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22 novembre 2013

John Fitzgerald Kennedy. A 50 anni dall’uccisione. Il ricordo di Furio Colombo
di Gianni Rossi

“Alle ore 13,45 di quel 22 novembre del 1963 ero al 27 piano di un ufficio dell’Olivetti in un grattacielo di Park Avenue. Un minuto dopo, ascoltando la radio, ho sentito la notissima voce di Walter Kronkite per la prima volta spezzata dire: “il presidente Kennedy è morto!”. E’ la testimonianza che abbiamo raccolto di Furio Colombo, punto di riferimento per il giornalismo libero e autonomo, di stampo anglosassone. Colombo è uno degli intellettuali italiani più vicini alla famiglia Kennedy e maggiormente consultato dall’establishment politico democratico americano. Ha scritto per il New York Times e la prestigiosa rivista New York Review of Books. Presidente del gruppo FIAT USA, mantenne anche una solida amicizia personale con l’avvocato Gianni Agnelli, anche quando lasciò l’incarico. Tra il 1991 e il 1994 ha diretto l’Istituto italiano di cultura a New York, da cui si dimise appena si formò il primo governo Berlusconi.
Dove eri e come hai appreso la notizia dell’uccisione di John Kennedy? “Sono un rappresentante tipico di un newyorchese delle ore 13,45 di quel 22 novembre del 1963, perché come tutti ricordo sempre dove ero e cosa facevo. Ero al 27 piano di un ufficio dell’Olivetti in un grattacielo di Park Avenue. Il mio cubicolo si apriva su un salone dove lavoravano molti impiegati. Il mio modo di accorgermi che qualcosa di eccezionale era accaduto fu il silenzio inspiegabile, improvviso e totale che pervase tutto l’ambiente. Un minuto dopo, ascoltando la radio, che era la stessa radio della TV CBS, in cui il corrispondente era Walter Kronkite, ho sentito la sua notissima voce per la prima volta spezzata dire: “il presidente Kennedy è morto!”.”
La dietrologia sull’attentato continua da 50 anni. Ma già allora quale fu il tuo giudizio sull’assassinio? “Per prima cosa è utile ricordare che in eventi di quel genere (e forse non c’è un genere, perché questo che stiamo ricordando è il più grande di tutti) tendi a stare con tutti, a sapere ciò che gli altri sanno, a condividere l’immensa emozione collettiva, che per prima cosa non è di indagine ma di stupore. Subito dopo è l’immenso interrogativo sulle conseguenze politiche. Intanto i media ti stanno dando delle risposte, delle notizie, ma non è di quelle che discuti, quelle le accumuli, pensando che in ogni momento saprai di più.”
Cosa pensi sia accaduto veramente? “Se avessi la risposta avrei il bestseller bello e pronto da scrivere. Tutte le ricostruzione sono senza via d’uscita.”
Tu hai conosciuto a fondo la famiglia. “Tutti e ho notato che mai nessuno di loro, neppure Ted Kennedy durante decenni di frequentazione e di amicizia ha mai voluto entrare nel discorso del delitto. Con nessuno dei Kennedy. Si ritornava a dire “mio fratello ha detto” oppure “mio fratello ha fatto”, ma mai si parlava di Dallas.”
Come si comportò la stampa dell’epoca? “In modo rigorosamente e professionalmente giornalistico. Ogni notizia, ogni dettaglio, ogni smentita, ogni conferma. Soltanto molto tempo dopo, avremmo saputo che sapevamo pochissimo.”
Rispetto ad allora, oggi il giornalismo ha la stessa forza, professionalità, voglia di indagare? “Probabilmente il giornalismo sì! Certamente non i proprietari del giornalismo. Le zone oscure sono diventate sempre più grandi.”
E’ una malattia italiana o la riscontri più in generale anche in quei paesi con una forte tradizione di autonomia? “A parte la peste Berlusconi che ha infierito sull’Italia, deformando in modo grottesco la realtà, purtroppo il problema delle zone oscure è vasto dovunque.”

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