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L'assassinio di JFK

di Daniel Pipes

Traduzione di Angelita La Spada

 

In tre modi, l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy continua ad avere ripercussioni per gli americani e per il mondo intero. E quanto accaduto occupa altresì un posto particolare nella mia vita. Innanzitutto, se Kennedy fosse uscito illeso dall’attentato, probabilmente né la guerra del Vietnam né la Grande società (lo slogan politico adottato dal presidente L.B. Johnson con l’obiettivo di portare avanti i programmi di riforma del predecessore Kennedy, N.d.T.) avrebbero afflitto gli Stati Uniti, come è stato.

Il progetto Virtual JFK:Vietnam If Kennedy Had Lived arguisce che “JFK avrebbe continuato a opporsi a una guerra americana in Vietnam. Anche se il governo di Saigon, debole e corrotto, era destinato alla pattumiera della storia, egli avrebbe opposto resistenza a chi gli chiedeva di inviare le truppe di combattimento Usa in Vietnam. JFK avrebbe potuto porre fine a ogni coinvolgimento militare”. Per quanto riguarda il tentativo di proseguire l’opera riformatrice di JFK, lo storico americano Don Keko scrive che a Kennedy “mancavano le capacità legislative di Lyndon Johnson che in gran parte sarebbero state destinate a ciò che divenne noto come Grande società (…). Senza la Grande società la nazione non avrebbe sperimentato ingenti deficit di bilancio e l’economia sarebbe stata più forte”. In secondo luogo, l’assassinio di Kennedy ha profondamente compromesso il liberalismo americano.

Il libro pubblicato da James Piereson nel 2007, Camelot and the Cultural Revolution (edito da Encounter) argomenta come i liberal non siano riusciti a sopportare il fatto che Lee Harvey Oswald, un comunista, assassinò Kennedy per proteggere il controllo di Cuba da parte di Fidel Castro. Kennedy morì per il suo anticomunismo; ma questo è stato fortemente contraddetto dal racconto dei liberal, che hanno negato questo dato di fatto, continuando a presentare Kennedy come una vittima della destra radicale, e discolpando così Oswald.

Piereson attribuisce gran parte dello scivolone del liberalismo americano verso il pessimismo anti-americano alla “negazione o all’indifferenza” verso il ruolo lapalissiano avuto da Oswald nell’assassinio. “L’enfasi riformista del liberalismo americano, che era pragmatico e lungimirante, fu superata da uno spirito di autocondanna nazionale”. Accusare chiaramente la cultura americana della morte di Kennedy ha spostato l’attenzione del liberalismo dalle questioni economiche all’uguaglianza culturale (razzismo, femminismo, libertà sessuale, diritti ai gay) e questo l’ha portato a identificarsi con il movimento contro-culturale della fine degli anni Sessanta.

Il risultato è stato ciò che Piereson definisce “un residuo di ambivalenza” verso l’importanza dei tradizionali valori americani. I liberal restano intrappolati da questa distorsione come mostra, ad esempio, un commento di Michelle Obama che nel 2008 dopo l’elezione del marito disse: “Per la prima volta nella mia vita adulta sono orgogliosa del mio Paese”, oppure un articolo del New York Times di qualche settimana fa che ha accusato i conservatori di Dallas, piuttosto che un vagabondo dell’estrema sinistra, dell’assassinio di JFK. In terzo luogo, la catastrofe Oswald-Ruby ha sempre costituito un certo fascino alimentando folli idee cospirative tra le persone altrimenti sane.

Un recente sondaggio della Gallup ha chiesto: “Pensi che il responsabile dell’assassinio del presidente Kennedy sia stato un solo uomo, oppure ritieni che altre persone siano state coinvolte in un complotto?” Ecco la risposta: il 61 per cento ha detto che altre persone erano coinvolte e solo il 30 per cento ha asserito che l’assassino ha agito da solo. Non meno sorprendente di questo rapporto di 2 a 1 è che, tra chi pensa che altre persone fossero coinvolte, un mero 3 per cento punta il dito contro Castro, Cuba, l’Unione Sovietica o accusa altri comunisti. Come Gerald Posner lamentava nel suo studio definitivo del 1993, Caso chiuso, “Il dibattito non verte più sul fatto se JFK sia stato ucciso da Lee Oswald o se dietro l’assassinio ci siano state altre persone, come parte di un complotto – piuttosto è esatta l’idea del complotto?”.

L’unico straccio di buona notizia è che il 61 per cento di chi crede alla teoria del complotto rappresenta la percentuale più bassa in oltre quarant’anni. Forse Posner, Vincent Bugliosi e altri finiranno per prevalere sui revisionisti. E infine una nota personale. I ricordi del 22 novembre 1963 rimangono vividi in me. La notizia della morte di Kennedy fu sussurrata alle 13,30 in un’aula di prima liceo della Commonwealth School a Boston. Con grande sorpresa degli studenti, si tenne la lezione di biologia della professoressa Ellen Kaplan e dovemmo fare anche un test. Dopo qualche triste tiro a canestro in palestra, cercai di comprare un quotidiano ma le file erano troppo lunghe.

A casa, la mia famiglia si unì al resto del Paese guardando in silenzio i telegiornali. Anche se avevo seguito i risultati elettorali del 1960 e guardato in televisione la cerimonia d’insediamento del 1961, il dramma dell’assassinio fu il primo avvenimento politico a colpirmi emotivamente. Infatti, il suo impatto è stato così profondo e duraturo che ancora oggi – e nonostante le rivelazioni su Kennedy – quel giorno mi dà ancora i brividi e mi fa venire le lacrime agli occhi, una reazione viscerale a un avvenimento politico che non si è mai più ripetuta, anche se il Vietnam e la Grande società mi fecero virare verso destra. Così quella del 22 novembre 1963 fu una tragedia nazionale che mi toccò nel profondo.

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