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22 Novembre 2013

 

Kennedy, agnello sacrificale d’America

di Mattia Ferraresi

 

Il rituale dei ricordi in bianco e nero

 

L’abbuffata globale dei ricordi in bianco e nero, delle rievocazioni, delle disamine retrospettive e dei bilanci di un presidente incompiuto è parte di un banchetto rituale. Una cerimonia religiosa dedicata al culto di Camelot, che deriva la sua forza evocativa da quella maledizione che ha consegnato all’intera famiglia Kennedy la palma del martirio. Non è un caso che la riflessione di Robert Bellah, eminente sociologo che ha indagato per una vita intorno all’essenza della religione civile americana, sia partita proprio dal discorso inaugurale di John Fitzgerald Kennedy, pieno di riferimenti al divino ma ancora più pieno di cenni alla nazione come elemento fondativo di un culto aggrappato alla città dell’uomo più che a quella di Dio.

Non era un omicidio a sfondo geopolitico, da inserire prosaicamente nello schema della Guerra fredda, ma lo sfogo folle di una nazione, paradossalmente la stessa nazione divinizzata da Kennedy, incatenata ai suoi stessi pregiudizi. Così il più giovane presidente della storia americana è diventato l’agnello sacrificale che riscatta i peccati d’America. La vicenda kennediana straborda di riferimenti religiosi, e una discussione che è passata tutto sommato in sordina in questo cinquantesimo anniversario riguarda proprio il lascito del cattolico Kennedy.

George Weigel, esponente del cattolicesimo di marca conservatrice, ha scritto che «il mito di Kennedy è un ostacolo alla fioritura di testimoni cattolici in America». Il discorso del 1960 a Houston, quello in cui l’allora candidato alla presidenza ha esposto la sua concezione del rapporto fra stato e chiesa, è la sintesi dell’idea kennediana della fede: «Credo in un presidente la cui visione religiosa è un affare privato».

Si trattava di una lettura radicale del primo emendamento vergata innanzitutto per tendere la mano alla maggioranza protestante intimorita dall’ascesa di un cattolico, ma ha finito per «privatizzare in modo drammatico le convinzioni religiose e marginalizzare il loro ruolo nell’orientare la bussola morale dei pubblici funzionari». Il cattolicesimo di Kennedy ha scavato un fossato fra la fede, esclusivamente privata, e la partecipazione alla cosa pubblica, un campo neutro sgombro da ogni ingerenza. Richard John Neuhaus, fondatore della rivista First Things e figura chiave del pensiero cattolico americano, l’ha chiamata «la pubblica piazza nuda», un’identità spoglia di qualunque abito religioso. Da quel cattolicesimo intimo e basato sull’appartenenza di clan discendono i tanti cattolici che affollano l’amministrazione Obama, dal vicepresidente, Joe Biden, al ministro della Salute, Kathleen Sebelius, fino al capo di gabinetto, Denis McDonough: tutti orgogliosamente rivendicano contemporaneamente il proprio credo e la kennediana convinzione che la fede sia irrilevante nel discorso pubblico.

Rick Santorum, cattolico e conservatore sociale che ha corso alle primarie repubblicane lo scorso anno, ha usato un’espressione forte: «La concezione di Kennedy mi fa vomitare». Era, forse, una citazione della durissima condanna della tiepidezza che compare nell’Apocalisse, ma di certo interpretava bene i sentimenti di una parte dei cattolici americani che rifiutano di rinchiudere la propria fede nella sagrestia della coscienza. Gli stessi cattolici che, capeggiati dai vescovi, danno battaglia alle linee guida dell’Obamacare, peraltro scritte da Sebelius, che impongono anche alle istituzioni di ispirazione religiosa di offrire ai propri dipendenti piani assicurativi che comprendono contraccettivi e farmaci abortivi. Tanto per citare una battaglia pubblica che il cattolico Kennedy non avrebbe combattuto. Per coprire le nudità di questa pubblica piazza si è sentito così il bisogno di creare un culto pubblico con i suoi rituali, gli atti di fede, le celebrazioni liturgiche, il martirio e la solenne celebrazione della memoria: la religione di Camelot.

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