tratto da www.tecalibri.it

Alfabeto Camus Lessico della rivolta
di Antonio Castronuovo

Nuovi Equilibri 2011

Premessa

"Bisognerebbe vivere la propria vita da spettatori. Per aggiungervi il sogno che la completerebbe. Ma noi viviamo, e sono gli altri che sognano la nostra vita". A. Camus, Il primo uomo

Camus è tra gli autori francesi più letti al mondo, una fama ben meritata per l'intensità della sua opera, per la forza con cui penetra nel senso dell'uomo, per il rigore espressivo. Nell'euforia della Francia liberata, fu simbolo di un nuovo modo di fare letteratura e fece anche baluginare la speranza che la politica poteva essere sostituita dalla morale. Speranza notoriamente stroncata.

La sua vita si mosse su una scenografia multiforme: una gioventù felice da umile immigrato algerino, la breve adesione al Partito Comunista di Algeri, la vocazione alla scrittura e al giornalismo, una fertile vita teatrale, il trasbordo in Francia e l'avventura clandestina a "Combat"; la nascita della teoria della rivolta e gli scontri col mondo degli intellettuali organici, il pensiero meridiano che intreccia sapore mediterraneo e senso del limite, il premio Nobel per la letteratura. Credo che pochi scrittori abbiano goduto di una vita così lussuosa, sigillata però da una morte prematura (nel 1960).

In Italia Camus è autore un po'sofferente: i suoi capolavori vengono letti, ma lui non gode di grande attenzione critica, né di larga stampa. La ragione è semplice: intellettuale equilibrato, Camus sembra pur tuttavia la figura incarnata del ribelle; quello vero, colui che prima ancora di ribellarsi agli uomini, si ribella ai fondamenti dell'esistenza. Ma questa forma di ribellione — quella lucida che va alla radice del vivere — è difficile da abbracciare, ben più che collocarsi agiatamente nella culla di un'ideologia reputata rivoluzionaria. Ragion per cui Camus non trova molto seguito in Italia, neanche là dove dovrebbe averne.

Dirò subito che amo Camus per quel suo essere uomo di sinistra — e dunque antifascista inamovibile — che seppe dichiarare però anche il suo anticomunismo: non ebbe alcun timore ad affermare che l'orrore era orrore, sia nella Germania nazista sia nella Russia stalinista. La sua fu dunque una scelta libertaria.

A sinistra pesa su di lui l'onda lunga della scomunica che Sartre gli comminò nel 1952. Da tempo le cose sono mutate, e da più parti si ammonisce che è finita l'epoca di Sartre ed è cominciata quella dei suoi scomunicati. Non so se sia vero: so soltanto che se leggo Camus mi ci ritrovo, se leggo Sartre sbadiglio (offro il fianco a chi mi metterà in croce: fate pure, resto camusiano).

Ragion per cui, con un'occhiata a quanto l'editoria italiana ha fatto nel cinquantennale della scomparsa, ho voluto comporre questo compendio della sua essenza, a favore di chi ha letto Lo straniero, La peste o L'uomo in rivolta e ne è rimasto segnato, come anche a favore di chi non conosce la straordinaria figura di un intellettuale che resta ai margini e di rado appare nel discorso comune.

Ne è nato quanto segue. Dapprima un'ampia 'intervista immaginaria' a Camus, poi un 'lessico' che percorre concetti, opere, eventi, controversie a lui inerenti: 68 voci di varia ampiezza per entrare agevolmente nei nodi essenziali della sua vicenda. Non si tratta di un lessico neutro: tocca le idee, le condivide o le respinge, per far emergere l'immagine viva di un intellettuale. Ma anche l'immagine di uno spicchio del Novecento, secolo che sarà sempre da rimeditare. A partire dalle figure giuste.

Antonio Castronuovo

Pagina 9

Intervista a Camus

Albert Camus è un tipico intellettuale francese del dopoguerra: narratore, saggista e drammaturgo, ma anche uomo della Resistenza e giornalista; la vittoria del Nobel nel 1957 ha segnato il suo ruolo di primo piano nella letteratura del Novecento. Mente e personalità fertile, è un letterato molto impegnato nei dibattiti dell'attualità, che affronta senza sottostare alla vulgata comune. Ciò ha scatenato non poche polemiche e parecchi malintesi, che oggi, dopo anni da quei fatti, pesano a suo vantaggio: tirate le somme della storia è stato lui — e non gli intellettuali che lo vollero biasimare — a uscire vincente dall'aspro battibecco insorto dopo la pubblicazione dell' Uomo in rivolta.

Ho ritenuto che per offrire una corretta immagine di Camus, il modo migliore era di chiedergli un colloquio e far risuonare la sua viva voce. L'ho incontrato nella sua casa di campagna a Lourmarin, in Provenza; mi ha accolto con cortesia, permettendomi di registrare e poi trascrivere la nostra chiacchierata, di cui si è salvato il tono confidenziale: conosco Camus da molti anni e ricordo che abbiamo sempre scherzato sul fatto che firmandoci dobbiamo entrambi usare le iniziali A. C.

Il giorno dell'incontro è volato via come accade per i momenti migliori della vita: sono certo che quel che andiamo a leggere riuscirà a trasmetterne, se non altro, l'armonia. 



***

Sai che L'Uomo in rivolta è il tuo libro più letto? Era uno dei libri guida degli studenti americani della Nuova Sinistra, giovani che avrebbero di lì a poco ingrossato le file della contestazione.

E quali erano gli altri libri che quei ragazzi preferivano? Io ricordo che nel '51, oltre al mio, uscì anche il Trattato del ribelle di Ernst Jünger: tutt'altra cosa, ma è stimolante notare come in quegli anni da più parti si teorizzava la ribellione più che la rivoluzione. 



È vero, anche il volumetto di Jünger era tra le letture preferite a Berkeley, e poi c'era Sulla rivoluzione di Hannah Arendt. Ma come spieghi che il tuo saggio girasse nelle mani di quegli studenti?

Credo sia facile da spiegare: quelli erano studenti in lotta contro la segregazione razziale, appassionati di diritti civili, ma distanti dal marxismo-leninismo, che invece avrebbe fatto presa nel '68 europeo. In un certo senso, erano libertari e radicali, non comunisti nel senso ortodosso del termine. Ciò secondo me spiega a sufficienza perché il mio saggio fosse letto. 



La rivolta: ecco il grande tema che attraversa la tua opera come una presenza ineluttabile.

Sì, lo riconosco, è una presenza costante, anche ora che ne parlo con te. È stata in fondo la valvola che ho attivato per reagire all'assurdità dell'esistenza: solo ribellandosi l'uomo trascende e domina l'insensatezza della realtà. Una radice attiva che secondo me è stata colta molto bene da Jean Grenier quando ha voluto scrivere su di me: "Un ribelle pronto a diventare un rivoluzionario, non un pessimista pronto a diventare uno scettico". È una frase che mi aiuta a capire me stesso. 



Iniziamo allora il nostro colloquio con una questione delicata, che ancora divide: le tue idee non sono piaciute a una certa sinistra incapace di liberarsi dal vizio sovietico, ma paradossalmente piacciono a una certa destra moderna, non conservatrice e non autoritaria. Che sensazione provi a sapere che oggi c'è una destra che ti legge?

Sono turbato ma non angosciato; non mi sento a mio agio, ma non grido allo scandalo. Sono un uomo di sinistra, senza alcuna titubanza, e credo che nessuno possa nutrire dubbi su questo. Ora, se il mio messaggio solleva un batticuore libertario anche a destra, non posso che accogliere la cosa con favore: significa che esistono idee per così dire 'trasversali', e queste secondo me uniscono più che dividere. E poi, a essere franco: con la mia opera ho voluto far capire che il fondamento per ogni buon pensiero politico è di respingere l'autoritarismo, su cui germogliano le dittature, e francamente vorrei essere ascoltato a destra e a sinistra, cioè da tutti. 



Mi sembra un monito chiaro: chi intende capire il senso della tua opera letteraria e della tua testimonianza umana e politica deve partire da qui, dal fatto che a un certo punto, tu uomo di sinistra, iscritto per qualche anno al Partito Comunista algerino, hai abbandonato quell'appartenenza per abbracciare un più coerente impegno anti-autoritario.

Proprio così. Anche io ho vissuto, come tutti, alcuni entusiasmi giovanili che poi ho dovuto mettere a confronto con la realtà, quando mi sono accorto che la Russia sovietica non aveva le carte in regola per agire da faro per la sinistra europea. A quel punto ho cominciato onestamente a scriverlo, ed è stata una catastrofe, soprattutto quando sono stato malamente 'scaricato' da Sartre, episodio che ancora mi brucia e in un certo senso mi offende. La mia vicenda, se ci pensi, non è tanto diversa da quella di altri intellettuali europei che, pur appartenendo alle aree più disparate, hanno condiviso qualcosa con me: Hannah Arendt, Simone Weil, André Malraux, Ernst Jünger, Arthur Koestler, George Orwell, Raymond Aron, ma anche gli amici italiani Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, personaggi che hanno vissuto nel cuore del ciclone novecentesco, si sono nutriti di certe brucianti passioni, dalle quali sono poi riusciti a prendere le distanze. 



Per essere tuoi lettori, per sentirsi vicini a te, bisogna insomma essere dotati di certe caratteristiche, come a dire che non tutti possono leggerti.

Credo proprio di sì. Penso che il mio lettore sia innanzitutto una persona che non vende il concetto di libertà a un'ideologia e che è incline a un certo individualismo, uno che frequenta i temi dell'anarchismo e dell'assurdo, ovviamente. Di certo alla rivoluzione preferisce la rivolta. D'altra parte io l'ho scritto chiaramente: "Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo almeno a vivere il tempo della rivolta". 



Sei per molti di noi un indispensabile riferimento, cosa di cui ti sei certo accorto. Da dove nasce questa tua forza?

Credo che la forza culturale che mi viene attribuita nasca da un fatto concreto: io che sono nato povero ho conquistato il diritto alla cultura, il diritto di fare di me uno scrittore, battendomi. Situazione che anche oggi segna la differenza: c'è chi si batte per conquistare una cultura e chi invece si mette a sedere e accoglie qualunque messaggio, credendo sia cultura. Da ragazzo avevo questa consapevolezza: che la letteratura non era un modo di esprimere le idee, ma una realtà da conquistare. Forse per questo è aumentata la forza del mio messaggio: per conquistare la cultura, io non ho voluto rischiare di farmi dilettante, né cinico, né esteta che fabbrica graziosi oggetti letterari. Ogni mio libro esprime il legame tra me e gli avvenimenti della vita. Ho voluto avere una visione coerente del mondo, da cui ho tratto le mie regole di vita, se vuoi anche una mia morale. Se ho osservato l'assurdo non è stato per mero compiacimento di analisi, ma per ottenere un qualche effetto positivo, cioè la rivolta, e infine l'amore. 



C'è un'altra accusa che ti viene lanciata: esserti dilungato sui problemi del comunismo ben più che su quelli del fascismo. Da che cosa nasce questa disparità?

È una visione errata, che deriva dal fatto che si leggono soprattutto alcune mie cose e non altre. È insomma un problema editoriale: di me è stato pubblicato soprattutto ciò che fa scandalo, come appunto le polemiche nate con amici o ex amici di sinistra. Così, i miei scritti antifascisti sono sembrati secondari. Da voi in Italia, ad esempio, sono stati presi in considerazione quasi solo dall'editoria libertaria. Che io sia antifascista è cosa ovvia, non c'è bisogno di rievocarlo. Ho dovuto invece smarcarmi da una certa sinistra, e ciò ha sollevato il frastuono che mi fa sembrare implicato solo in polemiche tra sinistra e sinistra. Ma che devo farci? Della sinistra non condivido l'appiattimento sullo stalinismo violento e totalitarista. Quando leggo quel che nel 1848 pensava Marx della ghigliottina di Robespierre, che cioè fosse un metodo plebeo ma assai utile a sradicare l'ordinamento feudale, bene: io non sono d'accordo. E noto cosa penso della pena di morte, dunque anche di quella 'utile' a far correre la storia. Caro mio, checché se ne dica, è ora che tutti a sinistra abbandonino il mito del buon Stalin, che buono non era affatto. Tutti dovrebbero sapere – come se non bastassero le 'purghe' di Mosca e l'esistenza del gulag – che di recente è stato scoperto sul documento che scatenò l'eccidio di Katyn – più di ventimila persone fucilate per niente – il suo assenso manoscritto che suonava "Approvo". 



Hai citato prima una bella serie di nomi, la Arendt, la Weil e così via, ma resta il fatto che tu sei stato, tra tutti, il più precoce a guardare negli occhi la realtà. A parte la netta presa di posizione contro il gulag, segno di una rivoluzione fallita, nessuno potrà mai dimenticare che sei stato il solo intellettuale occidentale a denunciare la bomba atomica su Hiroshima.

Già, ricordo bene, fu con un editoriale su "Combat" l'8 agosto 1945. Il 6 agosto era stata sganciata la bomba. Non sapevo ancora che il giorno dopo sarebbe stata sganciata l'altra, su Nagasaki. Scrissi che la civiltà occidentale, di natura meccanicista, era giunta al suo grado estremo di ferocia ed era tornata allo stato selvaggio. Aggiunsi che al cospetto delle prospettive terrificanti che si aprivano per l'umanità, la sola battaglia da combattere era quella per la pace. Ne sono ancora convinto, anche se devo riconoscere che i buoni consigli non vengono mai seguiti. 



Proprio così, mai seguiti. Ma ora, diradate queste nubi, direi che possiamo cominciare dall'inizio, dal mondo dei tuoi primi anni.

Già, l'inizio, le immagini che presto spariscono, ma che continuano a segnarci, inconsapevolmente. Sono nato a Dréan nel 1913. Allora la cittadina si chiamava Mondovi. Per andarci ci voleva un giorno di treno. Si partiva da Algeri e, verso est, si arrivava ad Annaba, nella regione di Costantina, poi un altro mezzo verso sud, e a pochi chilometri c'era il paese, che allora aveva 1.500 abitanti ed era situato tra un mare di viti. La casa in cui sono nato oggi non esiste più. La mia era una famiglia povera, mio padre era operaio agricolo, mia madre faceva i lavori di casa.

Pagina 50

Ma ti consideri scrittore?

Sì, confesso, mi considero scrittore. Vedi, ci si accorge di essere scrittori quando si vede che non siamo noi, ma la penna, a pensare, a ricordarsi e a scoprire. E tante, tante volte, a scrivere le mie pagine è stata la mia penna, non io. 



Stavi parlando di Grenier: ci fu qualcosa in lui che ti colpì particolarmente?

Sì, quando pubblicò – nel '33, mi pare – il suo libro Le isole. Era una raccolta di brevi saggi, che lessi appena uscì. Avevo vent'anni. Il fremito che ne ricavai, l'influenza che esercitò su di me, posso compararli solo alla scossa provocata su un'intera generazione dai Nutrimenti terrestri di Gide. Per la prima volta colsi l'amore che un uomo poteva sentire per lo splendore del mondo, e dire che Grenier veniva dal nord, dalla Bretagna. Per la prima volta capii quale disperato incanto c'è nel sapere che le cose bellissime del mondo, come il sole e il mare, sono passeggere e devono sparire. Quando molti anni dopo il libro fu ristampato, fui io a scrivere la premessa. Grenier ne fu assai felice. Oggi è stato tradotto anche da voi, in Italia. Un gran bel libro. 



E il gusto per l'assurdo da dove giunge, forse da Kafka, il grande pittore dell'assurdo?

Non direi; lo considero un grandissimo narratore, ma non mi ha influenzato. Anzi, in lui mi respinge un po' il fantastico, elemento col quale non sono a mio agio. Chi tratta col fantastico rischia di escludere il mondo, cosa che Kafka fa troppo spesso, e invece l'universo dell'artista non deve escludere nulla. Se c'è un pittore dell'assurdo che ha giocato un ruolo nella mia idea di letteratura è Melville, l'autore del magnifico Moby Dick. Secondo me Moby Dick è uno dei miti più sconvolgenti che siano mai stati immaginati sulla lotta dell'uomo contro il male: se è vero che il talento ricrea la vita e il genio invece la arricchisce anche di miti, allora Melville è prima di tutto un creatore di miti. Come tutti i più grandi artisti, ha costruito i suoi simboli sulla realtà concreta, non nella materia dei sogni. Chi crea miti è secondo me uomo di genio solo se li iscrive nello spessore della realtà e non nelle nuvole dell'immaginazione. 



E dopo, quali scrittori hanno maggiormente agito da guida, quali ti hanno più condizionato nella scelta di diventare scrittore?

Se ci s'innamora dei libri, da giovani si legge molto, e io ho letto molto: Stendhal, Balzac, Flaubert, Gide, il cui Diario trovo sia molto più umano di altri. Poi ho letto i grandi russi dell'Ottocento, Dostoevskij soprattutto, e Tolstoj, a cui perdonavo le troppe prediche; ho letto anche gli spagnoli. Chi ha soprattutto agito da guida? Direi, tra i moderni, soprattutto Malraux e Montherlant; e poi Pascal e Molière. 



Mi colpisce che Pascal sia tra le tue letture preferite, e mi colpisce che da questo elenco manchi Proust...

Io sono tra quelli che Pascal sconvolge e non converte. E ho detto tutto. Proust mi sono soltanto scordato di citarlo, ci mancherebbe. Oltre a non poterlo ignorare in assoluto, la sua pagina generosa fu per me una scoperta magnifica. Ricordo che fu Grenier a procurarmi Alla ricerca del tempo perduto; quando le leggevo, riponevo quelle pagine con amarezza, tanto le amavo. È stato un grande creatore; nella sua opera mi ha sempre colpito il contrasto tra il vigore della composizione e la minuziosa precisione del dettaglio. Ma se proprio vogliamo andare a fondo, ho fatto anche letture per così dire 'eretiche', Spengler ad esempio, il cui Declino dell'Occidente è un libro che tutti dovrebbero conoscere. Dice assai lucidamente la verità: che le civiltà sono organismi biologici che nascono e che muoiono; tutte le civiltà, anche la nostra, e c'è poco da essere supponenti sul fatto che sembriamo indistruttibili. Mi chiedo perché oggi Spengler sia giudicato una sorta di appestato da tenere a distanza. Ma anche questo fa parte della stupidaggine – o forse della presunzione di superiorità – a cui la modernità è giunta.

Pagina 57

Il luogo che ha agito per te da faro è il Mediterraneo, il cui centro è la Grecia, non Roma. Perché questo valore assegnato alla Grecia come fulcro della nostra civiltà?

I Greci valgono in senso assoluto, ma anche – e soprattutto – in relazione alla nostra misera esistenza odierna. I Greci hanno sempre parlato della disperazione attraverso la bellezza. Invece la nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni. Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci hanno avuto la forza di imbracciare le armi per lei. E poi, il pensiero greco si è sempre trincerato nel valore del limite. Non ha spinto nulla all'estremo, né il sacro né la ragione, perché non ha negato nulla, né il sacro né la ragione. Ha tenuto conto di tutto, equilibrando l'ombra con la luce. Invece la nostra Europa, lanciata alla conquista della totalità, è figlia della dismisura: nega la bellezza come nega tutto ciò che non esalta. Ed esalta una sola cosa: l'impero della ragione. Per i Greci i valori preesistevano a ogni azione e ne segnavano esattamente i limiti. La filosofia moderna colloca i valori al termine dell'azione dicendo: i valori non sono, divengono, e li conosceremo interamente solo al compiersi della storia. Ormai Nietzsche, che filosofava a colpi di martello, è superato: l'Europa non filosofeggia più a colpi di martello, ma di cannone. 



Puoi darmi una definizione di libertà riferita alla tua persona?

L'ho scritto da qualche parte: mi piacerebbe non avere nulla, non essere legato a nulla; addirittura ho sognato spesso quanto sarebbe bello morire in una camera d'albergo. Non mi sono mai piaciute le sicurezze borghesi, le ossessioni d'identità – in fondo qualcosa di assai comodo e consolante – né mi piacciono gli idoli a cui la modernità si prostra. Mi piace Prévert quando scrive: "Il progresso, troppo robot per essere vero". Ecco, condivido questa idea: la modernità tecnologica è troppo meccanica per essere vera, e a me piace la realtà tangibile, piacciono gli uomini calati nella vita di ogni giorno, le persone che lottano per l'esistenza concreta. Un vero progresso aiuterebbe gli uomini ad avere cose concrete a essere veri uomini, non a consolarsi con una vita robotica. 



Sei considerato uno scrittore ateo, o comunque laico. Una volta hai anche scritto di "immaginare Dio senza l'immortalità dell'anima". Dimmi qualcosa su questo.

È facile: possiedo il senso del sacro ma non credo all'esistenza di una vita oltre la morte. Tutto qui.

Pagina 93

Comunismo

Alla fine del '35 Camus aderì al Partito Comunista algerino, iscrivendosi alla sezione Plateau-Saulière del quartiere Belcourt. La sua adesione non fu incondizionata; in una lettera del 21 agosto a Jean Grenier, che lo stimolava a iscriversi, aveva detto: "Lei ha ragione quando mi consiglia d'iscrivermi al Partito Comunista. [...] Le confesso che tutto mi attira verso di loro e che già ero deciso a quest'esperienza. Gli ostacoli che oppongo al comunismo mi sembra sia meglio viverli. Vedrò meglio i programmi e che peso sia opportuno attribuire ad alcune questioni. Ci penso molto e mi sembra che fino a ora gli eccessi del comunismo si basino su un certo numero di malintesi che possono essere respinti senza danno". Ma aggiungeva anche: "Quel che mi ha frenato a lungo, quel che, credo, freni tanti animi è il senso religioso che manca al comunismo. È la pretesa dei marxisti di edificare una morale dell'uomo che basta a se stesso. [...] Ma forse si può anche intendere il comunismo come una preparazione, come un'ascesa che preparerà il terreno ad attività più spirituali".

L'avventura politica di Camus inizia con questa lettera, che già svela problemi preesistenti ("Gli ostacoli che oppongo al comunismo mi sembra sia meglio viverli") e che è anche il testo più 'religioso' che abbia mai scritto. Un divario che segna l'impossibilità per lui di restare nel partito – in un qualunque partito – e che rammenta la crisi che Simone Weil visse stilando il magnifico testo libertario Note per la soppressione dei partiti politici.

L'esperienza di Camus nel Partito Comunista di Algeri fu breve e travagliata. La sezione in cui era iscritto era considerata dai dirigenti locali come la 'cellula degli intellettuali', perché composta perlopiù da militanti impegnati nella cultura. Ora, le linee che il partito in quegli anni batteva erano tre: antifascismo, antimilitarismo e anticolonialismo, e proprio su quest'ultima si giocò la crisi. Camus doveva occuparsi di reclutare militanti musulmani e farli rientrare nell'organizzazione nazionalista Etoile nord-africaine. Il gruppo che formò era compatto e leale quando, lungo il '36, le cose cambiarono e il partito prese una posizione favorevole alla repressione poliziesca contro Messali Hadj, capofila dell' Etoile. Si profilava, dietro a queste manovre, l'onda lunga di Stalin, che aveva imposto di mettere la sordina alla linea anticoloniale e non sostenere la causa araba.

I militanti che lo stesso Camus aveva reclutato cominciarono così a essere arrestati, e lui a essere pressato con una sola domanda: se avrebbe lasciato fare oppure no. Il dissenso col partito fu inevitabile. Nel luglio '37 giunse la rottura: un episodio che condizionò la sua vita politica ulteriore. Non sembra un caso che Camus evocasse a malapena quel momento.

Sta di fatto che nel periodo seguente s'informò sui processi di Mosca e lesse la testimonianza di Gide Ritorno dall'URSS. Nel '36 le autorità sovietiche avevano invitato Gide a visitare il loro Paese, ma lì giunto le sue illusioni erano crollate: credeva di trovare una civiltà e aveva trovato solo una dittatura totalitaria. Il Partito Comunista Francese aveva tentato di impedire la pubblicazione del libretto, e Gide rispose con Ritocchi al mio ritorno dall'URSS, aspra requisitoria contro lo stalinismo. Nelle sue pagine si legge: "Spero che il popolo dei lavoratori capisca l'inganno che gli viene comminato dai comunisti, così come loro sono ingannati da Mosca". Letture che confermarono a Camus ciò che pensava di Stalin.

Quando poi raggiunse nel '43 i ranghi di "Combat", lo fece anche perché il periodico clandestino era collegato a un movimento non comunista della Resistenza, e anzi: si oppose alla fusione dei movimenti resistenti, perché così sarebbero stati tutti ricompresi sotto la cupola del partito. Eppure, su "Combat" del 7 ottobre '44, pubblicò un editoriale in cui rigettava l'anticomunismo: in quel momento il comunismo era ancora per lui un bene relativo da opporre al male assoluto del nazismo. Ma pian piano si formò la sua avversione, e già nel novembre '46 la serie di articoli "Né vittime né carnefici" conteneva una profonda critica dello stalinismo e di tutti i totalitarismi.

Va notato che Camus scrive raramente la parola 'stalinismo' (mentre scrive regolarmente 'comunismo' e anche 'marxismo'). Facendo emergere la dimensione totalitaria del comunismo, egli non chiamava infatti in causa l'operato di un uomo, ma di un sistema.

Lo spirito antifascista di Camus è palese: fu dalla parte dei repubblicani spagnoli, sostenne il Fronte Popolare, fu uomo della Resistenza. Ma questo non ne fece un'intelligenza acritica: quando si seppe che cosa ne pensava dell'Unione Sovietica fu anche accusato di aver 'cambiato camicia'. Aveva solo definito una forma di pensiero che non gli permetteva più di approvare il comunismo. Voce originale nella Francia di quegli anni, forse nemmeno sapeva che nel '45 Popper aveva pubblicato a Londra La società aperta e i suoi nemici, saggio contro la violenza della storia.

Poiché l'antifascismo europeo forniva ai partiti comunisti nazionali un brevetto democratico, non era possibile osservare il rapporto comunismo/fascismo come fosse qualcosa di diverso dalla coppia rivoluzione/controrivoluzione. Ogni critica all'Unione Sovietica diventava una critica allo spirito della rivoluzione, e dunque all'antifascismo. Condannando l'impresa sovietica, e trasformando il suo antifascismo in antitotalitarismo, Camus ruppe quel patto di affinità e fu considerato dalla parte della controrivoluzione. Grossolano errore, che una certa sinistra ha pagato a lungo in termini di credibilità democratica.

Nel novembre '48, in un tardo articolo inviato a "Combat", Camus sostenne qualcosa di indicibile: l'Unione Sovietica mascherava la propria strategia imperialista dietro il fantasma della perenne minaccia del fascismo in quanto prodotto del capitalismo borghese. Una tesi in cui credeva sempre meno e, persa ogni illusione, nel dopoguerra smise anche di avere riguardi verso l'Unione Sovietica e verso il Partito Comunista Francese.

Un'intervista del '49 rappresenta, per le sue brusche affermazioni, una prova di quanto Camus esecrasse ogni tipo di totalitarismo. A chi gli faceva notare la grande differenza tra tirannia reazionaria e tirannia progressista, rispose: "Quindi ci sarebbero campi di concentramento che vanno nel senso della storia e un sistema di lavori forzati che presuppone la speranza. Anche ammesso che questo fosse vero, ci si potrebbe almeno interrogare sulla durata di questa speranza. Se la tirannia, anche quella progressista, dura più di una generazione, implica un'esistenza da schiavi per milioni di persone".

Con gli intellettuali che giustificavano il sovietismo Camus sostenne una polemica assai aspra. Sartre, Jean Marie Domenach e Emmanuel d'Astier de La Vigerie provenivano da famiglie agiate: Camus rimproverò loro di parlare di un mondo del lavoro che ignoravano e di farlo a nome della classe operaia. Faceva in altre parole affiorare un problema oggi messo ben in luce. Ma non basta: denunciò l'arma della calunnia utilizzata dagli intellettuali militanti per squalificare l'avversario, rifiutò anche di giustificare gli abominevoli mezzi, come ghigliottine e patiboli vari che, dalla Rivoluzione Francese fino al sovietismo, nascono da buone intenzioni.

Come non bastasse uscì nel '51 L'uomo in rivolta, opera che argomentava la sua revisione dei fatti, e poneva sotto la lente i grandi nomi del comunismo storico. Marx veniva sottoposto a un giudizio assai severo, come colui che aveva ridotto l'uomo al solo determinismo sociale e la storia alla sola analisi dei rapporti di classe. Rifacendosi a Marx, il comunismo avrebbe pervertito il senso della rivolta, adottando una nozione di dittatura contraria alla sua idea di libertà dell'individuo, come si coglie dai risultati raggiunti nei Paesi del socialismo reale. In quanto a Lenin, era stato l'ideatore di un partito rivoluzionario che altro non era, in fondo, che un esercito di professionisti della politica sostituitosi al popolo. Ne era sorta una visione militare della rivoluzione sulla quale Camus tirò le sue conclusioni: "Ora la mistificazione pseudo-rivoluzionaria ha la sua formula: bisogna schiacciare ogni libertà per conquistare l'Impero, e un giorno l'Impero sarà la libertà". E Stalin? Il suo progetto comunista fu definito da Camus con due parole secche, "totalità e processo": una dittatura totale che dominava – mediante il terrore, la delazione e i processi fondati su accuse menzognere – milioni di persone.

Era troppo: Camus si trovò emarginato dall' intellighenzia francese. Eppure, fu lui ad avere il coraggio di intraprendere una radicale critica del comunismo proprio nel momento in cui lo stalinismo trionfava. E lo faceva per opporre a un concetto di rivoluzione orribilmente adulterato la propria riflessiva visione di una rivolta libertaria e liberatrice.

(->Combat, Fascismo e nazismo, Giudizi, Lager e gulag, Sinistra, Spagna)

Pagina 171

Mare e sole

"Il mare: non mi ci perdevo, mi ci ritrovavo". Questo appunto lasciato in un taccuino del marzo 1950 illumina sul senso che Camus attribuisce al mare: luogo senza confini nel quale però egli non si perdeva, anzi ritrovava se stesso, perché solo sulle sue rive è possibile avere certezze e regole di vita.

Forse la sua più bella dichiarazione d'amore di questo non-luogo è Il mare da più vicino (del ciclo L'estate), che si apre con questa confidenza: "Sono cresciuto sul mare e la povertà mi è stata fastosa, poi ho perduto il mare, tutti i lussi mi sono sembrati grigi, la miseria intollerabile". Da quando lasciò Algeri per Parigi fu paziente, cortese, compunto; imparò come ci si comporta ai funerali, come si porge la mano e si sorride, anche se la memoria navigava in un'altra immagine e la separazione era dolorosa ma non disperata: "Ecco perché io soffro dell'esilio con occhi asciutti. Aspetto ancora. Verrà un giorno finalmente...".

Il mare assomma un simbolismo che comprende l'amore, la morte, la donna e la madre: tuffarsi nudi, donarsi alla fluida viscosità delle sue acque, equivale a sperimentare la stretta rete di tutti quei simboli, e rinascere infine a nuova vita. Anche il potere rigeneratore del mare attraversa infatti l'opera di Camus, uomo che ama la libertà ed è allora assai sensibile al senso di rinnovamento che il mare dona. Tanto da poter urlare "Al mare! Al mare!". Era un grido sollevato dai ragazzi meravigliosi di un libro letto nell'infanzia, di cui Camus aveva scordato tutto eccetto quell'esclamazione.

I simboli della donna e della libertà, che si riflettono nel mare, sembrano incompatibili, ma Camus riesce a fonderli in una straordinaria osservazione, una sorta di aforisma gettato tra le righe de Il mare da più vicino. S'era imbarcato su un piroscafo e teneva il diario di bordo di quel viaggio; osservava le gonfie e placide onde che venivano verso lo scafo e pazientemente ripartivano, lungo un cammino mai compiuto. Se il fiume passa, il mare passa e rimane: "È così che bisognerebbe amare: fedele e fuggente". Ecco come unire il dovere verso la donna e quello verso se stessi: fedeli a chi si ama o da chi si è amati, ma fuggitivi. Come le onde del mare che vengono e vanno, che passano e restano al contempo.

Ora, il grido di amore "Al mare!" si mescola all'attrazione per il sole, il principe che regna feroce e incontrastato sulle acque in cui quei ragazzi andavano a tuffarsi. Potenza malefica che dona luce ma arde ogni cosa, il sole diventa qualcosa di lieve quando si sposa col mare: è in questa fusione che diventa sorgente di luce, elemento di misura che in Camus trasforma il pensiero del Mezzogiorno – quello che sorge da un sole allo zenith – in pensiero del Midi, cioè pensiero meridiano, pensiero solare moderato che contraddice ogni attitudine all'assolutismo.

(-> Grecia, Mediterraneo, Saggi solari)

Pagina 173

Mediterraneo

A differenza degli intellettuali francesi del suo tempo, borghesi che avevano frequentato le scuole migliori, Camus proveniva dall'Algeria, e ciò non è senza valore. All'epoca la Francia guardava al nord, mentre per lui il Mediterraneo restava l'orizzonte principale, quello del sole e del mare.

Amava la sua Algeria, ma anche la Spagna, l'Italia e la Grecia. Nella presentazione scritta nel dicembre '38 per la rivista "Rivages" esclamò, riunendo in un solo sguardo i Paesi che vi si affacciano: "Da Firenze a Barcellona, da Marsiglia ad Algeri un intero popolo brulicante e fraterno ci dona gli insegnamenti centrali della nostra vita". Ora, parlando di Mediterraneo potremmo anche pensare a quella mistica della latinità che fu uno dei perni della propaganda fascista. Camus – che guarda alla Grecia – non cade in quella trappola.

Quando parlava del suo mare parlava del Mediterraneo, sul quale pronunciò l'8 febbraio 1937, alla Casa della Cultura di Algeri, una conferenza che è un'apologia ma anche un paradossale tentativo di legare due obbiettivi distanti: la cultura mediterranea e il collettivismo. Il discorso si prestava al malinteso: come potevano gli intellettuali di sinistra trattare di una cultura che sembrava lontana dalla loro causa, e addirittura vicina alle teorie della destra? La causa di un regionalismo mediterraneo sembra infatti esaltare una cultura rispetto all'altra, restaurare un vano tradizionalismo, ambire a una sorta di 'nazionalismo del sole'. Il fatto è – sottolinea Camus – che al fondo di quel malinteso c'è un errore: confondere Mediterraneo con latinità, collocare a Roma ciò che invece nasce dal fulcro di Atene, perché il Mediterraneo non è Roma ma la sua negazione. Se si guarda a quel focolare di origine, si potrà meglio valutare il Mediterraneo come luogo in cui gli uomini tentano di esprimere la propria armonia e un comune gusto del vivere. Il compito diventa allora quello di aiutare un Paese a esprimere se stesso, anche se localmente.

È evidente che esiste un bacino mediterraneo che connette tra loro una decina di Paesi: "Gli uomini vocianti nei cafés-chantants di Spagna, quelli che vagano per il porto di Genova, sulle banchine di Marsiglia, la genìa curiosa e forte che vive sulle nostre coste, sono germogliati dalla stessa famiglia". Una famiglia caratterizzata da un'innata e incantevole trascuratezza, da un odore che affiora dalla pelle: se si discende l'Europa verso la Provenza o l'Italia s'incontrano forme di vita energiche e pittoresche che si oppongono nettamente alla triste inquietudine della gente del centro e nord Europa, incapace della gioia di lasciarsi andare, eternamente abbottonata fino al collo.

Ma il Mediterraneo possiede un'altra essenziale unità: "Ogni volta che una dottrina ha incontrato il bacino mediterraneo, nello sconvolgimento d'idee che ne è conseguito, a rimanere intatto è sempre stato il Mediterraneo, il luogo che ha vinto la dottrina". È accaduto ad esempio col cristianesimo, dottrina dura e chiusa, che nella sua radice giudaica ignorava ogni concessione. Bene: dal contatto col Mediterraneo è sgorgato il cattolicesimo, dottrina ben più gradevole, che in tale nuova veste è riuscita a irrompere nel mondo. È un'antica figura cattolica, Francesco d'Assisi, "a fare del cristianesimo, tutto interiore e tormentato, un inno alla natura e alla gioia semplice". Al contrario Lutero, gelido uomo nordico, strappò il cattolicesimo all'influenza, secondo lui nefasta, del Mediterraneo, separando il cristianesimo dal mondo.

Il Mediterraneo vince sulla dottrina opponendole la vita. Al gusto dell'astrazione replica con "i cortili, i cipressi, le corone di peperoncino"; alle fanfaronate romane, sorrette da una sciocca euforia, oppone la forza del proprio pessimismo. Che è quella dell'Oriente, sentimento che riverbera nel grande bacino internazionale ben più del sentimento di Occidente latino. Il genio mediterraneo – lo si coglie nella ribelle indisciplina dei quartieri arabi o dei porti italiani – scaturisce da questa convivenza di Oriente e Occidente, dal gusto trionfante della vita che ne sprizza.

Essendo questo mare il collante che unisce francesi, spagnoli, italiani e arabi, Camus suggerisce che se esiste la possibilità di un collettivismo, questo sarà mediterraneo e non sovietico. Ecco perché compete all'intellettuale di sinistra riabilitare questo mare, far emergere quel che di vivo e concreto c'è in esso: "Siamo qui con il Mediterraneo contro Roma".

Sognava, col "collettivismo mediterraneo", qualcosa che poi la storia ha reso impraticabile. Per ora.

(-> Grecia, Mare e sole, Saggi solari)

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