Aboliamo la Proprietà Intellettuale.
di Giangiacomo Feltrinelli (1967)


A 40 Anni dalla Morte Misteriosa
Feltrinelli spiegato ai ragazzi
di Enrico Deaglio

http://www.satisfiction.me
10 aprile 2012

Giangiacomo Feltrinelli Inedito.
di Paolo Melissi

Quaranta anni fa moriva Giangiacomo Feltrinelli: a Segrate, ai piedi di un traliccio dell’alta tensione. All’indomani della sua scomparsa molte voci si levano: si sostiene sia stato assassinato dalla Cia (lo sostennero anche Camilla Cederna ed Eugenio Scalfari), si dice stesse preparando un sabotaggio. Potere Operaio lo definì un rivoluzionario. I contorni della figura di Giangiacomo Feltrinelli diventano ancora più “confusi” se si pensa alla sua attività di editore e di industriale, un “rivoluzionario” che andava a cena con Roberto Olivetti e Gianni Agnelli. Nell’inedito proposto da Satisfiction è lo stesso Feltrinelli a cercare di mettere chiarezza almeno in una delle sue “personalità”: quella di editore.


Aboliamo la Proprietà Intellettuale.
di Giangiacomo Feltrinelli (1967)

 

Dunque, mi devo definire: devo definire me stesso in quanto editore; o perlomeno devo presentarmi, mostrarmi, spiegarmi in rapporto col mestiere che per il novanta per cento del mio tempo faccio da quasi quindici anni. Potrei cominciare dal mestiere: per semplificare le cose, togliendo di mezzo la mia persona; oppure potrei cominciare dalla mia persona, ma in questo caso, purtroppo, non riuscirei a togliere il mestiere… Dunque, comincio dal mestiere. Ma non voglio definire l’editore, anzi l’Editore: a mio modo di vedere si tratta di una funzione indefinibile, o meglio definibile in mille modi. Basterebbe, a questo proposito, elencare tutti coloro che (sempre facendo l’editore), una fortuna hanno distrutto. Nell’editoria contemporanea sono numerosi i primi quanto i secondi: penso per esempio a Ernst Rowohlt o a Gaston Gallimard da una parte e a Kurt Wolff dall’altra. Ernst Rowohlt e Gaston Gallimard hanno costruito fortune, nella forma di case editrici, che sono insieme fortune economiche e fortune culturali; Kurt Wolff, l’uomo che ha “scoperto” quasi tutta la letteratura contemporanea di lingua tedesca prima ancora della Grande Guerra del 14-18, ha affossato economicamente numerose case editrici, ma sempre avendo culturalmente ragione: luminosamente ragione. Ed ecco che il termine “fortuna” acquista già un significato non più soltanto economico, ma più sottile, sottile e ambiguo, un significato, non molto metaforicamente, “politico”. Lasciamo perdere, dunque, l’editoria fortunata a livelli di  business: i mastodonti che possiedono mezzo miione di titoli, cinquanta staff redazionali, una dozzina di rivistacce per le “serve” intellettuali, o per gli intellettuali serva, le tipografie con le supermacchine degli “aiuti” americani, gli apparati di intimidazione e gli “uffici acquisto premi letterari”.

È inutile spiegarne il funzionamento purché oggi sarebbe ben difficile crearne uno; creare il super-robot del libro, e soprattutto perché la creazione di un simile mostro è lontanissima dalle mie intenzioni. Sarà un difetto, sarà un vizio: ma anche se auspico la fortuna economica della mia csa editrice, non posso fare a meno di ricordare che essa è nata soprattutto da un miraggio, no: da un’intenzione, addirittura da un bisogno e da un desiderio che esito a definire culturali soltanto perché la parola cultura, Cultura, Culture mi appare gigantesca, enorme, degna di non essere scomodata di continuo. Diciamo allora che: anche se auspico la fortuna economica della mia casa editrice, ho in mente, penso, perseguo una “Fortuna” nel secondo senso. E questa è una cosa molto difficile da spiegare; a farla breve: io cerco di fare un’editoria che magari ha torto lì per lì, nella contingenza del momento storico, ma che, quasi per scommessa, io ritengo abbia ragione nel senso della storia.

Gli scritti di Guevara sono necessari. Cerco di spiegarmi meglio: nell’universo frastornato di libri, di comunicazioni, di valori che spesso sono pseudovalori, di informazioni (vere e false), di sciocchezze, di lampi di genio, di forsennatezze, di opache placidità, io mi rifiuto di far parte della schiera dei tappezzieri del mondo, degli imballatori, dei verniciatori, dei produttori di “mero superfluo”. Poiché la micidiale proliferazione della carta stampata rischia di togliere alla funzione di editore qualsiasi senso e destinazione, io ritengo che l’unico modo di ripristinare questa funzione sia una cosa che, contro la moda, non esito a chiamare “moralità”: esistono libri necessari, esistono pubblicazioni necessarie. Per quanto ciò possa apparire paradossale, io, come editore, sottoscrivo pienamente quella che Fidel Castro ha chiamato l’ “abolizione della proprietà intellettuale”, cioè l’abolizione del copyright: questa misura serve a far sì che a Cuba possano essere disponibili i libri necessari, necessari ai cubani. Ma anche in una situazione di “proprietà intellettuale privata”, esistono libri necessari. Disgraziatamente sono qui inibito da uno scrupolo: non vorrei fare pubblicità ai miei libri; d’altra parte, sono costretto a citare. E così cito: nell’universo delle scritture occidentali esiste un genere, una cosa letteraria, che si chiama romanzo. Molti dicono che è morto, molti dicono che è vivo: lo scrivono, lo leggono, lo comprano… Io faccio l’ipotesi che non sia né tutto morto né tutto vivo, ma che certi romanzi siano morti ed altri vivi: quelli vivi sono necessari. I romanzi vivi sono quelli che colgono i cambiamenti nei livelli intellettuali, estetici, morali del mondo, le nuove sensibilità, le nuove problematiche, o che propongono un modello di questi nuovi livelli, o che stravolgono la superstizione della perenne identità della natura umana, o che propongono nuovi paradossi – già ora, già qui, in questa specie di purgatorio della storia. Per questo ho pubblicato (cito a caso) Pasternak e Velso Mucci, Parise e Gombrowicz, Lombardi e Fuentes, Vargas Llosa e Sanguineti, Balestrini e Selby, Porta e Henry Miller… persino l’eterogeneità degli accostati mi pare vitale e divertente. Per questo pubblico i giovani scrittori dell’Avanguardia. Cito un altro esempio: esistono libri politici, o meglio libri di politica. Molti sono libri “giustificativi”, cioè libri che testimoniano di un mancato atto politico. Altri, non molti, sono libri pienamente politici, scritture che accompagnano un’azione politica concreta e che il pubblico vuole e deve conoscere: recentemente,in tre o quattro giorni, le librerie hanno venduto tutta un’edizione ad alta tiratura di un volumetto che raccoglie alcuni scritti di Ernesto “Che” Guevara: anche se questo libro non si fosse venduto, avrei accettato di pubblicarlo, perché gli scritti di Guevara sono scritti necessari. Infatti pubblico una collanina (Documenti della rivoluzione nell’America Latina), fatta di libri scritti da autori (soprattutto da “autori della storia”) che non sono noti come Guevara e che quindi vengono venduti meno: li pubblico ugualmente perché i giovani li vogliono ed è giusto che li abbiano. Superata la barriera del senso. Faccio ancora un esempio e poi smetto di fare esempi: una volta un giornalista tedesco ha scritto che ero passato dall’impegno politico all’impegno pornografico; a parte il fatto che sono il fautore del cosiddetto disimpegno e che, d’altra parte, chiamo pornografico soltanto quello che mi pare ripugnante ma non ciò che può violare un codice retorico qualunque e, comunque, piccolo borghese, non vedo soluzione di continuità: è giusto o, come dicevo prima, necessario, che il bombardamento delle riviste recenti abbia ottenuto questo mirabolante risultato: è stata superata la barriera del seno, si può pubblicare su una copertina un seno nudo. Naturalmente si tratta di una microrivoluzione, ma si devono fare appunto e soltanto le rivoluzioni che si possono fare, anche se, a mio modo di vedere, ci si deve sempre mettere nell’ordine di idee che, fatta una rivoluzione, se ne può fare un’altra più grande… Non voglio dare l’impressione di essere un uomo che concepisce l’editoria in modo pedagogico, un uomo che ritenga di avere qualche cosa da insegnare. Quindi, aggiungo: come vive un editore? Un editore vive sotto il bombardamento, che è il bombardamento della carta stampata nel mondo ormai privo di confini e di vere lontananze, ed è dedito al bombardamento: tra le bombe che gli cadono sul tavolo deve scegliere quelle da rilanciare e da far esplodere nella mente dei lettori. Quindi un editore vive circondato da collaboratori, che spesso sono, perché intelligenti e sensibili, nervosi: nelle ore di ufficio, un editore deve usare tutto se stesso e soprattutto gli occhi e il naso. I manoscritti e i libri già stampati si materializzano spesso nella forma di un uomo: dell’autore, che spesso è intelligente, nervoso e geniale: l’editore deve usare se stesso. L’editore è un veicolo di messaggi. Un editore deve pubblicare libri che poi devono essere venduti. Quindi un editore ha a che fare con un apparato commerciale, e i problemi tecnici sono molti, ma forse, anche qui, oltre a quella parte di se stesso che non so definire, un editore ha bisogno del naso che fiuta le necessità… Un editore può cambiare il mondo? Difficilmente: un editore non può nemmeno cambiare editore. Può cambiare il mondo dei libri? Può pubblicare certi libri che vengono a far parte del mondo dei libri e lo cambiano con la loro presenza. Questa affermazione può sembrare formale e non corrisponde in pieno a quello che penso: il mio miraggio, quello che io credo il maggior fattore di quella tal “Fortuna” di cui parlavo, è il libro che ha l’ “orecchio ricettivo” e raccoglie e trasmette messaggi magari misteriosi ma sacrisanti, il libro che nel guazzabuglio della storia quotidiana ascolta l’ultima nota, quella che dura una volta finiti i rumori inessenziali… È bene che le donne portino la gonna lunga o è bene che portino la gonna corta? I socialdemocratici tedeschi hanno fatto bene o hanno fatto male ad aderire alla Grande Coalizione? Perché il Senatore Merzagora ha dato le dimissioni da Presidente del Senato? La pillola antifecondativa fa bene o fa male? Qual è il senso ultimo della scienza per l’uomo? Come si presenta, in prospettiva, la situazione sindacale in Italia? Questo libro è meglio farlo in tipografia o in litografia? Possiamo pagare questo anticipo? Qual è la posizione dell’Italia nel Mercato Comune? È possibile un’analisi psicoanalitica della voga dei bottoni, degli slogan, dei distintivi? La nuova editoria è per caso il manifesto? Com’è giustificabile l’industria culturale? È questa l’industria culturale? Cosa pensano e cosa fanno gli studenti? Quali sono i minimi salariali? La legge quadro è un bene o è un male? Qual è la funzione sociale dell’oscenità? Pare che il generale Ovando voglia vendere a un editore il Diario di Che Guevara per 250.000 dollari: l’editore è ancora un editore o è un finanziatore della guerra di repressione? L’onda nera sale negli Stati Uniti? Stronche rà l’imperialismo bellicoso? Il malessere dei giovani in Italia è un malessere puramente fisiologico oppure è virtualmente politico e ragionato? C’è qualche speranza? Che cos’è un editore? Non so che cosa sia l’Editore, l’editore in sé, ma cerco di ascoltare le ragioni per cui faccio l’editore. E ammetto: l’editore non ha niente da insegnare, non ha niente da predicare, non vuol catechizzare nessuno, in un certo senso non sa niente. E ammetto: l’editore, per non essere ridicolo, non deve prendersi eccessivamente sul serio, l’editore è una carretta, è uno che “porta carta scritta”, è un veicolo di messaggi, è tuttalpiù, per parafasare quel McLuhan di cui si parla tanto, un fautore di messaggi che siano anche massaggi. E ammetto: che l’editore è niente, puro luogo d’incontro e d smistamento, di ricezione e di trasmissione… E tuttavia: occorre incontrare e smistare i messaggi giusti, occorre ricevere e trasmettere scritture che siano all’altezza della realtà. E quindi: l’editore deve gettarsi, tuffarsi a rischio di annegare, nella realtà. Senza sapere nulla deve far sapere tutto, tutto quello che serve, e che serve ai vari livelli di coscienza. Tuffarsi nella realtà: tentare la “Fortuna”. La “Fortuna” diventa allora un significato, un orizzonte, una vita svincolata e trionfante… E allora: un editore è niente, è un veicolo che può autodefinirsi una carretta, ma un editore può anche affrontare il proprio lavoro sulla base di una ipotesi di lavoro molto azzardata: che tutto, ma proprio tutto, deve cambiare, e che cambierà.

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10 marzo 2012

A 40 Anni dalla Morte Misteriosa
Feltrinelli spiegato ai ragazzi
di Enrico Deaglio

Genova. Dal momento che sono passati quarant’anni, bisogna dire una cosa come premessa. Questa storia – Giangiacomo Feltrinelli, il traliccio di Segrate, Che Guevara, piazza Fontana – appartiene a un’Italia che non c’è più e che, forse anche giustamente, non viene più raccontata ai figli e ai nipoti. Per cui prendetela come un racconto fantastico, una specie di fiaba.

Io mi ricordo benissimo che – era il marzo del 1972 – il Corriere della Sera pubblicò una fotografia in prima pagina, sfocata. Si vedeva un traliccio dell’Enel, alla periferia di Milano, e sotto un cadavere. “Cadavere di uno sconosciuto” che voleva far saltare il traliccio e tagliare la luce a Milano. Però mia zia, che era un tipo strano (e aveva anche avuto un piccolo ictus), guardò la foto e disse: “È Feltrinelli”. Non ho mai capito come le fosse venuto in mente, ma aveva ragione. Secondo me, le persone anziane, specie se hanno avuto un piccolo ictus, vedono cose che noi non vediamo. Per esempio, nella foto il cadavere non aveva i baffi; ma mia zia disse proprio così: «Mettigli i baffi e vedi che è Feltrinelli».

Un giorno o due dopo, non ricordo, la polizia –per l’esattezza il commissario Luigi Calabresi, che si occupava della violenza politica in città - comunicò che l’uomo trovato morto sotto il traliccio era il famoso editore Giangiacomo Feltrinelli, di 46 anni, milanese, miliardario comunista, amico di Fidel Castro. Dissero che l’editore era da alcuni mesi “entrato in clandestinità” e che era morto mentre progettava un gesto terroristico.

Molti non credettero a questa versione. Dissero che Feltrinelli era stato assassinato, portato sul traliccio drogato, ucciso dalla Cia. Ma, in buona sostanza, come si capì dall’inizio, le cose erano andate proprio così. Feltrinelli era salito sul traliccio dell’Enel per collocarvi una carica esplosiva e provocare un black out a Milano, ma era rimasto vittima di un incidente sul lavoro. Se però l’azione fosse andata in porto, una radio clandestina (“Radio Gap”) avrebbe diffuso la notizia e fornito le motivazioni del gesto: una protesta contro il congresso del Pci in corso di svolgimento a Milano, della sua linea morbida e della sua indifferenza contro gli evidenti preparativi di un colpo di Stato fascista in Italia.

Tutto, si scoprì presto, era molto velleitario. A partire da Radio Gap, che era una cosa molto rudimentale e al massimo avrebbe potuto raggiungere poche migliaia di ascoltatori per una manciata di secondi.

Ma, a questo punto, capisco benissimo che una persona – diciamo, adesso di vent’anni - non capisca niente. Colpo di stato? E cos’è? E come mai un miliardario era comunista? E cosa c’entra Fidel Castro?

E, allora io direi così. Feltrinelli era nato da una famiglia immensamente ricca, e da adolescente aveva fatto in tempo a vivere un pezzo della resistenza contro il fascismo. Era stato un ragazzo pieno di ideali; con i soldi di famiglia aveva fondato una casa editrice che stampava libri progressisti e aveva messo le basi per costruire una catena di librerie popolari in tutta Italia. Era un generoso finanziatore del partito comunista italiano, che all’epoca veniva votato da un quarto degli elettori. Era un marxista, e si dedicava a raccogliere e preservare documenti di quel filosofo e della storia del movimento operaio che a lui si ispirava. Verso la fine degli anni Sessanta, l’Italia visse anni di grande cambiamento; giovani studenti, ma poi anche tanti operai formarono un movimento rivoluzionario che proprio a Marx si ispirava. E questo succedeva in tante altri parti del mondo: in Germania, in Francia, negli Stati Uniti. Nella lontana isola di Cuba, giovani rivoluzionari avevano addirittura rovesciato una dittatura. Il giovane editore partecipava di tutto ciò, viaggiava per il mondo, pubblicava i libri della protesta, incontrava i protagonisti del cambiamento. Era stato in Bolivia, dove il famoso Che Guevara aveva cercato di fomentare una rivoluzione. Quando questi era stato ucciso dalla Cia, aveva raccolto a Cuba i suoi scritti e li aveva pubblicati in tutto il mondo. In Italia, era stato molto colpito dalle bombe fatte scoppiare a Milano nel dicembre del 1969. Come tanti altri, pensava che l’attentato contro i clienti di una banca nel centro della città fosse stato organizzato da fascisti appoggiati dalla polizia e accollato da questa immediatamente agli anarchici. Uno di loro, un mite ferroviere, era stato arrestato, portato in Questura e dopo tre giorni fatto trovare morto, ufficialmente suicida. Questo, per Feltrinelli, era la prova di quello che si stava preparando in Italia, per contrastare le lotte di studenti e operai: un colpo di Stato, ovvero l’esercito nelle strade, la galera o l’assassinio per gli oppositori, la dittatura, la rivincita di un fascismo che non era mai morto.

Per questo Feltrinelli pensò che bisognasse fare qualcosa. Non bastava pubblicare libri, e dire che lui inanellava successi editoriali: “Il dottor Zivago” strappato alla censura dell’Unione Sovietica, “Il Gattopardo”, capolavoro italiano che giaceva in un cassetto, la letteratura latino americana, gli scrittori americani. Feltrinelli voleva lui stesso mettersi in gioco, non solo con i propri soldi, ma con la sua stessa vita. Pensò che bisognasse essere preparati a fronteggiare il colpo di Stato, organizzare una resistenza armata. Contattò vecchi partigiani, giovani del nuovo movimento, persino banditi che operavano in Sardegna. E in quell’azione dimostrativa sul traliccio, perse la vita.

Era un pazzo? Un violento? Un ricco viziato?

Permettetemi di sostenere, a quarant’anni di distanza dalla sua morte, che Giangiacomo Feltrinelli fu invece un uomo intelligente e generoso, sicuramente un ingenuo, ma sicuramente anche un patriota. Finalmente un privilegiato per nascita che sposava la causa dei poveri! Finalmente un mecenate della cultura, come non se n’erano visti molti in Italia! Se tanta gente in questo paese ha letto buoni libri, ha frequentato librerie, ha ascoltato conferenze, ha sentito leggere poesie in pubblico, ha incontrato scrittori di mondi lontani, lo deve a lui.

C’era davvero il rischio di un colpo di Stato, o era una sua paranoia? Beh, credo che non si troverebbe nessuno, oggi, che non riconosca che in quegli anni l’Italia – uscita formalmente dal fascismo nel 1945, al fascismo rischiò davvero di tornarci.

Feltrinelli fu, in breve, un esponente della grande borghesia milanese che ancora adesso ci stupisce, perché la borghesia milanese negli ultimi due decenni purtroppo ci ha abituati a ben altro.

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