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2 marzo 2017 

 

Alle radici dell’infamante Seconda Repubblica: il biennio 1992-1993 (parte II)

di Federico Dezzani

 

Se il 1992 è l’anno in cui lo Stato “salta in aria”, investito dalla doppia deflagrazione di Tangentopoli e delle bombe di Capaci e Via D’Amelio, il 1993 è l’anno in cui le “menti raffinatissime” passano al saccheggio: “tempo sei mesi e vi vendiamo tutto”, avevano promesso sul Britannia. La DC frena però le privatizzazioni messe in cantiere dal governo Amato: il referendum abrogativo del 18 aprile, promosso dai radicali e caldeggiato dall’alta finanza, è colto al volo per seppellire “la partitocrazia”, abbattere “lo Stato-padrone” e, soprattutto, formare il primo governo tecnico della storia repubblicana, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. Per superare le forti resistenze parlamentari alla svendita dei gioielli di Stato, il processo di privatizzazione è lubrificato con le autobombe che scandiscono tutto il 1993, commissionate dalle “menti raffinatissime”, confezionate dai “servizi deviati” ed imputate alla mafia.

 

1993: i notabili del Britannia privatizzano, accompagnati dalla fanfara delle bombe “mafiose”

 

La “cupola” di cui parla Bettino Craxi, quell’oligarchia atlantica decisa a plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza dopo il collasso dell’Unione Sovietica, ha ottenuto indubbi risultati nel corso del 1992: il Pentapartito è stato decimato dalle inchieste del pool di Milano, Giulio Andreotti è stato estromesso dal Quirinale, il segretario del PSI è stato dimezzato con l’avviso di garanzia, le riserve di Bankitalia sono state taglieggiate dai bucanieri dell’alta finanza, il governo Amato ha trasformato le imprese statali in Spa, primo passo verso la privatizzazione. Tuttavia, il lavoro non è stato certamente completato: dodici mesi, seppur scanditi da stragi e clamorose inchieste giudiziarie, non sono sufficienti per radere al suolo un sistema economico e politico ben radicato, che in 50 anni ha elevato l’Italia da Paese semi-industriale a quinta economia mondiale. 

 

L’operazione di demolizione avviene in due fasi: se nel 1992 lo Stato “salta in aria”, nel 1993 si espugna una Prima Repubblica ormai indifesa e ci si abbandona finalmente al saccheggio del patrimonio pubblico. La cricca del Britannia, gli Andreatta, i Draghi, gli Spaventa, i Prodi, etc. etc., entra nella stanza dei bottoni grazie al governo Ciampi, accompagnata da una fanfara di bombe e stragi, utili a tenere sotto pressione il Paese e lubrificare quelle privatizzazioni che stentano a decollare a cause delle resistenze parlamentari. Al termine del 1993, la DC sarà scomparsa, lo smantellamento dello “Stato-padrone” ben avviato e le “menti raffinatissime”, placate con affari miliardari, porranno fine allo stragismo “mafioso”: la mancata deflagrazione dell’autobomba in viale dei Gladiatori nei pressi dello Stadio Olimpico, una strage potenzialmente molto più sanguinaria delle precedenti, segnerà la fine della strategia della tensione.

 

Procediamo con ordine, sviscerando quel 1993 che segna il definitivo tramonto della Prima e l’incipit di quella Seconda Repubblica oggi agonizzante.

 

L’anno si apre apparentemente sotto i migliori auspici: il 15 gennaio è arrestato a Palermo il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, alias la “Belva di Corleone” o “Totò u curtu”, il superboss cui sono imputati l’assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima, la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio. “Non sono un mostro, sono solo un povero vecchio, signor giudice…”1 , si difende l’allora 63enne Riina in tribunale. C’è del vero nelle parole di Riina, perché “la belva” si è sicuramente sporcata le mani di sangue nella seconda guerra di mafia tra la fine degli anni ‘70 ed i primi anni ‘80, quella che vede Riina salire ai vertici di Cosa Nostra con la benedizione dei servizi atlantici, ma non è certamente il registra delle efferate stragi che hanno scosso l’Italia nel 1992: dietro l’omicidio di Falcone e Borsellino, si nascondono le “menti raffinatissime” che impiegano la mafia per i loro scopi e, dopo averla spremuta a sufficienza, reputano che perfino “Totò u curtu”, poco più che un’anticaglia, sia ormai superfluo e consegnabile alla giustizia. La strategia della tensione prosegue indisturbata e c’è sempre un boss latitante, nella fattispecieMatteo Messina Denaro, cui attribuire le bombe, piazzate, sì, per scopi “mafiosi”, ma da una cupola molto più raffinata e cosmopolita della malavita siciliana. È la cupola che il 20 gennaio 1993, festeggia l’insediamento alla Casa Bianca di Bill Clinton, il presidente che, dalla destabilizzazione della Somalia alle guerre in Jugoslavia, dall’abolizione dello Glass-Steagall Act all’ingresso della Cina nel WTO, edifica il Nuovo Ordine Mondiale, anno dopo anno.

 

L’euforia per l’arresto di Riina non dissolve la cappa di ansia ed inquietudine che grava sul Pentapartito, conscio che l’assalto contro le vecchie formazioni della Prima Repubblica, diventante improvvisamente d’intralcio, è destinato a proseguire nel corso dell’anno: il segretario del PSI ha ricevuto l’avviso di garanzia nel dicembre precedente e, il 27 marzo 1993, è la volta di Giulio Andreotti, inquisito per concorso in associazione a delinquere di stampo mafioso. Il “Divo Giulio”, che nemmeno un anno prima ambiva alla carica di Capo dello Stato, è “sospettato di essere stato il terminale di una serie di interessi che partivano dalla Sicilia. Interessi economici, interessi giudiziari, interessi politici. Gli interessi della mafia.2 ” Poco importa se, dopo nove lunghi anni di estenuanti e diffamanti processi, il senatore a vita sarà assolto nel 2004 dall’accusa di contiguità con la mafia: la priorità in quel momento è eliminare politicamente un politico che può intralciare l’avvento del “nuovo”. Un’intervista rilasciata da Andreotti nel mese di marzo, pochi giorni prima dell’avviso di garanzia, descrive lucidamente la manovra in atto3 :

 

“Dal 1946 siamo il partito di maggioranza relativa e molti non amano ciò.Vorrebbero essere i nostri successori. So, come accadde al momento delle Br, che c’ è chi non ama la prospettiva di una Italia più serena, più giusta, con minori squilibri, e minori diseguaglianze sociali.Siccome sanno che la Dc invece mira proprio a questo e questo è il suo programma è chiaro che siamo il primo obiettivo. Però non bisogna avere paura La Democrazia cristiana, ha più tardi affermato, non giocherà in difesa ma in attacco.”

 

Già, la DC: una vera palla al piede. Sebbene il partito dello scudo crociato possa annoverarsi a buon diritto tra i vincitori della Guerra Fredda, è ora un ostacolo all’attuazione dei progetti economico-politici che l’élite anglofona ha in serbo per l’Italia e l’Europa: la deindustrializzazione, il neoliberismo e le politiche lato offerta di chiaro stampo neo-malthusiano.

 

Il premier Giuliano Amato ha immesso l’Italia sul binario auspicato dall’alta finanza, ma la DC ed i suoi ministri frenano, rallentando lo smantellamento dell’industria pubblica (IRI ed ENI in testa), che ha giocato un ruolo di primo piano nel decollo economico del Paese. “Privatizzazioni in frigorifero”4  titola la Repubblica nel marzo del 1993, raccontando il violento scontro in corso dentro al governo sul delicatissimo tema delle dismissioni: da un lato la vecchia la guardia della DC ed il ministro dell’Industria e delle Partecipazioni Statali, Giuseppe Guarino, dall’altro i “sacerdoti delle privatizzazioni”5 , incarnati di Piero Barucci, Paolo Baratta e Beniamino Andretta, gli anglofili formati all’università di Cambridge, illustri ospiti del Britannia. Guarino è fautore di un riordino delle partecipazioni e della conseguente creazione di due o più holding, da aprire poi al capitale privato, la cricca di Barucci ed Andreatta è fautrice della vendita pezzo per pezzo delle imprese pubbliche, mettendo subito sul mercato quelle più appetibili, ossia le aziende in utile, e conservando in capo allo Stato quelle “da ristrutturare”, cioè in perdita. Il premier Amato parteggia, ovviamente, per lo spezzatino delle partecipazioni statali e si adopera per depotenziare Guarino, trasferendo a Baratta con un decreto legge i poteri in materia di dismissioni: ne nasce un braccio di ferro che paralizza l’attività di governo, procrastinando sine die le vendita delle partecipate. Sarà lo stesso Amato a raccontare, a distanza di pochi mesi, il violento scontro6 :

 

“La questione posta da Guarino che mi portò al decreto Baratta (con l’ istituzione di un apposito ministero per le privatizzazioni ndr) è la stessa questione che mi portò a fargli rimangiare le superholding a luglioperché lui ripropose esattamente la stessa cosa in un documento che presentò a febbraio. Non ero convinto di una tesi in cui vedevo più un rafforzamento del pubblico e non una privatizzazione. (…) Guai a conservare oltre la sua stagione l’ industria pubblica. Questa è una tipica ossessione della sinistra in termini ideologici e dei maneggioni pratici.”

 

Che fare? Come uscire da questa irritante impasse che rischia di far saltare la tabella di marcia della City e di Wall Street? In provvidenziale soccorso giungono Marco Pannella ed il suo Partito Radicale che, fin dalla nascita, altro non sono che una quinta colonna dei poteri atlanticiin Italia, già impiegata con successo nel giugno del 1978 quando una violenta campagna dei radicali portò il presidente della Repubblica Giovanni Leone alle dimissioni. Cavalcando il clima di anti-politica che si respira nel Paese, sapientemente alimentato da Tangentopoli e dai grandi media, Pennella promuove otto referendum che, tra gli altri punti, contemplano:

 

- l’abrogazione delle norme bancarie del 1938 che attribuiscono al Tesoro, anziché ai consigli di amministrazione, il potere di nomina dei presidenti e dei vicepresidenti degli istituti bancari;

- l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti;

- l’abrogazione del Ministero delle Partecipazioni Statali istituito nel 1956;

- l’abrogazione delle legge elettorale vigente al Senato, così da introdurre il maggioritario.

 

Sfruttando l’umore dell’opinione pubblica ed il martellante battage dei grandi media contro i partiti, Marco Pannella propone di una serie di referendum abrogativi che combaciano perfettamente con l’agenda dell’oligarchia finanziaria: liberare le banche dal controllo pubblico in vista della loro quotazione in borsa, rendere la politica dipendente dai potentati economico, facilitare lo smantellamento dell’economia mista tanto odiata dall’establishment liberal, introdurre il bipolarismo di facciata tanto caro agli anglosassoni. In un clima avvelenato ed allo stesso tempo euforico per la distruzione dell’ordine esistente, presentato come marcio, vecchio e corrotto, gli italiani si recano così alle urne per dare il loro personale contributo all’abbattimento della Prima Repubblica, sotto la sguardo sorridente e compiaciuto della City e di Wall Street. Già, perché l’oligarchia finanziaria tifa ovviamente per la vittoria del “sì” al referendum e promette i soliti sfracelli di borsa nel caso in cui “il rinnovamento” promosso dai referendum dovesse fermarsi.

 

“La lira prende vigore ed aspetta il referendum” scrive La Repubblica il giorno prima del referendum, prevedendo “un consolidamento intorno a quota 950 sul marco se vince il sì (con possibili ribassi dei tassi), nuovi capitomboli se vince il no”. Nell’articolo “Il Bel Paese dove suono il sì” possiamo leggere7 :

 

“In sintesi, il successo del “SI”, sul quale scommette la finanza internazionale, dovrebbe segnare la rinascita dell’ Italia (…) C’ è la ripresa, la lira tiene, la Borsa va su, i soldi in fuga tornano a casa, gli stranieri ci incoraggiano, i turisti tedeschi ci invadono come ai bei tempi. Sembra un miracolo. Ma c’ è qualcosa che può rompere questo clima da paradiso ritrovato? Sì. I pericoli, spiegano i ragazzi della City di Londra, sono almeno tre. Se il “SI”, domenica, non dovesse vincere con più del 60 per cento, questo sarebbe considerato un bruttissimo segno, e bisognerebbe mettere nel conto sia un nuovo crollo della lira che della Borsa. Se Mani Pulite venisse in qualche modo fermata o bloccata, gli stranieri tornerebbero a essere diffidenti, e a vendere lire e azioni italiane.”

 

Gli italiani si comportano come da copione ed il “sì” ai quattro quesiti in questione vince con percentuali bulgare che vanno dall’80% al 90%. La Prima Repubblica, un sistema “fossilizzato in una condizione di non ricambio interno, e quindi di ignoranza, impotenza e progressiva corruzione”8 , è travolta, “la partitocrazia” uccisa, lo “Stato-padrone” finalmente ridotto all’impotenza. “Plebiscito affonda baraccone PsSs” titola gaudente la Repubblica, riferendosi a quel ministero delle Partecipazioni Statali che, raccogliendo l’eredità economia del regime fascista, regalò al Paese il primo benessere nell’immediato dopoguerra:

 

“Dopo trentasette anni di vita il ministero delle Partecipazioni Statali viene cancellato a furor di popolo. Un risultato scontato per un dicastero che prima dei milioni di voti di ieri era stato affossato dalla storia e dagli scandali che negli ultimi mesi hanno investito l’ industria pubblica (…). Un ministero che ha rappresentato il simbolo della commistione tra politica ed economia e che sancì, negli Anni Cinquanta, la nascita della grande alleanza tra Dc e industria di Stato sotto gli auspici di Enrico Mattei e Amintore Fanfani.”

 

Mattei e Fanfani, avete visto? Alle fine hanno i vinto i soliti noti, tanto pazienti quanto determinati nel soffocare ogni forma di ribellione…

 

Il referendum del 18 aprile è uno spartiacque: l’oligarchia atlantica ed i suoi scherani nazionali colgono al volo l’occasione per imprimere una svolta al processo di smantellamento della Prima Repubblica. Il premier Amato si dimette come anticipato, così da lasciare spazio a “un governo istituzionale, sostenuto da forze politiche che abbiano come collante le proposte sulla nuova legge elettorale”:9  ma sarà davvero solo la riforma delle legge elettorale lo scopo del nuovo governo istituzionale?

 

Da subito circolano diversi nomi per la presidenza del Consiglio: l’europeista Leopoldo Elia, l’ex-presidente dell’IRI Romano Prodi (nonché discepolo dell’onnipresente Beniamino Andretta) ed il governatore di Bankitalia, Carlo Azeglio Ciampi. Sarà proprio quest’ultimo ad emergere, formando così il primo esecutivo della storia repubblicana presieduto da “un tecnico” anziché da un politico: si può discutere sull’integrità morale di Ciampi, se fosse o meno animato da buone intenzioni, resta però il fatto il suo governo porterà a compimento quel processo di depauperamento industriale ed economico avviato da Amato e caldeggiato dall’alta finanza. Nel nuovo esecutivo che giura il 29 aprile 1993, i personaggi che dieci mesi prima erano saliti sul Britannia occupano ora Ministeri chiave: Beniamino Andretta agli Esteri, Luigi Spaventa al Bilancio ed il “sacerdote delle privatizzazioni” Piero Barucci al Tesoro, in sostituzione dell’odiato Guarino e delle sue folli idee di holding pubbliche. La stampa anglosassone ed il Fondo Monetario gioiscono per la nomina di Ciampi10 , (“il guardiano della lira” che, seduto a Palazzo Koch, ha regalato 30.000 miliardi di lire a George Soros &co.) e la Repubblica si dice sicura che il neo-premier sarà finalmente libero dalla vecchia partitocrazia:

 

“Come i suoi 51 predecessori, è vestito di blu. Ma per il resto non assomiglia a nessuno di loro. Carlo Azeglio Ciampi non è un politico, non è un parlamentare, non ha intenzione di consultare i segretari di partito per la stesura del suo programma di governo. Neanche per la scelta dei ministri? Soprattutto per la scelta dei ministri. (…) Non assisteremo dunque alla solita sfilata di segretari e di capigruppo davanti ai microfoni delle tv, all’uscita dai colloqui con il presidente incaricato. Non ascolteremo più le sibilline dichiarazioni dalle quali si doveva capire se un segretario di partito avrebbe appoggiato o no l’ incaricato leggendo in filigrana le sue parole, i suoi se e i suoi ma. Decisa questa straordinaria novità, che è ovviamente dettata dal carattere tecnico e dunque super partes del gabinetto Ciampi, il presidente incaricato si è trovato improvvisamente con un’ agenda assolutamente vuota. Dovrà scrivere il programma nel suo splendido isolamento, nella sua aurea solitudine.”

 

Basta con la partitocrazia, basta con le noiose consultazioni dei partiti, basta con le sibilline dichiarazione dei democristiani! Salutiamo il nuovo governo super partes, svincolato dai legacci della vecchia politica: finalmente un tecnico a Palazzo Chigi, libero di scrivere l’agenda di governo nella sua aurea solitudine, nel suo splendido isolamento. Sarebbe un’immagine perfino poetica, se non celasse un’oscura verità: Carlo Azeglio Ciampi si è svincolato dai vecchi partiti, ma il suo destino è quello di assoggettarsi al Leviatano dell’alta finanza, un mostro più pericoloso e spietato del Pentapartito. La sua missione è quella di riuscire dove Amato ha fallito: archiviare l’economia mista, spezzettare e vendere le ex-imprese pubbliche, aprire il sistema creditizio alla confraternita delle JP Morgan e Goldman Sachs. Tutta l’azione del governo Ciampi, sin dai primi passi, ha come unica stella polare le privatizzazioni e si muove di conseguenza: Romano Prodi torna alla presidenza dell’IRI il 20 maggio e, a distanza di due settimane, otterrà anche i poteri di amministratore delegato, cosicché possa gestire la svendita del patrimonio industriale pubblico senza restrizioni o impedimenti.

 

Il governo Ciampi deve accelerare le privatizzazioni, non “limitarsi all’ olio d’oliva e ai gelati” come lamenta il New York Times11 , offrendo a Mammona i piatti più prelibati: la galassia dell’ENI, al cui vertice è stato provvidenzialmente collocato nell’autunno del 1992 Franco Bernabè, e soprattutto il ghiottissimo sistema bancario, una vera miniera d’oro tra consulenze, commissioni e prospettive di utili futuri. C’è però la solita scocciatura del Parlamento: è vero che Ciampi scrive l’agenda nel suo aureo silenzio, ma deve pur sempre incassare il sostegno dei partiti che sostengono il governo, DC, PSI, PDS, etc. etc.

 

Non tutti sono venduti come Andretta e Prodi: qualche “anticaglia” della Prima Repubblica, fedele alla vecchia economia mista, è sopravvissuta e rischia nuovamente di frenare le dismissioni della partecipazioni statali, proprio come hanno già fatto la DC ed il ministro Guarino. Rientra allora in scena lo stragismo “mafioso”, ormai completamento slegato dalle vicende di Cosa Nostra come testimonia il passaggio fisico del terrorismo dalla Sicilia al “continente”: è la classica strategia della tensione, una spada di Damocle che pende sul Parlamento, un coltello puntato alla schiena dei partiti, un assist ai “sacerdoti della privatizzazioni” ed agli illustri ospiti del Britannia. Privatizzate o piazziamo le bombe, vendete o uccidiamo, la borsa o la vita: è la vera mafia, quella della CIA, dell’MI6 e di George Soros, non quella pittoresca e semi-analfabeta di Totò u curtu”.

 

Il 13 maggio 1993 una Fiat Uno imbottita di esplosivo salta in aria in Via Fauro, nel centralissimo quartiere dei Parioli, ferendo una ventina di persone: è la mafia, come la vulgata sostiene ancora oggi? Fin da subito sono in molti a pensare che dietro l’attentato, prontamente rivendicato dalla solita e misteriosa Falange Armata, non si nasconda Cosa Nostra. Dice Bettino Craxi alla stampa12 :

 

“Siamo arrivati agli attentati. Ma l’ avevo previsto, mi pare. L’ avevo detto che si sarebbe giunti anche a questo, e puntualmente ci siamo. Temo che ci saranno altre bombe, dopo quella in via Fauro. Perché? Perché oltre a una giustizia a orologeria politica, in Italia esistono anche le bombe a orologeria politica. Basta riandare indietro nel tempo. Negli ultimi trent’anni siamo vissuti in Italia, no? Bene, in questi trent’anni sono esplose bombe di cui non s’ è mai saputo né chi le ha messe né chi erano i mandanti… Bombe alle quali sono state date cinquanta spiegazioni diverse, e cioè nessuna. (…) Ma cos’è poi questa mafia? Sono quelli che hanno preso in Sicilia? Ma quelli mi danno la sensazione di essere dei poveracci… Quanto alla bomba in via Fauro, io non escludo che avesse come obiettivo Maurizio Costanzo. Ma tendo a non crederci, alla pista mafiosa. C’ è dell’altro. E’ una bomba che ha l’obiettivo di stabilizzare, non di destabilizzare. Questa è una bomba a orologeria politica.”

 

Altre bombe, strategia della tensione, mafiosi ridotti al rango di poveracci, attentanti per stabilizzare il governo Ciampi: l’ex-segretario del PSI, sottoposto un mese prima all’infamante lancio di monetine fuori dall’hotel Raphael, ha come sempre le idee chiare e le espone con parole nitide e precise. Non si sbaglia.

 

Nella notte tra il 26 ed il 27 maggio è la volta della strage di via dei Georgofili, Firenze: un’autobomba uccide cinque persone e getta nello scompiglio l’opinione pubblica nazionale e mondiale danneggiando gravemente uno dei più famosi simboli del patrimonio artistico italiano, la Galleria degli Uffizi. E poi i soliti strascichi della strategia della tensione: decine di falsi allarmi alimentano l’ansia e la paura, segnalando ordigni a Milano, Roma, Livorno, Torino, etc. etc13 . A rivendicare l’attentato è sempre la Falange e nell’articolo di La Repubblica “Ma chi si nasconde dietro la sigla Falange Armata” del 28 maggio si può leggere:

 

“Da anni la “Falange armata” rivendica omicidi, attentati e rapine in tutt’Italia. Una telefonata giunge puntuale, solitamente almeno una mezz’ora dopo che il fatto è stato diffuso dai media. (…) E la “Falange” si è fatta viva anche dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, dopo quello di Salvo Lima e del giudice Antonio Scopelliti. Il 1 agosto del 1991 la “Falange” inneggiò alla strage di Bologna del 1980, definendola “una delle pagine più gloriose della lotta armata”. Firmati “Falange” anche gli omicidi della Uno bianca. Fino alla cronaca più recente: la bomba del 14 maggio in via Fauro viene prontamente rivendicata con le solite modalità. Proprio in occasione della bomba in via Fauro, il ministro Mancino, sottolineando la necessità di individuare “chi si cela dietro questa sigla”, dirà che “è gente che opera sempre in orario di ufficio”.

 

Gente che opera in orario di ufficio? E’ lecito pensare ai soliti servizi “deviati”, le filiazioni italiane della CIA e dell’MI6. Ma perché rivendicare con una strampalata sigla le stragi “di Cosa Nostra”, se non per inviare un esplicito ed arrogante messaggio al governo ed al Parlamento? Datevi una mossa, perché vi teniamo in pugno: è questo il pizzino della City e di Wall Strett inviato all’Italia con l’autobomba di via Georgofili. Le privatizzazioni stentano a decollare e la mafia finanziaria è sempre più impaziente.

 

Il governo Ciampi, complice e/o succube, capisce l’antifona: ai primi di giugno tutti i poteri dell’IRI passano a Prodi che, a tambur battente, detta le linee per “spaccare in tre pezzi” la SME(Cirio-Bertolli-De Rica, Italgel ed Autrogrill), nonostante le forti resistenze della politica e dei lavoratori. Uniliver e Nestlé ringraziano, ma non è sufficiente, perché come fa notare il Financial Times14 :

 

“Bonn ha fatto progressi, Londra sta andando avanti nella privatizzazione della British Telecom, mentre il governo francese ha sbalordito tutti per la speditezza del piano di dismissioni. L’ Italia invece nello stesso tempo appare immobile, con le stesse aziende sempre in vendita e le stesse tabelle di marcia ripetute ma mai riviste”.

 

Il 30 giugno, il premier Ciampi “confeziona quella che probabilmente è l‘ ultima chance per le privatizzazioni italiane: un comitato di “consulenza e garanzia” che nel giro di trenta giorni dovrà avviare le procedure per la dismissione totale di Enel, Ina, Comit, Credit, Imi, Stet e Agip. I veri e unici gioielli dello Stato padrone.” Da chi è presieduto questo super-comitato per le privatizzazioni, cui spetta il compito di vendere i diamanti dello Stato-padrone, lasciandogli solo le imprese decotte? Chi è incaricato di scrivere il calendario per la veloce ed inflessibile dismissione delle ex-imprese pubbliche, perché “ulteriori ritardi potrebbero compromettere definitivamente le ambizioni privatizzatorie del nostro Paese”15  ? Ma ovviamente il direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, lo stesso che è, sì, salito sul Britannia, ma poi è sceso prima della crociera…

 

Non perde tempo il “comitato di consulenza” diretto da Draghi ed entro 30 giorni presenta effettivamente il piano per le cessioni: Comit, Credit, Imi da privatizzare entro l’anno, Ina, Enel, Stet e Agip entro il 1994. Chi valuterà le aziende, si occuperà del loro collocamento sul mercato e (in barba a qualsiasi conflitto d’interessi) ne acquisterà anche importanti percentuali? Il fior fiore della finanza anglofona, gli stessi che hanno consumato sul Britannia un luculliano pranzo a base di “mousse di gamberi, cotolette d’agnello alla menta, anatra farcita al miele e sufflé al limone ghiacciato guarnito con salsa di lamponi”16  in compagnia di manager di Stato e vertici del Tesoro italiano: Goldman Sachs, S.G. Warburg, Schroders-Fox Pitt, Kleinwort Benson, Salomon Brothers, Morgan Stanley, J.P. Morgan, Wasserstein Perella, etc. etc. Il fior fiore della City e di Wall Street, “le menti raffinatissime” che hanno demolito la Prima Repubblica con Tangentopoli e tengono sotto scacco il Parlamento con le stragi “mafiose”.

 

Già, il Parlamento: quel rudere dove la DC, il PSI e parte del PDS ancora si oppongono al processo di privatizzazione. Nell’articolo “Lo Stato vende” pubblicato da la Repubblica il 25 luglio 1993 si legge17 :

 

“Il Parlamento riprende l’esame del documento del governo per le privatizzazioni. Martedì prossimo, infatti, le commissioni bilancio, tesoro, finanze ed attività produttive della Camera proseguiranno l’ esame delle indicazioni che, nell’aprile scorso, l’ esecutivo aveva presentato adempiendo ad una precisa indicazione parlamentare. In quell’occasione, oltre ad approfondimenti sul piano di dismissioni mobiliari, sarà forse possibile avere indicazioni precise sull’entità finanziaria che il governo conta di realizzare a breve, ad intero sollievo del debito.”

 

“Martedì prossimo”, il giorno in cui il Parlamento torna a discutere di privatizzazioni, è il 27 luglio 1993, lo stesso giorno in cui in via Palestro, nel cuore di Milano, esplode una Fiat Uno presso la Galleria d’arte moderna, uccidendo cinque persone. È lo stesso giorno in cui a Roma, verso la mezzanotte, esplode una seconda Fiat Uno nei pressi di San Giovanni in Laterano (devastando l’appartamento del cardinale Camillo Ruini18  che, nella veste di presidente della Cei, si è molto speso in difesa della DC), ed una terza Fiat Uno davanti alla facciata della Chiesa di San Giorgio in Velabro, provocando il crollo del porticato. A rivendicare gli attentati, è stessa la sempre sigla: Falange Armata. Il clima in Italia è sempre più cupo e teso. È tale la tensione che perfino il Ministro degli Interni, Nicola Mancino, si abbandona a qualche ammissione19 :

 

“E’ la stessa mano, la medesima strategia. Identica la tecnica, stessa quantità di esplosivo, come obiettivi luoghi simbolici di sicura risonanza mondiale. Ci sono affinità fra gli attentati della scorsa notte e quelli compiuti in via Fauro a Roma, in via dei Georgofili a Firenze, in via D’ Amelio a Palermo, e al treno 904. E’ stata utilizzata la stessa miscela esplosiva. Le ricostruzioni fatte finora condurrebbero alla matrice terroristico-mafiosa, ma nessuna pista sia all’interno che all’esterno viene trascurata…”

 

Più esplicito ancora è il segretario del PDS, Achille Occhetto, che accusa esplicitamente i “servizi deviati” ed il “governo corrotto e criminale” che opera a fianco di quello ufficiale.

 

Chi si nasconde quindi dietro questa misteriosa “Falange Armata”, l’organizzazione che ha rivendicato l’omicidio di Salvo Lima, confezionato l’ordigno che ha ucciso Borsellino, imbottito di esplosivo le tre Fiat Uno che esplodono il 27 luglio e, tornando indietro nel tempo, ha pianificato dell’attentato sul rapido 904, la prima strage “mafiosa” costata la vita a 16 persone il 23 dicembre 1984? La miglior risposta è fornita da Francesco Paolo Fulci, ambasciatore e capo del Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) tra il 1991 e il 1993. Intervenendo nel 2015 al celebre processo sulla trattativa Stato-mafia, Fulci dichiara20 :

 

“C’era questa storia della Falange Armata e allora incaricai questo analista del Sisde, si chiamava Davide De Luca, di lavorare sulle rivendicazioni (…). Dopo alcuni giorni De Luca venne da me e mi disse: questa è la mappa dei luoghi da dove partono le telefonate e questa è la mappa delle sedi periferiche del Sismi in Italia, le due cartine coincidevano perfettamente, e in più De Luca mi disse che le chiamate venivano fatte sempre in orario d’ufficio. (…) Sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di Stay Behind, facevano esercitazioni, creare il panico in mezzo alla gente e creare le condizioni per destabilizzare il Paese. (…) All’interno dei Servizi c’è solo una cellula che si chiama Ossi, che è molto esperta nel fare guerriglia urbana, piazzare polveri, fare attentati”.

 

È quindi “una cellula” dentro al SISMI, alle dirette dipendenze dei servizi segreti atlantici, quella che compie gli attentati più complessi come la strage di Capaci e di Via D’Amelio. È questa “cellula” che confeziona gli ordigni poi piazzati dai vari Spatuzza, Graviano e Brusca. È questa “cellula” che attua la strategia della tensione necessaria per “oliare” le privatizzazioni. E la famosa mafia? Il temutissimo “Totò u curtu”? Come dice Craxi: “mi danno la sensazione di essere dei poveracci…”. Utili idioti impiegati dalle “menti raffinatissime” per obiettivi che vanno persino oltre il loro intelletto.

 

Nonostante le insistenti proteste di alcuni deputati della DC che lamentano l’opacità delle privatizzazioni in corso, l’assenza di procedure trasparenti e definite per legge e, soprattutto, la mancata istituzione di una commissione autorevole e indipendente nei confronti di gruppi di pressione, delle società privatizzande, dei potenziali acquirenti e dello stesso governo,con il compito di determinare il valore delle imprese pubbliche da cedere“21 , gli attentati del 27 luglio imprimono nuovo slancio alle dismissioni delle partecipate.

 

Il 27 agosto 1993, ad un mese esatto di distanza dagli attentati, il governo Ciampi abroga le legge bancaria del 1936, introducendo così la banca universale tanto cara alla finanza anglosassone, e, a distanza di pochi giorni, la Repubblica scrive: “Comit-Credit, Prodi spinge sull’acceleratore”22 . Il presidente dell’IRI ha una grande fretta di disfarsi delle due maggiori banche italiane, da gettare sul mercato (piuttosto freddino in quel periodo) con un’offerta pubblica di vendita. È una fretta contagiosa, tanto che persino il presidente del Consiglio ne è affetto: nell’articolo “Ciampi ha fretta di vendere”23  del 6 ottobre 1993 si legge:

 

“Il governo tenta di forzare il fronte delle privatizzazioni. Ieri il Presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, insieme ai ministri competenti ha ricevuto a Palazzo Chigi il presidente dell’ Iri, Romano Prodi, e l’ amministratore delegato dell’Eni, Franco Bernabè. Due riunioni convocate per mettere a punto ogni iniziativa utile all’accelerazione delle dismissioni dello ‘Stato padrone’ che, a tutt’oggi, hanno riservato ben pochi successi all’esecutivo. Obiettivo di Ciampi è di chiudere l’ anno portando a casa almeno una privatizzazione: quella dell’Imi sembra ormai in dirittura, ma a quanto si apprende il governo vorrebbe chiudere in bellezza il ’93 con il collocamento sul mercato anche del Credito Italiano.”

 

Perché forzare le privatizzazioni? Perché accelerare improvvisamente le dismissioni? Perché è così importante vendere in fretta il Credito Italiano, uno dei dossier più appetitosi, seguito non a caso da JP Morgan e Goldman Sachs?

 

Il 29 ottobre 1993 il consiglio di amministrazione del Credit approva la dismissione del 40% del pacchetto azionario in mano all’Iri tramite un’offerta pubblica di vendita. Due giorni dopo, domenica 31 ottobre 1993, si scoprirà a distanza di un decennio24 , sarebbe dovuta esplodere un’autobomba parcheggiata in via dei Gladiatori, a due passi dallo stadio Olimpico, quando gli spettatori della partita Lazio-Udinese fossero usciti.

 

Non è certo il mancato funzionamento del telecomando in mano ai mafiosi ad evitare la strage, ma l’ordine impartito ai servizi segreti “deviati” di sospendere l’operazione, perché “le menti raffinatissime” hanno finalmente ottenuto ciò che vogliono. L’uscita dello Stato-padrone della banche e la privatizzazione delle banche. Finisce così, con quella bomba inesplosa di cui non c’è traccia sui giornali dell’autunno ‘93, la stagione delle bombe “mafiose”: la strategia della tensione si conclude perché il governo Ciampi ed il Parlamento si sono piegati alla Mafia con la “emme” maiuscola, quella della City e di Wall Street, la stessa che nel 1991 ha ucciso servendosi della RAF il tedesco Detlev Karsten Rohwedder, capo della holding pubblica che raccoglie tutte le imprese della ex-DDR, colpevole di ritardi nelle privatizzazioni.

 

Il 1993 volge così al termine: la DC si è sciolta il 26 luglio 1993, Bettino Craxi è ormai in procinto di lasciare il Paese e, di tanto in tanto, nelle pagine degli interni si legge il nome di un imprenditore televisivo che medita di scendere in politica: Silvio Berlusconi. Il primo novembre è anche nata ufficialmente l’Unione Europea, fino all’altro ieri CEE. Sul fronte economico il Credit è in fase di privatizzazione, la Comit e l’IMI seguono a stretto giro, il Nuovo Pignone è stato ceduto alla General Electric tra proteste e scioperi, la SME è stata spezzettata ed ceduta in parte alla Nestlé. Totale degli introiti: 4.400 miliardi25 , circa il 10% dei 30.000 mld dilapidati un anno prima dalla Bankitalia di Carlo Azeglio Ciampi. Ma l’Italia è più fragile e meno indipendente, più povera e meno industrializzata, come auspicato dall’oligarchia atlantica: la lunga stagione di decadenza, che sta toccando oggi lo zenit, è appena iniziata.

 

Siamo agli albori della Seconda Repubblica: una repubblica infamante, costruita sul fango e sul sangue, sul sacrificio di due fedeli servitori dello Stato come Borsellino e Falcone, sul saccheggio del risparmio degli italiani e delle imprese pubbliche, sull’avvilente sudditanza agli angloamericani, sulla connivenza tra “sinistra” e banchieri, sulla deindustrializzazione, sulla speculazione, sulla rapina e sullo stragismo. Beniamino Andreatta è morto da anni, ma molti protagonisti di questo racconto sono ancora vivi e occupano tuttora posizioni di prestigio e potere: Mario Draghi, Romano Prodi, Giuliano Amato, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Franco Bernabè, etc. etc. Faranno in tempo ad assistere al crollo della loro creatura e, soprattutto, a pagarne le conseguenze.

 

 

Note

1 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/01/19/sono-solo-un-povero-vecchio.html?ref=search

2 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/03/28/andreotti-lei-indagato.html

3 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/03/18/andreotti-insiste-dc-nel-mirino.html?ref=search

4 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/03/31/privatizzazioni-in-frigorifero.html?ref=search

5 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/03/26/troppi-assalti-alla-nave-italia.html?ref=search

6 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/05/20/ecco-chi-freno-le-mie-privatizzazioni.html?ref=search

7 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/04/16/il-bel-paese-dove-il-si-suona.html?ref=search

8 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/04/21/referendum-anno-zero.html?ref=search

9 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/04/16/dopo-amato-addio.html?ref=search

10 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/04/28/ora-fmi-tifa-italia-rivalutate.html?ref=search

11 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/04/28/ora-fmi-tifa-italia-rivalutate.html?ref=search

12 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/05/22/craxi-torna-pronostica-verranno-altre-bombe.html?ref=search

13 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/07/29/per-intera-giornata-decine-di-falsi.html?ref=search

14 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/06/30/dismissioni-si-accelera.html?ref=search

15 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/07/01/lo-stato-padrone-vende-davvero.html?ref=search

16 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/06/03/quella-reggia-sul-mare-romantica-spartana.html?ref=search

17 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/07/25/lo-stato-vende.html?ref=search

18 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/05/11/ruini-difende-la-dc-cristiani-siate.html?ref=search

19 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/07/29/mancino-sempre-lo-stesso-esplosivo.html?ref=search

20 http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/06/25/trattativa-lex-capo-dei-servizi-fulci-la-falange-chiamava-dalle-sedi-sismi-alcuni-007-usavano-esplosivi/1813429/

21 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/08/08/granelli-privatizzate-pure-io-faro-tante-interrogazioni.html?ref=search

22 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/09/16/comit-credit-prodi-spinge-sull-acceleratore.html?ref=search

23 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/10/06/ciampi-ha-fretta-di-vendere.html?ref=search

24 http://www.repubblica.it/online/cronaca/olimpico/olimpico/olimpico.html

25 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/12/30/stato-venditore-primi-conti.html?ref=search

 

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