Questo testo è stato scritto per Testimonianze, la rivista fondata da Ernesto Balducci e diretta da Severino Saccardi

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venerdì 22 novembre 2013

 

Jfk: la nuova frontiera che anticipò il futuro

di Walter Veltroni

 

Kennedy aveva visto con straordinario anticipo problemi contro i quali continuiamo ad andare a sbattere

 

Era il 1963. Era l'anno in cui tutto poteva cambiare e cambiava davvero. Era l'anno della visita europea di John Fitzgerald Kennedy, l'anno in cui Martin Luther King raccoglieva a Washington una schiera infinita di americani di pelle nera e di pelle bianca per dire che il sogno si poteva realizzare, l'anno in cui Dylan cantava Blowin' in the wind. Tutto sembrava possibile in quel 1963 e l'eterna parola hope, speranza (quella che Obama ha fatto tornare la sua parola) non aveva bisogno di troppe spiegazioni. Anche l'Italia conosceva una stagione nuova che sembrava sempre sul punto di nascere ma che stentava a prendere un volto.

 

Quell'anno, cinquanta anni fa, finì in anticipo, a novembre, in una città texana con dei colpi di fucile Mannlicher-Carcano, un vecchio moschetto 91 quello che avevano usato i fanti italiani nelle trincee della Grande guerra. Mezzo secolo è passato dall'uccisione di John Kennedy (e cinque anni dopo venne ucciso in un hotel di Los Angeles il fratello Robert) e se stiamo ancora qui a chiederci cosa significa per noi quella morte vuol dire proprio che Kennedy ha dato l'impronta ad un'epoca. Noi viviamo (malgrado tutto il mondo sia cambiato) ancora all'ombra di questa grande personalità.

 

Quello che ci spinge a riflettere oggi su JFK non è nostalgia (anche se, ammettiamolo, ve ne sarebbe materia) ma il fatto che quel giovane politico americano aveva visto con straordinario anticipo problemi contro i quali continuiamo ad andare a sbattere. Chi direbbe oggi, in una società italiana che agli occhi di tanti appare stanca e sfibrata, che c'è una "nuova frontiera" da raggiungere e varcare? Eppure era stato proprio John a spiegarci in una maniera che non ammette repliche che la frontiera c'è anche quando non la vediamo.

 

  "La nuova frontiera diceva - è qui, che noi la si cerchi o no: le aree inesplorate della scienza e dello spazio, i problemi irrisolti della pace e della guerra, le zone incolte dell'ignoranza e del pregiudizio, le domande senza risposte della miseria e dello spreco".  Non abbiamo più aree inesplorate, problemi irrisolti, domande senza risposta? Al contrario , campo per campo possiamo dire che ve ne siano di più e non di meno di cinquant'anni fa, se non altro perché questi probemi oggi riguardano un pianeta sempre più interconnesso, non possono escludere nessuno in società sempre più complesse.

 

La "nuova frontiera" non era per Kennedy un artificio retorico o uno slogan di successo. Era il modo per costringere la politica per prima a tenere lo sguardo alto a non essere semplice gestione (magari buona) dell'esistente ma anticipazione dei problemi, risposte in grado di puntare a cambiamenti profondi. Kennedy ha costruito un modo tutto nuovo di pensare il riformismo. La sua Amministrazione dimostrò apertura e coraggio nella politica estera come in quella interna, portando avanti che diedero il segno di una politica liberale e progressista, capace di entusiasmare la società che voleva cambiare e di trasformare le idee in soluzioni concrete, di evocare un sogno, di indicare una "missione", e insieme di guadagnare il consenso della maggioranza dei cittadini.

 

Il Presidente Kennedy fu, in questo senso, un idealista che governava. Lo ha scritto bene proprio Ted Sorensen, testimone e protagonista di quella stagione: la sua politica si presentava come "un'unione di realismo e di idealismo, di politica pratica e di ambiziose aspirazioni".

 

All'inizio del suo primo mandato il presidente Bill Clinton si domandò, e domandò a chi lo ascoltava, come mai, ancora oggi, la fotografia di John Kennedy sia appesa non soltanto sulle pareti delle case dei quartieri irlandesi di Boston e di Chicago, ma anche in tanti villaggi e in tante città dell'Africa e dell'America Latina. La ragione, proseguiva Clinton, sta nella visione che del suo tempo aveva il Presidente Kennedy, sta nel fatto che egli sapeva portare lo sguardo oltre i muri, oltre i confini, alla vita e al futuro del mondo. Lo faceva perché era giusto, perché l'uomo - come disse nel suo discorso di insediamento - "ha nelle sue mani di mortale la capacità di abolire tutte le forme di miseria umana". Lo faceva perché era realista, perché capiva che "la nostra sicurezza e la nostra prosperità sono legate alla possibilità che esse si propaghino al resto del mondo.

 

Era stato proprio JFK a ricordare agli americani che "Dobbiamo affrontare il dato di fatto - disse Kennedy nel 1961 - che gli Stati Uniti non sono né onnipotenti né onniscienti, che rappresentiamo solo il 6% della popolazione mondiale, che non possiamo imporre il nostro volere sul restante 94% dell'umanità, che non possiamo raddrizzare ogni torto o metter riparo ad ogni avversità, e che quindi non ci può essere una soluzione americana a tutti i problemi del mondo". Non era facile - specie negli anni più duri della guerra fredda e della contrapposizione ideologica ricordare agli americani quello che non erano, senza per questo però, accarezzare quella sotterranea tendenza all'isolazionismo che per tanto tempo aveva affascinato il suo Paese. Bisognava dire ad un Paese che era uscito solo 15 anni prima da vittorioso dalla Guerra, che aveva assunto per la prima volta nella sua storia il ruolo di guida indiscussa di un pezzo di mondo che bisognava fare i conti con la consapevolezza dei propri limiti senza abbassare le ambizioni e gli ideali e senza rinchiudersi nel proprio benessere.

 

È su questa sfida che cinquant'anni dopo Kennedy ancora ci parla.  E a rendere tutto questo con una semplice frase di illuminate chiarezza ci ha pensato il fratello Bob (quello dei due che, per qualità e carattere, più aveva meditato sul senso della politica) quando disse: "Idealismo, nobili aspirazioni e profonde convinzioni non sono inconciliabili con i programmi più concreti ed efficaci. Non c'è nessuna incompatibilità di fondo fra ideali e realistiche possibilità, nessuna barriera fra i più profondi desideri del cuore e l'applicazione razionale dell'impegno umano per risolvere i problemi umani".

 

Forse non tutti lo sanno, ma ci sono tre straordinari film che ci raccontano l'esperienza politica e umana di JFK dalle elezioni primarie che portarono alla sua nomination e all'elezione presidenziale nel 1960 fino all'ultimo saluto dopo l'attentato di Dallas. Sono film fondamentali che hanno cambiato il modo di concepire il "cinema verità", li ha girati un personaggio straordinario che risponde al nome di Robert Drew, si intitolano "Primary", "Crisis" e "Faces of November". Drew scelse quasi per caso di seguire le primaria di un giovane senatore non troppo conosciuto che sfidava notabili democratici di lunga esperienza: quel senatore si chiamava John Kennedy veniva dall'Illinois e accettò le regole volute da Drew: avere una telecameatt. ne lo seguiva per tutto il giorno, nelle occasioni pubbliche come in quelle private, nel segreto delle stanze e mentre si stringono le mani dei propri sostenitori. Drew diceva che l'occhio della telecamera doveva essere come quello di una mosca sulla parete: implacabilmente presente eppure del tutto ignorato da chi si muove sulla scena. Cinema e giornalismo con quei film cambiarono faccia e sono una testimonianza che chiunque voglia fare politica nel mondo della comunicazione non può non conoscere.

 

Mi interessa parlare di uno dei tre film: "Crisis", perché racconta lo scontro tra il presidente e il governatore dell'Alabama. John Kennedy, insieme al fratello Bob che era ministro della giustizia decidono di intervenire contro la decisione del governatore Wallace che rifiutava di garantire a due studenti neri, Vivian Malone e James Wood l'accesso all'università dello Stato. Le telecamere ci raccontano da una parte l'enorme tensione tra i due scenari: da una parte l'Alabama dove il governatore respinge l'intimazione del presidente mettendosi di persona sulla porta dell'Università per impedire l'accesso, dall'altra il clima febbrile della Sala Ovale dove John e Bob cercano di trovare una strategia che porti all'applicazione del diritto dei neri, alla fine di ogni discriminazione ma che non costringa all'arresto del governatore che avrebbe prodotto una drammatica rottura istituzionale.

 

Alla fine il presidente decide di prendere il comando della Guardia nazionale dell'Alabama e Wallace è costretto a cedere. Sono immagini drammatiche come sono drammatiche le scelte che impongono, senza tentennamenti, l'affermazione dei diritti ma che insieme si fanno carico di evitare rotture istituzionali difficilmente sanabili (pensateci un momento, è lo stesso modo con cui è stata condotta la crisi dei missili: quei missili non ci dovevano stare e furono spostati con una forza capace di produrre il cambiamento voluto ma senza provocare però la guerra). Era la prima volta dopo Abramo Lincoln che un presidente americano usava il potere presidenziale per l'affermazione di diritti civili. Ebbene Kennedy dopo quei fatti seppe rivolgersi all'opinione pubblica americana certamente turbata e divisi da quei fatti con parole che aprirono nuove porte, che spostarono in avanti la "frontiera". Kennedy chiese, infatti, ad ogni americano di fare "un esame di coscienza", di riflettere sul fatto che la loro nazione era fondata sul principio che tutti gli uomini sono creati uguali e che i diritti di ciascuno vengono lesi quando sono minacciati i diritti di un uomo.

 

"Se un americano perché è scuro di pelle - disse il Presidente al Paese riunito ad ascoltarlo - non può pranzare in un ristorante aperto al pubblico, se non può mandare i suoi figli alle migliori scuole pubbliche disponibili, se non può votare per i rappresentanti pubblici che lo rappresentano, se, in breve, non può godere della vita piena e libera che tutti noi desideriamo, allora chi di noi sarebbe disposto a cambiare il colore della pelle e rimanere al suo posto? Chi di noi si accontenterebbe dei consigli a essere pazienti e di far passare il tempo?".

 

Quello che animava Kennedy era l'idea del governo come strumento per aiutare la gente, l'applicazione concreta del principio put the people first. Era attenzione alle disuguaglianze, agli esclusi, agli "strappi" che si creano nella società e che devono essere ricuciti, sostenendo chi è in difficoltà, proteggendo chi non ce la fa da solo, promuovendo la responsabile assunzione del proprio destino da parte di chi è in grado di procedere da sé, avendone l'opportunità.

 

"Io non dico che gli uomini abbiano uguali caratteri e uguali obiettivi - era la convinzione di Kennedy - ma dico che dovrebbero avere uguali probabilità di dar prova del loro carattere e delle loro capacità di raggiungere i loro obiettivi. Dovrebbero avere la possibilità di manifestare tutto il loro talento".

 

Sono principi che valgono più che mai oggi, per noi. Sappiamo che globalizzazione significa cambiamento. E sappiamo che, come sempre, del cambiamento c'è chi è più padrone, e chi più vittima. Noi dobbiamo avere l'ambizione di diminuire sempre di più i secondi, di ridurre le disuguaglianze, di mettere sempre più persone nella condizione di fare ciò che inizialmente non erano in grado di fare, offrendo loro la possibilità di essere libere, di esercitare le loro libertà.

 

È qui, cinquant'anni dopo la sua morte, l'attualità di una idea e di una pratica del riformismo. Ci sono tre principi che JFK, rilanciando la migliore tradizione dei democratici americani, ci ha lasciato, tre parole semplici ma gravide di significato: opportunity, responsability e community, e cioè garanzia di pari opportunità per tutti, una cittadinanza responsabile e una comunità aperta.

 

  È anche l'attualità di una concezione, profondamente etica, della politica. Tutta la visione di John Kennedy partiva da questo. Significa dire: noi non esistiamo se non in relazione agli altri, e le nostre responsabilità non sono solo verso noi stessi; noi siamo esseri umani in quanto altri lo sono, e dunque il nostro è un cammino che non può essere isolato, che deve essere comune, solidale.

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