticinque anni dopo non esiste alcun accordo vincolante per limitare i GHG; le emissioni hanno raggiunto un livello che garantisce un aumento della temperatura globale di almeno 2 gradi Celsius, rendendo certo che un significativo riscaldamento globale è già irreversibile. Nonostante tempeste, inondazioni, siccità, scioglimento dell’artico, desertificazione, incendi e altri indicatori estremi di un cambiamento climatico apocalittico, le emissioni di carbonio e di altri gas serra continuano ad aumentare e sono previste in ulteriore aumento determinando un cambiamento climatico ancor più devastante. Tuttavia non c’è alcun limite significativo a ulteriori emissioni, ci sono analisi insufficienti dei motivi di tale omissione e scarse strategie plausibili per superare il problema.

I fallimenti dell’ultimo quarto di secolo non sono ciò che la maggior parte dei promotori della protezione del clima si aspettavano. In seguito alla conferma scientifica del riscaldamento globale negli anni ’80 essi avevano laboriosamente creato istituzioni come la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (UNFCCC) e il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) e avevano laboriosamente costruito un consenso tra scienziati, leader governativi e dirigenti dell’ONU sulle politiche definite come necessarie dall’IPCC. L’”accordo quadro” dell’ONU è stato seguito dal Protocollo di Kyoto dal piano d’azione [roadmap] di Bali in vista del vertice sul clima di Copenhagen. In base alle persuasive argomentazioni del rapporto Stern del governo britannico sull’economia del cambiamento climatico, molti leader globali dell’industria avevano sottoscritto politiche per la protezione del clima. Molti governi nazionali avevano avviato politiche e approvato leggi per ridurre i GHG. Il mondo sembrava procedere lungo un percorso razionale, pur se tardivo, per affrontare il cambiamento climatico.

Con la disfatta del vertice sul clima di Copenhagen nel 2009 è diventato evidente che l’intero processo è stato poco più che una farsa in cui leader mondiali, governi e imprese hanno finto di affrontare il cambiamento climatico perseguendo contemporaneamente politiche che immettono ancor più GHG nell’atmosfera. Copenhagen ha rivelato un’accolta di istituzioni avide, in cerca di vantaggi i cui dirigenti non sono stati capaci di collaborare neppure per la loro stessa sopravvivenza.

Anche nel caso improbabile che la maggior parte delle promesse non vincolanti di tagliare le emissioni fossero mantenute, secondo un’analisi dell’ONU il risultato sarebbe comunque un devastante riscaldamento del pianeta di 3 gradi Celsius. Nel 2013 il carbonio nell’atmosfera ha raggiunto le 400 parti per milione (ppm), già sopra le 350 ppm che gli scienziati del clima considerano il limite superiore di sicurezza.

I sostenitori della protezione del clima sono già stati ripetutamente sconfitti o costretti dai loro avversari ad accettare misure inadeguate. Tali avversari sono in generale un’accolta di produttori e utilizzatori di combustibili fossili, di politici influenzati da essi e di ideologi di destra che si oppongono alla protezione del clima perché ciò richiede un’interferenza pubblica nell’economia privata.  Come può una soluzione trasparente a un problema che promette una simile devastazione a tutti sulla terra essere bloccata da un insieme di forze così relativamente ristretto? Ci sono fattori strutturali più profondi che rendono così difficile la protezione del clima? E, se così è, come si possono superare?

In reazione ai fallimenti di questo processo ufficiale di protezione del clima è emerso un movimento indipendente  con tale finalità. Non è controllato da alcun interesse nazionale o speciale. Si è organizzato globalmente e ha dimostrato la capacità di agire globalmente, esemplificata dalla prima “Giornata Internazionale d’Azione sul Clima” nel 2009, che la CNN ha definito “la giornata più vasta di azione politica nella storia del nostro pianeta”. Il movimento ha creato un’icona globale di ciò che deve essere fatto: ridurre il carbonio nell’atmosfera a meno di 350 parti per milione. E’ uscito dai limiti delle azioni di lobby e delle dimostrazioni nell’ambito della legalità adottando la disobbedienza civile come parte importante e legittima della sua strategia. Ha contestato i governi che permettono la distruzione del clima, le industrie produttrici e utilizzatrici di combustibili fossili che la conducono e le imprese e le altre istituzione di tutto il mondo che vi sono colluse.

Nonostante questi progressi la capacità del movimento di ridurre le emissioni di GHG e di creare livelli di carbonio nell’atmosfera sicuri dal punto di vista climatico si è sinora dimostrata minuscola. Per questo è in corso una ricerca per sviluppare strategie più efficaci per la protezione del clima. Alcuni hanno promosso un qualche genere di rivoluzione nazionale o globale per rovesciare i poteri che perpetuano la distruzione del clima. Altri hanno sollecitato la costruzione di comunità locali resilienti che possano affrontare il cambiamento climatico. Alcuni hanno appoggiato come soluzione un socialismo ecologico, altri un mercato più puro che addebiti agli inquinatori il costo sociale delle loro emissioni.

Ecco un’altra strategia possibile per la protezione del clima: un’insurrezione globale non violenta che faccia rispettare la legge. Indubbiamente è lungi dall’essere perfetta. Ma la protezione dell’ambiente non può attendere una strategia perfetta. Tutti noi abbiamo il dovere di scoprire la strategia migliore possibile e di agire in base ad essa.

Ostacoli alla protezione del clima

Gli scienziati e i sostenitori della protezione del clima si aspettavano un tempo che dirigenti e istituzioni razionali avrebbero reagito in modo appropriato alla comune minaccia del cambiamento climatico. Come Bill McKibben disse di Jim Hansen e di sé stesso: “Ritengo che lui pensasse, come me, che se avessimo portato questo insieme di fatti di fronte a tutti essi sarebbero stati così potenti, schiaccianti, che la gente avrebbe fatto quello che andava fatto.”

Che cosa è andato storto? Perché l’evidente interesse comune a lungo termine del mondo è stato così difficile da realizzare?

La risposta inquietante è che le misure di cui abbiamo necessità per proteggere l’ecosfera globale minacciano il potere delle istituzioni più potenti del mondo. I governi nazionali dovrebbero accettare controlli internazionali. Le industrie dovrebbero tralasciare opportunità di far soldi a spese dell’ambiente. La dirigenza militare dovrebbe abbandonare programmi che minacciano l’aria e l’acqua. Oltre a ciò, virtualmente tutti dovrebbero adattarsi a un notevole cambiamento, anche se non necessariamente un deterioramento, dello stile di vita.

Governi, industrie e altre istituzioni dominanti non si sono evoluti per provvedere né agli interessi a lungo termine né a quelli comuni della popolazione mondiale. Sono cresciuti e hanno prosperato perseguendo interessi a breve termine dei propri cittadini e azionisti (o, spesso, soltanto di una piccola élite dominante tra loro) in competizione con cittadini e azionisti di altri paesi e società. Non sono progettati o strutturati per perseguire alcun interesse umano o globale più vasto.  E il loro orizzonte temporale è determinato non dal corso della vita dei nostri figli e nipoti, bensì dal prossimo ciclo elettorale o bilancio trimestrale. Per i loro dirigenti sostenibilità significa superare il prossimo paio d’anni senza perdere elezioni o profitti.

I sostenitori della protezione del clima avevano aspettative sbagliate per queste istituzioni e questi dirigenti erano disponibili a dichiararsi a parole d’accordo con la protezione del clima e anche a usare tale appoggio per far progredire la propria posizione competitiva. Ma quando si trattava di fare concretamente qualcosa per proteggere il clima globale, venivano al primo posto i loro interessi nazionali e imprenditoriali a breve termine.

Per contro, le istituzioni che dovevano rappresentare interessi globali comuni, ad esempio l’ONU, si erano dimostrate deboli e dipendenti dai governi che in fin dei conti detengono un potere di veto de facto sulle loro azioni. Persino l’IPCC, apparentemente un’organizzazione scientifica, è costituito prevalentemente da scienziati dipendenti dal governo, i suoi rapporti sono rivisti da dirigenti governativi e deve far approvare riga per riga la formulazione del suo influente Sommario per i decisori politici da tutti i più di 120 governi partecipanti. La maggior parte dei governi, a sua volta, è soggetta al potere di veto de facto di interessi economici privati mossi, prima di ogni altra cosa,  dal perseguimento di profitti privati a breve termine.

Anche se in questo processo i fattori  dominanti sono le grandi potenze e le grandi imprese, molte altre persone e istituzioni perseguono l’egoismo a breve termine a spese della protezione del clima, spesso alla ricerca della loro stessa sopravvivenza economica. Comunità locali e lavoratori dipendenti da industrie dei combustibili fossili, ad esempio, hanno condotto campagne per affievolire le leggi sulla protezione del clima e per bloccare accordi internazionali sul clima. I paesi in via di sviluppo hanno lottato per conservare il loro diritto a estendere il loro utilizzo del carbone. Tali alleati hanno contribuito a mettere i principali emittenti di GHG e i loro sostenitori in grado di perseguire un percorso ipocrita, usando il linguaggio della protezione del clima mentre contemporaneamente hanno percorso la via dei GHG.

Ostacoli dell’ordine mondiale

La distruzione del clima non è la conseguenza di azioni di persone il cui fine è di distruggere il clima. Piuttosto è il prodotto di persone che operano all’interno di strutture istituzionali in cui perseguono obiettivi e prassi che – con o senza loro consapevolezza – causano la distruzione del clima. Tali strutture comprendono:

L’industria produttrice dei combustibili fossili: la più evidente responsabile della distruzione del clima è l’industria dei combustibili fossili. Proteggere il clima significa abolire l’industria dei combustibili fossili così come la conosciamo e rendere privo di valore il suo capitale principale, i combustibili fossili. L’industria lo sa e spende miliardi di dollari per corrompere politici, dominare le elezioni e lavare il cervello al pubblico. Sa anche che attualmente quasi tutti gli obiettivi umani dipendono dai combustibili fossili e sfrutta tale dipendenza per esercitare la sua egemonia sulle nazioni, i popoli e le istituzioni. Minaccia implicitamente ed esplicitamente che se non si farà a modo suo finiremo tutti a tremare nel buio.

La rete di sostegno ai combustibili fossili: attorno all’industria dei combustibili fossili ruota un vasto gruppo di forze che ne appoggiano gli interessi. Sono spesso compenetrate in essa, dominate da essa e dipendenti da essa. Includono industrie che utilizzano i combustibili fossili, l’industria della finanza, imprese contro la protezione del clima, politici e partiti politici, gran parte dei sindacati e persone e istituzioni che ritengono di dipendere dai combustibili fossili per soddisfare le proprie necessità quotidiane.

Neoliberismo: il neoliberismo è un’ideologia che sostiene che dovrebbero essere le forze globali del mercato a decidere i successi umani e che i governi e le altre istituzioni pubbliche dovrebbero interferire solo favorendo i profitti privati. L’ideologia neoliberista non è soltanto una teoria proposta da economisti; essa guida le azioni delle istituzioni dominanti del mondo, comprese le maggiori banche, le industrie, il Dipartimento del Tesoro statunitense e altri ministeri del tesoro, il FMI, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. E’ solita pronunciarsi contro le tasse, le norme, la pianificazione dell’economia, gli investimenti pubblici e altri usi dell’autorità pubblica per qualsiasi scopo tranne la promozione del profitto privato e si oppone all’”interferenza” con le imprese nel loro fare quello che vogliono, compreso distruggere l’atmosfera del pianeta. Svolge perciò un ruolo cruciale nell’impedire un’efficace protezione del clima.

Il sistema degli stati-nazione: in base al consolidato sistema della sovranità degli stati-nazione il governo di ciascuna nazione è legalmente autorizzato a decidere le proprie azioni senza interferenze. Secondo questa teoria nessun interesse più vasto o più a lungo termine può essere imposto alle nazioni senza il loro consenso. Questa dottrina, incorporata nella pratica degli stati e nella struttura delle Nazioni Unite, ha consentito alle nazioni di riversare rifiuti nell’atmosfera e nel futuro comune dell’umanità. Incoraggia la competizione tra stati per l’accumulazione di potere economico. Infine, questo sistema consente alle imprese e ad altri protagonisti privati di perseguire la loro distruzione dell’atmosfera della terra dietro lo scudo della sovranità nazionale.

Nell’ambito di questo sistema, tuttavia, il potere è concentrato in poche nazioni dominanti, spesso alla guida di coalizioni di altri paesi. Anche se gli Stati Uniti e i loro alleati hanno dominato questo sistema nel corso del ventesimo secolo, la Cina e altre nazioni in rapido sviluppo stanno ora sfidando la loro egemonia. La conseguenza è attualmente un’alleanza de facto dei maggiori emittenti di GHG, guidata dagli Stati Uniti e dalla Cina, che, a partire da Copenhagen, ha collaborato per sconfiggere i tentativi di un’effettiva protezione del clima.

La dipendenza dai combustibili fossili, il neoliberismo, il sistema degli stati-nazione e la lotta delle grandi potenze per l’egemonia non sono caratteristiche principalmente di una nazione o dell’altra. Piuttosto sono proprietà dell’ordine mondiale; gli schemi complessivi attraverso i quali la nostra specie ha organizzato la propria vita sulla terra. Come ha detto Richard Falk alla vigilia del vertice di Copenhagen sul clima, l’incapacità dei governi di collaborare per proteggere l’interesse pubblico globale è un misto di “statalismo, capitalismo neoliberista, geopolitica egemonica, presentismo, militarismo e nazionalismo.”

Ostacoli nelle menti e nei cuori degli uomini

A sommarsi a questi ostacoli istituzionali e strutturali ci sono ostacoli che impediscono l’unione di persone e gruppi sociali per intraprendere azioni collettive che blocchino il cambiamento climatico, anche se è loro interesse individuale e collettivo. Includono:

Negazionismo: La negazione del riscaldamento globale può assumere la forma di un rifiuto diretto della scienza e delle prove di esso, basato su pseudo-scienza o ignoranza. Ma può anche assumere la forma di ignorarlo semplicemente o di prestare maggiore attenzione ad altre cose. La promozione della negazione da parte dell’industria dei combustibili fossili e dei suoi alleati e sostenitori (compresa la destra politica negli Stati Uniti) assomiglia alla lunga negazione, da parte dell’industria del tabacco, degli effetti del fumo sulla salute. E’ anche una pratica quasi onnipresente, poiché tutti noi allontaniamo lo sguardo da ciò che è troppo schiacciante da contemplare senza perdere il nostro equilibrio e divenire incapaci di andare avanti con la nostra vita.

Gradualismo: Molti, compresi molti politici e leader del mondo degli affari, dei sindacati e di altre istituzioni ammettono la realtà del cambiamento climatico, ma non appoggiano le misure “estreme” necessarie per fermarlo ora. Alcuni minimizzano il significato del cambiamento climatico come minaccia esistenziali universale e pericolo chiaro e attuale non solo per gli orsi polari ma per l’umanità. Alcuni affermano che non è politicamente realistico affrontarlo aggressivamente, che dobbiamo iniziare lentamente e rimandare a un futuro lontano serie riduzioni dei GHG. Esiste un simile fuorviante gradualismo persino all’interno dello stesso movimento del clima, che assume la forma di un ottimismo infondato che saranno sufficiente soluzioni inadeguate ma politicamente accettabili.

Costi: Molti ritengono che seri sforzi di proteggere il clima determineranno una catastrofe economica per loro e/o per la società nel suo complesso. Possono sentire che il loro lavoro dipende dalla produzione e dall’uso di combustibili fossili accessibili. E possono credere che restrizioni ai combustibili fossili, o prezzi più alti, condurranno alla disoccupazione e alla crisi economica. Tali timori sono alimentati da una potente macchina di propaganda che promuove l’idea che la protezione dell’ambiente sia una minaccia alla prosperità e un’”assassina dell’occupazione”.  

Aspettative che debba pagare un altro paese: la protezione globale del clima sarebbe nell’interesse di quasi tutti, superando di gran lunga i propri costi collettivi. Ma il sistema degli stati-nazione sovrani con contributi molto diseguali al cambiamento climatico – e vulnerabilità a esso – genera una lotta in cui ogni paese cerca di scaricare su altri il costo della protezione del clima in modo da ottenere i benefici senza i costi. Ogni nazione che investe nel tagliare le proprie emissioni paga il costo, ma il vantaggio è condiviso da tutti i paesi, compresi quelli che continuano a emettere GHG a rotta di collo. I negoziati internazionali sul clima sono finiti male a causa del problema di stabilire come andavano distribuiti i costi e i benefici della protezione del clima. E l’opposizione alla protezione del clima nelle politiche nazionali si concentra spesso sulla pretesa che siano per primi “altri paesi” a tagliare le loro emissioni. Poiché la ricchezza e il potere dei paesi e il loro contributo passato, presente e probabilmente futuro al cambiamento climatico variano così ampiamente, c’è spesso conflitto sulla giusta distribuzione dei costi della protezione del clima, con la conseguenza di nessuna protezione del tutto.

Legittimità dello status quo: nella maggior parte delle situazioni, le persone accettano la legittimità delle autorità sotto cui vivono. Anche se percepiscono come dannose per i loro interessi politiche come quelle che portano alla distruzione del clima, normalmente non contestano il diritto delle autorità stabilite di perseguire tali politiche e di punire che tenti di interferire con esse.

Paura dei sommovimenti sociali: anche se alcuni sono elettrizzati dalle sollevazioni popolari, molti altri si spaventano quando vedono immagini mediatiche di folle che si scontrano con la polizia, bottiglie Molotov che volano nell’aria ed economie in avvitamento in seguito all’agitazione sociale. Molti osservano anche che dopo una sollevazione sociale la gente comune spesso gode di minor libertà e subisce condizioni economiche peggiori delle precedenti. Temono le conseguenze dei sommovimenti sociali sia sul loro benessere sia sulla società nel suo complesso. La fede nell’individualismo anziché nell’azione collettiva crea anch’essa una barriera a ogni genere di movimenti sociali.

Considerate queste sfide è facile disperare che ci sia qualcosa che possiamo fare a proposito del cambiamento climatico. Il problema è così devastante e gli ostacoli alla sua soluzione sembrano così insormontabili. Anche molti tra noi che stanno dedicando la propria vita alla protezione del clima provano una profonda disperazione riguardo alla possibilità di arrestare la catastrofe climatica. I nostri sforzi sembrano troppo limitati e troppo tardivi.

Un’insurrezione globale non violenta che faccia rispettare la legge

Il movimento globale sul clima ha gettato le basi per contrastare gli ostacoli che si oppongono alla protezione del clima. Ha creato reti flessibili che possono agevolare rapido coordinamento e mobilitazione di massa su scala globale. Ha attirato decine di milioni di persone all’auto-organizzazione di base. Ha consolidato la propria indipendenza da ogni stato-nazione e da ogni interesse industriale. Ha creato un quadro interpretativo comune e un comune obiettivo: la riduzione del carbonio atmosferico a un livello sicuro per il clima, attualmente stimato in 350 ppm o meno. Ha collegato tale quadro a temi di giustizia sociale. Ha diffuso il suo quadro e il suo obiettivo a centinaia di milioni di persone. E’ andato oltre i limiti dei gruppi di pressione arrivando alla disobbedienza civile. E’ diventato uno dei protagonisti potenti dell’ordine mondiale, in grado di sfidare stati, impresi e altre istituzioni centrali.

Per realizzare i suoi obiettivi, il movimento per la protezione dell’ambiente deve oggi utilizzare le sue capacità per superare gli ostacoli alla  protezione del clima opposti dall’organizzazione dell’attuale ordine mondiale. Deve limitare il cieco perseguimento dell’interesse egoistico e della vanagloria di stati e industrie. Deve alimentare mezzi per formulare e perseguire l’interesse globale comune della protezione del clima. Deve superare l’egemonia che protegge i GHG imposta dalle grandi potenze, soprattutto dagli Stati Uniti. Deve sviluppare una strategia per la trasformazione politica, economica e sociale che protegga il clima proteggendo contemporaneamente i mezzi di sussistenza e il benessere delle persone.

Ciò non pretende di trasformare l’ordine mondiale in una qualche specie di utopia globale. Ma significa cambiare l’ordine mondiale in misure sufficiente a consentire un’efficace protezione del clima.

Perché un’insurrezione non violenta?

Le insurrezioni sono movimenti sociali, ma movimenti di un tipo speciale: rigettano le rivendicazione di autorità legittima degli attuali governanti. Le insurrezioni si sviluppano spesso da movimenti che inizialmente non oppongono tale contestazione all’autorità stabilita. Alla fine, tuttavia, concludono che tale contestazione è necessaria per realizzare i loro obiettivi. Per proteggere efficacemente il clima della terra e della nostra specie il movimento per la protezione del clima può doversi trasformare in una simile insurrezione.

Il termine “insurrezione” è generalmente associato a una ribellione armata contro un governo consolidato. Il suo scopo può essere di rovesciare il governo esistente, ma può anche mirare a cambiarlo o semplicemente a proteggere la gente da esso. Un’insurrezione non violenta persegue obiettivi simili con mezzi diversi. Come un’insurrezione armata, non accetta i limiti alla propria azione imposti dai poteri che contano. Ma diversamente da un’insurrezione armata rifugge dalla violenza e invece esprime potere mobilitando la gente in varie forme di azione non violenta di massa.

Dopo aver seguito con attenzione i grandi scioperi, gli scioperi generali, gli scontri di strada, le rivolte contadine e gli ammutinamenti dell’esercito della Rivoluzione Russa del 1905 che avevano costretto lo Zar a concedere una costituzione, Mohandas (non ancora chiamato “Mahatma”) Gandhi concludeva: “Anche i più potenti non possono governare senza la collaborazione dei governati”. Poco tempo dopo lanciò la sua prima campagna di disobbedienza civile, proclamando: “Anche noi possiamo ricorrere al rimedio russo contro la tirannia”.

I poteri responsabili del cambiamento climatico non potrebbero dominare nemmeno un giorno senza l’acquiescenza di quelli le cui vite il cui futuro stanno distruggendo. Sono solo in grado di proseguire nel loro corso distruttivo perché altri li mettono in grado di farlo, o lo sopportano. E’ l’attività della gente comune –  andare al lavoro, pagare le tasse, acquistare prodotti, obbedire ai funzionari del governo, rispettare la proprietà privata – che ricrea in continuazione il potere dei potenti. Un’insurrezione non violenta a proposito del clima può essere potente se nega tale collaborazione ai poteri veri.

Perché un’insurrezione che faccia rispettare la legge?

La politica elettorale, l’attività lobbistica e forme simili di azione politica “legittima” accettano le “regole del gioco” stabilite e operano entro i loro limiti. Anche se le regole sono manipolate, i partecipanti devono accettare il risultato di ogni data partita e rassegnarsi semplicemente a tentare di nuovo.

Il movimento per la protezione dell’ambiente, adottando la disobbedienza civile, è andato oltre la politica e l’attività tradizionale di “gruppo di pressione” per diventare un movimento di protesta pronto a violare la legge. La disobbedienza civile, anche se generalmente riconosce la legittimità della legge, rifiuta di obbedirle. La disobbedienza civile rappresenta una protesta morale ma, in sé, non contesta la validità legale del governo o di altre istituzioni contro cui è diretta. Piuttosto afferma che il dovere di opporsi alle loro azioni immorali – mediante la discriminazione di una classe di persone o conducendo una guerra immorale o distruggendo il clima – è più vincolante per le persone che il normale dovere di rispettare la legge.

Un’insurrezione che fa rispettare la legge compie un passo più avanti.  Dichiara illegale un insieme di leggi e politiche e si prefigge di stabilire la legge attraverso l’autosostegno non violento. Ma non è formalmente un’insurrezione rivoluzionaria perché non contesta la legittimità della legge fondamentale; piuttosto afferma che i dirigenti in carica violano proprio le leggi che essi stessi affermano giustificare la loro autorità. Tali insorti considerano coloro cui disobbediscono semplicemente come persone che pretendono di rappresentare l’autorità legittima ma che violano loro stessi la legge sotto quella che è nota come la “maschera della legalità”, o la falsa pretesa di autorità. La “disobbedienza civile” è in realtà obbedienza alla legge e una forma di imposizione della legge.

I movimenti sociali impegnati nella disobbedienza civile spesso traggono forma dall’affermazione che la loro violazione della legge e non soltanto moralmente ma anche concretamente un tentativo di far valere principi legali e costituzionali fondamentali vantati dalle autorità cui disobbediscono. Tali giustificazioni legali rafforzano i partecipanti rendendo loro chiaro che non stanno promuovendo preferenze politiche personali mediante mezzi criminosi ma che stanno piuttosto adempiendo un dovere legale. E rafforzano un appello del movimento al pubblico presentando le loro azioni non come violazioni arbitrarie della legge bensì come un tentativo di correggere governi e istituzioni che essi stessi violano la legge.  

Per il movimento dei diritti civili la garanzia costituzionale della parità dei diritti significò che i dimostranti dei sit-in e i viaggiatori della libertà non erano delinquenti, bensì paladini della legge costituzionale. Per la lotta contro l’apartheid, il razzismo era una violazione di diritti umani internazionalmente garantiti. Per gli oppositori della guerra, dal Vietnam all’Iraq, le leggi nazionali e internazionali che vietano i crimini di guerra hanno definito la disobbedienza civile non come un’interferenza nel governo legale e democratico bensì piuttosto come un dovere legale dei cittadini. Per gli attivisti di Solidarnosc la rivoluzione non violenta che rovesciò il comunismo in Polonia non fu una sedizione criminale bensì un tentativo di attuare gli accordi internazionali sui diritti umani e del lavoro ratificati dal loro stesso governo. Come dice Jonathan Schell nella sua introduzione al libro di Adam Michnik  ‘Letters from Prison’ Lettere dal carcere] tali accordi significavano che le azioni di Michnik e dei suoi compagni erano perfettamente legali, “mentre i mezzi usati dalla polizia e dall’apparato giudiziario in Polonia” erano “in flagrante violazione degli accordi internazionali”.

Questi esempi possono sembrare paradossali. Da un lato i membri del movimento sembrano opporsi alla legge costituita e ai funzionari incaricati di farla rispettare. Dall’altro affermano di agire in base alla legge, in realtà di stare essi stessi facendo valere la legge contro gli stati fuorilegge.

Il docente di diritto e storico James Gray Pope ha sviluppato il concetto di “insurrezione costituzionale” per includervi tali casi. Un’insurrezione costituzionale – o quella che potremmo chiamare una “insurrezione per far rispettare la legge” – è un movimento sociale che rifiuta la dottrina costituzionale corrente, ma “piuttosto che ripudiarla nella sua totalità, ne trae ispirazione e giustificazione”. Pope ha descritto come il movimento sindacale statunitense insistette che il diritto di sciopero era protetto dal tredicesimo emendamento alla Costituzione che vietava ogni forma di “servitù involontaria”.  Le ingiunzioni che limitavano gli scioperi erano pertanto incostituzionali. Anche se i tribunali ignorarono tale affermazione, il sindacato radicale Industrial Workers of the World disse ai suoi membri di “disobbedire alle ingiunzioni dei tribunali e di trattarle con disprezzo” e la “normalmente compassata” Federazione Americana del Lavoro affermò che un lavoratore sottoposto a un’ingiunzione incostituzionale aveva il dovere imperativo di “rifiutare l’obbedienza e di subire qualsiasi conseguenza ne possa derivare”.

Tali insurrezioni non si adattano nettamente né al quadro di un rovesciamento rivoluzionario del governo né a quello di riforme condotte entro i limiti delle azioni legalmente consentite così come i tribunali attualmente le interpretano. In pratica i movimenti sociali da molto tempo seguono una via mediana tra la discontinuità costituzionale della rivoluzione, da un lato, e la riforma che accetta la legittimità delle strutture legali correnti, dall’altro. Il concetto di insurrezione costituzionale offre un puntello legale e teorico a questa via di mezzo.

L’idea di un’insurrezione costituzionale o che faccia valere la legge si adatta bene alla pratica dell’azione diretta non violenta, che è extra-costituzionale e tuttavia non diretta a rovesciare, di per sé, il governo. In effetti quando Gandhi affermò durante la sua campagna di disobbedienza civile che “la sedizione è diventata la mia religione” avrebbe potuto dire meglio che era diventato un insorto costituzionale, combattente per i diritti che la legge inglese garantiva ma che negava nella pratica.

Perché un’insurrezione globale?

L’ordine mondiale che perpetua la distruzione del clima è globale, ma è prodotto e riprodotto in luoghi specifici in tutto il mondo. Le soluzioni globali vanno  messe in atto in questi specifici luoghi.

Un’insurrezione globale non è tanto un tentativo di rovesciare un governo o un altro, quanto di trasformare l’ordine mondiale. Esso può sembrare un ordine gigantesco. Ma per certi versi trasformare l’ordine mondiale è più facile che trasformare l’ordine politico e sociale di singole nazioni. Gli ordini mondiali sono notoriamente turbolenti e fluidi; la loro struttura è mantenuta principalmente dal reciproco confronto di centri di potere indipendenti. Essi cambiano in continuazione. Dov’è la divisione del mondo di venticinque anni fa tra i due rivali della Guerra Fredda, o la disciplina economica keynesiana di cinquant’anni fa? E, diversamente dai governi nazionali che operano nell’ambito di costituzioni, con dirigenti scelti attraverso elezioni, l’ordine mondiale non ha la minima pretesa di legittimità. Nessun elettorato ha mai consentito la rivalità tra superpotenze o il neoliberismo globale, o la distruzione del clima del pianeta.

E’ contro questo ordine mondiale illegittimo ma modificabile che un’insurrezione per la protezione del clima è alla fine diretta.

La protezione del clima come dovere legale

Il movimento per la protezione del clima non ha avuto difficoltà nell’articolare le dimensioni morali della distruzione del clima, ma ha trovato più difficile identificare un quadro legale per definire i propri obiettivi e legittimare le proprie azioni. Le leggi e i trattati esistenti sull’ambiente si sono dimostrati inadeguati a far fronte alla sfida del cambiamento del clima. Recentemente, tuttavia, un antico principio legale noto negli Stati Uniti come la dottrina dei beni comuni può star emergendo per svolgere tale ruolo. L’applicazione dei principi dei beni comuni alla protezione del clima è formulata in una serie di cause legali contro governi nazionali e statali. Ma che i tribunali decidano o no di farli valere, i principi dei beni comuni possono mettere a disposizione una base potente per un’insurrezione che faccia rispettare la legge.

I principi su cui si basa la dottrina dei beni comuni hanno radici e analogie in società antiche in Europa, Asia Orientale e Africa e in culture da quella islamica a quella dei nativi americani. Fu codificata dall’imperatore romano Giustiniano nel 535 avanti Cristo. Il codice definiva il concetto delle res communes (cose comuni): “Per legge di natura queste cose sono comuni al genere umano: l’aria, l’acqua corrente; il mare e conseguentemente le coste del mare”. Il diritto di pesca in mare dalla spiaggia “appartiene a tutti gli uomini”. Il codice giustinianeo distingueva le res communes dalle res publicae, cose che appartengono allo stato.

In base alla protezione delle res communes del Codice di Giustiniano, i governi ha a lungo funto da fiduciari di diritti detenuti in comune dal popolo. Nella legge statunitense questo ruolo è definito dalla dottrina dei beni comuni in base alla quale lo stato opera da fiduciario pubblico nell’interesse delle generazioni attuali e future. Anche se è lo stato a detenere la titolarità, il pubblico è il “proprietario beneficiario”. In quanto fiduciario lo stato ha un “dovere fiduciario” nei confronti del proprietario, un dovere legale di agire con “il dovere della massima cura” unicamente nell’interesse dei proprietari. Il principio è riconosciuto oggi sia nei sistemi di common law sia in quelli di legge civile in paesi che vanno dal Sudafrica alle Filippini e dagli Stati Uniti all’India.

La legge internazionale, inoltre, riconosce aree geografiche che sono all’esterno della portata politica di qualsiasi stato-nazione – specificamente l’alto mare, l’atmosfera, l’Antartide, lo spazio oltre l’atmosfera – come “beni comuni globali” governati dal principio che sono “l’eredità comune del genere umano”. Ma non esiste alcuno strumento efficace per affermare il nostro diritto a che il nostro ambiente comune non sia distrutto.

Vertenze sull’atmosfera come bene pubblico

Nel Giorno della Mamma, nel 2011, l’organizzazione giovanile Kids vs. Global Warming (Ragazzi contro il riscaldamento globale) ha organizzato la “iMatter March” [Marcia Io Conto] di ragazzi di 160 comunità di 45 paesi, tra cui Stati Uniti, Russia, Brasile, Nuova Zelanda e Regno Unito. Contemporaneamente l’Atmospheric Trust Litigation Project ha avviato cause e petizioni per conto dei giovani in tutti i 50 stati degli Stati Uniti e presso il governo federale per chiedere che adempiano il loro dovere di proteggere l’atmosfera come proprietà comune. Parlando a una delle manifestazioni il sedicenne Alec Loorz, fondatore di Kids vs. Global Warming e principale querelante nella causa federale, ha detto:

Oggi io e altri ragazzi stiamo denunciando il governo per aver consegnato il nostro futuro a ingiuste industrie dei combustibili fossili e per ignorare il diritto dei nostri figli a ereditare il pianeta che ha sostenuto la nostra intera civiltà. Il governo ha una responsabilità legale di proteggere il futuro dei nostri figli. Perciò noi stiamo esigendo che riconosca l’atmosfera come bene comune che deve essere preservato e si impegni in un piano per ridurre le emissioni a un livello sicuro.”

I querelanti e quelli che hanno presentato petizioni in tutte le cause sono giovani” ha aggiunto. “Ci stiamo schierando per il nostro futuro.”

Le denunce sostengono che l’atmosfera appartiene in comune a tutte le persone della generazione attuale e di quelle future. I governi sono al loro servizio come fiduciari ma non sono proprietari dell’atmosfera. I governi hanno un dovere sovrano di prevenire un sensibile deterioramento di queste risorse pubbliche cruciali. Le denunce si propongono di ottenere sentenze dichiarative che applichino la dottrina dei beni pubblici all’atmosfera della terra e chiedono ai tribunali di emettere ingiunzioni che ordinino alle amministrazioni federali e statali di ridurre le emissioni di carbonio per adempiere il loro dovere di proteggerla. Cause simili sono previste in paesi di tutto il mondo.

Anche se sinora i tribunali hanno rigettato la maggior parte di queste cause sull’atmosfera come bene pubblico, le sentenze sono appellate.  Il 3 ottobre 2013 la Corte Suprema dell’Alaska è stata la prima corte suprema a tenere un’udienza su un appello di questo genere.

Un fiduciario ha “un dovere attivo di vigilanza per ‘prevenire deterioramento o sperpero’ del patrimonio”, secondo la docente di diritto dell’Università dell’Oregon Mary Christina Wood, il cui nuovo libro ‘Nature’s Trust: Environmental Law for a New Age’ [Il fondo fiduciario della natura: legge ambientale per una nuova era] espone le basi legali delle cause. “Sperperare” significa “danneggiare permanentemente”. Se il bene è sperperato nell’interesse di una generazione di beneficiarie a danno di generazioni future, si tratta in effetti di un atto di “furto generazionale”.

Quando un bene fiduciario attraversa i confini di governi sovrani, tutti i sovrani con giurisdizione sul territorio naturale del ben hanno un legittimo titolo di proprietà sulla risorsa. Dunque tutte le nazioni della terra sono “co-locatarie fiduciarie” dell’atmosfera globale. Hanno il dovere di non commettere sprechi della proprietà comune. I governi, perciò, hanno un dovere legale nei confronti dei propri cittadini, e anche nei confronti di altri paesi, di proteggere il patrimonio atmosferico. Sia i cittadini beneficiari, sia altri stati sovrani possono avviare cause legali contro quelli che “danneggiano la proprietà comune”. La dottrina dei beni comuni stabilisce così obblighi globali di proteggere i beni comuni globali, anche in assenza di trattati o una legge internazionale sul clima. 

Riparazioni eque

Se un tribunale accogliesse le accuse contro i fiduciari co-locatari – le nazioni del mondo – cosa potrebbe ordinare loro di fare? Una soluzione consisterebbe nell’affrontare le questioni principali in cui i negoziati internazionali sulla protezione del clima sono inciampati: quante emissioni di GHG dovrebbero essere tagliate e quanto rapidamente e come andrebbe distribuito l’onere della protezione.

Secondo eminenti climatologi, come il dottor James Hansen, per evitare un catastrofico cambiamento climatico è necessario ridurre il carbonio atmosferico a 350 ppm o meno.  Prendendo come base il 2012, una riduzione globale annua delle emissioni dei combustibili fossili pari al 6%, combinata con l’assorbimento di 100 gigatonnellate di anidride carbonica mediante la riforestazione e una silvicoltura e agricoltura migliorate, ridurrebbe la concentrazione atmosferica di anidride carbonica a 350 ppm entro la fine del secolo. Ciò probabilmente renderebbe necessario arrivare a quasi zero emissioni di carbonio probabilmente entro il 2050 circa. Dunque i tribunali dovrebbero imporre un cronogramma terminante con emissioni prossime a zero.

Anche se questi calcoli scientifici indicano ciò che il mondo nel suo complesso dovrebbe fare, paesi diversi sono molto diversi sia nel loro contributo agli scarichi nell’atmosfera sia nei probabili effetti di ciò su di essi. Quando si ha uno sperpero di un bene comune, i tribunali attribuiscono “quote eque” dei costi di riparazione alle varie parti responsabili. Mary Christina Wood identifica cinque fattori che i tribunali dovrebbero valutare nell’assegnare ai paesi quote eque di soluzione del riscaldamento globale:

            Quota globale delle emissioni di carbonio attuali: gli Stati Uniti e la Cina sono ciascuno responsabili di circa il 20 per cento delle attuali emissioni di GHG.

            Quota storica delle emissioni: gli Stati Uniti sono responsabili di circa il 30% delle emissioni storiche di carbonio.

            Emissioni pro capite: gli Stati Uniti producono circa 20 tonnellate di anidride carbonica per ciascuno statunitense, in confronto con le 1,16 dell’India per ciascun indiano.

            Scopo delle emissioni: la priorità principale andrebbe attribuita alla soddisfazione di bisogni umani fondamentali; poi alla creazione di nuove infrastrutture per una società a basso carbonio; e infine a lussi non essenziali e superficiali.

            Resistenza dello stato sovrano ad assumersi la responsabilità del proprio inquinamento.

Uno studio diffusamente citato intitolato Quadro dei Diritti di Sviluppo dei Gas Serra (GDRF), preparato dallo Stockholm Enviromental Institute e da EcoEquity, ha già quantificato i primi quattro di questi fattori. Esso valuta la responsabilità e il potenziale di riduzione dei GHG di ciascun paese. La responsabilità è misurata dalle emissioni di GHG cumulative del paese a partire dal 1990. Il potenziale è basato sulla capacità di un paese di ridurre le emissioni senza minacciare la sopravvivenza di base del suo popolo. E’ derivato dal reddito nazionale, ma non conteggia il reddito necessario per le necessità della vita quotidiana. Esso tiene dunque conto della distribuzione disuguale del reddito all’interno dei paesi, assicurando che i poverissimi non debbano pagare per un problema che hanno fatto poco per creare. Il risultato finale è una valutazione della quota equa di riduzione di GHG per ciascun paese. Prese insieme, le quote rappresentano il totale dei tagli che gli scienziati stimano necessari per raggiungere le 350 parti per milione entro la fine del ventunesimo secolo.

Se i tribunali stabilissero che i fiduciari co-locatari danneggiano il bene comune atmosferico in violazione del loro dovere fiduciario di proteggerlo, quali riparazioni dovrebbero offrire? Innanzitutto dovrebbero emettere una sentenza dichiaratoria che esprima il dovere fiduciario di tutti i governi di proteggere l’atmosfera come patrimonio condiviso in comune, da attuarsi mediante una prescrizione scientifica di riduzione del carbonio a livelli inferiori alle 350 ppm.

Secondo: i tribunali dovrebbero emettere ingiunzioni che prescrivano a tutte le entità governative di prendere le misure necessarie per attuare questo dovere. Tali ingiunzioni potrebbero prescrivere “rendiconti delle emissioni” che quantifichino le emissioni di carbonio e ne seguano la riduzione nel tempo. Possono includere “bilanci esecutivi del carbonio” che fissino progressi quantificabili. E possono prescrivere rapporti periodici sui progressi.

Non è necessario che i tribunali dicano al governo come realizzare il suo dovere, ma possono prescrivergli di presentare un piano che dimostri come lo farà. Se il piano non è attuato, i tribunali possono emettere essi stessi ingiunzioni che vietino specifiche attività dannose, come l’emissione di permessi per nuovi impianti energetici a carbone o quote eccessive di inquinamento dell’aria. Alla fine possono giudicare colpevoli di oltraggio alla corte i governi che disobbediscano. 

L’immissione di rifiuti nell’atmosfera è in larga misura attuata da imprese private. Nella legge sulle amministrazioni fiduciarie “i fiduciari hanno il dovere positivo di recuperare i danni monetari da parti terze che distruggono il patrimonio fiduciario”. Nel caso di un bene comune pubblico “tutte le entità sovrane hanno teoricamente titolo alla riparazione dei danni prodotto dai terzi che distruggono il bene fiduciario”. Prescrivere alle industrie dei combustibili fossili di rimborsare i danni del colossale danneggiamento che hanno causato al bene comune fiduciario farebbe un grosso passo avanti in direzione del pagamento della transizione a un’economia a basso carbonio.

Un’insurrezione per proteggere il bene comune pubblico dell’atmosfera?

Per quanto convincente possa essere la logica dell’atmosfera come bene comune, è facile immaginare che molti tribunali statunitensi si rifiuteranno di costringere le amministrazioni ad adempiere tali obbligazioni. In una memoria per il rigetto della causa in Kansas, gli avvocati hanno definito la denuncia “un desiderio infantile di un mondo migliore”, che non è qualcosa a proposito della quale un tribunale possa fare molto. “E’ una vertenza dall’esito assolutamente improbabile” secondo Michael Gerrard, direttore del Centro per il Diritto sul Cambiamento Climatico presso la scuola di legge della Columbia University.

La triste realtà è che virtualmente tutti i governi della terra – e i loro sistemi legali – sono profondamente corrotti dalle stesse forze che guadagnano dalla distruzione dei beni comuni globali. Essi esercitano un potere illegittimo senza alcuna considerazione per i loro doveri nei confronti di coloro che affermano di rappresentare, per non parlare dei beneficiari di diritti comuni di altre terre e di generazioni future.

In effetti il tentativo di bloccare il riscaldamento globale avviando cause legali in tribunali governativi per far valere la dottrina dei beni pubblici sembrerebbe una lotta contro l’interno ordine mondiale incontrando tutti gli ostacoli citati in precedenza. 

Ma proteggere l’atmosfera non è soltanto una faccenda dei governi. Il fallimento dei governi nel proteggere i beni comuni globali sta attualmente spingendo il movimento per la protezione del clima a rivolgersi alla disobbedienza civile di massa, come testimoniato dalle campagne contro l’oleodotto Keystone XL, contro l’estrazione di carbone rimuovendo le cime delle montagne e contro le centrali energetiche alimentare a carbone. Considerate nell’ottica della dottrina dei beni comuni, queste azioni sono tutt’altro che illegali. In realtà esse incarnano il tentativo della gente di tutto il mondo di affermare il proprio diritto e la propria responsabilità di proteggere la proprietà comune. Mostrano persone che agiscono in una situazione d’emergenza riguardante una necessità evidente. Rappresentano persone che scendono in campo per far valere la legge dove governi corrotti e illegittimi sono venuti meno alla loro responsabilità di farlo.

Come ha detto Alec Loorz: “Non ci schiereremo soltanto nei tribunali. Ci schiereremo anche nelle strade”.

Rendere climaticamente sicuro un paese

Il movimento per la protezione del clima ha avuto poca difficoltà nel mostrare i mali del cambiamento climatico. Ma ha incontrato molte più difficoltà nell’offrire una risposta credibile su come compiere la transizione a un’economia climaticamente sicura senza disoccupazione di massa e una catastrofe economica. Quando gli è stato chiesto che cosa sarebbe successo se i dimostranti fossero riusciti a far chiudere definitivamente un impianto a carbone, un ben noto e riflessivo attivista del clima ha risposto: “Se la domanda è ‘che cosa facciamo dopo averlo chiuso domani’ dev’essere qualcuno altro a immaginarlo”. Assicurazioni superficiali che la protezione del clima produrrà più occupazione di quanta ne distrugga non sono sufficienti.

Questa reticenza è in parte dovuta a mentalità che scoraggiano una visione alternativa realistica. Una rapida riduzione delle emissioni di GHG non si può realizzare senza liberarsi dai dogmi neoliberisti che hanno dominato la politica pubblica negli ultimi trent’anni. Né può essere realizzata semplicemente da iniziative locali per creare comunità resilienti o convincere le persone a farsi bastare di meno. Rivoluzioni che producano nuovi regimi protettori del clima in ciascuno dei paesi del mondo sembrano improbabili nell’arco di tempo necessario per prevenire un cambiamento climatico devastante. Sono concepibili altre visioni più attuabili?

Supponiamo che una forza potente – legale o popolare – prescriva ai governi di adempiere il loro dovere nei confronti del bene pubblico atmosferico. Se – attraverso una qualche combinazione di processi decisionali, ingiunzioni legali, rivendicazioni del pubblico, pressioni internazionali e contestazioni di insorti – un paese decidesse di ridurre le sue emissioni di gas serra a un livello compatibile con il raggiungimento globale delle 350 ppm, come potrebbe farlo? Consideriamo, per esempio, gli Stati Uniti. Che tipo di piano d’azione climatico adempirebbe i loro doveri di fiduciari pubblici?

Come abbiamo visto, per raggiungere le 350 ppm entro la fine del secolo, partendo come base dal 2012, sarà necessaria una riduzione globale del sei per cento l’anno delle emissioni di combustibili fossili, combinata con la sottrazione di 100 gigatonnellate di anidride carbonica dall’atmosfera. Le emissioni globali di carbonio dovranno essere prossime allo zero entro circa il 2050. La quota equa di riduzione sarebbe notevolmente superiore per paesi ricchi come gli Stati Uniti che in passato hanno riversato grandi quantità di GHG.

Studi mostrano che una simile riduzione è tecnicamente realizzabile e suggeriscono vari percorsi per conseguirla. Può essere attuata sulla base delle tecnologie disponibili, ma la rapida espansione della ricerca e dei mercati produrrà probabilmente, lungo il cammino, un miglioramento molto rapido della tecnologia. La riduzione può essere basata sulle tecnologie delle energie rinnovabili e di una ridotta domanda di energia. Non necessiterà di energia nucleare, geo-ingegneria o assorbimento e deposito di carbonio, ciascuna delle quali cose è probabilmente molto più lenta, più costosa e più pericolosa dal punto di vista ambientale rispetto alle energie rinnovabili e alla riduzione della domanda. (e poiché raggiungere rapidamente le 350 ppm richiede una rapida conversione alle rinnovabili e una domanda ridotta, c’è solo una limitata necessità di gas come combustibile di transizione).

I bersagli più importanti per la riduzione dei GHG sono l’elettricità, i trasporti e gli edifici. I combustibili fossili possono essere abbandonati gradualmente nella produzione di elettricità – la maggiore fonte singola di GHG – grazie alle fonti di energia rinnovabili, a tecnologie di efficienza energetica, a misure di tutela, a nuove linee di trasmissione e a nuove tecnologie d’immagazzinaggio dell’energia. I trasporti privati basati sul petrolio possono essere sostituiti da trasporti pubblici e automobili alimentati con energie rinnovabili e biocombustibili.  I trasporti merci su strada possono essere trasferiti a trasporti via ferrovia o a veicoli a biocombustibile. Virtualmente tutti gli edifici possono essere resi molto più efficienti mediante isolamento, interventi di adeguamento contro gli agenti e i fenomeni atmosferici, cogenerazione e riscaldamento e raffrescamento solari e geotermici. Contribuiranno anche molte altre strategie, che spaziano dalla riprogettazione dell’industria all’integrazione urbana e alla pianificazione dei trasporti e dall’espansione delle foreste alla riduzione dei combustibili fossili in agricoltura.

Ci sono tre approcci principali alla riduzione dei GHG.  Il primo, che ha dominato la legiferazione e la negoziazione dei trattati sul clima, consiste nell’”imporre un prezzo alle emissioni di carbonio” per scoraggiarle mediante tasse, imposte, sistemi di scambi limitati ad un tetto massimo [cap and trade] con mercati delle quote di emissione o mezzi simili. Il secondo, ampiamente dibattuto e spesso attuato su piccola scala, consiste iniziative locali, spesso a livello di comunità, progettate per produrre energie rinnovabili e ridurre i consumi energetici su base decentrata. Il terzo, forse esposto dai suoi promotori meno spesso di quanto sia stroncato dai suoi avversari, consiste in un approccio centralizzato, guidato dal governo, basato su pianificazione economica, investimenti pubblici, mobilitazione di risorse e intervento diretto dello stato nelle decisioni economiche. Anche se queste sono presentate spesso come scelte alternative, una rapida riduzione delle emissioni di GHG le renderà probabilmente necessarie tutte e tre.

Mobilitazione – Il modello della seconda guerra mondiale

La mobilitazione economica per la seconda guerra mondiale è spesso usata come pietra di paragone dell’approccio diretto dal governo, o per mostrare la realizzabilità di un cambiamento dell’economia rapido e massiccio, o per rivelare i mali di un’”economia a pianificazione centrale” che interferisce radicalmente con il mercato privato. Anche se Al Gore e altri hanno citato la mobilitazione della seconda guerra mondiale come possibile modello per la protezione del clima, ci sono state poche presentazioni approfondite di come un approccio simile potrebbe funzionare in pratica. Fortunatamente due documenti recenti di Laurence L. Delina e di Mark Diesendorf esaminano la mobilitazione economica della seconda guerra mondiale e suggeriscono quali lezioni – positive e negative – possono esserne ricavate per una rapida riduzione delle emissioni di GHG. Gli autori sostengono che la protezione del clima può ben richiedere una mobilitazione diretta dal governo della portata e delle dimensioni della seconda guerra mondiale, ma che le forme particolari che prende una mobilitazione simile dovranno essere diverse, sia a causa delle differenze di scopo e sia perché i progetti fanno sorgere problemi diversi.

La dimensione e la portata della mobilitazione economica statunitense per la seconda guerra mondiale furono davvero impressionanti. La spesa militare degli Stati Uniti salì dai meno di 2 miliardi di dollari del 1940 a più di 90 miliardi di dollari nel 1944, un aumento di più di un trilione in dollari del 2010. Nei cinque anni della guerra gli Stati Uniti produssero 300.000 aerei, 100.000 navi e venti milioni di fucili. Gli investimenti in ricerca e sviluppo produssero tecnologie radicalmente nuove; gli Stati Uniti spesero più di 20 miliardi di dollari del 2008 e impiegarono direttamente e indirettamente più di 100.000 persone nel solo Progetto Manhattan, attraverso il quale fu prodotta la prima bomba atomica.

La produzione bellica fu basata su strategie per la finanza, il lavoro e l’amministrazione [governance].

La spesa militare, enorme e in rapida crescita, fu pagata principalmente mediante tasse e indebitamento. Gli introiti fiscali del governo statunitense salirono da meno di 9 miliardi di dollari nel 1941 a 45 miliardi di dollari nel 1945. Ottantacinque milioni di statunitensi acquistarono i buoni di guerra e altri titoli simili per un valore di 185 miliardi di dollari, più di 2 trilioni di dollari del 2010.

Il numero di statunitensi occupati all’esterno dell’esercito aumentò di 7,7 milioni tra il 1939 e il 1944. Organismi governativi reindirizzarono i lavoratori alla produzione militare, a volte minacciandoli, altrimenti, di arruolarli. Le donne entrarono nella manodopera industriale su una scala senza precedenti. Il governo provvide all’addestramento di milioni di lavoratori. Il Comitato di Guerra sul Lavoro fissò salari e prescrisse ai datori di lavoro di negoziare collettivamente con i sindacati dei dipendenti. Il governo costruì case e fornì assistenza sanitaria e asili per i lavoratori bellici.

Il governo statunitense creò il Comitato della Produzione Bellica, presieduto da un “zar della guerra” che, assieme a più di 160 altre agenzie di guerra, rilevò la direzione di gran parte dell’economia statunitense, sostituendo funzionalmente gran parte del mercato privato. Il governo statunitense controllò direttamente più del 40 per cento della produzione nazionale di beni e servizi. Fissò obiettivi di produzione, controllò e gestì l’industria e decise quali produttori potevano ottenere materiali essenziali. Gestì importanti industrie e persino acquistò e fu proprietario di fabbriche belliche. Poté costringere le imprese ad accettare contratti governativi e requisizioni di proprietà private. Poté bloccare la produzione che interferiva con le necessità militari: dal 1942 al 1944 il governo semplicemente arrestò la produzione di auto private. Creò controlli finanziari e bancari e regolò l’economia mediante politiche fiscali e monetarie, controlli sui salari e sui prezzi, e razionamento. Offrì contratti fortemente redditizi, sovvenzioni e agevolazioni fiscali alle imprese private, ma impose loro anche una tassa sui profitti eccessivi.

Mobilitazione per la protezione del clima

La dimensione e la portata del cambiamento necessario per raggiungere le 350 ppm sono certamente paragonabili a quelle della mobilitazione per la seconda guerra mondiale. Comporteranno una grande quantità di nuova produzione e parte della produzione attuale dovrà essere bloccata. Ma la natura del compito è piuttosto diversa. Lo scopo non è soltanto di intensificare la quantità della produzione, o soltanto di trasferirla a un nuovo insieme di prodotti. Anche se ciò è necessario, il compito va molto al di là di questo e verso una trasformazione qualitativa di un’economia – e di una società – basata su tecnologie molto diverse. Il compito richiederà molto più tempo, richiederà una pianificazione a lungo termine e deve essere realizzato in un modo che sia permanentemente sostenibile. Comunque, come la mobilitazione bellica, richiederà strategie per la finanza, il lavoro e l’amministrazione.

Finanza: Il contesto di partenza della protezione del clima è il grande fallimento dei mercati privati nell’investire nelle energie rinnovabili e nella riduzione della domanda di energia e per correggerlo saranno necessari grandi investimenti pubblici. Tale mobilitazione richiederà anche lo sviluppo pianificato a lungo termine e su larga scala di nuove infrastrutture e di altri sistemi ben oltre il potenziale delle imprese private. Nel tempo il costo della trasformazione economica si ridurrà, sia perché il potenziale delle energie rinnovabili è costoso da costruire da economico da gestire, e perché i costi scenderanno inevitabilmente grazie alle economie di scala della produzione di massa e alle migliorate tecnologie di produzione. I costi iniziali della trasformazione saranno, tuttavia, elevati.

Gli Stati Uniti avvieranno tale sforzo, come fecero nella mobilitazione per la seconda guerra mondiale, con un considerevole ma sottoutilizzato potenziale fisico e umano. Semplicemente occupare pienamente tali risorse, come nella seconda guerra mondiale, creerà gran parte della base dell’espansione necessaria della produzione. Tuttavia una simile economia di piena occupazione richiederà politiche fiscali e monetarie mirate a mobilitare tali risorse sottoutilizzate con tecniche keynesiane di disciplina della domanda, forse combinate con controlli dei salari e dei prezzi, per limitare l’inflazione.

Nel contesto di una crescente capacità produttiva la tassazione può svolgere un ruolo fondamentale nel garantire le risorse necessarie per rapidi investimenti in energie rinnovabili e in contenimento dell’utilizzo. La tassazione delle emissioni di carbonio – che siano chiamate tasse, imposte, o scambi di quote entro un tetto massimo – ha il vantaggio aggiuntivo di offrire incentivi di mercato alla conversione a minori emissioni di GHG. Strumenti quali incentivi in termini di prezzo dell’energia, tassazione delle utenze e finanziamento in bolletta della conversione del servizio possono anch’essi svolgere un ruolo. La tassazione progressiva, particolarmente dei beni di lusso che causano inquinamento da carbonio, può prevenire effetti perversi di impoverimento della popolazione. L’indebitamento pubblico mediante collocamento di titoli può mettere a disposizione fondi considerevoli e poco costosi grazie ai bassi tassi del debito governativo e agli elevati ritorni a lungo termine degli investimenti in energia pulita. Banche, cooperative di credito e fondi di investimento e credito a finalità pubblica possono mettere a disposizione risorse finanziarie più decentrate, specialmente per progetti di scala minore e a base comunitaria.

Un’altra fonte di finanziamento della transizione alla sicurezza climatica potrebbe essere l’esazione dei danni causati dalle imprese per i rifiuti immessi nel bene comune atmosferico. I governi, nella loro qualità di fiduciari del bene comune, possono avviare azioni legali per recuperare i “Danni alla Risorsa Naturale”; si prendano come esempio le transazioni per le fuoruscite della Exxon Valdez e della BP. La Legge Generale sulla Risposta,  i Risarcimenti e le Responsabilità Ambientali del 1980 (o CERCLA, nota come legge del “Superfondo”) prevede una vasta autorità federale di ripulire le fuoruscite di sostanze pericolose e autorizza l’EPA a imporre alle parti responsabili di rimborsare le opere di risanamento, anche se gli scoli hanno avuto luogo molto prima dell’approvazione della legge.  Leggi analoghe potrebbero ritenere i maggiori produttori ed emittenti di combustibili fossili responsabili dei loro danni colossali all’atmosfera e del colossale costo del loro rimedio.  

Lavoro: Quasi dodici milioni di statunitensi sono oggi ufficialmente disoccupati; più di otto milioni vogliono un lavoro a tempo pieno ma sono impiegati solo a tempo parziale; 2,6 milioni vogliono lavorare e hanno cercato lavoro nell’ultimo anno ma attualmente non lo cercano più. E’ dunque disponibile una riserva di più di 20 milioni di lavoratori per lavorare alla protezione del clima. Saranno tuttavia necessari modi per reindirizzare i lavoratori nei settori di crescente occupazione. Durante la seconda guerra mondiale ciò fu fatto dal Comitato di Guerra sul Lavoro che reclutava attivamente lavoratori per regioni e industrie dove erano più necessari e controllava i salari per limitare offerte competitive per manodopera scarsa. Il governo dovrà assumere un ruolo di guida nella rapida espansione dell’istruzione e dell’addestramento di nuova manodopera.

Nuove politiche del lavoro saranno necessarie sia per proteggere il numero relativamente limitato di lavoratori che perderanno il posto nelle industrie legate ai combustibili fossi sia per garantire sostegno popolare alla trasformazione, provvedendo a condizioni di vita migliorate per la popolazione. Come nella seconda guerra mondiale, perché il cambiamento sia generalmente accettato come equo sarà necessaria una politica dei redditi. Un sistema di stato sociale in stile nordico che combini la piena occupazione, un elevato livello di reddito per i disoccupati e un forte sostegno al riaddestramento e a nuova occupazione sarà necessario per rispondere ai timori che il cambiamento porti a un disastro per i lavoratori. Possono svolgere un ruolo simile la pianificazione, gli investimenti e gli incentivi pubblici a nuove opportunità di occupazione nelle regioni, industrie e occupazioni colpite. Come nella seconda guerra mondiale, il diritto dei lavoratori a organizzarsi e negoziare collettivamente con i loro datori di lavoro sarà essenziale per assicurare la partecipazione popolare alla mobilitazione e per proteggere i lavoratori da abusi.

Amministrazione: Per mettere in atto molte di queste trasformazioni sarà necessaria l’azione del governo. Delina e Diesendorf elencano la creazione di incentivi e disincentivi finanziari, la raccolta di capitali, la messa in atto di strategie dell’occupazione, l’organizzazione del finanziamento di infrastrutture quali le linee di trasmissione, le ferrovie e le condutture, il finanziamento di ricerca e sviluppo, la creazione e il controllo di parametri di efficienza energetica per gli edifici, gli elettrodomestici e le attrezzature, l’addestramento e il riaddestramento di professionisti e commercianti e la creazione di politiche di localizzazione delle industrie. Inoltre le sfaccettate attività delle agenzie federali, delle amministrazioni federali e municipali, delle imprese e dei gruppi della società civile  necessiteranno di essere coordinate per incoraggiare la cooperazione.

Tale coordinamento, come nella seconda guerra mondiale, richiederà un’autorità governativa centrale. Tuttavia, a motivo dell’esteso periodo della transizione, saranno necessarie misure per prevenire che una tale autorità devii dal suo proposito previsto o per sua ambizione di grandeur o per quella di altre forze sociali.

Delina e Diesendorf propongono due agenzie, indipendenti l’una dall’altra, per guidare la transizione a un’economia a bassi GHG. La prima, seguendo il modello generale del Comitato della Produzione Bellica, avrebbe la responsabilità complessiva della riduzione del carbonio. Si occuperebbe di “condurre studi di fabbisogni tecnici, di fissare e far rispettare obiettivi di produzione per le RET [tecnologie energetiche rinnovabili], istituire efficienti procedure di appalto, tagliare l’inerzia e la “burocrazia” che contrastano i cambiamenti istituzionali e di operare da agenzia coordinatrice di tutte le attività della transizione”. Un’istituzione separata di bilanciamento sarebbe creata per svolgere un ruolo di pianificazione e di controllo. Sarebbe indipendente dal ramo esecutivo e superiore all’agenzia della transizione; riferirebbe al parlamento e al pubblico. Fisserebbe scadenze all’autorità esecutiva, provvederebbe a pesi e contrappesi, verificherebbe le azioni del governo e assicurerebbe “che il governo/l’esecutivo si attengano al mandato della transizione”.

Anche se il governo avrà un ruolo di guida, anche i mercati avranno un ruolo cruciale. La maggior parte delle attività economiche continuerà a essere coordinata attraverso i mercati, pur se influenzati da nuove politiche pubbliche. Approcci basati sul mercato, come incentivi dei prezzi dell’energia, tassazione del carbonio, imposte e /o quote contribuiranno a reindirizzare la produzione e gli investimenti a tecnologie e prodotti a bassi GHG nella miriade di aree non coperte da politiche governative dirette.

Infine l’organizzazione della società civile avrà almeno un ruolo altrettanto critico. Oggi moltissimi programmi a base comunitaria locali e regionali avviati dal basso sono già impegnati nel promuovere la transizione a un’economia e a una società climaticamente sicure. Anche in una transizione diretta dal governo possono realizzare rinnovabili a base comunitaria, ridurre l’uso dell’energia, mobilitare finanziamenti e promuovere nuovi modelli di consumo di propria iniziativa. Cosa forse più importante, possono offrire sia sostegno popolare alla transizione sia mezzi per far rispondere delle loro responsabilità le istituzioni della transizione.

Molte simili attività di protezione del clima sono già in corso, anche se in forma non concertata. Il governo statunitense, ad esempio, ha riorganizzato l’industria automobilistica in modo che produca auto con emissioni di carbonio fortemente ridotte. La mobilitazione del pubblico, combinata con le norme dell’EPA e con forze economiche, ha già virtualmente bloccato la costruzione di nuove centrali energetiche a carbone e ha portato alla chiusura di più di 140 di quelle esistenti. In Germania le politiche dei prezzi dell’energia hanno già portato a una grande espansione delle rinnovabili: il 25% dell’elettricità tedesca ora proviene da fonti solari, eoliche e da biomasse. E iniziative decentrate della società civile stanno adeguando le case dal punto di vista climatico, istallando pannelli solari e premendo su governi e imprese a ogni livello per una transizione alle basse emissioni di carbonio. Queste attività mettono a disposizione un terreno preparato perché altre misure estese di protezione del clima possano svilupparvisi. Agevoleranno anche la continua correzione della rotta fino a quando non sarà raggiunto un livello sicuro di GHG.

Jeremy Brecher è cofondatore e membro della squadra principale della Labor Network for Sustainability[ Rete sindacale per la sostenibilità]. E’ autore di più di una dozzina di libri sui movimenti sindacali e sociali e ha ricevuto cinque premi Emmy regionali per il suo lavoro di documentarista cinematografico. Un’edizione aggiornata della sua storia del sindacato ‘Strike!’ [Sciopero!] (PM Press 2014) includerà un nuovo capitolo sulle mini-rivolte della classe lavoratrice nel ventunesimo secolo.  


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Originale: http://fpif.org/nonviolent-insurgency-climate-protection/

L’opuscolo è pubblicato da Foreign Policy in Focus – Dicembre 2013

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