Amartya Sen

La Libertà Salverà la Globalizzazione

Il tempo
3 giugno 2002

La Libertà Salverà la Globalizzazione

Il premio Nobel per l'economia, l'indiano Amartya Sen, indica limiti e prospettive del mercato planetario. Con un obbligo: difendere la democrazia
Esce oggi Globalizzazione e libertà, raccolta di saggi di Amartya Sen, Premio Nobel per l'economia '98. Del volume (Mondadori, pagine 168, euro 14,60) anticipiamo due brani dal capitolo "La libertà e il nostro futuro".

Qualunque tipo di libertà analizziamo, dobbiamo prendere in esame sia l'importanza che ha in sé sia il suo ruolo strumentale. A proposito delle libertà politiche, si sente chiedere, a volte, se "contribuiscano allo sviluppo". Di fatto, una risposta negativa (che include l'obiezione, così spesso sostenuta, che la democrazia sia nemica della crescita economica) ha corroborato tendenze politiche autoritarie in diverse regioni del pianeta, dall'Asia orientale all'America latina. La prima cosa da osservare per valutare questa linea di argomentazione è che questo modo di porre la domanda disconosce un aspetto cruciale: le libertà politiche e i diritti democratici sono elementi costitutivi dello sviluppo. La loro rilevanza non deve essere stabilita indirettamente, per mezzo del loro contributo al Pil. Che siano ricchi o poveri, se non godono delle libertà politiche i cittadini sono deprivati di un elemento fondamentale per una buona vita. Tuttavia, una volta riconosciuta questa connessione, dobbiamo sottoporre la democrazia all'analisi che ne consegue, poiché esistono altri tipi di libertà. Vale la pena di notare, in questo contesto, che ampi studi comparativi non hanno fornito supporto empirico alla convinzione che la democrazia sia dannosa alla crescita economica. In effetti, l'evidenza indica, piuttosto incontrovertibilmente, che la crescita è favorita da un ambiente economico accogliente anziché dalla durezza del sistema politico.

Allo stesso modo sembra chiaro che la democrazia e i diritti politici e civili tendono a rinforzare libertà di altra specie (come la possibilità di sopravvivere e la sicurezza economica), dando voce alle persone in condizioni di deprivazione o più vulnerabili. Il fatto che nessuna grande carestia si sia mai verificata - persino nel caso di nazioni molto povere nel corso di gravi crisi alimentari - in un paese democratico con elezioni regolari, partiti di opposizione e un'informazione relativamente libera, illustra in modo semplice l'aspetto più elementare della forza protettiva delle libertà politiche. Nonostante le sue molte imperfezioni, la democrazia indiana ha generato incentivi politici sufficienti a evitare carestie di grandi proporzioni (l'ultima delle quali si verificò quattro anni prima dell'indipendenza, nel 1943), mentre la maggiore carestia di cui si ha memoria si è verificata in Cina nel 1958-61 e ha provocato quasi 30 milioni di morti. Proprio ora, i due paesi colpiti dalle carestie di maggiore entità sono tra i più nettamente dittatoriali, vale a dire Corea del Nord e Sudan.

La forza protettiva della democrazia è in effetti capace di fornire sicurezza in misura molto più estesa di quanto riescano a farlo i tentativi di prevenzione delle carestie. Il povero nella Corea del Sud o in Indonesia potrebbe non essersi preoccupato troppo per la democrazia nel periodo del boom economico, quando le condizioni di vita di tutti sembravano migliorare nella loro totalità. Ma quando l'economia è entrata in crisi, la democrazia e le libertà politiche e civili hanno cominciato a mancare disperatamente a chi vedeva cambiare i propri mezzi economici e la propria vita in maniera del tutto inaspettata. Da un punto di vista generale, una riduzione del Pil del 5 o del 10% non è certo una calamità, se fa seguito a decenni di tassi di crescita annuali tra il 5 e il 10%. Se tuttavia la riduzione grava iniquamente sulle fasce più svantaggiate, queste ultime potrebbero trovarsi in serio pericolo e aver bisogno di sostegno sociale. La democrazia è diventata ora un tema centrale in Corea del Sud e in Indonesia. Non vorremmo dover aspettare una crisi economica per apprezzare la forza protettiva della democrazia.(...)

Per guardare alle prospettive e ai bisogni futuri con adeguata chiarezza e profondità, una concezione incentrata sulla libertà presenta molti vantaggi rispetto a punti di vista più convenzionali. Primo, fornisce il contesto per interpretare il progresso individuale e sociale sulla base dei suoi obiettivi fondamentali piuttosto che dei suoi strumenti più immediati. L'aumento delle capacità di vita e delle libertà ha un rilievo intrinseco che lo distingue, ad esempio, dall'incremento della produzione di merci o dalla crescita del Pil.

Secondo, una concezione incentrata sulla libertà offre anche lucide indicazioni strumentali, perché libertà di diversa specie si sostengono vicendevolmente. Mettere a fuoco le connessioni fra libertà di diverso tipo ci conduce molto oltre la prospettiva limitata delle singole libertà isolate. Viviamo in un mondo di molte istituzioni (tra le quali il mercato, il governo, la magistratura, i partiti politici, i media, ecc.) e dobbiamo fare in modo che si possano supportare e rafforzare tra loro, anziché ostacolarsi a vicenda.

Terzo, questa prospettiva più ampia ci consente di distinguere tra 1) gli interventi repressivi dello stato che soffocano la libertà, l'iniziativa e l'impresa, e depotenziano l'agire individuale e la cooperazione e 2) il ruolo di supporto dello stato nell'allargamento delle libertà di fatto degli individui (ad esempio, garantendo l'istruzione pubblica, le cure sanitarie, le reti di sicurezza sociale, le agevolazioni del microcredito, buone politiche macroeconomiche, salvaguardando la concorrenza industriale e assicurando la sostenibilità epidemiologica e ambientale).

Quarto, un approccio incentrato sulla libertà può concorrere a fornire una visione adeguatamente ampia ed estensiva delle esigenze degli esseri viventi. La libertà in senso largo comprende i diritti civili e le opportunità economiche e sociali da un lato e, dall'altro, l'eliminazione di fondamentali illibertà come la fame, l'analfabetismo, le malattie non assistite e altre situazioni di assenza di garanzie sociali. Abbiamo bisogno di un approccio integrato ai problemi e alle prospettive del mondo futuro. É di importanza cruciale superare la visione frammentata di chi sostiene solo libertà di natura particolare, negando l'importanza delle libertà di altra specie (in alcuni casi considerando in effetti dannosi altri tipi di libertà). Occorre una nozione chiara dell'interdipendenza di libertà di diversa specie e del loro ruolo di reciproco sostegno.

Infine ho sostenuto, nei termini della distinzione medievale fra "agente" e "paziente", un diverso punto di vista sullo sviluppo e il cambiamento sociale. Questo approccio è radicalmente diverso da quelli che considerano le persone beneficiarie passive di ingegnosi programmi di sviluppo.

La possibilità di risolvere problemi antichi (ereditati dal passato, come disuguaglianza e povertà) e nuovi (come il degrado dell'ambiente o il sovraffollamento) dipende innanzitutto dalla capacità di rafforzare le diverse istituzioni a presidio delle differenti ma interrelate libertà. (...) In tal senso, il nostro futuro dipenderà soprattutto dal successo nell'ampliamento delle rispettive libertà, ottenuto attraverso il rafforzamento delle diverse istituzioni che sostengono e favoriscono le nostre capacitazioni umane. In questo, ritengo, risiede la più importante indicazione per il nostro futuro.



Il sole 24
9 febbraio 2002

L'Anello tra Gramsci e Wittgenstein

Piero Sraffa, morto vent'anni fa era uno straordinario intellettuale che pur pubblicando pochissimo ha avuto una grande influenza sulle idee e sui dibattiti economici, filosofici e sociologici della propria epoca. Contribuì in modo particolare a nuove esplorazioni in diversi campi della teoria economica contemporanea, a un riesame della storia dell'economia politica, a discussioni sulla politica in atto in Italia e altrove, e a una trasformazione cruciale, vale a dire al passaggio di Ludwig Wittgenstein dalla posizione assunta inizialmente con il Tractatus Logico-Philosophicus a quella successiva delle Philosophical Investigations che hanno modificato profondamente la natura della filosofia contemporanea.

La portata e la diversità di questi contributi sono tali da indurre a pensare che provenissero da molti Piero Sraffa. e non da uno solo. Infatti "Sraffa l'economista" viene spesso distinto dalle altre sue incarnazioni.  E del tutto comprensibile, in parte perché Sraffa era un economista di professione, e perché le sue idee e le sue ricerche in economia pura sono state così ricche e influenti da meritare la gloria di analisi a sé stanti.  Eppure ritengo che ci sia tutto da guadagnare nel considerare i vari contributi di Sraffa come un tutto, non soltanto perché, sono nati da una stessa mente, ma anche perché i precisi legami tra il pensiero che ha espresso in ambiti diversi possono fare luce sulle sue idee specifiche nelle singole discipline.

Le sue discussioni con Antonio Gramsci, per esempio. hanno chiaramente influenzato la sua visione filosofica e questa a sua volta, ha influenzato profondamente il pensiero di Wittgenstein.  C'è perciò una "Gramsci connection" nella trasformazione accaduta a Wittgenstein attorno al 1929 e negli anni immediatamente successivi. Nelle discussioni tra Sraffa e Gramsci, da un lato, e tra Sraffa e Wittgenstein dall'altro, è possibile rintracciare fra l'altro l'influenza indiretta che l'analisi gramsciana di una filosofia, interessata all'uso del linguaggio ha esercitato sullo sviluppo della filosofia contemporanea e in particolare anglosassone.  Analogamente, la concezione che Sraffa aveva della natura della descrizione e dell'uso del linguaggio ha inciso fortemente sul modo in cui egli ha definito i problemi del valore e della distribuzione, e più in generale su come ha interpretato il compito dell'economia.

Tali connessioni vanno indagate ulteriormente e, nel mio piccolo, cercherò di iniziare a farlo con questa relazione.  Questa conferenza è dedicata innanzitutto ai contributi di Sraffa all'economia, ed è giusto che essi ricevano l'attenzione specialistica che spetta loro.  La prospettiva generale, integrativa, che vorrei presentare non è intesa in contrasto con le analisi limitate allo Sraffa economista: i suoi sono lavori di grande respiro, infatti, e si possono affrontare sotto diversi aspetti.  Ma è importante considerare Sraffa in un quadro ben più ampio.

Comincio ad ampliarlo aggiungendoci uno "Sraffa in più" che ancora non ho citato: "Sraffa il professore".  Egli è stato il mio "Director of Studies" per tutti i miei anni da studente al Trinity College di Cambridge, una posizione che richiedeva solo di indirizzare gli Studenti ai supervisori che avevano scelto (nel mio caso, Maurice Dobb, Kenneth Berrill e Joan Robinson, a seconda dei momenti).  Dal Director of Studies, ci si aspettava altresì che ci incoraggiasse ad andare da lui nel caso volessimo «discutere qualunque cosa», Più che un impegno, gli studenti lo ritenevano un'espressione di generica benevolenza, e non ci badavano. Io però ero deciso a prenderlo alla lettera e andavo da Sraffa con una frequenza che all'inizio deve averlo sorpreso. In effetti, lo trattavo come un supervisore aggiunto e siccome pareva trovare le mie visite del tutto accettabili, ho finito per imparare molto da lui su svariate questioni di economia, di politica e di filosofia.

Sraffa era il docente ideale per uno come me che, a una curiosità spudorata. univa l'irrisolutezza intellettuale.  Qui però non voglio dire che cosa ho imparato da Sraffa su vari temi (intellettualmente stavo muovendo i primi passi, e quelle conversazioni hanno avuto per me un'enorme importanza) ma quello che ho imparato su di lui.

Era un educatore eccezionalmente stimolante che ha lasciato un segno duraturo su innumerevoli studenti di Cambridge, compreso il sottoscritto, per non parlare di suoi allievi eminenti come Pierangelo Garegnani e Luigi Pasinetti che (diversamente dal sottoscritto) con lavori successivi parteciparono di persona a quella che possiamo chiamare "l'economia sraffiana". Sraffa era la quintessenza del pedagogo, e le idee che mi sono fatto dì lui da studente aiutano, credo, a capire e a interpretare anche la sua ricerca e le sue imprese intellettuali.

Vorrei presentare una visione integrativa di Sraffa, specialmente alla luce di ciò che ho saputo di lui al Trinity College, da studente prima e da collega poi.

Nell' antica India, l'usanza voleva che, una volta conclusa l'educazione, si portasse un regalo al proprio o alla propria docente.  La mia offerta prende la forma di questo saggio ma arriva, temo, con più di quarant'anni dì ritardo.  E oltre vent'anni troppo tardi perché io possa chiedere al mio docente se interpreto correttamente le sue idee diverse ma integrate.  Per me è una perdita grave.



Il sole 24
8 luglio 2001
Traduzione di Sylvie Coyaud

Globalmente Rassegnati

Le sfide del mondo contemporaneo e la protesta anti-G8 nell'analisi del premio Nobel Amartya Sen
Ultra pessimisti e ottimisti testardi alleati nel favorire l'accettazione dello status quo

Data la gravità e le conseguenze dei contrasti tra ricchezza e povertà che osserviamo nel mondo, come fa la maggior parte di noi a condurre una vita spensierata? L'assenza di riflessione etica è dovuta a un'assenza di empatia, a una specie di cecità morale o di supremo egocentrismo che affligge e travia il nostro modo di pensare e di agire? O esiste un'altra spiegazione, riconducibile a una visione meno negativa della nostra psicologia e dei nostri valori? Non è facile rispondere, ma io credo che la nostra indifferenza sia legata più a un difetto di conoscenza che a una mancanza di solidarietà. Tale fallimento cognitivo può essere il frutto tanto di un irragionevole ottimismo quanto di un pessimismo senza fondamento; e, stranamente, capita che questi due estremi si tocchino. L'ottimista testardo tende a sperare che presto le cose migliorino, che l'economia di mercato, che ha portato prosperità in una parte del mondo, finisca automaticamente per estendere a tutti i suoi benefici. "Dateci tempo, non siate così impazienti", dice. D'altro canto il pessimista a oltranza riconosce ed enfatizza la persistenza della miseria nel mondo. Ma egli è pessimista anche sulla nostra capacità di cambiare le cose. "Dovremmo cambiarle, ma a essere realistici, sappiamo che non ci riusciremo", dice. Il pessimismo conduce spesso alla supina accettazione di grandi mali. Come scrisse Thomas Browne nel 1643, "il mondo... non è una locanda, ma un ospedale": possiamo imparare a vivere felici in un posto pieno di gente sofferente, evitando di pensare a tutti quei disgraziati intorno a noi. C'è dunque una convergenza, parziale ma vera, tra l'ottimista testardo e il pessimista incorreggibile. Il primo ritiene che non sia il caso di fare resistenza, il secondo che sia inutile. O come disse James Branch Cabell (di fronte a una manifestazione ben diversa di questo paradosso): "Per l'ottimista viviamo nel migliore dei mondi possibili. Il pessimista teme che sia vero". I punti di vista opposti si uniscono nella rassegnazione, e la passività globale si nutre non solo di cecità morale, apatia, egocentrismo ma anche dell'alleanza conservatrice di due posizioni estreme. Convinti - o per lo meno confortati - da entrambe, possiamo occuparci dei fatti nostri senza vedere nulla di imbarazzante nell'accettare tranquillamente le disuguaglianze del mondo. È in questo contesto che vanno analizzare gli attuali dubbi sulla globalizzazione, e i movimenti di protesta che tanto turbano i vertici internazionali. Le proteste hanno molte sfaccettature (tra cui un'arroganza e una violenza difficili da tollerare) ma sipossono considerare comeuna sfida all'autocompiacimento etico e all'inazione generati dalla coalizione tra ottimisti e pessimisti. Sono movimenti spesso goffi, rabbiosi, semplicistici, dissennati eppure, a mio parere, hanno la funzione di mettere in discussione la tendenza ad accontentarci del mondo in cui viviamo. Anche se certe premesse e molti dei rimedi proposti dal fronte della protesta sono raffazzonati e confusi, bisogna riconoscere il ruolo fecondo dei dubbi e vanno tenuti ben distinti gli elementi distruttivi dei movimenti dalla loro funzione costruttiva. Le proteste esprimono dubbi creativi. Ma a proposito di che? Qui occorre fare uno sforzo interpretativo. I manifestanti si descrivono spesso come contrari alla globalizzazione. Ma a dispetto di ciò che dicono, non lo sono affatto. Infatti le loro proteste sono fra gli eventi più globali che ci siano. I fenomeni di Seattle, Melbourne, Praga, Québece altrove non sono né locali né isolati; non sono creati dai giovani del posto, ma da uomini e donne venuti da tutto il mondo per far sentire la propria voce globale. La globalizzazione dei rapporti non è certo quello che intendono fermare, altrimenti dovrebbero cominciare col fermare se stessi. Prima di tornare a ragionare sulle proteste, vorrei sottolineare che la globalizzazione non è una novità né una follia. In una prospettiva storica, contribuisce da millenni al progresso nel mondo attraverso viaggi, commerci, migrazioni, disseminazione delle influenze culturali, del sapere e delle conoscenze, scienza e tecnologia comprese. Fermarla avrebbe recato al progresso umano danni irreparabili. Anche se oggi la globalizzazione è vista spesso come un corollario del dominio occidentale, storicamente ha seguito strade diverse. Attorno all'anno Mille, la diffusione globale della scienza, della tecnologia e della matematica stava cambiando il vecchio mondo ma proveniva da una direzione opposta a quella attuale. La carta e la stampa, la balestra e la polvere da sparo, l'orologio e il ponte sospeso con catene di ferro, l'aquilone e la bussola, la carriola e il ventilatore girevole - tutti esempi dell'alta tecnologia di un millennio fa - erano usati comunemente in Cina e ignoti altrove. La globalizzazione li ha portati nel resto del mondo, fino in Europa. L'influenza dell'Oriente sulla matematica occidentale ha seguito lo stesso percorso. Il sistema decimale, nato in India tra il II e il VI secolo, è stato poco dopo adattato dai matematici arabi. Sul finire del X secolo l'innovazione ha raggiunto l'Europa e ha avuto un ruolo di primo piano nella rivoluzione scientifica. L'Europa sarebbe stata ben più povera - economicamente, culturalmente e scientificamente - se allora avesse resistito a quella globalizzazione e lo stesso vale per quella in atto oggi. Rifiutare la globalizzazione della scienza e della tecnologia in quanto influenza occidentale non solo significherebbe ignorare i contributi - venuti da svariate regioni del mondo - sui quali si sono edificate la scienza e la tecnologia dette "occidentali", ma in pratica sarebbe una scelta idiota, visti i vantaggi che da tale processo trarrebbe il mondo intero. Identificare questo fenomeno con "l'imperialismo occidentale" in materia di idee e credenze (sempre stando alla retorica) sarebbe un errore grave e costoso, così come lo sarebbe stata una resistenza europea all'influenza orientale mille anni fa. Certo, non vanno trascurati i problemi della globalizzazione connessi con l'imperialismo (la storia delle conquiste e del colonialismo ha ancora i suoi effetti). Ma la globalizzazione non si riduce a questi: è molto, molto di più. In effetti, la questione più importante è come usare bene i grandi benefici derivanti dai rapporti economici e dal progresso tecnologico, in maniera da prestare la dovuta attenzione agli interessi dei più poveri. Questo chiedono i movimenti di protesta, anche se in sostanza la questione non riguarda affatto la globalizzazione. Mi sembra che per un verso o per l'altro l'oggetto del contendere siano le disuguaglianze inter e intra-nazionali di ricchezza, le notevoli asimmetrie del potere politico, sociale ed economico, e quindi la condivisione dei potenziali benefici della globalizzazione tra paesi ricchi e poveri e tra diversi gruppi all'interno di uno stesso paese. Non basta convenire sul fatto che i poveri del mondo hanno bisogno della globalizzazione almeno quanto i ricchi, bisogna anche assicurarsi che ottengano ciò di cui hanno bisogno. E questo potrebbe richiedere una profonda riforma istituzionale, da affrontare nel momento stesso in cui si prendono le difese della globalizzazione. Forse occorre concentrarsi innanzitutto sull'immenso ruolo delle istituzioni non di mercato nel determinare la natura e la portata delle disuguaglianze. Le istituzioni politiche, sociali, legali e altre ancora, possono influire fortemente sul buon funzionamento dei meccanismi di mercato, allargandoli e facilitandone un uso equo, e così facendo intervenire sulle disparità tra le nazioni e sulle disuguaglianze interne ad esse. L'architettura internazionale economica, finanziaria e politica del mondo che abbiamo ereditato dal passato - comprese istituzioni come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e altre ancora - deriva soprattutto dalla conferenza di Bretton Woods nel 1944. All'epoca, occorreva affrontare i problemi post-bellici. Gran parte dell'Asia e dell'Africa erano ancora sotto una qualche forma di dominio coloniale, e certo non erano in grado di contrastare la spartizione internazionale del potere e dell'autorità che le potenze alleate imposero al mondo. L'insicurezza economica e la povertà erano molto più tollerate di oggi, i diritti umani erano un'idea ancora fragilissima, il potere delle Ong era tutto da inventare e la democrazia non era sicuramente vista come un principio globale. Da allora il mondo è cambiato. La forza delle proteste globali riflette in parte una nuova mentalità, una nuova tendenza a sfidare l'establishment mondiale ed è, in larga misura, l'equivalente globale delle proteste interne alle nazioni, associate ai movimenti dei lavoratori e al radicalismo politico. Le recenti esplosioni dei dubbi globali sembrano addirittura condividere lo spirito con cui Leadbelly, il grande cantante di blues, scrisse un giorno, mutuando il primo verso dall'inno nazionale statunitense: "In the home of the brave, land of the free,/I will not be put down by no bourgeoisie" (Nella patria dei prodi, terra dei liberi / Non mi farò schiacciare da nessuna borghesia). Il radicalismo, si sa, non ha mai avuto in America il potere suggerito da questa canzone, ma la determinazione che essa esprime ha contribuito nel tempo a molti cambiamenti concreti, a cominciare dal potere delle organizzazioni dei lavoratori, del quale tanti industriali si lamentano oggi. Si può fare un parallelo con gli attuali movimenti di protesta globale: non sono ancora molto forti in termini organizzativi ma sono in larga misura un segno di quanto sta per accadere. Siccome pongono domande vere, occorre trovare risposte adeguate, anche se agli occhi dell'establishment mondiale i manifestanti sembrano rozzi e chiassosi. C'è davvero bisogno di cambiare. Il mondo di Bretton Woods non è quello di oggi. La sua struttura istituzionale va rivista da cima a fondo. Anzi, non credo che le potenzialità costruttive dei movimenti di protesta possano essere imbrigliate né la loro presenza distruttiva eliminata senza una risposta istituzionale chiara. Di questa, già si colgono le avvisaglie: stanno cambiando le priorità delle istituzioni internazionali. Anche se l'eliminazione della povertà non era l'oggetto principale delle risoluzioni di Bretton Woods, per esempio, essa è diventata almeno formalmente lo scopo della Banca mondiale. C'è un ripensamento in atto del peso del debito sui paesi poveri, della vecchia pratica del Fmi e della Banca mondiale di imporre ai paesi poveri "riforme strutturali" malamente formulate, spesso con effetti dannosi sull'infrastruttura sociale. Sono cambiamenti che vanno nella direzione giusta, ma ci vorrà molto di più, specialmente in termini di costruzione istituzionale. Ben vengano questi cambiamenti in strutture come la Banca mondiale, ma occorre prendere esplicitamente le distanze dall'architettura ereditata da Bretton Woods. C'è bisogno oggi di interrogarsi non soltanto sull'economia e sulla politica della globalizzazione ma anche sui valori che contribuiscono alla nostra concezione del mondo globale, senza lasciarsi sopraffare da un misto di ottimismo testardo e di pessimismo dissennato. C'è bisogno di riflettere non solo sugli impegni dettati da un'etica globale ma sulla necessità concreta di mettere le istituzioni internazionali al servizio del mondo e di estendere il ruolo delle istituzioni sociali in ogni paese. È importante tenere conto della complementarità tra istituzioni diverse, tra cui il mercato e i sistemi democratici, le opportunità sociali, le libertà politiche e altri elementi istituzionali, vecchi e nuovi. Serviranno istituzioni innovative per affrontare le questioni di sostanza sollevate dai dubbi globali e per spezzare il cerchio di incomunicabilità nel quale i movimenti di protesta tendono sempre a rinchiudersi. La protesta globale degli attivisti in tutto il mondo può davvero essere costruttiva, ma perché lo sia questi movimenti vanno giudicati per le domande globali che pongono, più che per le risposte apparentemente contrarie alla globalizzazione contenute nei loro slogan.



Avvenire
1 febbraio 2001

L'Oriente ha i Suoi Lumi

Le nozioni di giustizia, diritto, amore per il prossimo sono solo «occidentali»? Il Nobel Amartya Sen sostiene di no

In un mondo in preda alle peggiori atrocità, la possibilità di utilizzare la ragione rappresenta sempre una speranza, e ciò è facile da capire. La ragione ci può aiutare a prendere coscienza dei nostri errori e a fare in modo di non ripeterli. L'autore giapponese Kenzaburo Oe, per esempio, teorico e visionario della società, sviluppa con forza l'idea che la nazione giapponese, grazie alla comprensione della propria storia imperialista, ha tutte le ragioni per impegnarsi nella difesa della «democrazia escludendo ogni ricorso ad un'altra guerra». Che ne è dell'argomento scettico secondo il quale il campo del ragionamento sarebbe limitato dalle differenze culturali? Recentemente sono state sollevate due difficoltà particolari, distinte ma collegate tra loro. In primo luogo c'è l'idea che la fede nella ragione sia un approccio «occidentale» ai problemi sociali. Coloro che non appartengono al mondo occidentale non condividono, diciamo, alcuni valori, come la libertà o la tolleranza, che sono al centro delle società occidentali e alla base delle idee di giustizia sviluppate dai filosofi occidentali, da Emmanuel Kant a John Rawls. Il fatto che queste siano centrali nell'Occidente non è messo in discussione. Dal momento che si è sostenuto che molte delle società non occidentali hanno dei valori che lasciano poco spazio alla libertà e alla tolleranza (così vengono descritti i nuovi «valori asiatici» in voga), la questione merita attenzione. I valori della tolleranza, della libertà e del rispetto reciproco vengono considerati come «specifici di una cultura» e fondamentalmente limitati al mondo occidentale. E' quella che chiamerò la teoria della «frontiera culturale». La seconda difficoltà deriva dal fatto che degli individui cresciuti in diverse culture possano tutti mancare di compassione e di rispetto gli uni verso gli altri. E' possibile anche che siano incapaci di capirsi e di ragionare tutti insieme. Si potrebbe chiamare questo la teoria della «incompatibilità culturale». Poiché le atrocità e i genocidi sono davvero azioni di una comunità contro un'altra, non c'è alcun bisogno di insistere sull'importanza della reciproca comprensione in seno ai gruppi umani. E tuttavia potrebbe essere difficile raggiungere questa comprensione tra culture fondamentalmente diverse e per di più bellicose. I serbi e gli albanesi sono capaci di superare il loro «antagonismo culturale»? E gli hutu e i tutsi e gli induisti e i musulmani o gli ebrei israeliani e gli arabi?

Certamente la soluzione di tali conflitti non può avvenire in un giorno. Gli aggressori del capitano Cook non potevano assolutamente rimettere subito in questione un comportamento determinato dalla loro cultura, né allora lo stesso Cook poteva avere intùito e acutezza sufficienti per tenerli di mira senza aprire il fuoco. Nel caso presente, è la realizzazione razionale di questa capacità di capire e di interpretare che potrebbe interrompere ogni azione impulsiva. Il problema è allora quello di sapere se questo processo può avvenire al di fuori dei valori che mancano in alcune culture. Ed è qui che la nozione di «frontiera culturale» assume tutto il suo significato. Spesso si sente dire, ad esempio, che le civiltà non occidentali sono sprovviste di questo spirito critico e analitico, essendo così straniere rispetto a ciò che viene chiamato a volte il «razionale occidentale». Lo stesso riguarda il «liberalismo occidentale», le «nozioni occidentali di diritto e di giustizia» e, più in generale, tutti i «valori occidentali».

Molti concordano nel pensare, come Gertrude Himmelfarb ha chiaramente scritto, che le nozioni di «giustizia» di «diritto», di «ragione» e di «amore per il prossimo» sono «valori esclusivamente occidentali». E' molto difficile in effetti rivolgersi a questi problemi senza subire l'influenza della cultura occidentale dominante sulle nostre percezioni e le nostre letture. Prendiamo ad esempio il concetto di «libertà individuale» che è spesso considerato come parte integrante del «liberalismo occidentale». L'Europa moderna e l'America, compreso il secolo dell'Illuminismo, hanno certamente giocato un ruolo preponderante nell'evoluzione dell'idea di libertà e delle sue diverse forme. Queste idee si sono diffuse da un paese all'altro in Occidente, ma anche altrove, in un modo paragonabile a quella che fu l'espansione industriale e tecnologica. Considerare le idee liberali come dei prodotti dell'«Occidente» nel senso stretto del termine, non impedisce affatto l'adesione a queste idee di altre zone geografiche o culturali. Così, ammettere che la forma di democrazia esercitata in India è ricalcata sul modello britannico non la squalifica per questo. Al contrario, sostenere che questi valori, queste idee collegati esclusivamente alla storia dell'Europa sono di per sé occidentali, può ridurre la loro portata altrove. Ma questa interpretazione storica è fondata? E' vero, come sostiene per esempio Samuel Huntington, che «l'Occidente era l'Occidente ben prima di essere moderno»? Non è così sicuro. Quando oggi si classificano le civiltà per categorie, la nozione di libertà individuale viene spesso utilizzata come criterio di classificazione e considerata come facente parte di una eredità occidentale, altrove introvabile. Certo si trova facilmente nei grandi testi classici occidentali l'espressione di una apologia di tutti gli aspetti della libertà individuale. Per esempio, la libertà e la tolleranza sono state esaltate da Aristotele, anche se era riservata agli uomini, escludendo le donne e gli schiavi, mentre si possono anche trovare dei campioni di questi stessi valori tra gli scrittori non occidentali. Si citerà l'imperatore Ashoka in India, che nel corso del III secolo a.C. fece distribuire a ciascuno, in tutto il paese, delle tavolette di pietra sulle quali erano vantati i meriti della buona condotta, del buon uso di un governo giusto e anche della libertà di tutti, compresi, a differenza di Aristotele, le donne e gli schiavi.

Questi diritti dovevano applicarsi anche agli «abitanti delle foreste» che vivevano in comunità pre agricole lontano dalle grandi città. Ci sono poche possibilità che le esigenze di Ashoka in materia di tolleranza e libertà siano conosciute da tutti oggi. Certamente esistono altri scrittori indiani classici che mettono l'accento più sulla disciplina e l'ordine che sulla tolleranza e la libertà: è il caso di Kautilya nel I secolo a.C. nel suo testo Arthashastra. Ma alcuni filosofi come Platone e Sant'Agostino danno anche la priorità alle norme sociali. Tenendo conto della diversità di pensiero in ogni paese, sarebbe più giusto, quando si tratta di libertà e di tolleranza, considerare Aristotele e Ashoka come facenti parte di uno stesso gruppo, e Platone, Sant'Agostino e Kautilya di un altro gruppo. Una classificazione che si basa sul contenuto delle idee è certo totalmente diversa da quella fondata sulla cultura o sul luogo geografico. La conseguenza di questa supremazia occidentale oggi è che le altre culture e tradizioni vengono spesso identificate e definite in opposizione al modello occidentale. Prendiamo il caso dei «valori asiatici» che vengono spesso messi in contrasto con i «valori occidentali».

Per il fatto che esistono in Asia molti sistemi di valori e di tipi di ragionamento, i «valori asiatici» possono essere definiti in mille modi, ciascuno fornito di una citazione corrispondente. Selezionando le citazioni di Confucio, alle spese di altri scrittori asiatici, l'impressione che i valori asiatici veicolano la disciplina e l'ordine, piuttosto che la libertà e l'autonomia come in Occidente, è rinforzata e, allo stesso momento, giustificata. Come ho indicato in altre occasioni, è allora difficile, considerate le rispettive letterature, sostenere la tesi di una opposizione radicale tra Oriente e Occidente. C'è qui un punto di dialettica interessante. Nella moltitudine delle tradizioni asiatiche, riferendosi solo alla dimensione autoritaria, molti scrittori occidentali sono stati in grado di costruire un'immagine particolarmente netta di un'Asia in opposizione con il «liberalismo occidentale». Come reazione, alcuni asiatici hanno preferito reagire con distanza e fierezza, piuttosto che con risentimento, a questa pretesa dell'Occidente ai soli valori di libertà: «Sì, siamo diversi... e va benissimo così!». E' così che questa pratica, che consiste nel conferire un'identità per opposizione, si perpetua, incoraggiata sia dai tentativi degli occidentali di stabilire la loro propria identità, sia da quelli, contrari, degli asiatici di stabilire la propria.

Mettere in questo modo l'accento su ciò che altrove differisce dal modello occidentale, può rivelarsi di un'efficacia temibile e generare delle distinzioni artificiali. Si ritornerà forse a domandarsi perché Gantama Buddha, Lao Tzu, Ashoka, Gandhi o ancora Sun Yat Sen non erano dei «veri» asiatici. Allo stesso modo, per questa identità per contrasto, i detrattori occidentali dell'Islam, come i nuovi cantori della tradizione islamica, parlano molto poco dei precetti di tolleranza dell'Islam che sono almeno altrettanto importanti, dal punto di vista storico, dei suoi segni di intolleranza. Perché Maimonide, quando fuggiva le persecuzioni degli ebrei in Spagna nel XII secolo, ha cercato asilo presso il Saladino in Egitto? E perché l'imperatore musulmano che si era battuto per l'Islam contro i crociati, gli ha accordato il suo sostegno e un titolo a corte?

Certamente il nostro proposito non è quello di pretendere che tutte le idee che riguardano l'uso del ragionamento per una maggiore armonia sociale e di umanità, siano fiorite in modo uguale in tutte le civiltà. Ciò sarebbe non soltanto falso, ma verrebbe da una concezione stupidamente uniformatrice. Ma una volta accettata l'idea che molte delle nozioni considerate come fondamentalmente occidentali possono ritrovarsi in altre civiltà, allora si vede bene che queste nozioni non sono specifiche di una sola cultura, come a volte si pretende. Questo è il motivo per cui non bisogna disperare, almeno in questo ambito, di vedere prosperare un giorno nel mondo un umanesimo dettato dalla ragione.

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