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19/04/2013

La maledizione della famiglia Kennedy
di Antonino Alessandro

La famiglia Kennedy è tra le più conosciute e potenti degli USA: di sicuro è la più colpita da tragedie...

Ci sono storie lunghe decenni.
Ci sono avvenimenti che toccano non solo i singoli ma anche gli Stati, l'immaginario collettivo e intere società.

Quando accadimenti funesti si concentrano su una famiglia che ha avuto la responsabilità di segnare interi pezzi della nostra storia, scegliendone gli indirizzi e, soprattutto, le aspettative, ecco che la parola Maledizione, quella con la "M maiuscola", non può essere solo borbottata.

Questa è una storia così. Una storia di persone. Una storia fatta di vizi e potere, arroganza e virtù.

Una famiglia, un cognome, Kennedy, che evoca sentimenti, rammarichi e curiosità, non solo per la vita scintillante e sopra gli schemi dei suoi componenti, ma sopratutto per ciò che sarebbe stato se fato, complotti, sfortunate coincidenze e scelte avventate non avessero creato un filo nero che ne ha imprigionato le sorti.

"Qualcuno lassù non ci ama" (Robert F. Kennedy)

"È come se se il fato si fosse ribellato contro di noi" (Micheal Kennedy)

Esiste la maledizione dei Kennedy?
Tutto si muove attorno a questa domanda, a cui cercheremo di dare una risposta. La maledizione dei Kennedy: chi è stato maledetto. Come abbiamo detto, questa è una storia di persone. Uomini e donne inconsapevoli guidati da un'entità maligna verso la distruzione, oppure persone che hanno fatto scelte avventate che le hanno condotte alla morte? Svelare, analizzare, anche solo intuire la personalità dei protagonisti ci permetterà di giungere alla risposta che cerchiamo. Non esiste, ovviamente, una lista ufficiale del "chi?".

Il Washington Post, tuttavia, ne redige una a scopo giornalistico e vista l'autorevolezza della fonte ci si adeguerà a lei.
Ma non ci limiteremo al chi.

Il tentativo di comprensione implica la necessità di ricostruire il contesto in cui gli eventi drammatici trattati sono avvenuti.
Scoperti i "Chi?" e i "Come?", passeremo ai "Perché?".

E a quel punto ci interrogheremo: perché dal 1941 ci accadute delle vicende che hanno causato, direttamente o indirettamente, la morte di appartenenti alla famiglia Kennedy?
Perché sono state colpite anche segretarie, amanti, o presunte tali?

E, infine: queste tragedie si potevano evitare? Oppure sono frutto del caso?
Esiste un disegno superiore?

Maledizioni: una premessa
Fissiamo dei punti fermi, ossia delle basi comuni su cui costruiremo le nostre risposte.
Preliminarmente si riporta la definizione di maledizione (fonte: Wikipedia):
“Una maledizione è l'augurio di conseguenze negative attraverso l'intercessione di un qualche potere soprannaturale come ad esempio un Dio, un elemento della natura o uno spirito. L'effetto negativo portato da una maledizione può avere diverse gradazioni dall'infliggere dolore fino a provocare la morte del soggetto. Le maledizioni possono anche avere effetti molto complessi o specifici come ad esempio quello di non far rivedere la persona amata o rendere sterili”.

Come si vedrà in questa storia ci sono accadimenti gravi che rientrano a pieno titolo tra le "conseguenze negative" insite nella definizione di maledizione.

Prima di inoltrarci tra i morti, tuttavia è utile capire da dove tutto ebbe inizio.

La maledizione dei Kennedy: Joe P. Kennedy
C'è un uomo seduto a una scrivania in ciliegio. Gli occhiali rotondi gli sono appena scivolati sulla punta del naso, mentre, un doppio petto blu e il colletto inamidato della camicia bianca lo fanno sembrare rigido come un tronco d'albero. Stringe una penna d'oro la cui punta indugia sotto la scritta "Firma". Sbuffa passandosi la mano sulla stempiatura imperlata di sudore. Si sistema gli occhiali e fissa il foglio. È scritto fino a metà pagina, in alto le effige della sua carta intestata. «Avanti!» dice, quando sente bussare alla porta. La voce è ferma, decisa. Il suo segretario Will entra, i passi misurati e il solito tono gentile. «Signore?» «Sono arrivati quella della Ford?» chiede Joe Kennedy, spiccio. «Sì, la attendono» risponde l'altro. «Falli accomodare.» Ancora una volta il tono è risoluto. Will si allontana, sparendo dietro la porta imbottita. Joe Kennedy sospira due volte, poi raccoglie la penna e con pochi movimenti firma. Tossisce per nascondere le lacrime. "Tra un po' passerà", pensa mentre ripiega il foglio e lo infila dentro una busta. Anche lì, nell'angolo in alto a destra c'è il suo nome. In stampatello, caratteri dorati senza svolazzi inutili. Appena sotto, in blu, il destinatario: Dott. James W. Watts, University of Virginia, School of Medicine.

Figlio di immigrati irlandesi e cattolico, Joe P. Kennedy è un uomo vecchio stampo.
Anticomunista, liberale, è sostenitore di Roosevelt durante la prima e la seconda campagna elettorale. Viene ricompensato per il suo appoggio con la nomina di presidente della commissione Borsa e Finanze. Joe Kennedy, in questa veste si ritrova a dover rendere illegali molte pratiche da lui stesso utilizzate per accumulare il suo patrimonio. È un convinto assertore del non interventismo degli USA durante la seconda guerra mondiale. È, inoltre, un ammiratore di Aldolf Hitler con cui condivide i sentimenti antisemiti.

La natura controversa della sua figura deriva oltre che dal suo carattere burbero e arrogante, anche dalle motivazioni che lo spingono a entrare in politica e a schierarsi con il partito democratico, nonostante le sue idee conservatrici.

Molti lo reputano un opportunista il cui interesse è rivolto ad appoggiare tutti i provvedimenti sociali che scongiurino il pericolo di una rivolta o addirittura di una rivoluzione di stampo socialista. In sostanza salvaguarda il capitalismo per salvaguardare il patrimonio accumulato.

Sposa Rose Fitzgerald, insieme hanno nove figli. Loro rappresentano la "terza generazione".
Quella maledetta.

La maledizione dei Kennedy: Rosemary Kennedy
«È arrivata l'autorizzazione finale?» chiede il dottor Watts. La sua voce è punteggiata dal suono metallico degli strumenti che dispone in fila come soldati, su un vassoio. «Sì,» risponde Walter, la benda bianca su naso e bocca, due fili sottili che gli si insinuano dietro le orecchie. È dispiaciuto, quasi dolente. Vede il corpo della donna muoversi sotto il lenzuolo mentre i capelli scampati alla rasatura pre-operatoria ricadono oltre il bordo del tavolo. Le hanno dato un blando tranquillante, non deve dormire. Anche in quelle condizioni Walter la vede dolce, ingenua. Ma pensa che dopo andrà meglio. Le incidono i lati della fronte, una coppia di tagli di non più di due centimetri ciascuno, poi Watts raccoglie un ferro chirurgico a forma di coltello e lo appoggia sulle ferite. «Adesso, Rose, sentirai un rumore molto forte. Non spaventarti, mi raccomando.» «Sì» risponde la donna con un sorriso sbiadito. Il maglio chirurgico piomba dall'alto come un rapace. Poi, Watts lo mette da parte e comincia a muovere lo strumento nel cranio su e giù. A destra e a sinistra. Rose si muove appena: sente dolore ma le hanno detto di rimanere ferma e lei cerca di ubbidire. «Rose, potresti recitarmi la Preghiera del Signore, per favore?» chiede Walter mentre Watts continua a far entrare il metallo poco per volta. «Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome...» E così di seguito con voce cantilenante e leggera. Lunghi minuti di silenzio mentre Watts muove, millimetro dopo millimetro, lo strumento dentro di lei. «Potresti recitarmela di nuovo, Rose?» La donna ricomincia, ma le parole sono incerte, impastate le une alle altre. Termina a fatica. «Un'ultima volta, Rose. Abbiamo quasi finito.» La cantilena riparte. Gli occhi si sono fatti fissi, un braccio scivola fuori dal lenzuolo e rimane a penzolare come fosse di gomma. Odore di urina si spande nell'aria. «...Da...cci. Pae... Maeee... Ame...» «Grazie Rose, sei stata bravissima.»

Rosemary Kennedy, terza figlia di Rose e Joe, ha appena 23 anni quando viene sottoposta a lobotomia nel 1941.
Fin da piccola Rosemary aveva manifestato dei ritardi nell'apprendimento, ma la madre aveva tentato di garantirle una vita normale, affidandone l' educazione a dei tutor privati.

La sua malattia (oggi si sospetta fosse dislessia) non le aveva però impedito di partecipare con entusiasmo alla vita sociale che si svolgeva intorno alla sua influente famiglia. Rosemary nei suoi diari scriveva di tè e feste da ballo, delle prove di nuovi abiti, di viaggi in Europa e persino di una visita alla Casa Bianca di Franklin D. Roosevelt.

Eppure i suoi improvvisi scatti d'ira, l'atteggiamento ribelle e sessualmente libero preoccupano Joe che ha grandi progetti per i figli maschi e teme che la condotta della maggiore delle sue figlie possa gettare la famiglia nello scandalo. O forse, semplicemente l'uomo Joe Kennedy non riesce a sopportare l'idea di aver generato una figlia mentalmente ritardata.

Comunque sia, la sua smania di "farla guarire" fa si che, senza informare né la moglie né il resto della famiglia, autorizzi l'intervento che verrà effettuato dai dottori James W. Watts e Walter Freeman, due pionieri di una pratica medica allora molto in voga e condannata dalla classe medica solo nel 1977. Quell'intervento trasformerà Rosemary, una creatura ingenua ma capace di godere del mondo che la circonda, in un vegetale. Tale rimarrà fino al 2005 quando al termine di una lunga e inconsapevole esistenza muore in una casa di cura nel Wisconsin.

Rose potrebbe essere considerata come la prima vittima della maledizione dei Kennedy.
O forse, come vedremo, la sua sventurata storia potrebbe giocare un ruolo ben più rilevante.

Altri morti: Joseph P. Kennedy Jr., Kathleen Agnes Kennedy, Patrick Bouvier Kennedy
Dopo appena tre anni dalla lobotomia di Rosemary, un'altra disgrazia colpisce la famiglia Kennedy. Joseph P. Kennedy Jr., figlio primogenito di Josef e Rose che sembrava destinato a incarnare le ambizioni politiche della famiglia, muore durante la Seconda Guerra Mondiale. Mentre sorvola il canale della Manica, precipita in mare col suo B-24 Liberator. Ha appena 29 anni.

Quattro anni dopo, nel 1948, Kathleen Agnes Kennedy, altra figlia della coppia, muore in un incidente aereo all'età di 28 anni. Anche la sua vita era stata segnata da una tragedia: il marito, il nobile inglese William Cavendish, marchese di Hartington, sposato nel 1944 contro il volere della famiglia, l' aveva lasciata vedova dopo appena quattro mesi di matrimonio.

La maledizione imperversa, in soli quattro anni due dei nove figli di Rose e Joe muoiono.

Ma nemmeno la quarta generazione sembra immune: nel 1963 tocca al più piccolo dei figli del Presidente John Fritzgerald Kennedy e di Jacqueline Bouvier, Patrick Bouvier Kennedy, che nato prematuro di cinque mesi e mezzo il 7 agosto del 1963, muore due giorni dopo per sindrome da distress respiratorio (RDS) allora denominata Sindrome della Membrana Ialina. L'incidenza di questo tipo di sindrome, dovuto al mancato sviluppo dei polmoni del nascituro, provocava a quel tempo una mortalità del 50% tra i prematuri.
Ma nel novembre del 1963 una nuova disgrazia attende i Kennedy e non solo loro.

La maledizione dei Kennedy: John Fiztgerald Kennedy
La Lincoln Continental SS100X imbocca la Houston Street, poi una drammatica curva a gomito la costringe a rallentare. Intorno, le persone applaudono. C'è chi riprende con una telecamera, chi chiama il Presidente anche solo per un sorriso, chi sventola una bandiera americana. C'è anche un uomo, immobile dietro una finestra al sesto piano del deposito di libri della Texas School. Si chiama Lee Harvey Oswald, respira lentamente, le mani sudate sul Mannlicher Carcano puntato verso un tratto della Elm Street ancora vuoto: il suo bersaglio sta per arrivare. JKF e sua moglie Jacqueline salutano la folla, ignari di ciò che accadrà. Sono le 12:30 quando l'auto imbocca la Elm Street. Pochi secondi e arriva uno sparo. Grida, confusione, molti si voltano, il Presidente smette di salutare. L'auto rallenta. Uno stormo di colombi si stacca da un cornicione del deposito di libri e vola via. Secondo sparo. Echi. Un lampo dalla collinetta erbosa di fronte l'auto, persone che corrono. «Mio Dio, mi hanno colpito!» dice Kennedy, toccandosi la gola. Il proiettile lo ha attraversato da parte a parte. Il Presidente potrebbe gettarsi di lato per proteggersi dietro il sedile, ma non ci riesce. «Ci stanno ammazzando tutti» grida il governatore Connelly, una pallottola gli è entrata nel torace e ha trapassato il polso destro, fratturando il radio. Ha proseguito la sua corsa fino alla coscia sinistra. Terzo proiettile. Uno sbuffo di fumo dalla collinetta erbosa di fronte l'auto, gli occhi di tutti sono sul deposito di libri mentre l'eco di quello che sembra un quarto sparo si diffonde nella Dealey Plaza. La testa del presidente esplode, il corpo rincula in avanti e a sinistra investendo l'auto e i passeggeri di schegge di osso e materia cerebrale. Dopo otto secondi dal primo sparo John Fritzgerad Kennedy si accascia sulla sua Jacqueline. «Oh, mio Dio! Hanno sparato a mio marito! Ti amo Jack!»

John Fiztgerald Kennedy, secondo figlio di Joe e Rose, eletto Presidente appena due anni prima, muore assassinato a Dallas il 22 novembre del 1963.

L'omicidio, al termine della controversa Commissione Warren, viene attribuito all' uomo fermato subito dopo l' attentato e ritenutone l'esecutore materiale: Lee Harvey Oswald, un ex marine con presunte simpatie comuniste. Oswald, tuttavia, non verrà mai processato perché appena due giorni la morte di Kennedy verrà ucciso da Jack Ruby, personaggio misterioso in odore di mafia e servizi segreti.

Ancora oggi la teoria dell'assassino solitario non convince. Permangono molti dubbi su modalità e mandanti dell'omicidio di JFK che sicuramente con la sua politica estera distensiva nei confronti dell'Unione Sovietica si era reso inviso a militari, ai servizi segreti e a coloro che credevano "nell'attaccare per primi".

Nonostante all'inizio del mandato Kennedy aumenti il numero dei "consiglieri militari", è sensazione comune che non sarebbe entrato direttamente in guerra a fianco delle truppe del Vietnam del Sud, e che, anzi, studiasse una soluzione di disimpegno pacifico.

Anche sul versante interno, molte delle politiche di JFK hanno contribuito alla creazione di un mito che permarrà negli anni, arrivando integro fino a noi. Affascinato anche dalle filosofie socialiste, sostiene l'integrazione razziale e i diritti civili tanto da chiamare a sé durante la campagna elettorale del 1960 la moglie dell'imprigionato reverendo Martin Luther King Jr.

Singolare il fatto che, secondo altre credenze, JFK sarebbe vittima anche di un'altra maledizione, legata ai presidenti USA: la maledizione dell'anno zero.

La maledizione dei Kennedy: Robert Micheal Kennedy
Gli applausi della folla che lo acclamava erano, ormai, lontani. Innumerevoli corridoi, scavati nei meandri dell'Ambassator Hotel di Los Angeles, lo hanno condotto alle cucine. Da lì un vicolo buio e l'auto che lo avrebbe portato in albergo.

È passata da poco mezzanotte e Bob è esausto. Decine di incontri, centinaia di mani strette, migliaia di parole. Speranze, solidarietà, voglia di diritti civili: responsabilità che sente, ogni giorno di più, sulle spalle. «Senatore, la ammiriamo tutti! Grazie!» dice un uomo vestito da cuoco. È enorme, sudato e nero. Ce ne sono sempre tanti nelle cucine, pensa Bob mentre gli si avvicina e gli stringe la mano callosa. Lì vicino altri applaudono e gridano parole di incoraggiamento e complimenti. Il senatore Kennedy alza il braccio per salutarli con quel suo sorriso da ragazzo disegnato sul volto. Si sente forte, invincibile. Quando Sirhan Bishara Sirhan comincia a sparare alcuni si gettano sul pavimento, altri dietro ai pilastri. La calibro 22, prima che il servizio di sicurezza la renda inoffensiva, ha il tempo di colpire Bob tre volte. Il senatore osserva incredulo il soffitto mentre il sangue che cola dalla ferita al petto sporca la camicia bianca un po' stropicciata dalla giornata. Chinato su di lui un ragazzo asiatico vestito di bianco. È un cameriere o qualcosa di simile. «Signore, tenga duro!» dice sorreggendolo per la schiena: non vuole che la sua testa si appoggi per terra. «Presto, chiamate un'ambulanza!» grida qualcuno. Si sentono lacrime impastate all'odore di polvere da sparo e sirene in lontananza. Mentre la sua vita scorre via sul pavimento, poco prima di perdere conoscenza, ha il tempo di formulare un'ultima domanda: «Gli altri stanno tutti bene?» Non sente la risposta; due sospiri dolorosi e i suoi occhi diventano vitrei.

Robert Micheal Kennedy, ministro della giustizia nel governo presieduto dal fratello John, viene ucciso il 5 giugno del 1968, dopo aver vinto le primarie democratiche e mentre è in corsa per le presidenziali. Ha 42 anni quando muore a Los Angeles.

Sposato con Ethel S. Skakel con la quale ha avuto 11 figli. RFK è un forte oppositore della guerra in Vietnam e convinto sostenitore dei diritti civili, in aperta contrapposizione con la politica del presidente uscente Lyndon Baines Johnson, del suo stesso partito, ritenuto dopo la morte di John, l'artefice dell'escalation della guerra in Vietnam. Durante la campagna elettorale riceve l'appoggio dei pacifisti, dei non violenti, e dei neri, anche dopo l'assassinio di Martin Luter King. È proprio lui, durante un comizio a darne l'annuncio a un pubblico sconvolto.

Anche l'omicidio di Bob è avvolto nel mistero: dopo ciò che è accaduto al fratello, l'idea del folle solitario che agisce in autonomia appare, sin da subito, una soluzione di comodo.

Per spiegare questo decesso si è tirata in ballo la mafia, a cui la famiglia Kennedy si dice sia legata, il sindacalista Jimmy Hoffa, il terrorismo palestinese e la CIA. In atto l'unico condannato per l'omicidio di Bob Kennedy è l'esecutore materiale, Sirhan Bishara Sirhan.
Al di là di tutto, unica certezza è la morte di un altro dei figli di Joe.

Vittime collaterali della maledizione
Ma la maledizione non colpisce solo i membri della famiglia.
È il turno di amanti è fidanzate.

Nel 1969, Edward Michael Kennedy, detto "Ted", il più giovane dei fratelli di John e Bob, senatore del Massachusetts, finisce giù dal ponte di Chappaquiddick, con la sua Oldsmobile. Scampa all'incidente ma Mary Jo Kopechne, la donna che gli sedeva accanto, rimane imprigionata nell'auto che si inabissa. Ted torna alla festa chiedendo aiuto ai parenti della vittima e al suo avvocato. Solo la mattina dopo un gruppo di pescatori ritrova la vettura e il corpo della giovane.
Ted viene interrogato dalla polizia quando la vettura viene identificata. È accusato di omissione di soccorso e condannato a due mesi di carcere, poi sospesi.
I molti dubbi sulla dinamica dell'incidente non verranno mai fugati.

Mary Jo, però, non è stata la prima non-Kennedy a morire. Marilyn Monroe, amante prima di John e poi di Bob, muore a 36 anni nella notte tra il 4 e il 5 agosto 1962 per overdose di barbiturici. Viene trovata nella sua camera da letto a Breatwood, Los Angeles.
Anche le circostanze della sua morte appaiono sospette.

Nel 1973 Joseph Kennedy II, il più grande dei figli di Bob (quarta generazione) viene coinvolto in un incidente d'auto dal quale esce illeso, ma che lascia paralizzata la compagna che viaggia con lui.

La maledizione dei Kennedy: David Anthony Kennedy
L'uomo bussa di nuovo. Il numero della camera, centosette, luccica sul color noce quasi nero della porta. «Anthony, sono Bill. Apri» ripete mentre il portiere ha già in mano il passepartout. La risposta è il suono attutito di un notiziario che oltre il legno cerca di interessare qualcuno. «Pensaci tu» dice con un cenno della testa e l'altro apre la porta in pochi istanti. «Puoi restare in corridoio, per favore?» chiede Bill, il suo compagno annuisce. Entrambi immaginano cosa è accaduto. Bill entra nella stanza e lo vede. Riverso sul letto, in maglietta bianca e boxer colorati, i capelli un tempo ricci e luminosi diventati una massa informe e appiccicosa. «Anthony» dice avvicinandosi. Il viso è rivolto alla finestra; deve fare il giro del letto per poterlo vedere. Si china su di lui. Un rivolo di vomito rappreso gli è scivolato sulla guancia gocciolando sulla moquette del pavimento e incrostando la barba rasposa, il naso rosso, infiammato, sporco di sangue e muco. Gli occhi scavati, cerchiati di dolore sono sbarrati e fissano inutilmente la tenda a fiori. L'uomo gli appoggia una mano sulla schiena e lo scuote un po': David Anthony Kennedy non si muove, rimane rigido. Sospirando Bill prende il telefono sul comodino. «Anthony è morto. Manda qualcuno.» Posa la cornetta e osserva di nuovo il corpo pensando a quante volte ha immaginato di assistere a quella scena. Decine tentativi di salvarlo, decine di fallimenti. Allunga una mano e gli chiude gli occhi. «Mi dispiace, Anthony» dice sottovoce. Stringe i pugni, si rende conto che il notiziario lo infastidisce. Attraversa la stanza e gira una manopola: il mezzobusto dai capelli in ordine, sorridente e brillante si trasforma in un puntino luminoso che sparisce. Accanto al televisore Bill vede un vassoio d'acciaio. Polvere bianca, una siringa vuota, un flacone di Demerol e uno di Mellaril.

David Anthony Kennedy, quarto figlio di Bob Kennedy, muore a 28 anni.
Il suo primo ricovero per disintossicarsi dall'abusi di cocaina ed eroina risale al 1976. Passa gli anni successivi a entrare e uscire da cliniche specializzate fino alla Pasqua del 1984. Il 19 aprile si sposta da Minneapolis a Palm Beach, in Florida, dove sono riuniti diversi membri della famiglia. David prende la stanza numero 107 del Brasilian Court Hotel e trascorre i successivi giorni tra festini a base di droga e alcool.

Viene trovato morto sul pavimento della sua suite per una overdose di cocaina, Demerol, e Mellaril il 25 aprile.
La morte del padre pare lo abbia segnato profondamente.

Il ragazzo a soli 12 anni, ha visto l'assassinio di Bob in televisione; l'evento gli avrebbe lasciato una cicatrice emotiva, stravolgendone la psiche e portandolo a cercare rifugio nella droga.


La maledizione miete l'ennesima vittima.
La lista del Washington Post riporta altri due nomi: Patrick Joe Kennedy, altro figlio di Bob che nel 1986 viene ricoverato d'urgenza in una clinica abuso di droga e poi costretto a disintossicarsi e William Kennedy Smith, il nipote di Edward M. Kennedy che nel 1991 viene, processato per stupro e prosciolto in modo controverso.

Altri sei anni e la maledizione ritorna.

La maledizione dei Kennedy: Michael Kennedy
«Dài! Lancia!» urla Michael. Ha il fiatone e, nonostante la neve e il freddo, è sudato sotto la tuta da sci. Osserva la bottiglia piena di neve che volteggia verso di lui. Deve percorrere non più di una decina di metri; con gli sci ai piedi ci impiegherà meno di un secondo. Quando è il momento si lancia in discesa, le mani protese verso il cielo chiaro: quella bottiglia non gli sfuggirà. Non ha il tempo di girarsi, vede solo un'ombra che entra nel suo campo visivo. Sente l'impatto che lo trascina nell'incoscienza, poi tutto si fa buio. Attorno a lui in molti urlano mentre la neve si tinge di rosso e pezzi di materia cerebrale scivolano lungo la corteggia ruvida del pino contro cui ha urtato.

Michael Kennedy, il sesto figlio di Robert F. Kennedy, muore in un incidente di sci ad Aspen in Colorado. È il 31 dicembre del 1997 e lui ha 39 anni. Sta giocando con diversi altri membri della famiglia a ski-football, gioco invernale ritenuto pericoloso, quando colpisce un albero. Michael, ritenuto uno sciatore d'esperienza, non indossa casco o altri dispositivi di sicurezza.

Alcuni testimoni hanno sostenuto che la famiglia era stata precedentemente messa in guardia dalla ski-patrol. Altri, invece sostengono che non era stato dato loro alcun avviso. Archiviato come incidente, il referto del coroner parla di "trauma massivo alla testa e al collo".

Poi la maledizione colpisce di nuovo.
Dopo meno di due anni.

La maledizione dei Kennedy: John F. Kennedy Jr.
Sente la cloche tra le mani che scalcia. La radio diventata una fonte di fruscii e scariche mentre la pioggia forma decine di rivoli sui finestrini. Fuori John non riesce a distinguere la linea dell'orizzonte, all'interno dell'abitacolo gli strumenti indicano dati che gli si affollano dentro sommandosi gli uni agli altri. Nessuno è risolutivo; lo tormentano instillandogli mille dubbi a cui lui non sa rispondere. «Andrà tutto bene» dice alla moglie e alla cognata. Entrambe stanno in silenzio da diversi minuti, i volti pallidi e le mani sudate strette a pugno. Prova a sbirciare attraverso un finestrino: solo nebbia. Ha sete, sente la lingua spessa come un copertone di automobile. Sbuffa, pensa che mostrandosi annoiato forse le donne si sentiranno più tranquille. Sente l'aereo scarrocciare verso dritta, dovrebbe intervenire sul pedale sinistro. Una fitta gli attraversa la gamba ma, dopo alcuni secondi, stringendo i denti, riesce a spingerlo. Non ha la certezza di dove siano, le luci della costa sono sparite da venti minuti. Prova a ricordare le istruzioni del manuale di volo, ma le folate di vento trasversale non gli permettono di riflettere. Guarda gli strumenti e le spie, sa che senza visibilità sono i suoi occhi e le sue orecchie. Ancora una raffica di vento; muove la cloche per rimanere in rotta. Quando si accorge che il buio è diventato la superficie liquida del mare è troppo tardi. Trasale. La paura lo costringe a cabrare troppo. Le ali vanno in stallo, l'altimetro comincia a vorticare mentre ogni pezzo del Piper vibra. Carolyn e Lauren gridano.

John F. Kennedy Jr., figlio di JKF, muore in un incidente aereo nel Luglio del 1999 mentre sta volando col suo Piper. Nell'incidente perdono la vita anche la moglie Carolyn e la cognata Lauren Bessette.

Kennedy è un pilota piuttosto inesperto: ha, infatti, alle spalle solo 310 ore di volo, di cui appena 55 ore di volo notturno e 36 con il Piper Saratoga. Le indagini hanno determinato, come probabile causa dell'incidente, l'incapacità del pilota di mantenere il controllo dell'aereo, per il disorientamento, la scarsità della luce e le pessime condizioni atmosferiche.

Secondo molti testi l'incapacità del pilota di vedere l'orizzonte porta al disorientamento: occorrono molte ore di allenamento per poter volare nelle condizioni in cui Kennedy si è trovato al momento dell'incidente.

Prima di iniziare il volo alcuni testimoni sostengono che a JKF Jr. era stata sconsigliata la partenza anche in considerazione di una recente frattura del piede. Ma John Junior sceglie di non badare agli avvertimenti.
Ci si chiede: "scelta" o destino maledetto?

Adesso che conosciamo le persone colpite dalla Maledizione cerchiamo di spingerci oltre passando ai "perché".

Maledizione?
Il termine "maledizione" evoca immagini di stregoneria e magia nera o le sequenze di alcuni B-movie sul risveglio di mummie egizie. Tuttavia, è noto che la mitologia antica su cui si basa la nostra cultura e di cui è permeata la nostra psicologia, ha preso molto sul serio il concetto di maledizione familiare, senza associarla a streghe o riti malefici occulti.

Secondo molti studiosi, traendo spunto da alcuni specifici casi (si pensi alla maledizione di Edipo e della sua famiglia) è possibile individuare le caratteristiche ricorrenti di una maledizione familiare.
Eccoli:

1. Il primo individuo che innesca la maledizione è generalmente di stirpe regale, discendente di un dio o da questo benedetto. La collera del dio non è dunque connessa solo a una trasgressione umana, ma all’abuso del beneficio concesso.

2. L’individuo è vittima della "hubris", ossia della mancanza di rispetto per i limiti mortali e per le condizioni imposte dagli dei. La hubris si identifica con l'arroganza.

3. Generalmente la maledizione è collegata ad abusi compiuti sull’infanzia o sulla prole (Laio che vìola un fanciullo e Agamennone che uccide la figlia sono alcuni degli esempi forniti dalla tragedia classica).

4. I discendenti esasperano la maledizione con la propria hubris, nonostante a ogni generazione sia conferita la possibilità di espiazione tramite l’accettazione della pena. Un fallimento, questo, figlio dell'incapacità di resistere all’avidità, alla rabbia od alla sete di vendetta.

Gli schemi di cui sopra suggeriscono che la maledizione familiare sia un insieme di modelli comportamentali psicologicamente predeterminati, che richiedono consapevolezza e una lotta interna per la sua espiazione.
Non è né chiaro né dimostrato come si ereditino tali fattori ma, in ogni caso, occorre riconoscere che l'ipotesi è affascinante: il carattere individuale collegato all'avo.

Ci sono due teorie relative alla trasmissione dei modelli su indicati.
La prima sostiene la trasmissione genetica: in sostanza dagli antenati non si erediterebbe unitamente alla mappa genetica, ma anche alcuni precisi prospetti mentali ed emozionali profondamente radicati. Tali modelli non suggerirebbero in sé la presenza di una "maledizione", ma quanto meno di una tendenza dell'individuo a essere maledetto.
La spiegazione della maledizione, quindi, appare plausibile: associando comportamenti intrinsecamente "a rischio", come il bere o la tendenza alla depressione, a persone geneticamente predisposte, esistono buone probabilità di diventare alcolisti o depressi.

Altri, invece, i sostenitori della psicologia archetipica, postulano l'esistenza di un inconscio familiare e l’unità tra la psiche collettiva e quella di ogni individuo che ne sarebbe parte integrante; esisterebbe una trasfusione tra l'unità psichica della famiglia e quella del singolo.

Qualunque sia la verità (eredità genetica o psichica) appare plausibile che "la tendenza a essere maledetti" si tramandi di generazione in generazione come conseguenza di un ripetuto abuso di una legge di natura. La maledizione, quindi, sembra dotata di una sorta di moralità che finisce per punire innocenti e colpevoli, uomini e donne, adulti e bambini.

Glenn Ritcher subito la morte di John F. Kennedy J. in un articolo affermava che la Maledizione dei Kennedy era frutto di pura arroganza, mostrata in egual misura da ogni generazione. La considerazione su Joe Kennedy da lui suggerita è estremamente sfavorevole: "… ci volle solo un piccolo aiuto da parte del suo buon amico Franklin Delano Roosvelt e dei nervi saldi, cosa che Papà Joe possedeva in abbondanza. In quale altro modo avrebbe potuto avere a che fare con i truffatori e andare ancora a testa alta all’interno dell’alta società? Come avrebbe potuto sbaciucchiarsi indifferentemente con voluttuose sirene dello schermo mentre sua moglie stava a casa a sfornare altri Kennedy? Papà Joe non era esattamente l’esempio del bravo ragazzo."

Nel capostipite della famiglia Kennedy ritroviamo il primo elemento ricorrente nella maledizione familiare: egli rappresenta l’individuo in cui gli Dei avrebbero infuso audacia, determinazione, charme e brillante spirito politico.

A ben analizzare la sua vita ci si accorge, inoltre, che Joe Kennedy ha peccato di hubris nel senso greco più stretto: cosa rappresenta, se non una coincidenza con i punti 2 e 3 sopraindicati, ciò che ha fatto alla figlia Rosemary?
Joe, nella continua ricerca del potere, rifiuta la diversità della figlia, per lui inaccettabile in quanto elemento di imperfezione (punto 2) e perpetra un abuso sulla propria prole (punto 3) che condanna la famiglia alla maledizione.

In senso più ampio, tuttavia, si potrebbe considerare violenza anche l'atteggiamento di Joe verso gli altri figli: ossessionato dall'ambizione di averne uno che diventasse presidente, interferisce sulle vite e sui caratteri della prole, contrastandone l'autonomia.
Ecco, allora, che Joe Kennedy rientra pienamente nei criteri elencati al n° 1, 2 e 3.

E il punto 4?
Le successive generazioni della famiglia Kennedy sono esse stesse colpevoli di hubris, per il loro innato rifiuto di alterare gli atteggiamenti distruttivi e arroganti strettamente connessi alla loro eredità psicologica?
Di certo possiamo affermarlo per molti.

Perfino JFK Jr. che si astiene dal coinvolgimento politico, e sembra un individuo tranquillo e apprezzato, insiste nel volare con un piede rotto e in condizioni atmosferiche che avrebbero scoraggiato perfino un pilota esperto.

Non è necessario, d'altra parte, approfondire il contesto in cui si muovono John e Bobby Kennedy, ricordando che l’ambizione, il potere e le grandi ricchezze possono essere causa a loro volta di maledizione.

E che dire di Anthony, morto per overdose?
Tutte vittime del loro rifiuto di cambiare sé stessi.

Ecco, allora, che il cerchio si è chiuso: gli eredi Kennedy avrebbero semplicemente perpetrato il loro "hubris".
La maledizione dei Kennedy, secondo questa tesi, esiste.

Maledizione? No.
È proprio la coincidenza col punto 4 che, tuttavia, instilla il dubbio.
La presenza di un "peccato" del capostipite rende automatica e inevitabile la "punizione"?

Ovviamente, no: quante esperienze dirette abbiamo che dicono il contrario? Quante volte abbiamo visto un padre fare fortuna nei modi più beceri senza che alcuna punizione colpisse le generazioni discendenti?
Sicuramente parecchie.

Si è parlato di impossibilità innata di cambiare.
A questo punto occorre chiedersi se, invece, ogni morto non sia il frutto di normali casualità o di atteggiamenti pericolosi che nulla hano a che vedere con la maledizione.

Partiamo da un dato certo: i Kennedy sono famosi e parecchi, ci sono statisticamente maggiori possibilità di subire eventi tragici e che gli stessi vengano resi noti.

Non è necessario ipotizzare l’esistenza di un oscuro Genio ancestrale poi, per comprendere i motivi per cui la cocaina e l’alcolismo abbiano colpito molti dei membri della famiglia: molti degli incidenti collegati possono essere considerati loro dirette conseguenze.
Valutando tutte le tragedie e analizzandole singolarmente, ci si rende conto che esse si esplicano in termini profondamente umani: è l’insieme che presenta un’immagine inquietante.

Un uomo che impatta contro un albero mentre, con gli sci, rincorre una bottiglia colma di neve, in un gioco ritenuto pericoloso, un aviatore principiante e testardo che si getta nel maltempo col suo Piper, due politici che si muovono in un ambiente pieno di nemici, un ragazzo fragile che muore per overdose: presi a uno a uno si scopre che i Kennedy muoiono per una miscela di umanità – forse troppa – e coincidenze sfortunate.

Perché, spesso, e questo contribuisce all'esistenza stessa della Maledizione sono le casualità a delimitare il confine tra la vita e la morte.

Come chiamare, se non coincidenza, quella che ha portato JKF a indossare il busto per il suo mal di schiena a Dallas? Se non l'avesse avuto sarebbe riuscito ad accasciasi sul sedile invece di rimanere alla mercé del terzo (o quarto?) sparo (fotogrammi dal 266 al 312 del filmato girato da Abraham Zapruder).

E che dire della casualità di nascere, l'unica tra nove figli, un po' tarda e di avere un padre che pur di nascondere l'orrore dei propri lombi, la fa lobotomizzare?

Maledizione? Sì?
I dubbi sull'esistenza della maledizione, quindi, permangono.
Eppure se ne continua a invocare, con certezza e convinzione ferrea, l'esistenza.
Perché sposare la teoria della maledizione è comodo: un lasciapassare per la tranquillità interiore. Se è colpa del Fato, ecco, che le responsabilità spariscono, si dissolvono e con esse, però le speranze di cambiamento.

A ben guardare, allora, la vera maledizione non è loro, ma nostra.

Noi, che abbiamo tremato quando gli incrociatori di Krusciov si dirigevano verso Cuba, quando migliaia di ragazzi sono andati in Vietnam a morire nella giungla, quando la Guerra Fredda ghiacciava i nostri cuori insegnandoci le parole "Fallout Nucleare" o spiegandoci espressioni come "Premere il pulsante rosso".
Quando c'era un mondo diviso da un muro netto come una cicatrice: da una parte i buoni e dall'altra i cattivi.

Noi che abbiamo dovuto aspettare trent'anni e la Perestroika di Gorbaciov oltre che la benevolenza di Reagan, vincitore sull'economia dell'URSS in ginocchio, per capire che "siamo tutti abitanti di questo piccolo piccolo mondo" (JFK)
Unico e non colorato.
Di rosso e blu.

Fonti:
1. Edward Klein, La maledizione dei Kennedy (Mondadori, 2007)
2. Jim Garrison, JKF, sulle tracce degli assassini (Sperling & Kupfer, 2003)
3. Gianni Bisiach, I Kennedy: la dinastia che ha segnato un secolo (Newton Compton, 1999)
4. Ennio Caretto, La maledizione dei Kennedy colpisce Michael (Corriere della Sera, 2 gennaio 1998)
5. http://www.wikipedia.com
6. http://www.washingtonpost.com
7. http://www.people.com
8. http://edition.cnn.com

Testo Originale:
http://www.latelanera.com/misteriefolclore/misteriefolclore.asp?id=265#sthash.RPWz2SJp.dpuf

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