Il Fatto Quotidiano

19 maggio 2013

 

Videla, il male quotidiano della dittatura argentina: “La violenza diventò estrema”

di Anna Vullo

 

Parla lo scrittore Alvaro Abos: “Videla non ha mai ammesso ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti: che si trattasse di un piano di sterminio sistematico, di una struttura dell’orrore. È stato un gerarca molto ipocrita”

 

Alvaro Ábos è uno scrittore e saggista argentino autore di numerosi libri. Ha 72 anni. Quando Jorge Rafael Videla – il leader della giunta militare morto l’altro giorno a 87 anni – prese il potere, Ábos ne aveva 35. Era un giovane avvocato che tutelava i diritti dei lavoratori e aveva stretti contatti con il sindacato. Per il regime di allora, “un sovversivo”.

Lo scrittore ricorda quel periodo come il più terribile della storia argentina: “Con Videla si arrivò alla violenza estrema”, spiega. “Per noi argentini il militarismo non era un fenomeno nuovo, in un certo senso eravamo abituati al succedersi di dittature. Ero un ragazzino, ma ricordo ancora il golpe del 1955 con cui fu cacciato Peròn. Ciononostante non si era mai arrivati alla brutalità che ha contraddistinto il regime di Videla. Tra il 1976 e il 1983 è stata spazzata via un’intera generazione. Un genocidio paragonabile a quello del nazismo”.

In El poder carnivoro, un saggio del 1985, Ábos descrive l’ideologia della dittatura attraverso l’analisi del linguaggio, dei discorsi e dell’iconografia di quel periodo. In copertina c’è un ritratto di Videla. Con sguardo da semiologo mette a nudo attitudini e posture del regime: “L’equazione era elementare: chi non è d’accordo con la nostra dottrina è un nemico. Discorso di uno schematismo impressionante, che ruotava ossessivamente intorno al tema del male e che non cessava mai di essere minaccioso: i gerarchi venivano sempre ritratti in uniforme, mai in abiti civili. L’unico obiettivo era seminare la paura”.

Tuttavia al principio non si aveva una percezione chiara del dramma che si sarebbe consumato in seguito. “Vivevamo in uno stato di polizia proprio di un regime, ma la vita quotidiana in qualche modo seguiva il suo corso”, spiega Ábos. “La polizia entrava nei caffè, bloccava gli accessi, chiedeva i documenti a tutti i presenti . Oppure sbarrava una via in piena notte alla ricerca di qualcuno. Si udivano ordini, grida. Ci si affacciava e subito un agente intimava: no miren, non guardate, andate dentro! Così si tornava a letto cercando di tener a bada le inquietudini e non porsi troppe domande”. Finché i sequestri, le torture e le sparizioni non diventarono un fenomeno eclatante. Cominciarono a desaparecer studenti e professori dalle università, operai dalle fabbriche, maestre dalle scuole.

“Persone comuni, figure professionali del tutto innocue ma che il regime bollava come nemici della patria”, commenta Ábos. “A scopo intimidatorio, qualche volta veniva fatto ritrovare un cadavere sul ciglio di una strada o ai bordi di un campo da calcio. Alcuni erano carbonizzati o presentavano chiari segni di torture. I giornali scrivevano: è stato rinvenuto il corpo di tizio, di anni ‘x’, di professione eccetera, ma senza mai specificare cosa fosse successo e perché si trovasse lì. Come se si trattasse della vittima di un incidente d’auto”.

L’omertà della stampa corrispondeva al sentimento di una parte della società: chi fingeva di non sapere, chi taceva per paura, chi appoggiava apertamente il regime. “I militari avevano riportato l’ordine dopo un periodo di caos, scioperi e iperinflazione”, spiega lo scrittore. “In questo senso Videla aveva ragione: con lui una parte del Paese si sentiva al sicuro”. Il resto viveva nel terrore.

Per capire se si correvano pericoli si ricorreva a piccole astuzie. “Era importante procurarsi informazioni dall’interno”, sostiene lo scrittore. “Sapere per vie traverse se si era nelle liste nere della polizia e poi agire di conseguenza”. Quando venne sequestrato, torturato e ucciso Norberto Centeno, docente di Diritto del Lavoro e accademico molto noto, di cui Ábos era discepolo, lo scrittore capì di essere nel mirino. Attraversò il confine con l’Uruguay e si imbarcò su un volo per Barcellona. Tornò a Buenos Aires solo alla fine della dittatura.

“In questi trent’anni il discorso di Videla non è mai cambiato. Sino alla morte ha rivendicato le azioni del regime sostenendo che si trattasse di una guerra: dell’Occidente contro i sovversivi marxisti”, aggiunge Ábos. “Tuttavia non ha mai ammesso ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti: che si trattasse di un piano di sterminio sistematico, di una struttura dell’orrore. È stato un gerarca molto ipocrita”.

Ma l’Argentina non ha più paura. “Oggi in tutta l’America Latina abbiamo governi democratici e libere elezioni”, conclude Álvaro Ábos. “Il ritorno di una dittatura è uno scenario fantascientico. I militari sono stati cancellati dalla vita nazionale: li abbiamo seppelliti assieme a quell’epoca buia. In questo senso, Videla era già morto da tempo”.

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