Norbert Bobbio

Che cos'è la democrazia?

Una Definizione di "Disobbedienza Civile"

Che cos'è la democrazia?

" Qualcosa di più di una forma di governo. E' prima di tutto un tipo di vita associata di esperienza continuamente comunicata; un modo di vivere che comporta la necessità di poter partecipare alla formazione di valori che regolano la vita associata degli uomini."
John Dewey

"Nel vangelo secondo Luca sta scritto che «il Regno di Dio è nell'uomo» , non in un uomo o in un gruppo di uomini! In Voi! Voi, il popolo, voi che avete il potere, il potere di creare le macchine, il potere di creare la felicità. Voi, il popolo, voi che avete il potere, il potere di rendere questa vita libera e bella, il potere di rendere questa vita una magnifica avventura. E allora, in nome della Democrazia, usiamo questo potere, uniamoci tutti."
Il Grande Dittatore - Charlie Chaplin

La democrazia è da sempre stata l'elemento cardine delle più svariate discussioni in cui si siano cimentati pensatori e filosofi di ogni tempo. Tra i primi che abbiano reso la democrazia argomento delle proprie trattazioni non possiamo non menzionare il filosofo Platone, il quale aveva strutturato il proprio modello di società cosicché fossero i filosofi ad assumere la carica di rappresentanti del popolo e a tenere le redini del governol nella prospettiva di una convivenza armonica fra le classi socialil conformemente ad un chiaro principio di giustizia. Secondo il filosofo greco, tuttavia, si imponeva 1'esigenza che la democrazia stessa non degenerasse in una attività di carattere demagogico. Al filosofo ateniese mosse considerevoli critiche Aristotele, il quale concepiva la miglior forma di governo come intermediazione tra oligarchia e democrazia in senso strettol modello a cui egli fornì la denominazione di politia.

Alle teorie classiche, tramite l'edificio giuridico proposto da Marsilio da Padova, si ricongiunge il modello giusnaturalistico elaborato dal pensatore Ugo Grozio, che sanciva la necessità di affermare il diritto di natura, rivelatosi fondamento della proposta liberale offerta da John Locke. Nello schema lockiano Società e Stato si identificano con le principali entità della vita civile: la prima verte sulla legge naturale, che pone in risalto il diritto alla vita, alla proprietà, alla libertà, secondo un procedimento razionale; il ruolo del secondo consiste invece nel divenire garantel nei confronti dei cittadini, della difesa dei diritti in questionel esposti in una costituzione (costituzionalismo) mediante l'esercizio separato dei poteri esecutivo e legislativo. In tal senso, la ripartizione dei poteri è riconsiderata dal filosofo Montesquieu come strumento indispensabile all' organizzazione di un corretto apparato statale. Un ulteriore peculiarità del sistema democratico è rilevabile nel rapporto contrattualistico tra governati e governanti, così com'era evidenziato da J. J. Rousseau, il quale riteneva che nella democrazia si individuasse la migliore opportunità per esprimere la sovranità popolare (come d'altronde suggerisce l'etimo del termine, di origine greca: demòsl e kràtos, ossia “ governo del popolo”) e che la volontà generale scaturisse da una sorta di "somma" del potere di tutti. Secondo il pensiero di Norberto Bobbio, inoltre, insorge la necessità che un' organizzazione politica di stampo adeguatamente democratico si basi su due essenziali principi: 1) che la partecipazione, diretta o indiretta, alla vita politica, sia generale; 2) che la decisione sia assunta secondo il principio di maggioranza, in seguito ad una libera discussione. A questi rilevanti asserti è associabile il cosiddetto "principio di uguaglianza"l che esprime, per l'appunto, l'irrinunciabile uguaglianza tra tutti i cittadini. Nell' ottica che il sistema di un governo segua un proprio sviluppo, è auspicabile che si conferisca un contesto pratico ai principi stessi, in accordo con la speranza, del resto manifestata anche dal filosofo Immanuel Kant, nel raggiungimento di una condotta civica e sociale che ottemperi ai precetti morali.


A tale direttrice teorica si connette l'ideale etico propugnato dal pedagogista statunitense John Dewey, il quale ravvisava la necessità di costruire un sistema politico che implicasse una democrazia in costante autopianificazione e che, a sua detta, stimolasse l'attività razionale dell'uomo, nel contesto di un libero scambio di idee finalizzato alla cooperazione tra i singoli individui e alla resa di un beneficio alla società. Ciò, secondo il parere dello stesso Dewey, è attuabile fruendo del valido strumento dell' educazione configurata come una riconsiderazione dell' esperienza in grado di indirizzare il singolo cittadino verso una corretta condotta di vita.

Nell'ideale pedagogico del filosofo americano, 1'educazione deve permettere una libera espressione delle attività svolte dai singoli individui inseriti nel tessuto sociale. L'ambito educativo assume notevole rilievo anche in relazione all' opera filosofica fornita dal francese Jacques Maritain, secondo cui, come suggerisce il pensatore contemporaneo Giovanni Reale, "1'educazione procura il raggiungimento della pienezza personale e sociale, è dunque formazione alla vita democratica"; in base a ciò, si desume quanto il campo pedagogico rivesta un significativo ruolo per quanto concerne la possibilità da parte del cittadino di manifestare le proprie idee e il proprio consenso. Per 1'appunto il consenso, inteso come una oggettiva convergenza tra le linee guida specifiche dell' operato politico condotto da una maggioranza di governo e il parere espresso dai cittadini elettori, può reputarsi elemento necessario a nutrire l'organismo della democrazia. Sono molteplici le forme secondo cui possa essere sortito un consenso apprezzabile, quale prevalentemente, la comunicazione mediatica, frutto dell' attività informativa compiuta, ad esempio, dalla stampa o dal mondo televisivo. È in questo senso, possibile asserire che un sistema politico realmente considerabile come sistema democratico, debba necessariamente imperniarsi su meccanismi che permettano all' elettorato di esprimersi privi di qualunque condizionamento, o imposizione, come ha sottolineato, a tale proposito, il giurista Gustavo Zagrebelsky, denotando quanto si corra il rischio, in seguito a ciò che egli ha definito "videopolitica", che i cittadini non formulino le proprie decisioni in modo libero. Difatti, come suggellava il già citato Bobbio: "Non vi può essere democrazia, se non là dove siano riconosciuti alcuni diritti fondamentali di libertà che rendano possibili una partecipazione politica guidata da una autonoma determinazione della volontà di ciascun individuo". È parere di taluni studiosi che massima espressione della volontà e della sovranità popolari, sia rinvenibile nell'istituto del referendum che, in riferimento a quanto evidenziato dalla Costituzione, in Italia acquisisce esclusivamente carattere abrogativo, volto ossia a cancellare parzialmente o totalmente leggi vigenti e non a procedere all' approvazione di nuove. Nel disegno cui possa essere improntato un modello di democrazia concepita quale forma di governo in cui la funzione dell' esercizio del potere sia delegata ad una cerchia più ristretta di cittadini eletti in rappresentanza del popolo (democrazia rappresentativa) è opportuno attuare una distinzione tra la maggioranza e la minoranza. In tale frangente è palese la necessità che sussista, in un dominio politico così architettato, un equilibrio tra il principio secondo cui sia conferita alla maggioranza la facoltà di gestire il governo della "cosa pubblica" e il riconoscimento del ruolo e del valore delle posizioni precipue della minoranza in armonia con il pluralismo di idee indicato da entrambi gli schieramenti. Ciò è finalizzato all' organizzazione di un sistema che, come temeva il pensatore francese di inizio Ottocento Alexis de Toqueville, non scada in una sorta di “ tirannia della maggioranza", od anche in uno "schema" secondo cui la sovranità popolare sia una pura "formula politica", in base a quanto suggeritoci dallo studioso Gaetano Mosca, il quale riconsiderava in maniera particolare la cosiddetta "teoria delle elite", avanzata dall' economista austriaco Joseph Schumpeter. A detta di questi, difatti, la democrazia poteva essere ritenuta come "metodo" di governo tale da consentire a "gruppi rivali di concorrere per la conquista del potere, quando l'oggetto della competizione è il voto popolare “. È interessante riscontrare che maggioranza e minoranza risultino protagoniste di un rapporto, quasi fichtiano, comparabile all'interazione Io/Non-io. Quotidianamente si constata ovvero quanto "l'io" della maggioranza sia posto a fronteggiare e a considerare il "non-io" della minoranza, nell' esaminare ad esempio i talora numerosi problemi, purtroppo caratteristica rilevante della società contemporanea.

Noi auspichiamo, in sintonia con ciò che il politologo Gianfranco Pasquino presume sia connotato essenziale di una democrazia, che ci si volga alla ricostruzione di quel rapporto di fiducia tra cittadini e politica, impostando 1'approccio tra quest'ultima e il contesto sociale sull' accurato svolgimento di un' attività di matrice educativa, dunque culturale. Ciò, unitamente al muoversi di critiche costruttive ed oggettive tra le differenti parti coinvolte dall' attività politica che si rendano proficue nei confronti del popolo. Infine, si pone la questione di una adeguata compattezza delle maggioranze elette e deputate all' esercizio del governo, che siano unificate in base all' adesione ad un ben determinato programma politico, nonché a comuni ideali, e non in ragione della necessità di instaurare una competizione con gli schieramenti opposti.

Occorre dunque che si acquisisca coscienza di una democrazia, come ulteriormente sancito da G. Zagrebelsky "dipendente da noi", la quale affondi le proprie radici sull' agire dei cittadini di cui peculiare ed essenziale ed imprescindibile scopo sia il costante miglioramento della società.

BibIiografia

J.J. Rousseau, "Il contratto sociale", in Scritti Politici edizioni Laterza, Roma-Bari 1997, voI. I Montesquieu, "Lo spirito delle leggi", UTET, Torino 1974

Marchese, Mancini, Greco, Assini, "Stato e società" La Nuova Italia, Milano 2004 Gustavo Zagrebelsky, "Imparare la democrazia", La Biblioteca di Repubblica 2005 Alexis de Toqueville, "La democrazia in America", Ibidem, libro TI cap. IV

Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, "Protagonisti e testi della filosofia", Paravia, Torino 1999 voI. B tomo 2

Immanuel Kant, "Per la pace perpetua"

Dewey, "Democrazia ed educazione"

Intervista" Che cos'è la democrazia" a Norberto Bobbio

G. Reale, D. Antiseri, "Storia della filosofia", La Scuola, volI. 1,2,3

M.Fossati, G.Luppi, E. Zanette, "La città dell'uomo", in "Il Novecento", Bruno Mondadori AA.VV., "Enciclopedia L'Universale", Le Garzantine, voI. 25

Filmografia

Charlie Chaplin, "Il Grande Dittatore", 1940

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Una Definizione di "Disobbedienza Civile"

Il seguente articolo di Norberto Bobbio (scritto tre decenni fa, il lettore ne tenga conto), tratto dal Dizionario di politica diretto da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino, Utet, Torino 1976, 1983, Tea, Milano 1990, 1992, pp. 316-320.

I Obbedienza e resistenza

Per comprendere che cosa s'intende per "disobbedienza civile" bisogna
partire dalla considerazione che il dovere fondamentale di ogni persona
soggetta a un ordinamento giuridico e' il dovere di obbedire alle leggi.
Questo dovere e' chiamato obbligo politico. L'osservanza dell'obbligo
politico da parte della grande maggioranza dei soggetti, ovvero la generale
e costante obbedienza alle leggi, e' insieme la condizione e la prova della
legittimita' dell'ordinamento, se per "potere legittimo" s'intende
weberianamente quel potere i cui comandi vengono, in quanto comandi, cioe'
indipendentemente dal loro contenuto, obbediti. Per la stessa ragione per
cui un potere che pretende di essere legittimo incoraggia l'obbedienza,
scoraggia la disobbedienza: mentre l'obbedienza alle leggi e' un obbligo, la
disobbedienza e' un illecito e come tale variamente punita.
La "disobbedienza civile" e' una forma particolare di disobbedienza, in
quanto viene messa in atto allo scopo immediato di mostrare pubblicamente
l'ingiustizia della legge e allo scopo mediato di indurre il legislatore a
mutarla; come tale viene accompagnata da parte di chi la compie con tali
giustificazioni da pretendere di essere considerata non soltanto come lecita
ma anche come doverosa, e da esigere di essere tollerata, a differenza di
qualsiasi altra trasgressione, dalle pubbliche autorità. Mentre la
disobbedienza comune e' un atto che disintegra l'ordinamento e quindi deve
essere impedita o rimossa affinche' l'ordinamento venga reintegrato nel suo
pristino stato, la disobbedienza civile e' un atto che mira in ultima
istanza a mutare l'ordinamento, e' insomma un atto non distruttivo ma
innovativo. Si chiama "civile" appunto perche' chi la compie ritiene di non
commettere un atto di trasgressione del proprio dovere di cittadino, ma anzi
ritiene di comportarsi da buon cittadino in quella particolare circostanza
piuttosto disubbidendo che ubbidendo. Proprio per questo suo carattere
dimostrativo e per questo suo fine innovativo, l'atto di disobbedienza
civile tende ad avere il massimo di pubblicita'. Questo carattere della
pubblicita' serve a contraddistinguere nettamente la disobbedienza civile
dalla disobbedienza comune: mentre il disobbediente civile si espone al
pubblico, e solo esponendosi al pubblico puo' sperare di raggiungere il
proprio scopo, il deviante comune deve, se vuole raggiungere il proprio
scopo, compiere l'atto nel massimo segreto.
Le circostanze in cui i fautori della disobbedienza civile ritengono venga
meno l'obbligo dell'obbedienza e ad esso subentri l'obbligo della
disobbedienza sono sostanzialmente tre: il caso della legge ingiusta, il
caso della legge illegittima (cioe' emanata da chi non ha il potere di
legiferare), e il caso della legge invalida (o incostituzionale). Secondo i
fautori della disobbedienza civile, in tutti questi casi la legge non e'
vera e propria legge: nel primo caso non lo e' sostanzialmente, nel secondo
e nel terzo non lo e' formalmente. L'argomento principale di costoro e' che
il dovere (morale) di ubbidire alle leggi esiste nella misura in cui viene
rispettato dal legislatore il dovere di emanare leggi giuste (cioe' conformi
ai principi di diritto naturale o razionale, ai principi generali del
diritto o come altrimenti li si voglia chiamare) e costituzionali (cioe'
conformi ai principi sostanziali e alle regole formali previste dalla
costituzione). Tra cittadino e legislatore esisterebbe un rapporto di
reciprocita': se e' vero che il legislatore ha diritto all'obbedienza, e'
altrettanto vero che il cittadino ha diritto a essere governato saggiamente
e secondo le leggi stabilite.
*

II. Varie forme di resistenza

Il problema se sia lecito disubbidire alle leggi, in quali casi, entro quali
limiti e da parte di chi, e' un problema tradizionale che e' stato oggetto
d'infinite riflessioni e discussioni tra filosofi, moralisti, giuristi,
teologi, ecc. L'espressione "disobbedienza civile" che vi si riferisce e'
invece moderna ed e' entrata nell'uso corrente attraverso gli scrittori
politici anglosassoni, a cominciare dal classico saggio di Henry David
Thoreau, Civil Disobedience (1849); nel quale lo scrittore americano
dichiara di rifiutare il pagamento delle tasse al governo che le impiega per
fare una guerra ingiusta (la guerra contro il Messico), affermando: "il solo
obbligo che io ho il diritto di assumere e' di fare a ogni momento cio' che
io ritengo giusto"; e quindi, di fronte alla conseguenza del proprio atto
che potrebbe condurlo in prigione, risponde: "Sotto un governo che
imprigiona chiunque ingiustamente, il vero posto per un uomo giusto e' in
prigione".
In senso proprio la disobbedienza civile e' soltanto una delle situazioni in
cui la violazione della legge viene considerata, da chi la compie o ne fa la
propaganda, eticamente giustificata. Si tratta delle situazioni che vengono
di solito comprese dalla tradizione prevalente di filosofia politica sotto
la categoria del diritto alla resistenza. Alessandro Passerin d'Entrèves ha
distinto otto diversi modi di comportarsi del cittadino di fronte alla
legge: 1° obbedienza consenziente; 2° ossequio formale; 3° evasione occulta;
4° obbedienza passiva; 5° obiezione di coscienza; 6° disobbedienza civile;
7° resistenza passiva; 8° resistenza attiva. Le forme tradizionali di
resistenza alla legge cominciano dall'obbedienza passiva e terminano con la
resistenza attiva: la disobbedienza civile, nel suo significato ristretto,
e' una forma intermedia. Seguendo il Rawls, il d'Entrèves la definisce come
un'azione illegale, collettiva, pubblica e non violenta, che si appella a
principi etici superiori per ottenere un cambiamento nelle leggi.
Le situazioni che rientrano nella categoria generale del diritto di
resistenza possono essere distinte in base a diversi criteri, cioe' secondo
che l'azione di disobbedienza sia: a) omissiva o commissiva, consista cioe'
nel non fare quel che e' comandato (per esempio il servizio militare) o nel
fare quel che e' proibito (e' il caso del negro che si va a sedere in un
locale pubblico interdetto agli uomini di colore); b) individuale o
collettiva, secondoche' sia compiuta da un individuo isolato (tipico e' il
caso dell'obiettore di coscienza, che generalmente agisce da solo e in
virtu' di un dettame della propria coscienza individuale), o da un gruppo i
cui membri condividono gli stessi ideali (ne sono esempio tipico le campagne
gandhiane per la liberazione dell'India dal dominio britannico); c)
clandestina o pubblica, ovvero preparata e compiuta in segreto, come accade
e non può non accadere nell'attentato anarchico che deve contare sulla
sorpresa, oppure proclamata prima del compimento, come sono abitualmente le
occupazioni di fabbriche, di case, di scuole, fatte allo scopo di ottenere
la revoca di norme repressive o preclusive considerate discriminanti; d)
pacifica o violenta, cioe' compiuta con mezzi non violenti, come il sit-in,
e in genere ogni forma di sciopero (s'intende dove lo sciopero e' illegale,
ma anche la' dove lo sciopero e' lecito, vi sono sempre forme di sciopero
considerate illecite) oppure con armi proprie o improprie, come accade
generalmente in ogni situazione rivoluzionaria (da notare che il passaggio
dall'azione non violenta all'azione violenta coincide spesso col passaggio
dall'azione omissiva all'azione commissiva); e) volta al mutamento di una
norma o di un gruppo di norme oppure dell'intero ordinamento; cioe' tale che
non mette in questione tutto l'ordinamento, come e' proprio dell'obiezione
di coscienza all'obbligo di prestare il servizio militare, specie in
circostanze eccezionali, quale una guerra sentita come particolarmente
ingiusta (per fare un esempio recente che ha rimesso in discussione con
particolare intensita' il problema della disobbedienza civile, la guerra del
Viet-Nam) oppure tale che tende a rovesciare l'intero sistema, come e'
proprio dell'azione rivoluzionaria. inoltre, la disobbedienza può essere,
secondo una distinzione che risale alle teorie politiche dell'eta' della
riforma, passiva o attiva: e' passiva quella che e' rivolta alla parte
precettiva della legge e non alla parte punitiva, in altre parole, quella
che e' compiuta con la precisa volonta' di accettare la pena che ne
seguira', e in quanto tale, mentre non riconosce allo Stato il diritto di
imporre obblighi contro coscienza, gli riconosce il diritto di punire ogni
violazione delle proprie leggi; attiva, quella che e' rivolta
contemporaneamente alla parte precettiva e alla parte punitiva della legge,
cosicche' colui che l'effettua non si limita a violare la norma ma tenta con
ogni mezzo di sottrarsi alla pena.
Combinando ognuno dei diversi caratteri di ogni singolo criterio con tutti
gli altri si ottiene un notevole numero di situazioni che non e' qui il caso
di enumerare. Tanto per fare un esempio. L'obiezione di coscienza al
servizio militare (la' dove le leggi non la riconoscono) e' omissiva,
individuale, pubblica, pacifica, parziale, e realizza una forma di
disobbedienza passiva. Per fare un altro esempio classico, il tirannicidio
e' commissivo, generalmente individuale, clandestino (cioe' non dichiarato
in anticipo), violento, totale (tende, come quello dei monarcomachi delle
guerre religiose del Cinque e Seicento o quello degli anarchici delle lotte
sociali dell'Ottocento, a un mutamento radicale dello Stato presente), e
inoltre realizza una forma di disobbedienza attiva. Venendo alla
disobbedienza civile, cosi' com'e' di solito concepita nella filosofia
politica contemporanea, che prende in considerazione le grandi campagne
nonviolente di Gandhi o le campagne per l'abolizione delle discriminazioni
razziali negli Stati Uniti, essa e' omissiva, collettiva, pubblica,
pacifica, non necessariamente parziale (l'azione di Gandhi fu certamente
un'azione rivoluzionaria) e non necessariamente passiva (le grandi campagne
contro la discriminazione razziale tendono a non riconoscere allo Stato il
diritto di punire i pretesi crimini di lesa discriminazione).
*

III. I caratteri specifici della disobbedienza civile

Allo scopo di distinguere la disobbedienza civile da tutte le altre
situazioni che rientrano storicamente nella vasta categoria del diritto di
resistenza, i due caratteri piu' rilevanti tra quelli elencati sopra sono
l'azione di gruppo e la non violenza. Il primo carattere serve a distinguere
la disobbedienza civile dai comportamenti di resistenza individuale sui
quali si sono soffermate generalmente le dottrine della resistenza nella
storia delle lotte contro le varie forme di abuso di potere. Tipico atto di
resistenza individuale e' l'obiezione di coscienza (almeno nella maggior
parte dei casi, in cui il rifiuto di portare le armi non sia fatto in nome
dell'appartenenza a una setta religiosa, come quella dei Mormoni o dei
testimoni di Geova) o il caso ipotizzato da Hobbes di colui che si ribella
al sovrano che lo condanna a morte e gli impone di uccidersi. Individuale
anche se fa appello alla coscienza di altri cittadini il gesto di Thoreau di
non pagare le tasse. Individuale il caso estremo di resistenza
all'oppressione, il tirannicidio. Il secondo carattere, quello della non
violenza, serve a distinguere la disobbedienza civile dalla maggior parte
delle forme di resistenza di gruppo che, a differenza di quelle individuali
(generalmente non violente), hanno dato luogo, la' dove sono state
effettuate, a manifestazioni di violenza (dalla sommossa alla ribellione,
dalla rivoluzione alla guerriglia).
Se dunque si prendono in considerazione i due criteri piu' caratterizzanti
dei vari fenomeni di resistenza, quello che distingue resistenza individuale
da resistenza collettiva e quello che distingue resistenza violenta da
resistenza non violenta, la disobbedienza civile, in quanto fenomeno di
resistenza insieme di gruppo e non violento, occupa un posto preciso e ben
delimitato tra i due tipi estremi, e storicamente piu' frequenti e anche
piu' studiati, della resistenza individuale non violenta e della resistenza
di gruppo violenta. La disobbedienza civile ha della resistenza collettiva
il carattere del fenomeno di gruppo se non in certi casi di massa, e nello
stesso tempo ha della resistenza individuale il carattere prevalente della
nonviolenza: in altre parole e' un tentativo di fare respingere dal gruppo
"sedizioso" le tecniche di lotta che gli sono piu' familiari (il ricorso
alle armi proprie o improprie) e di fargli adottare comportamenti che sono
caratteristici dell'obiettore individuale (il rifiuto di portare le armi, il
non pagare le tasse, l'astenersi dal compiere un atto che ripugna alla
propria coscienza, come l'adorare dèi falsi e bugiardi, ecc.).
La disobbedienza civile, in quanto e' una delle varie forme che puo'
assumere la resistenza alla legge, e' pur sempre caratterizzata da un
comportamento che mette in atto intenzionalmente una condotta contraria a
una o a piu' leggi. Deve essere quindi ulteriormente distinta da
comportamenti, che spesso le si accompagnano e che, pur avendo lo stesso
fine di contrastare l'autorita' legittima al di fuori dei canali normali
della opposizione legale e della pubblica protesta, non consistono in una
violazione intenzionale della legge. La prima distinzione da fare e' quella
tra la disobbedienza civile e il fenomeno recente, e altrettanto clamoroso,
della contestazione, anche se spesso la contestazione sia sfociata in
episodi di disobbedienza civile. Il miglior modo di distinguere
disobbedienza civile da contestazione e' di ricorrere ai due rispettivi
contrari: il contrario di disobbedienza e' obbedienza, il contrario di
contestazione e' accettazione. Chi accetta un sistema lo ubbidisce, ma si
puo' ubbidirlo anche senza accettarlo (anzi la maggior parte dei cittadini
ubbidisce per forza d'inerzia o per abitudine o per imitazione o per una
vaga paura delle conseguenze di un'eventuale infrazione, senza peraltro
essere convinta che il sistema cui ubbidisce sia il migliore dei sistemi
possibili). Di conseguenza, la disobbedienza in quanto esclude l'ubbidienza
costituisce un atto di rottura contro l'ordinamento o una sua parte; la
contestazione in quanto esclude l'accettazione (ma non l'obbedienza)
costituisce un atto di critica che mette in questione l'ordinamento
costituito o una sua parte ma non lo mette effettivamente in crisi. Mentre
la disobbedienza civile si risolve sempre in una azione se pur soltanto
dimostrativa (come lo stracciare la cartolina di chiamata alle armi), la
contestazione si realizza in un discorso critico, in una protesta verbale,
nell'enunciazione di uno slogan (non a caso il luogo dove si esplica piu'
frequentemente l'atteggiamento contestativo e' l'assemblea, cioe' un luogo
dove non si agisce ma si parla). L'altro comportamento che conviene
distinguere dalla disobbedienza civile e' quello della protesta sotto forma
non di discorso ma di azione esemplare, come il digiuno prolungato, o il
suicidio pubblico mediante forme clamorose di autodistruzione (come il darsi
fuoco dopo essersi cosparsi il corpo di materie infiammabili). Anzitutto
queste forme di protesta non sono, come la disobbedienza, illegali (se si
puo' discutere la liceita' del suicidio, non e' certo discutibile la
liceita' di digiunare dal momento che non esiste l'obbligo giuridico di
mangiare), e in secondo luogo mirano allo scopo di modificare una azione
della pubblica autorita' considerata ingiusta non direttamente, cioe'
facendo il contrario di quel che dovrebbe essere fatto, ma indirettamente,
cioe' cercando di suscitare un sentimento di riprovazione o di esecrazione
contro l'azione che si vuol combattere.
*

IV. La disobbedienza civile e le sue giustificazioni

La disobbedienza civile e', come si e' detto all'inizio, un atto di
trasgressione della legge che pretende di essere giustificato e quindi trova
in questa giustificazione la ragione della propria differenziazione da tutte
le altre forme di trasgressione. La fonte principale di giustificazione e'
l'idea originariamente religiosa, in seguito laicizzata nella dottrina del
diritto naturale, di una legge morale, che obbliga ogni uomo in quanto uomo,
e come tale indipendentemente da ogni coazione, e quindi in coscienza,
distinta dalla legge posta dall'autorita' politica, che obbliga soltanto
esteriormente e, se mai in coscienza, soltanto nella misura in cui e'
conforme alla legge morale. Ancora oggi i grandi movimenti di disobbedienza
civile, da Gandhi a Martin Luther King, hanno avuto una forte impronta
religiosa. Disse una volta Gandhi a un tribunale che doveva giudicarlo per
un atto di disobbedienza civile: "Oso fare questa dichiarazione non certo
per sottrarmi alla pena che mi dovrebbe essere inflitta, ma per mostrare che
io ho disubbidito all'ordine che mi era stato impartito non per mancanza di
rispetto alla legittima autorita', ma per ubbidire alla legge piu' alta del
nostro essere, la voce della coscienza" (Autobiography, Parte V, cap. XV).
L'altra fonte storica di giustificazione e' la dottrina d'origine
giusnaturalistica, poi trasmessa alla filosofia utilitaristica
dell'Ottocento, che afferma la preminenza dell'individuo sullo Stato, onde
deriva la duplice affermazione che l'individuo ha alcuni diritti originari e
inalienabili, e che lo Stato e' un'associazione creata dagli stessi
individui per comune consenso (il contratto sociale) per proteggere i loro
diritti fondamentali e assicurare la loro libera e pacifica convivenza. Il
grande teorico del diritto di resistenza, John Locke, e' giusnaturalista,
individualista, contrattualista, e considera lo Stato come un'associazione
sorta dal comune consenso dei cittadini per la protezione dei loro diritti
naturali. Cosi' egli esprime il proprio pensiero: "Il fine del governo e' il
bene degli uomini; e che cosa e' meglio per l'umanita': che il popolo si
trovi sempre esposto all'illimitata volonta' della tirannide o che i
governanti si trovino talvolta esposti all'opposizione, quando diventino
eccessivi nell'uso del loro potere e lo impieghino per la distruzione e non
per la conservazione delle proprieta' del popolo?" (Secondo trattato sul
governo, par. 229).
Una terza fonte di giustificazione e' infine l'idea libertaria della
malvagita' essenziale di ogni forma di potere sull'uomo, in specie di quel
massimo dei poteri che e' lo Stato, col corollario che ogni moto che tende a
impedire allo Stato di prevaricare e' una necessaria premessa per instaurare
il regno della giustizia della liberta' e della pace. Il saggio di Thoreau
comincia con queste parole: "Io accetto di buon grado il motto: - Il miglior
governo e' quello che governa meno - ... Condotto alle estreme conseguenze
conduce a quest'altra affermazione in cui pure io credo: - Il miglior
governo e' quello che non governa affatto -". Manifesta e' l'ispirazione
libertaria in alcuni gruppi di protesta e di mobilitazione di campagne
contro la guerra del Viet-Nam negli Stati Uniti degli anni Sessanta (di cui
una delle espressioni culturalmente piu' consapevoli e' il libro di Noam
Chomsky, I nuovi mandarini, 1968).
*

Bibliografia

AA. VV., Civil Disobedience. Theory and Practice, New York 1969;

S. Gendin,
Governmental Toleration of Civil Disobedience in Philosophy and Political
Action, Oxford University Press, Londra 1972 (e bibliografia ivi citata);

A.
Passerin d'Entreves, Obbedienza e resistenza in una societa' democratica,
Edizioni di Comunita', Milano 1970;

Id., Obbligo politico e liberta' di
coscienza, in "Rivista internazionale di filosofia del diritto", 1973;

R.
Polin, L'obligation politique, P.U.F., Parigi 1971;

M. Walzer, Obligation:
Essays on Disobedience, War and Citizenship, Harvard University Press,
Cambridge, Mass. 1970.

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Se vengono meno i principi della democrazia

  In un articolo scritto nel 1958, l’apprensione per la sorte dei principi conquistati dopo il fascismo e la sottolineatura di ciò a cui non si dovrà mai rinunciare, le libertà civili, politiche e sociali 
  Oggi non crediamo, come credevano i liberali e i socialisti del primo Novecento, che il cammino democratico sia inesorabile 
  Bisogna essere sempre vigilanti, non rassegnarsi, ma neppure abbandonarsi alle sorti fatalmente progressive dell’umanità

  Questo testo comparve nel 1958 su "Risorgimento" che, in occasione del primo decennale della Costituzione, aveva promosso un’inchiesta. Venne poi pubblicato, nello stesso anno, sul bollettino dell’Ateneo di Torino.

(la Repubblica, 8.1.2009)

Quando parliamo di democrazia, non ci riferiamo soltanto a un insieme di istituzioni, ma indichiamo anche una generale concezione della vita. Nella democrazia siamo impegnati non soltanto come cittadini aventi certi diritti e certi doveri, ma anche come uomini che debbono ispirarsi a un certo modo di vivere e di comportarsi con se stessi e con gli altri.

Come regime politico la democrazia moderna è fondata sul riconoscimento e la garanzia della libertà sotto tre aspetti fondamentali: la libertà civile, la libertà politica e la libertà sociale. Per libertà civile s’intende la facoltà, attribuita ad ogni cittadino, di fare scelte personali senza ingerenza da parte dei pubblici poteri, in quei campi della vita spirituale ed economica, entro i quali si spiega, si esprime, si rafforza la personalità di ciascuno. Attraverso la libertà politica, che è il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle leggi, viene riconosciuto al cittadino il potere di contribuire alle scelte politiche che determinano l’orientamento del governo, e di discutere e magari di modificare le scelte politiche fatte da altri, in modo che il potere politico perda il carattere odioso di oppressione dall’alto. Inoltre, oggi siamo convinti che libertà civile e libertà politica siano nomi vani qualora non vengano integrate dalla libertà sociale, che sola può dare al cittadino un potere effettivo e non solo astratto o formale, e gli consente di soddisfare i propri bisogni fondamentali e di sviluppare le proprie capacità naturali.

Queste tre libertà sono l’espressione di una compiuta concezione della vita e della storia, della più alta e umanamente più ricca concezione della vita e della storia che gli uomini abbiano creato nel corso dei secoli. Dietro la libertà civile c’è il riconoscimento dell’uomo come persona, e quindi il principio che società giusta è soltanto quella in cui il potere dello stato ha dei limiti ben stabiliti e invalicabili, e ogni abuso di potere può essere legittimamente, cioè con mezzi giuridici, respinto, e vi domina lo spirito del dialogo, il metodo della persuasione contro ogni forma di dogmatismo delle idee, di fanatismo, di oppressione spirituale, di violenza fisica e morale. Dietro la libertà politica c’è l’idea della fondamentale eguaglianza degli uomini di fronte al potere politico, il principio che dinanzi al compito di governare, essenziale per la sopravvivenza stessa e per lo sviluppo della società umana, non vi sono eletti e reprobi, governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati, classi inferiori e classi superiori, ma tutti possono essere, a volta a volta, governanti o governati, e gli uni e gli altri si avvicendano secondo gli eventi, gli interessi, le ideologie. Infine, dietro la libertà sociale c’è il principio, tardi e faticosamente apparso, ma non più rifiutabile, che gli uomini contano, devono contare, non per quello che hanno, ma per quello che fanno, e il lavoro, non la proprietà, il contributo effettivo che ciascuno può dare secondo le proprie capacità allo sviluppo sociale, e non il possesso che ciascuno detiene senza merito o in misura non proporzionata al merito, costituisce la dignità civile dell’uomo in società.

Una democrazia ha bisogno, certo, di istituzioni adatte, ma non vive se queste istituzioni non sono alimentate da saldi principi. Là dove i principi che hanno ispirato le istituzioni perdono vigore negli animi, anche le istituzioni decadono, diventano, prima, vuoti scheletri, e rischiano poi al primo urto di finire in polvere. Se oggi c’è un problema della democrazia in Italia, è più un problema di principi che di istituzioni. A dieci anni dalla promulgazione della costituzione possiamo dire che le principali istituzioni per il funzionamento di uno stato democratico esistono. Ma possiamo dire con altrettanta sicurezza che i principi delle democrazia siano diventati parte viva del nostro costume? Non posso non esprime su questo punto qualche apprensione.

Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell’umanità. Oggi non crediamo, come credevano i liberali, i democratici, i socialisti al principio del secolo, che la democrazia sia un cammino fatale. Io appartengo alla generazione che ha appreso dalla Resistenza europea qual somma di sofferenze sia stata necessaria per restituire l’Europa alla vita civile. La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme.

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Norberto Bobbio Commemora Erasmo da Rotterdam

Chi entra nel cortile di questo palazzo e percorre l'ala sinistra del porticato per accedere allo scalone che lo porta in questa aula non puo' fare a meno di imbattersi in una grande lapide di marmo, murata piu' di cento anni fa (1876), in cui si legge che Erasmo da Rotterdam ebbe il titolo di dottore in teologia in questa Universita' il 4 di settembre del 1506. E non puo' non essere colto da un moto di sorpresa nel trovare accostati i due nomi del grande Erasmo e della piccola citta' di Torino (aveva allora poche migliaia di abitanti) con la sua sconosciutissima e tutt'altro che vetusta Universita', che, come ha scritto Luigi Firpo (che all'episodio della laurea erasmiana ha dedicato una dottissima narrazione), era "poco frequentata e deserta di docenti illustri", "modesta scuola di provincia, piuttosto corriva nel concedere titoli dottorali". Nel 1506 Erasmo aveva 37 anni. Aveva.gia' scritto una delle sue opere che lo renderanno famoso, l'Enchiridion Militis Christiani. Il viaggio in Italia per visitarvi le principali citta', conoscere i dottori piu' famosi, frequentare le celebri biblioteche, era una sua vecchia aspirazione, che per diverse circostanze sfortunate era stato costretto piu' volte a rinviare. Questa volta, nel suo soggiorno inglese, l'occasione gli era stata offerta da un genovese autorevole, Giovan Battista Boeri, che era medico del re d'Inghilterra. Questi gli aveva affidato i suoi due figli perche' li accompagnasse nel viaggio in Italia. La partenza da Londra avvenne ai primi di giugno del 1506; attraverso la Francia, con una lunga tappa a Parigi, sosta a Lione, traversata delle Alpi per il colle del Moncenisio, Erasmo arrivo' a Torino alla fine di agosto. La discussione su vari temi teologici si svolse il 4 settembre nel Palazzo dei Vescovo, alla presenza di un collegio giudicante di teologi dell'Universita', che lo dichiararono "idoneo e sufficiente" a ottenere il titolo di dottore. La ragione principale per cui Erasmo si addottoro' nell'oscura Universita' torinese, anziche' in quella illustre di Bologna verso la quale era diretto, pare sia stata la opportunita', fattagli presente da alcuni amici, di avere un titolo di dottore, comunque, il piu' presto possibile, prima di presentarsi ai dottori che avrebbe voluto incontrare. Scendendo in Italia dalla Francia, la nostra citta' fu la prima che egli trovava sul suo cammino. Scrisse piu' tardi che aveva ricevuto il dottorato in teologia "contro voglia e sospinto dagli amici". Firpo osserva con malizia che nelle lettere in cui parla della laurea conseguita non indica mai il nome dell'Universita' di Torino. Si consolino pero' i torinesi qui presenti. In una lettera di molti anni piu' tardi (2 aprile 1533, pochi anni prima della morte) scrivera': "A Torino mi piaceva la straordinaria cortesia (humanitas) della popolazione". Il soggiorno di Erasmo in Italia duro' tre anni. Tanto amo' l'Inghilterra, paese in cui gli piaceva vivere, patria di Tommaso Moro, tanto poco amo' l'Italia e meno ancora gli italiani: il soggiorno in Italia negli anni delle gesta del bellicoso Giulio II, gli suggeri' non pochi argomenti per l'Elogio della pazzia, che pubblico' nel 1511. Detestava l'arroganza dei dotti che consideravano barbari tutti gli altri popoli, in specie i Romani "che van sognando, nella maniera piu' spassosa, le glorie dell'antica Roma". Non mancano peraltro anche giudizi qua e la' lusinghieri, su Venezia, per esempio.
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Erasmo, nonostante la sua cagionevole salute, viaggio' attraverso l'Europa, soggiornando anche a lungo in vari paesi, ma non ne adotto' nessuno. La sua lingua e' il Latino. L'unica sua patria - patria ideale cui aspira pur non ignorando che e' piu' divisa che mai - e' l'Europa cristiana. Scrive: "Una volta il Reno separava il Gallo dal Germano. Ora il Reno non separa il cristiano dal cristiano". Altrove: "I Pirenei disgiungono gli spagnoli dalla Francia, ma non dividono le comunita' della Chiesa. Il mare divide gli inglesi dai francesi, ma non divide l'unita' della fede". La divisione in nazioni separate e' incompatibile con l'universalita' del cristianesimo. Scrive anche: "Ubi bene est, ibi patria est". E ancora "Se il nome di patria serve a unire, ricordiamo che la patria comune e' il mondo". Non e' ne' inglese ne' francese ne' tedesco, tanto meno italiano. E' europeo. Europeo perche' cristiano. L'unica repubblica a cui ammette di appartenere, e ne trae vanto, e' la repubblica di coloro che, in quanto uomini di studi, si riconoscono, dialogano e disputano fra di loro, al di sopra delle frontiere. Patriota di nessuna patria, attribuisce a se stesso lo status di peregrinus, non quello di cittadino: "Ego mundi civis esse cupio, communis omnium vel peregrinus".
Erasmo, principe della pace, come fu chiamato. Nel secolo in cui il problema della pace ha due aspetti diversi. La pace religiosa e quella politica. Entrambe, del resto, sono strettamente connesse l'una con l'altra: le discordie religiose non sono mai disgiunte dalle lotte politiche e territoriali, anzi sono con esse continuamente intrecciate. I suoi scritti politici appaiono l'uno a breve distanza dall'altro in poco piu' di un decennio, l'Elogio della pazzia nel 1511, il Dulce bellum inexpertis (in volgare: "Chi loda la guerra non l'ha mai vista in faccia") nel 1515 nella nuova edizione degli Adagia, l'Institutio principis christiani nel 1516, dedicata al futuro Carlo V, la Querela pacis l'anno dopo.
Il 1517 e' l'anno in cui Martin Lutero affigge le 95 tesi sulle porte del duomo di Wittenberg. Nel decennio precedente si sono successe le imprese guerresche in Italia di Giulio II, che lo indignano. Nel 1515 il giovane re di Francia, Francesco I, invade l'Italia e vince la battaglia di Marignano. Erasmo commenta: "C'e' forse una nazione ove non si sia combattuto
spietatamente in terra o in mare? Quale paese non s'inzuppo' di sangue cristiano?". Esclama: "O teologi senza lingua, o vescovi muti, che assistete senza far motto a questo sfacelo dell'umanita'". Due sono le ragioni della discordia che genera infelicita' e sofferenza infinite: religiose e politiche. Il nemico della pace religiosa e' il fanatismo, da cui nasce l'intolleranza delle idee altrui, l'ostinazione con cui ognuna della parti sostiene con accanimento la propria verita', la caparbieta' nel difenderla sino alla rottura irrimediabile di ogni tentativo di dialogo ragionevole, fondato sullo scambio di argomenti, il rifiuto di ogni invito alla pacata riflessione, alla mediazione fra tesi che non sono sempre, come appare a un giudizio passionale, inconciliabili. Tema ricorrente e' l'avversione per le sottili e futili dispute dei dotti, in particolare dei teologi che tanto piu' accanitamente litigano fra loro quanto piu' irrilevanti sono i temi della disputa. Nella Querela pacis, la pace, come la follia nell'elogio della medesima, parla in prima persona. Viaggia attraverso il mondo per trovare un angolo in cui sia rispettata. Dopo averla invano cercata fra i principi, si rifugia piena di speranza fra i dotti: "Quale pena!", esclama. Anche qui, un altro genere di guerra, se pure non cruenta, ma non meno folle (insana). Non cessa dallo sbeffeggiare le sottigliezze di cui costoro si compiacciono per il gusto della disputa fine a se stessa. E pretendono di sputare sentenze sull'universo mondo, costringendo i dissenzienti, quando ne hanno il potere, a piegarsi alle loro stramberie.
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Erasmo e' l'uomo della moderazione. La virtu' che egli apprezza, sopra ogni altra, nei sovrani e nei grandi uomini, e' la mitezza (mansuetudo); cerca nelle grandi idee e nei grandi uomini del passato piu' cio' che li unisce che quello che li divide. Come accade alle persone che sono in continuo dissidio con se stesse e non sono mai soddisfatte di se', sente il bisogno di essere in armonia con gli altri. Disse di se' in terza persona: "Non scrisse mai nulla di cui fosse soddisfatto, gli dispiaceva il suo stesso aspetto, e solo le insistenza degli amici lo costrinsero a stento a farsi ritrarre". Fu un uomo di dubbi piu' che di certezze, come conveniva al dotto che non fu mai uomo d'azione. Alla fine del secolo, come attesta Giovanni Botero, era diventato un modo corrente di dire per contrapporre Erasmo a Lutero: "Erasmus dubitat, Lutherus asseverat".
Se il nemico della pace religiosa e' il fanatismo, il nemico della pace politica e' l'ubris dei principi, la libido dominandi di cui parla Agostino, oggi, dopo Nietzsche, diremmo la volonta' di potenza, da cui abbiamo appreso a riconoscere quello che Gerhard Ritter ha chiamato il "volto demoniaco del potere", considerandone capostipite Machiavelli contro Tommaso Moro, di Erasmo amico per elettiva affinita'. Il fanatismo genera intolleranza, la volonta' di potenza genera la guerra, che e' diventata, ma in realta' e' sempre stata, la condizione permanente dei rapporti tra stati sovrani. Questi, violando il principio fondamentale cui dovrebbe essere ispirata la loro condotta, il perseguimento del bene comune e della felicita' dei loro popoli, tendono a rendere il loro dominio non migliore ma maggiore. Tanto piu' grave la trasgressione quanto piu' sono cristiani i principi che la commettono. Nel celebre adagio, gia' menzionato, Dulce bellum inexpertis, scrive: "La nostra vita e' dominata dalla guerra. Non c'e' tregua. Imperversa tra le nazioni ma non risparmia neppure i rapporti di parentela, non conosce vincoli di sangue, mette fratelli contro fratelli, arma i figli contro il padre", e, ignominia ancora piu' grande, "il cristiano contro il cristiano". Erasmo e' assillato, ossessionato, tormentato da due pensieri che lo perseguitano. Il primo riguarda la futilita' o frivolita' delle ragioni per cui i sovrani sono disposti ad avventurarsi in guerre sanguinose. Ritorna il tema della futilita', che e' follia e, come tale, l'opposto dell'assennatezza, ma ben piu' grave per le conseguenze che ne derivano. Questo tema anticipa anche uno dei topoi della letteratura pacifista del futuro: la guerra come "capriccio dei principi". Il secondo pensiero si rivolge alla guerra che imperversa nell'Europa cristiana, tra sovrani che dovrebbero avere come somma guida il Vangelo. La guerra europea in quanto combattuta tra principi cristiani diventa, agli occhi di Erasmo, una vera e propria guerra civile (ricordo che "guerra civile europea" e' stata chiamata non a caso anche la nuova guerra dei trent'anni (1914-1945) che ha sconvolto il nostro secolo).
Nella Querela pacis Erasmo mette la civile concordia che regna fra gli uomini all'interno della propria specie in contrasto con la belluinita' degli uomini nei rapporti fra loro. Una delle sue massime preferite: "La natura ha insegnato la concordia ma l'uomo vuole la discordia" (ma Kant sosterra' la massima opposta: "L'uomo vuole la concordia ma la natura vuole, per spingerlo a progredire, la discordia"). Nel suo vagabondaggio in cerca di se stessa, la pace non solo apprende che ovunque c'e' guerra, ma che ovunque ci sono anche i dottori che la giustificano. La teoria tradizionale. da Agostino a Tommaso, della guerra giusta, non piace al principe della pace. Il quale - affermazione scandalosa - ripete: "Meglio una pace ingiusta che una guerra giusta". Se pure con qualche ambiguita', e' contrario alla crociata contro i Turchi, bandita dal nuovo pontefice Leone X. Se volessimo respingere i Turchi con la guerra - argomenta - ci faremmo noi stessi Turchi. Correremmo il pericolo "Ut nos degeneremus in Turcis". Conclude: anche se possa esserci nella guerra qualcosa di giusto, sarebbe ben difficile trovarvi qualche cosa che non sia ispirato dalla collera, dalla libidine, dalla ferocia, dall'avidita'.
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Vi sono due forme di pacifismo: quello etico-religioso e quello istituzionale o giuridico. Il pacifismo dell'autore del Lamento e' senza ombra di dubbio il primo. Erasmo rifiuta l'ideale dantesco della monarchia universale, che considera un ideale non di pace ma di guerra. Il pacifismo istituzionale attraverso il diritto nascera' in Europa piu' tardi. L'unico strumento giuridico che egli prevedeva era quello tradizionale dell'arbitrato, ma ne attribuiva il compito non tanto ai principi quanto ai vescovi e al papa. Il futuro della pace non puo' essere affidato, secondo Erasmo, se non all'educazione del principe cristiano, il cui dovere principale dovrebbe essere quello di difendere la pace interna e quella esterna del proprio popolo. Nella Educazione del principe cristiano, che egli scrive negli stessi anni in cui Machiavelli scrive Il Principe, che ne e' l'antitesi, cosi' tratteggia le virtu' del principe cui e' affidato il mantenimento della pace universale: magnanimita', temperanza, onesta'. E ne indica i vizi che dovrebbe evitare: "Se vorrai entrare in gara con altri principi, non ritenere di averli vinti perche' hai tolto loro parte del loro dominio. Li vincerai veramente se sarai meno corrotto di loro, meno avaro, arrogante, iracondo, precipitoso". Negli stessi anni Machiavelli nel famoso cap. XVIII del Principe scriveva, al contrario: "Faccia dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: i mezzi saranno giudicati onorevoli e da ciascuno laudati".
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Il secolo di Erasmo era allora all'inizio. Non conobbe ne' la pace religiosa ne' quella politica. Il sogno di Erasmo non si avvero'. Noi siamo alla fine del nostro secolo e le due piu' grandi guerre nella storia dell'umanita', le abbiamo alle spalle. Non possiamo dire di essere "inexperti". Eppure anche noi non siamo sicuri che quel sogno si avveri. Ma non e' necessario essere sicuri, come non era Erasmo, per continuare a perseguirlo.

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L’insidiosa democrazia dell’applauso. Il monito di Bobbio
di Paolo Flores d'Arcais e Marco Revelli,

da "Il Fatto Quotidiano", 5 novembre 2009
A cento anni dalla nascita, Paolo Flores d’Arcais e Marco Revelli ricordano il giurista e politologo torinese.

PAOLO FLORES D’ARCAIS
Norberto Bobbio è sempre stato un liberale. Tu ed io veniamo invece dalla sinistra ?a sinistra? del Pci. Nulla di più lontano e incompatibile, in apparenza. E invece con Bobbio il dialogo è stato più facile che con il Pci, più fecondo, al punto che ha infine messo capo, per lunghi anni, ad un comune agire. Ricordo che nella federazione giovanile del Pci, che pure era in odore di eresia, della famosa controversia tra Bobbio e Galvano della Volpe, i testi di Bobbio venivano letti quasi solo come materiali su cui si era esercitata la critica del marxista. Ci sfuggiva che invece nel liberalismo di Bobbio, nella sua coerenza gobettiana, c’era una delle chiavi per uscire a sinistra dal dogmatismo comunista, compreso lo stalinismo soft del togliattismo. Per scoprire davvero Bobbio io ho dovuto maturare prima la critica del marxismo anche nella forma delle sue più accattivanti ?eresie?. Il tuo incontro con Bobbio, invece, a quando risale?

MARCO REVELLI
Nella prima metà degli anni Sessanta, quando al consiglio d’istituto del nostro liceo lo invitammo a Cuneo, per una conferenza su Benedetto Croce. Credo che il titolo esatto fosse ?Croce e il liberalismo?. Può sembrare strano oggi, ma allora si trattò di un fatto di rottura. Nella Cuneo bigotta e clericale, sempre guidata da un monocolore democristiano, anche quando a Roma c’era già il centrosinistra, persino Croce faceva scandalo. L’ho poi ritrovato nel ’66, quando mi iscrissi a Giurisprudenza, a Torino, dove Bobbio insegnava Filosofia del diritto. Quell’anno teneva uno dei suoi corsi ?canonici?, diciamo così, sul Giusnaturalismo moderno, da Hobbes e Locke a Rousseau, Kant, fino a Kelsen. Più che il Bobbio ?politico? ho conosciuto allora il Bobbio ?professore? – la figura in cui egli si è sempre maggiormente riconosciuto, quella che a mio avviso meglio lo esprime. Come ?professore? ci ha insegnato il dovere del dubbio metodico nel lavoro intellettuale. Il rispetto delle posizioni dell’avversario, l’impegno a non ignorarle e neppure ridicolizzarle nel confronto, ma anzi a valorizzarle, talvolta nobilitandole, se si vuole davvero dialogare. L’arte della chiarezza. L’idea che quando il linguaggio è oscuro, fumoso, allusivo, anche il pensiero è incerto. Non c’era ancora stato il movimento studentesco, il ’68, personalmente non ero ancora a sinistra di nulla, mi guardavo attorno, ma certo Bobbio ci ha vaccinato contro le tentazioni del pensiero chiuso e del dogmatismo.

PFd’A: Bobbio è un grandissimo sistematizzatore della democrazia liberale nella sua coerenza, che non può essere piegata a usi conservatori se non sfigurandola: questa è la lezione che ci consegna attraverso la lettura dei grandi classici liberali. La coerenza dei valori su cui poggia la democrazia liberale porta infatti inevitabilmente all’impegno per l’eguaglianza, parola oggi impronunciabile persino a sinistra, e che Bobbio invece coniugherà instancabilmente come indisgiungibile dalla libertà, che altrimenti si corrompe nel privilegio. E così accadrà a Bobbio quello che è accaduto a tanti altri intellettuali liberali (non solo di matrice ?azionista?, come Galante Garrone e Sylos-Labini, ma anche esplicitamente conservatrice, come Sartori o addirittura Montanelli), restando fermo sui suoi principi (per decenni bollati dal Pci come ?borghesi?) si ritroverà accusato di cripto comunismo e di estremismo, diventerà il bersaglio preferito dei Galli della Loggia. Tu che hai collaborato con lui per anni, quale era il suo giudizio su questi liberali anti eguaglianza?

MR: Bobbio, più che un liberale è sempre stato un liberal-socialista, come buona parte dei militanti del Partito d’Azione. Con un maggiore accento più sul secondo termine – socialista – che sul primo. E questo perché l’Eguaglianza – che nel linguaggio ?azionista? si traduceva in ?Giustizia? – stava davvero al primo posto nella scala dei valori politici: si legga la splendida pagina di ?Destra e sinistra? in cui Bobbio descrive la propria reazione, già nell’infanzia, di fronte allo scandalo della diseguaglianza. Il suo progetto di società giusta si basava sulla formula ?Eguale libertà?, dove la libertà non può essere veramente tale, e pienamente legittimata, se non egualmente distribuita. Il suo stesso atteggiamento cauto di fronte al tripudio per il crollo del comunismo, lo dimostra: il primo pensiero fu, a caldo, su chi, e cosa, avrebbe sostituito dopo di allora quell’ideologia nell’affermazione dei diritti degli ultimi. Gli attacchi che subì, anche da parte del gruppo del Corriere, certo lo fecero assai soffrire. Ma anche in quel caso cercò di prendere sul serio le argomentazioni dell’altro. Di non liquidarle con un gesto di fastidio. E ritornò più volte sul travagliato rapporto tra liberal-socialisti e comunisti, con alterne risposte, ma sempre con la stessa conclusione: dalla lotta contro il fascismo a quella contro l’Italia della controriforma e della conservazione cieca, il motto era sempre lo stesso, ?né con loro, né contro di loro?, né, possiamo aggiungere, ?senza di loro?.

PFd’A: Il ’68 è stato uno dei momenti chiave, una sorta di cartina di tornasole, per molti intellettuali di sinistra. Iniziò allora, ad esempio, in odio al ’68, il progressivo spostarsi a destra di Lucio Colletti, che divenne sempre più rapido negli anni Settanta, per trasformarsi infine in un precipitare, prima craxiano e poi berlusconiano. L’anticapitalismo più radicale, perfino l’elogio leniniano della violenza (sulla scorta del marxiano ?spezzare? la macchina dello Stato), andavano bene se restavano nel cielo delle dispute ideologiche, ma un movimento che cominci a contestare il potere nelle università, nelle piazze, addirittura nelle fabbriche? Molto marxismo si rivelò ?marxismo della cattedra?. Del resto anche gli apocalittici anti-borghesi della scuola di Francoforte entrarono in rotta di collisione con l’azione dei Rudi Dutschke. Bobbio, che da liberale coerente ha sempre condannato ogni ipotesi di ?spezzare la macchina dello Stato? e ha sempre predicato la realizzazione della Costituzione, non ha mai fatto sconti al movimento studentesco per quelli che riteneva degli errori, ma con il movimento dialogò sempre, in un senso non formale o diplomatico. Cosa ha imparato secondo te la generazione del ’68 dal suo incontro/scontro con Bobbio?

MR: Temo che la nostra generazione non abbia imparato nulla, almeno allora, né da Bobbio, né da nessun altro. Lui, invece, il dialogo lo propugnò e cercò di farlo fin dall’inizio. Il suo primo articolo sul tema, pubblicato nel gennaio del 1968 sulla rivista ?Resistenza?, era intitolato significativamente ?Un dialogo difficile ma necessario?. Il secondo, di marzo, più pessimista, ?Arduo il dialogo con gli studenti?. Poi il rapporto peggiorò. E’ ferito e indignato soprattutto dalla dissacrazione sistematica da parte del ?Movimento? di tutti i valori in cui aveva creduto: la Costituzione, la Resistenza, la democrazia rappresentativa, la sua tradizione culturale? Nel 1969 scrive un pezzo aspro, disperato. Ricordando l’amico e compagno Leone Ginzburg, annota, a proposito della libertà: ?Oggi sappiamo che la libertà si può usare per il bene e per il male? La libertà si può anche sprecare. Si può sprecarla fino al punto di farla apparire inutile, un bene non necessario, anzi dannoso. E a furia di sprecarla, un giorno o l’altro (vicino? lontano?) la perderemo. Ce la toglieranno. Non sappiamo ancora chi: se coloro che abbiamo lasciato prosperare alla nostra destra o coloro che stanno crescendo tumultuosamente alla nostra sinistra. Abbiamo comunque il sospetto, alimentato da una continua severa lezione durata mezzo secolo, che la differenza non sarà molto grande?. Tuttavia non smetterà, ancora per tutti gli anni Settanta, di cercare il confronto, il dialogo, con tutte le disparate sinistre che si sono succedute e dilaniate tra loro.

PFd’A: E’ solo a metà degli anni Settanta che Bobbio diventa l’intellettuale per antonomasia, il Croce dei suoi giorni. Anche prima era stato un protagonista del confronto culturale, ho ricordato la sua controversia con Della Volpe, ancora più importante fu quella con Togliatti. Comunque una vera svolta nel peso, anche mediatico, che la sua figura eserciterà, avviene a metà degli anni Settanta, con la fase-uno della stagione craxiana. Quella caratterizzata dal ?Progetto socialista?, da ?Mondoperaio?, dalla duplice alternativa, alla Dc e al Pci, che ha per riferimenti politici Lombardi e Giolitti e per riferimento ideologico proprio Bobbio. L’anticomunismo come critica libertaria, o di socialismo liberale (i fratelli Rosselli), non certo come moderatismo di establishment. Poi segue il Craxismo-due, quello della ?governabilità? e della corruzione. Bobbio tentò a lungo di mantenere la speranza nel Psi. Tu come ricordi il suo impegno per una sinistra unitaria e post comunista, che lo spinse alla rottura con il Craxi-due, e alla speranza nel Berlinguer della questione morale?

MR: La fine della speranza in un qualche progetto politico avviene in verità per Bobbio già alla fine degli anni Sessanta, quando abortisce l’unificazione tra Psi e Psdi nel Psu. ?Il fallimento di questa esperienza fu così grave da lasciarmi senza fiato? – confesserà nell’autobiografia -. ?Decisi che quando agivo in politica, sbagliavo, o almeno avevo la vocazione per le cause sbagliate?. Certo, la svolta ?autonomista? del Psi alla metà degli anni Settanta lo affascinava. Una sinistra emancipata dal doppio dogmatismo cattolico e comunista (dalle due chiese contrapposte ma simmetriche) era stata nei sogni degli antichi fautori di una ?rivoluzione democratica? come soluzione dei vizi storici italiani. Ma si rivelò, appunto, un sogno. Craxi non era un leader, era un ?padrone? del partito con tentazioni cesaristiche. L’articolo di Bobbio su ?La Stampa? contro la Democrazia dell’applauso, in cui stigmatizzava spietatamente la deriva plebiscitaria del Psi, segna una rottura inequivocabile. E l’adesione convinta alle tematiche della ?questione morale? non solo di Bobbio ma di tutto quel gruppo che proveniva dal Partito d’azione, come Galante Garrone, Vittorio Foa, Giorgio Agosti, Giulio Einaudi, ne è la dimostrazione.

PFd’A: Il momento di un partito nuovo sembrava arrivato alla fine dell’89, dopo la caduta del Muro e con la svolta della Bolognina. Bobbio non si limitò a fare l’osservatore. Mandò infatti la sua adesione alla manifestazione della sinistra dei club del 10 febbraio 1990 al Capranica con queste parole: ?Cari amici, non posso essere presente alla manifestazione perché sto partendo per gli Stati Uniti. Sono pienamente d’accordo con voi sulla necessità di dar vita a una nuova sinistra che si ispiri, come dite bene, a una visione laica della politica?. Chiese ?un’analisi franca, oggettiva, spietata, sulle cause della disfatta (dell’intera sinistra)–perché proprio di una disfatta si tratta –, l’?abbandono di ogni patriottismo di partito? e un ricambio radicale (?credo che occorrano uomini nuovi?). E concluse: ?La creazione di una nuova sinistra oggi, nel deserto d’idee della politica quotidiana, è una magnifica avventura?, ammonendo che ?il passo più difficile è quello dalle parole ai fatti?. Che ricordi hai di Bobbio in quei momenti cruciali?

MR: Se devo essere sincero, ricordo un Bobbio in lento, silenzioso allontanamento dalla politica. I suoi scritti più significativi degli anni Novanta sono tutti di carattere morale. Si pensi al ?De senectute?. Si pensi soprattutto a quello che io considero il più bel testo del Bobbio maturo, il più vero: ?L’elogio della mitezza?, ?la più impolitica delle virtù?. Quella che consiste nel ?lasciar essere l’altro quello che è?, la forma più estrema del rispetto dell’altro. L’opposto dell’?arroganza?, della ?protervia? e della ?prepotenza?, le doti (o i vizi) prevalenti tra i politici, che vedeva dilagare nell’Italia avviata alla ?Seconda repubblica?. Hai fatto bene a citare quella frase finale: ?Il passo più difficile è quello dalle parole ai fatti?. Il Bobbio più recente ha l’immagine di un’Italia preda dei suoi vizi storici, un’Italia ?irredimibile? per via politica. Scriverà esplicitamente che dal trauma di quella terribile caduta consumatasi nella prima metà degli anni Novanta con l’avvento di Berlusconi – di quella vera e propria ?disfatta?, come la definì – egli non si riprese mai.

PFd’A: Bobbio sul piano culturale è sempre stato un positivista giuridico e un neoilluminista. In questo mi sembra più attuale che mai. La norma non si dà in natura, nasce da una decisione umana. E anzi, alla sua origine (la Grundnorm di Kelsen) vi è un fatto politico (per l’Italia repubblicana, la Resistenza). Sulla scia di Hume, Bobbio ha sempre ribadito come non sia logicamente possibile un passaggio dall’essere al dover essere. Anche se questo comporta il rischio del nichilismo. Oggi verrebbe accusato di ?scientismo?, eppure la sua battaglia neoilluminista la condusse assieme al massimo esistenzialista italiano, Nicola Abbagnano. Tenere fermissimi, con Bobbio, scienza e finitezza dell’esistenza, Hume e Kelsen, mi sembra possa costituire un antidoto più che mai necessario per una cultura di sinistra in balìa dei vari heideggerismi, habermasismi ed ermeneutiche.

MR: Bobbio è sempre stato un neopositivista, o meglio un ?anti naturalista?: la natura non può essere legislatrice nel campo sociale e politico. Lo stato di natura è, hobbesianamente, disordine, invivibilità, conflitto di tutti contro tutti. L’Ordine umano non può che essere ?costruito? sopra e oltre la Natura. Possibilmente in modo ?razionale?. In ciò la Scienza ha un ruolo fondamentale come metodo, non come nuovo legislatore. Per questo Bobbio non è uno ?scientista?: non accetta l’idea di un ordine umano vero rivelato per via scientifica (sarebbe una nuova forma di fallacia naturalistica). E’, se vogliamo dare etichette, un ?contrattualista?. Crede in una costruzione dell’ordine umano per via logica e dialogica. Attraverso l’elaborazione razionale di un modello condiviso (e provvisorio) di ordine sociale. In questo senso il suo discorso è un antidoto a tutte le forme di sostanzialismo politico. A tutte le idee di un ordine definitivo, rispondente a una qualche verità assoluta.

PFd’A: Mi sembra che nell’impegno civile e culturale di Bobbio non siano mancate le contraddizioni. La sua impostazione esclude, logicamente, ogni morale naturale. Ma poi sull’aborto prende una posizione non lontana da quella delle gerarchie cattoliche: ?Una volta avvenuto il concepimento, il diritto del concepito può essere soddisfatto soltanto lasciandolo nascere (?) mi stupisco che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere?.Insomma, l’aborto è un omicidio, l’ovulo fecondato è, fin dal primo istante, una persona umana a tutti gli effetti. Una posizione che sfida ogni evidenza scientifica, etica, giuridica, psicologica (se l’aborto è un omicidio, date le dimensioni del fenomeno è più grave dell’Olocausto, ma chi davvero considera la donna che ha abortito alla stregua di un Ss che getta un bambino ebreo nel forno crematorio? Nemmeno il più feroce integralista di Cl, spero, e certamente non Bobbio). Ho sempre pensato che questa caduta mistico-reazionaria facesse il paio con un’altra contraddizione, il suo pacifismo integrale, il ?non ucciderai? sempre e comunque, che se praticato sul serio condannerebbe anche i volontari democratici in Spagna, e la Resistenza.

MR: Ti stupirò, ma io sono d’accordo con le posizioni prese allora da Bobbio sulla questione dell’aborto. In quella presa di posizione c’era una reazione, una forma di resistenza, al modo in fondo superficiale, e facilone, alle forme del linguaggio e dell’argomentazione, con cui i fautori del legge 194 affermavano le proprie ragioni, quasi che le cose fossero perfettamente chiare, prive d’implicazioni morali. Come se trattando di embrioni, e vite non nate si parlasse di cose, di oggetti, disponibili senza problemi da parte dei loro ?possessori?. Bobbio, al contrario, sottolineava il carattere tragico – comunque tragico – di quelle scelte. Riproponeva l’idea – radicata profondamente nel suo stesso sistema di pensiero – che nelle alternative vere, quando si è chiamati a scegliere, qualcosa comunque si sacrifica. Figuriamoci quando ciò coinvolge i temi della vita e della morte. Certo, scegliere si deve. Ma non c’è scelta innocente. Non si sceglie il Bene contro il Male. Nella maggior parte dei casi – e l’aborto è uno di questi, per certi versi il più emblematico – si è costretti a scegliere tra due mali. Questo io credo che volesse ricordare Bobbio ai laici, che nella passione della battaglia sembravano averlo dimenticato.

PFd’A: In uno dei suoi ultimi testi, primavera del 2000, dal titolo ?Religione e religiosità?, pubblicato sull’Almanacco di filosofia di MicroMega dedicato a Dio, un testo intensissimo sia sotto il profilo teoretico che autobiografico, quasi un ?testamento?, scriveva: ?Non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla religiosità?, che consiste nel ?profondo senso del mistero?. Un mistero impenetrabile, ripete la parola più volte e la vuole sottolineata. Il testo è una critica radicale del carattere consolatorio di ogni ipotesi di immortalità e vita eterna, e della teologia cattolica che non ha mai potuto affrontare seriamente il problema del male (che la giustizia di Dio sia ?ineffabile? o ?imperscrutabile? gli sembra un’ingiuria alla razionalità: ?Sull’ineffabile non si può dire nulla?). Ma a questo punto taglia corto con un tassativo: ?Mi fermo qui. Non voglio andare oltre. Non per reticenza. Ma mi sono posto una regola a cui continuo a credere: non si deve dare scandalo?. Mi sembrò, e continua a sembrarmi, una risposta criptica, al limite dell’ambiguità.

MR: La conclusione di quello splendido testo, appartenente anch’esso al Bobbio più intenso, e drammatico – quella che tu chiami ?ambiguità? e che io definirei ?ambivalenza? – ha a che fare più che con la sua concezione della Fede con la sua idea di Ragione. Il Bobbio razionalista, neoilluminista, positivista logico, ha un’idea ?limitativa? di Ragione. Attribuisce ad essa una sorta di ?sovranità limitata? nell’immenso regno del ?mistero?. ?Non ho mai avuto la tentazione di sostituire la Dea Ragione al Dio dei credenti. Per me la nostra Ragione non è un lume: è un lumicino. Ma non abbiamo altro per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo?, scrisse Bobbio in un saggio intitolato ?Capire prima di giudicare?. Appunto, tentare di squarciare quelle tenebre fuori dal raggio breve della nostra flebile Ragione, quello gli sembrava il vero peccato capitale per l’intellettuale laico: farsi profeta, guru, illusionista. Sostituire al linguaggio sorvegliato dell’analisi razionale i propri fantasmi interiori o le proprie emozioni, speranza o paura che siano. In questo – è il senso della sua ?lezione? –, consiste per l’uomo di cultura il vero ?dare scandalo?.


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