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28 Settembre 2015

 

Ungheria: la “rivoluzione” del 1956… quella ventata di libertà a opera del Vaticano

 

Prendendo spunto dalla migrazione di migliaia di profughi siriani che nello scorso agosto dall’Ungheria raggiunsero Vienna a piedi, dato che il governo ungherese aveva bloccato i treni, Piero Sansonetti (già scribacchino per l’Unità, poi direttore di Liberazione e oggi promotore de Il garantista) non si è lasciato scappare l’occasione di fare l’unica cosa per cui è stato ed è pagato: propaganda anticomunista gratuita e strumentale. Il 5 settembre sulla prima pagina del suo giornale campeggiava il titolo “La marcia da Budapest a Vienna come nel 1956” sopra la foto della colonna di profughi che marciava verso l’Austria. Un salto mortale, l’impossibile paragone tra i profughi siriani del 2015 e le “masse ungheresi che scappavano dal comunismo”, è solo l’ultima strumentalizzazione della “Rivoluzione ungherese”, un tentativo di colpo di stato promosso dal Vaticano e dagli USA per disgregare il blocco dei primi paesi socialisti, favorito dai sommovimenti provocati dalla direzione dei revisionisti moderni sul movimento comunista.

Sul colpo di stato tentato in Ungheria se ne leggono di tutti i colori e se ne leggono, in genere, del tipo che fa comodo alla borghesia (come per la “Primavera di Praga” nel 1968), al punto che nel corso del tempo, e grazie a un’opera incessante di propaganda anticomunista, viene eretta a simbolo della lotta contro i regimi comunisti e per la libertà.

A 59 anni da quei fatti (23 ottobre - 10 novembre 1956) ripercorriamo quei giorni non solo per contrapporre alle menzogne della classe dominante la verità (che come in ogni operazione di propaganda, alla borghesia non interessa mai perseguire, far sapere o riconoscere), ma anche e soprattutto per trarre insegnamenti utili alla rinascita del movimento comunista.

Per stendere quest’articolo abbiamo parlato con alcuni ungheresi, gente del popolo e non dirigenti comunisti, che vivono da anni in Italia e che seppure giovani furono testimoni della ventata di “rivoluzione della libertà” promossa dal Vaticano nel loro paese di origine.

Per inquadrare gli avvenimenti occorre tenere presenti tre questioni di carattere storico e una di carattere politico.

La prima questione storica. Le immani distruzioni della Seconda guerra Mondiale non avevano distrutto l‘URSS, la guerra si era conclusa con l’ampliamento del campo dei primi paesi socialisti e anzi, l’esito del conflitto aveva aveva accresciuto smisuratamente la fiducia con cui le masse popolari di tutto il mondo guardavano al movimento comunista e ai primi paesi socialisti: non solo erano stati inutili i tentativi degli imperialisti europei e USA di scagliare contro la Russia sovietica Hitler e le armate naziste, ma fu proprio l’Armata Rossa a liberare l’Europa dal nazismo, a spazzare via con la sua avanzata verso Berlino i regimi collaborazionisti e i protettorati, a liberare i territori occupati e a dare slancio alla costruzione delle repubbliche popolari dei paesi dell’est Europa. Con questa premessa, la comunità internazionale degli imperialisti ha provato ininterrottamente a sabotare i primi paesi socialisti, a disgregare il blocco dell’Europa orientale. Non potendo farlo apertamente ha provato in ogni modo, manovrando “dall’interno” (in particolare avvalendosi delle strutture del Vaticano) e anche attraverso la rete internazionale (ONU). La fase conosciuta come “Guerra fredda” era caratterizzata dalla via della convivenza pacifica fra socialismo e capitalismo, da una parte (revisionisti moderni), e dalla via delle aggressioni, dei sabotaggi, delle pressioni e dei ricatti dall’altra (imperialisti USA).

La seconda questione storica. Con la morte di Stalin nel 1953 e a causa della debolezza della sinistra del movimento comunista, i revisionisti moderni presero la direzione del PCUS e dell’URSS, presero cioè la direzione del movimento comunista internazionale. Con l’inizio, sancito dal XX Congresso del PCUS nel 1956, della “destalinizzazione” inizia la fase di reintroduzione pacifica (dall’interno) e graduale (è durata fino al crollo dei primi paesi socialisti) del capitalismo nei primi paesi socialisti. Quella che la borghesia indica come la fase della correzione dal corso dittatoriale imposto da Stalin all’URSS e al resto dei primi paesi socialisti, ha la forma della liberazione dal “culto della personalità” e la sostanza dell’adozione di una linea che, per sintetizzare e semplificare al massimo, puntava a risolvere le contraddizioni che emergevano nell’esperienza di costruzione del comunismo intrapresa dai primi paesi socialisti fino al 1953, con la concezione e con le soluzioni proprie della borghesia, cioè come sarebbero state affrontate dai capitalisti e nella società capitalista.

La terza questione storica. Eccetto la Russia, gli altri paesi socialisti europei arrivarono alla fase di instaurazione del socialismo senza la rivoluzione socialista. In alcuni casi (come in Ungheria) gli stessi partiti che diressero poi quei paesi dopo la Seconda Guerra Mondiale nacquero dalla fusione dei partiti comunisti con i partiti socialisti e solo in parte fu sufficiente l’inestimabile impegno che il PCUS mise nella formazione di quadri e dirigenti: se persino in URSS presero il sopravvento i revisionisti moderni, nelle democrazie popolari dell’est Europa le tendenze anticomuniste e socialdemocratiche alla testa del partito (e del governo) hanno caratterizzato costantemente quelle esperienze. Nel caso della “Rivoluzione del 1956 in Ungheria” la contraddizione si è mostrata in modo esemplare.

La principale questione di carattere politico. Sostituire la trasformazione della società in senso comunista con il consolidamento delle conquiste del socialismo è la questione politica che ha caratterizzato l’opera dei revisionisti moderni: la “convivenza pacifica” dei paesi socialisti con i paesi imperialisti e la logica della concorrenza fra “blocchi” in cui si divideva il mondo, se era premessa per il progressivo indebolimento dei primi paesi socialisti, era anche la condizione affinché i paesi imperialisti ne approfittassero (la terza fase dei primi paesi socialisti, la restaurazione a ogni costo del capitalismo, si caratterizza per il fatto che i primi paesi socialisti sono diventati terra di conquista, speculazione, di manovra per i gruppi imperialisti). Venuta meno la spinta alla trasformazione della società in senso comunista, inoltre, è venuta meno la mobilitazione delle masse popolari nell’edificazione del socialismo, nella direzione della società: questo è il presupposto oggettivo per cui, facendo leva su quella parte di ambizioni e aspirazioni frustrate delle masse popolari (non sulle pessime condizioni di vita, quelle sono bugie propagandistiche), gli imperialisti hanno avuto campo per le loro manovre sporche (con risultati irrisori) per tutti i quarant’anni di vita dei primi paesi socialisti.

Alla luce di queste considerazioni generali, il contesto ungherese aveva le sue particolarità.

Già nel 1953, in Ungheria, il segretario del Partito dei Lavoratori ungheresi e primo ministro Mátyás Rákosi venne sostituito alla guida del governo su ordine del Politburo del Cremlino, da Imre Nagy, futura figura di riferimento dei “rivoluzionari del ’56” e primo ministro nei giorni del colpo di stato. Fin dal suo insediamento, Nagy si distinse per le riforme di carattere socialdemocratico promosse dal suo governo, finchè nel ’55 venne destituito dall’incarico ed espulso dal partito. Rákosi, benché il processo di destalinizzazione non fosse ancora avviato su ampia scala, era osteggiato dai revisionisti moderni in quanto “stalinista”, ma era rimasto Segretario del Partito dei Lavoratori Ungheresi e, dopo la cacciata di Nagy, fu chiamato a sostenere la formazione del governo di Hegedüs, fino a essere definitivamente liquidato nel luglio del ‘56, a pochi mesi dal colpo di stato e poco dopo il XX Congresso del PCUS.

La “Rivoluzione ungherese”

E il cardinale József Mindszenty, quale fu il suo ruolo?

“Era in galera per alto tradimento. I rivoltosi lo hanno subito liberato, assieme a politici del vecchio regime, ladri, assassini. Mindszenty si è installato all’ambasciata americana e da lì dirigeva l’insurrezione”.

In Ungheria, i gruppi imperialisti potevano contare sull’appoggio delle residue forze reazionarie e, soprattutto, sull’appoggio della chiesa cattolica (da considerare che il primate d’Ungheria godeva di ampi poteri nel regime precedente al socialismo, rivestendo funzioni sia ecclesiastiche che civili, come ad esempio sostituire il Re in caso d’impedimento). A dimostrarlo, il ruolo che ebbe nella vicenda il cardinale József Mindszenty che era stato posto dalle autorità socialiste in carcere a causa delle sue attività eversive. Una delle “misure democratiche” dei revisionisti moderni fu la commutazione della pena per il cardinale, dal carcere ai domiciliari, condizione che facilitò la sua liberazione da parte degli insorti all’inizio della rivolta. Una volta liberato si mise alla testa del tentativo di colpo di stato.

Come è iniziata la protesta e da chi è stata animata la rivolta?

“La protesta è iniziata dagli studenti universitari e dal circolo degli intellettuali: inizialmente dimostravano solidarietà agli studenti polacchi di Poznan che erano stati repressi in giugno, inoltre chiedevano riforme politiche come il pluripartitismo e la possibilità di organizzare comitati di studenti anche fuori dalle strutture statali o dal Partito comunista. Si può dire che sono loro che hanno iniziato la rivolta, che è stata subito cavalcata da altri settori popolari e poi infiltrata da gente che diceva di essere apartitica, ma faceva circolare la parola d’ordine di abbattere il regime che poi sarebbero stati aiutati dall’Europa e dagli USA.

Gli universitari si sono in gran parte ritirati quando i rivoltosi hanno liberato i politici del vecchio regime, dirigenti di partiti fascisti e reazionari, ladri, assassini. Posso dire che guardando bene, il grosso dei rivoltosi era questa gente qui”.

E i comunisti? Che posizione avevano?

I comunisti? I comunisti venivano cercati casa per casa e venivano massacrati da queste squadracce. In certi casi venivano uccisi, veniva loro levato il cuore e al suo posto i rivoltosi ci mettevano la tessera del partito… molti li hanno appesi ai lampioni come segno di spregio.

Una crudeltà e uno spargimento di sangue che alla fine ha spinto anche Kadar (il capo del governo che aveva sostituito Nagy) a chiedere l’intervento dell’Armata Rossa per mettervi fine.

Dopo alcune manifestazioni nel pomeriggio, il colpo di stato cominciò effettivamente la sera del 23 ottobre. Squadre ben organizzate e inquadrate si diressero, con una chiara idea su quello che c’era da fare, verso i punti nevralgici della città: la Radio di Stato, il giornale del Partito, le caserme.

Si bruciavano i libri marxisti, le squadre di rivoltosi percorrevano la capitale segnando con croci bianche le case dei comunisti e con croci nere le case degli ebrei.

Il carattere disciplinato dei gruppi di attaccanti era manifesto; si osservò pure che essi erano ben equipaggiati con armi da fanteria e che molti portavano dei bracciali d’identificazione tutti uguali fra loro, apparsi repentinamente per le vie della città, si direbbe, e ormai a centinaia…Nella giornata del 25 bande armate incendiarono il Museo nazionale: lavoratori, pompieri e semplici cittadini che tentavano di impedire la distruzione delle opere d’arte furono accolti dalle pallottole dei banditi” (Herbert Aptheker, La verità sull’Ungheria - Parenti editore, Firenze 1958).

La sera stessa del 23 ottobre, il comitato centrale del Partito dei Lavoratori Ungheresi, ormai epurato degli elementi di sinistra, offriva la carica di primo ministro al già citato Imre Nagy.

Il colpo di stato era per il momento riuscito e il nuovo governo lavorava attivamente: nelle fabbriche venne adottato immediatamente un modello che dava autonomia di gestione alle singole aziende, istituendo la figura del direttore-manager, mentre venivano eliminati i Consigli generali di fabbrica; Nagy nel frattempo promuoveva l’accesso al governo del paese di elementi borghesi e anticomunisti, mentre le carceri venivano svuotate e gli elementi reazionari ancora reclusi venivano rimessi in libertà.

Il 28 ottobre truppe russe di stanza in Ungheria intervennero con i carri armati, ma furono sopraffatte dalle forze insurrezionali.

Il 30 veniva assaltata la sede centrale del partito a Budapest: gli attaccanti, scrive Delmar del Daily Express di Londra del 31 ottobre “hanno impiccato tutti, senza eccezione gli uomini e le donne trovati nel palazzo, fra cui alcuni comunisti buoni, sostenitori della ribellione contro Mosca del primo ministro comunista Nagy… Gli impiccati pendono dalle finestre, dagli alberi, dai lampioni, da qualunque oggetto a cui si possa impiccare un uomo”.

Il 31 ottobre vennero ricostituiti vari partiti fascisti e reazionari, intanto il governo Eisenhower offriva al nuovo governo ungherese 20 milioni di dollari a titolo di aiuti.

Infine, l’Ungheria si preparava a dichiararsi neutrale e minacciava di uscire dal trattato di Varsavia: i gruppi imperialisti cercavano di occupare il paese, sottraendo l’Ungheria al campo socialista; il governo di Mosca intervenne, a quel punto massicciamente.

Il 4 novembre truppe corazzate sovietiche, sostenute dall’aviazione, entravano a Budapest, mettendo fine al colpo di stato. Nagy trovò rifugio nell’ambasciata jugoslava, per essere poi consegnato alla Romania e quindi giustiziato nel 1958. Il cardinale József Mindszenty rimase rifugiato nell’ambasciata USA per i successivi 12 anni.

L’esito del tentato colpo di stato sono stati più di 2500 ungheresi uccisi (fra cui, almeno la metà, comunisti) e 720 soldati russi.

Conclusioni

La “Rivoluzione ungherese” è una delle tante dimostrazioni che la causa del crollo dei primi paesi socialisti è da ricercare entro i limiti propri del movimento comunista: né nella forza della borghesia imperialista, né tantomeno nelle aspirazioni di maggiore libertà delle masse popolari.

Insieme a questo è una delle tante dimostrazioni che la lotta di classe non si conclude con l’instaurazione del socialismo, ma vive con forme specifiche nella società socialista e all’interno del Partito comunista, negarlo equivale a negare il principio che la lotta di classe è il motore della storia e apre le porte alla disgregazione.

Infine è una delle innumerevoli dimostrazioni che il Vaticano è tutt’altro che un istituto di fede e di spiritualità: è la cupola di una rete fitta e capillare di agenti reazionari. Questo valeva all’epoca dei primi paesi socialisti quanto vale oggi; il fatto che abbia la sua capitale a Roma, in Italia, è di particolare rilievo per i comunisti italiani.

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