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Robert’s Kennedy Assassination


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5 giugno 2013

 

L’assassinio di Robert Kennedy

di Davide Maria De Luca

 

La storia di quello che accadde il 5 giugno di 45 anni fa in un hotel di Los Angeles, poco dopo una vittoria decisiva alle primarie del 1968

 

Il 5 giugno del 1968 Robert Kennedy – detto anche “Bobby” o “Bob” – fu ferito all’hotel Ambassador di Los Angeles, pochi minuti dopo aver terminato il discorso con cui aveva celebrato la vittoria nelle primarie del Partito Democratico in California, in vista delle successive elezioni presidenziali. L’attentatore, Sirhan Sirhan, un palestinese cristiano con cittadinanza giordana, sparò a Kennedy tre proiettili da vicino. Successivamente spiegò di averlo fatto per via del sostegno di Kennedy nei confronti di Israele. Robert Kennedy morì il giorno successivo, 26 ore dopo essere stato ferito.

Quell’anno, come scrisse lo storico Arthur Schlesinger, il biografo della famiglia Kennedy, «eravamo il popolo più spaventato del pianeta». Nei mesi precedenti all’assassinio di Kennedy, il presidente Lyndon Johnson aveva inviato nuove truppe in Vietnam. A febbraio un’offensiva dei vietcong aveva dimostrato che quegli sforzi non avevano ancora battuto la resistenza vietnamita, mentre la scoperta del massacro di My Lai aveva rivelato all’opinione pubblica che l’esercito americano aveva commesso crimini di guerra. Ad aprile era stato ucciso il leader della campagna per di diritti civili dei neri Martin Luther King, e c’erano state rivolte e sommosse in quasi tutte le grandi città americane. Il clima di paura e di incertezza di quei mesi contribuì poi alla vittoria elettorale del repubblicano Richard Nixon, che aveva come slogan “legge e ordine”, nelle elezioni che si tennero cinque mesi dopo l’assassinio di Robert Kennedy.

 

Robert e John Kennedy

I Kennedy sono stati definiti la cosa più vicina a una famiglia reale che gli Stati Uniti abbiano mai avuto. La stampa gli dedicò attenzione per la loro attività politica almeno quanto prestò attenzione al gossip che li circondava, un po’ come fanno oggi i tabloid con la famiglia reale inglese. Il leader della famiglia, in quegli anni – i Kennedy erano stati importanti esponenti Democratici già nelle due generazioni precedenti –  era stato John, fratello maggiore di Robert, otto anni più grande. “Bobby”, come veniva spesso chiamato, era allora raffigurato come il fedele e laborioso fratello minore.

Mentre John era spesso definito solare e aperto, Robert era descritto come duro e poco incline a fare compromessi. Una settimana dopo la morte, il settimanale Life lo descrisse come un uomo «complesso, ambizioso e fatalista». Aveva la fama di una persona che perseguiva i suoi obiettivi con grande assiduità. Un giorno, scherzando con un giornalista, disse: «Quando scopro chi è il primo che ha cominciato a chiamarmi “spietato”, lo faccio a pezzi». Robert, a 24 anni, fu il primo dei nove fratelli Kennedy a sposarsi. Con sua moglie, Ethel Skakel, ebbero 11 figli. Anche se alcuni hanno insinuato a lungo che Robert avesse una relazione con Jaqueline, la moglie di John, dopo la sua morte, le cronache in genere raccontavano Robert come un marito fedele.

Robert Kennedy era altrettanto leale col fratello. Era consapevole di occupare il “secondo posto” ed era soddisfatto del suo ruolo. Quando John fu eletto presidente, nel 1961, nominò Robert Attorney General, quello che negli Stati Uniti è il Ministro della Giustizia. Ma John notoriamente gli chiedeva consiglio per quasi ogni questione. Robert era di fatto il primo consulente del fratello maggiore.

Secondo gli storici, mai nella storia degli Stati Uniti un Attorney General ebbe così tanto potere. Robert Kennedy si occupò in particolare di criminalità organizzata e in quegli anni divenne storica la sua rivalità con Jimmy Hoffa, il capo di un importante sindacato legato alla mafia italiana. All’epoca erano famose anche le litigate di Robert Kennedy con J. Edgar Hoover, fondatore e potentissimo capo dell’FBI, e con Lyndon Johnson, il democratico del sud che Kennedy aveva scelto come vice presidente.

 

La morte di John e le primarie del 1968

In molti scrissero che l’assassinio di John Kennedy a Dallas nel 1963 cambiò moltissimo suo fratello Robert. Life scrisse che divenne più maturo e profondo. La morte di John causò peraltro una sorta di passaggio di testimone in famiglia. Come Robert scrisse ai figli, ora toccava a lui, in quanto membro più anziano della loro generazione, portare avanti il progetto di John. Quando alla convention democratica del 1964 Robert presentò un film sulla morte del fratello, l’intera platea si alzò in piedi e applaudì per 22 minuti prima di lasciarlo parlare.

 

Nove mesi dopo la morte di John, Robert si candidò e fu eletto al Senato: intanto il vicepresidente Johnson, che aveva assunto la carica di presidente alla morte di Kennedy, venne confermato nelle elezioni del 1964. Da senatore, Robert Kennedyappoggiò i diritti civili degli afroamericani e compì un viaggio in Sudafrica, criticando duramente l’apartheid. Si oppose al crescente impegno nella guerra del Vietnam portato avanti dal presidente Johnson e disse di essere favorevole a una legge per dichiarare illegale la pena di morte negli Stati Uniti.

 

Nel marzo del 1968 Robert Kennedy si candidò alle primarie del Partito Democratico. Fu una scelta difficile – sfidò un presidente in carica, Lyndon Johnson, che di solito ha il mandato di diritto alla riconferma – e la campagna elettorale lo fu ancora di più. Si sarebbe votato nel novembre del 1968 e a gennaio la rielezione di Johnson sembrava sicura, tanto che Robert aveva detto pubblicamente che non intendeva candidarsi. Alla fine di gennaio però i vietcong lanciarono la più grande offensiva dall’inizio della guerra in Vietnam, “l’offensiva del Tet”, il giorno del capodanno vietnamita: l’attacco fallì dopo giorni di combattimenti, ma dimostrò inequivocabilmente che la guerra era molto lontana dall’essere vinta e che gli sforzi della presidenza Johnson erano stati inutili.

A quelle primarie si era candidato anche Eugene McCarthy, che si opponeva alla guerra ed era stato appoggiato dal fronte Democratico “pacifista” guadagnando consensi imprevisti nelle prime primarie. L’offensiva del Tet indebolì Johnson e rafforzò McCarthy, e Kennedy si risolse ad annunciare anche la propria candidatura, dividendo il fronte di chi si opponeva alla guerra, ma forte di un consenso più ampio e probabilità maggiori di McCarthy. Dopo alcune vittorie risicate nei primi stati in cui si votava per le primarie, Johnson annunciò a marzo il proprio ritiro.

Il suo posto fu preso dal suo vice presidente Hubert Humphrey, appoggiato dell’estabilishment del partito ma entrato troppo tardi per le primarie. La gara delle primarie quindi era solo tra McCarthy e Kennedy, due candidati con un programma simile, che avrebbero dovuto cercare di ottenere abbastanza voti popolari da essere in grado di sconfiggere Humphrey e i suoi voti di partito alla convention.

Kennedy ottenne diverse vittorie e qualche sconfitta. Le primarie in California avrebbero di fatto deciso se McCarthy poteva proseguire la corsa o se invece l’unico in gara sarebbe rimasto Kennedy, il quale ottenne una larghissima vittoria che sancì che sarebbe stato lui ad affrontare Humphrey alla convention di partito. Kennedy celebrò il risultato con un discorso nel salone dell’hotel Ambassador, a Los Angeles, poco dopo la mezzanotte.

 

Sirhan Sirhan

L’assassino di Robert Kennedy era nato a Gerusalemme nel 1944. Era un arabo cristiano, di famiglia palestinese con cittadinanza giordana. Quando aveva 12 anni si trasferì con la famiglia negli Stati Uniti, prima a New York, poi in California. Aveva problemi mentali e con l’alcol.

La sua ossessione per Robert Kennedy fu documentata grazie al suo diario, ritrovato dalla polizia nel suo appartamento. A quanto pare Sirhan aveva cominciato ad odiare Kennedy nel giugno del 1967, quando Kennedy aveva espresso il suo appoggio alle operazioni militari israeliane che successivamente sarebbero state chiamate la Guerra dei Sei Giorni. Kennedy disse che se fosse stato eletto presidente avrebbe inviato 50 aerei da guerra in Israele, una promessa che Sirhan appuntò nel suo diario. Il 18 maggio 1968 scrisse:

La mia determinazione di eliminare R.F.K. sta diventando sempre di più un’ossessione che non riesco a togliermi di dosso… Kennedy deve morire prima del 5 giugno [il primo anniversario della Guerra dei sei giorni].

 

L’assassinio

Dopo il discorso, Kennedy avrebbe dovuto attraversare il salone per raggiungere un’altra stanza dove lo aspettavano alcuni attivisti della sua campagna. Con la vittoria e la convention sempre più vicina, i giornalisti chiesero una conferenza stampa e fecero abbastanza pressioni da convincere il direttore della campagna elettorale a cambiare il programma. Kennedy non sarebbe andato a incontrare i suoi attivisti: dalla sala da ballo sarebbe stato accompagnato attraverso le cucine dell’albergo per raggiungere la sala stampa e parlare con i giornalisti. Kennedy fu avvertito del cambiamento mentre stava per lasciare la sala, circondato da due ali di folla. Nella calca alcuni addetti della campagna elettorale provarono a fargli largo, ma Kennedy seguì invece un inserviente dell’albergo, che lo teneva per il polso.

Le cucine erano affollate e Kennedy si fermava di continuo per stringere mani e salutare. Procedeva lentamente, e rallentò ancora di più quando arrivò a una strettoia tra una macchina del ghiaccio, a sinistra, e un portavivande, a destra. Kennedy si fermò, si girò verso sinistra e strinse la mano a un ragazzo di 17 anni, Juan Romero. In quell’istante Shiran si avvicinò rapidamente a Kennedy, muovendosi da dietro un portavassoi che si trovava poco lontano dalla macchina del ghiaccio.

 

Sirhan impugnava un piccolo revolver calibro 22. Sparò il primo colpo a pochi centimetri dalla testa di Kennedy. Il proiettile entrò da dietro l’orecchio sinistro, disperdendo frammenti d’osso in tutto il cervello. Altri due colpi gli entrarono sotto l’ascella. Un quarto colpo passò attraverso i vestiti e ferì un’altra persona. Dopo pochi secondi Shiran venne colpito con due pugni in faccia da William Barry, un agente della scorta, mentre due inservienti dell’albergo, Rafer Jhonson, un atleta medaglia d’oro olimpica di decathlon, e il giocatore di football Rosey Grier, lo bloccarono contro il portavivande e lo disarmarono.

Shiran riuscì a sparare tutti i quattro colpi che gli rimanevano nella pistola, ferendo altre 5 persone (una era stata già ferita dal colpo che aveva attraversato il vestito di Kennedy). Dopo circa un minuto di lotta Shiran riuscì in qualche modo a liberarsi e a riprendere la pistola, ma oramai aveva sparato tutti i colpi. Pochi secondi dopo venne di nuovo placcato e bloccato.

Kennedy intanto era a terra. Barry disse successivamente che quasi subito aveva capito che la pistola era una calibro 22, un’arma piccola con proiettili poco pesanti e poco veloci. Aveva pensato che le ferite non fossero gravi, ma quando vide il buco dietro l’orecchio capì invece che non c’era molto da fare.

Il primo a soccorrere Kennedy fu Romero, il ragazzo a cui Kennedy stava stringendo la mano quando era stato colpito. Romero si chinò accanto a lui, gli mise in mano un rosario e gli strinse la mano. Kennedy era ancora cosciente e chiese: «Stanno tutti bene?». «Si, stanno tutti bene, andrà tutto bene» rispose Romero. La foto di quell’istante divenne l’immagine simbolo dell’attentato.

Poco dopo arrivò sua moglie, Ethel, che gli rimase accanto mentre arrivavano i barellieri. Mentre lo caricavano sulla barella, Kennedy mormorò «Non sollevatemi» poi perse conoscenza. Robert Kennedy morì 26 ore dopo, all’Hospital of the Good Samaritan. L’8 giugno il suo corpo venne trasportato da New York a Washington a bordo di un treno. Centinaia di migliaia di persone si allinearono lungo i binari per salutarlo. Quel corteo funebre rimase nella storia degli Stati Uniti come il “Funeral train”, raffigurato da un leggendario reportage fotografico di Paul Fusco.

 

Le primarie furono vinte da Humphrey che a novembre fu poi sconfitto dal candidato repubblicano, Richard Nixon. Sirhan fu condannato all’ergastolo e si trova ancora in carcere in California. Ha richiesto per sei volte la libertà condizionata ma non gli è mai stata concessa.

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