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23 maggio 2017

 

La strage del politicamente corretto

di Mauro Indelicato

 

A 25 anni esatti dall’attentato di Capaci contro Giovanni Falcone, vien da chiedersi, che fine abbiano fatto i giovani scesi in piazza a Palermo in quei giorni in cui tutte le istituzioni politiche erano di fatto state messe sotto accusa dalla società siciliana.

 

Subito dopo le esplosioni sia di Capaci che di via D’Amelio, oltre alle scene che hanno riguardato i funerali dei giudici Falcone e Borsellino e degli uomini della scorta, da Palermo e dal resto della Sicilia in quei mesi di un quarto di secolo fa sono arrivate anche altre importanti testimonianze che parlavano di una gioventù siciliana in piazza ed in rivolta contro il potere statale, reo di non aver fatto abbastanza per allontanare lo spettro di cosa nostra dall’isola; era stato coniato anche un termine, quello cioè della ‘rivoluzione delle lenzuola’, visto che come simbolo della protesta era stato scelto un lenzuolo bianco da appendere sui balconi con scritte contro la mafia. Ma non solo: proprio ai funerali degli agenti di scorta di Borsellino, presso la Cattedrale di Palermo la folla ha provato ad impedire l’uscita dalla Chiesa del neo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro; sono questi alcuni aneddoti che hanno mostrato una Sicilia scossa, turbata ed in piazza dopo le stragi del 1992. Viene quindi da chiedersi, allo scoccare del venticinquesimo anniversario dalla bomba di Capaci (indicato come ‘l’attenatuni’ in siciliano), che fine ha fatto quella ‘vampata’ di protesta e di importante contestazione interna alla società civile siciliana, la quale forse per la prima volta non ha visto la presenza in strada di vessilli o di bandiere dei partiti politici.

Negli anni successivi, l’attenzione alla lotta ai capimafia è rimasta costante ma subito dopo il 1992 la protesta popolare contro le istituzioni è poi quasi subito scemata: c’è chi attribuisce tutto ciò alla strategia inaugurata da Bennardo Provenzano, leader di cosa nostra dopo la cattura di Totò Riina, che è stata riassunta dal motto ‘Calati juncu ca passa la china’ (Chinati giunco mentre passa la piena); di fatto, la mafia dal 1994 in poi ha evitato qualsiasi deriva stragista preferendo tornare ad un’azione lontana dal clamore mediatico. Questo è vero, ma in parte: non è stata soltanto la nuova strategia della criminalità organizzata a far disperdere quei timidi ma importanti moti di protesta in seno alla società siciliana; i motivi sono da ricercare anche in un mutamento del comportamento dei siciliani dopo il 1992. Per capirlo, bisogna forse guardare uno sketch del duo comico palermitano Ficarra e Picone: i due, improvvisatisi progettisti del Ponte sullo stretto di Messina in un loro spettacolo di inizio anni 2000, hanno amaramente ironizzato sui difetti e sulle ipocrisia odierne dell’isola: “Ma ancora palme nane metti in questo ponte? Ma che pigli un Euro a palma nana?” – chiede Salvo Ficarra a Valentino Picone – “Non dire queste porcate da prima Repubblica – ribatte lo stesso Picone – Noi siciliani siamo cambiati, soprattutto da quando c’hanno spiegato che una cosa pubblica è una cosa di tutti e certe cose non le facciamo più ed i milanesi che c’hanno sempre criticato lo devono capire che siamo diversi”. Il siparietto, si conclude poi con uno sfogo di Ficarra: “Hai l’ossessione dei milanesi tu! Non esistono i milanesi, si sono estinti con i brontosauri!” E’ qui che esce fuori la Sicilia post 1992, ossessionata dal dimostrare che non è più indietro, pervasa da quel senso di presunta arretratezza dal resto d’Italia e dal resto d’Europa che viene considerato di carattere mentale prima ancora che economico.

C’è da premettere però, che non tutta la Sicilia è così: questa Sicilia mix di fatalismo e di ipocrita ostentazione di presunto cambiamento, è la Sicilia dei palazzi, quella cioè abitata da gente agganciata spesso politicamente ai vecchi padroni democristiani ma che non perde occasione di indossare la fascia tricolore e sfilare nelle manifestazioni a ricordo delle vittime di mafia; oppure, quella in cui diversi politici arrivano al potere cavalcando proprio l’onda dell’antimafia, onda che viene sfruttata anche per cercare di mantenere ben stretta la poltrona conquistata. Ma questa è anche la Sicilia dei salotti, spesso frequentati da gente intellettualmente disonesta la cui fama è data da una sfavillante retorica a volte anche ben argomentata, ma utilizzata con l’unico fine di ottenere un applauso e di dimostrare, proprio come il progettista Picone, di essere ‘moderni’ agli occhi degli altri italiani e questa è, soprattutto, anche la Sicilia che mortifica se stessa e che non perde occasione di parlar male di se stessa pur di assecondare l’ossessione di mostrare il proprio affrancamento dal resto dell’isola. Vi è poi, all’interno di questo calderone, una Sicilia fatta di ragazzi e ragazze nati dopo il 1992 dove, la retorica sopra descritta, porta spesso a far sentire loro il ‘peso’ di essere siciliani, fino ad arrivare quasi ad un vero e proprio senso di colpa per l’appartenenza alla comunità dell’isola; tra questi giovani, si formano spesso due categorie che corrispondono ad altrettanti distinti modi di reagire a questa situazione: da un lato, i ragazzi che rimangono in Sicilia e che, pur mossi da nobili sentimenti, cadono in un gigantesco fatalismo circa le sorti dell’isola; dall’altro invece, quelli che emigrano non per necessità (come avveniva negli anni 60) ma solo per assecondare una stupida moda alimentata dal detto ‘Cu nesci arrinesci’ (Chi esce riesce, in siciliano), inculcato spesso dagli stessi genitori o dagli insegnanti.

Ecco, è questa la Sicilia grottesca e tragicomica nata all’indomani della Strage di Capaci, di cui oggi ricorre il venticinquesimo anniversario; è una Sicilia ‘politicamente corretta’, attenta a non spingersi oltre alla dicotomia mafia/antimafia, da cui tutto si origina tanto in politica quanto nel mondo intellettuale ed economico, è un’isola cioè che non riesce a scrollarsi di dosso l’odore acre del tritolo fatto detonare sotto l’autostrada Palermo – Trapani in quel 23 maggio 1992. L’unico modo per cancellare il fumo delle bombe, appare quello di trincerarsi sotto le insegne dell’antimafia, di intitolare vie e piazze a ‘Falcone e Borsellino’, di mettersi al petto medaglie e di urlare al resto dell’Italia che ‘la Sicilia sta cambiando’ e che ‘le giovani generazioni porteranno a termine il lavoro dei magistrati martiri’. Fumo negli occhi, specchietto per le allodole, rappresentazione scenica di una realtà molto lontana, lo si chiami come si vuole ma, dopo il 1992, il teatrino del politicamente corretto ha continuato a corrompere un’isola la cui descrizione con la mera contrapposizione tra mafia ed antimafia appare, per l’appunto, retorica e come tale anche eccessivamente semplificatrice. E’ questa semplificazione, è questa ricerca ossessiva verso tutto ciò che può apparire politicamente corretto che ha di fatto assorbito ed inghiottito quei primi importanti segnali di insofferenza nati dopo le stragi: la Sicilia ha visto mettere alla sbarra tanti boss in questi anni, questo è un positivo dato di fatto, ma il dibattito interno all’isola non può esaurirsi alla documentazione storica dei delitti e dei blitz delle forze dell’ordine né, per l’appunto, alla contrapposizione mafia/antimafia.

Ovviamente, la risposta che è possibile dare a questo teatrino siciliano post 1992, non è quella di non parlare più di mafia, anzi: Falcone e Borsellino hanno avuto il merito di rendere ‘popolare’ la lotta a cosa nostra e questo ha permesso numerosi progressi sia quando i magistrati erano in vita che dopo le stragi. La vera soluzione, per i siciliani, è non lasciare invece il monopolio delle argomentazioni mafia/antimafia alla Sicilia scarna, ipocrita, teatrale e politicamente corretta sopra descritta; anche perché, c’è una parte di isola pronta realmente a ripartire: è quella della provincia profonda, lì dove non mancano visionari siculi del ventunesimo secolo che ritornano dalle città per riscoprire le terre rimaste incolte con l’esplosione dell’edilizia prima e del lavoro terziario poi, è la Sicilia maturata a tal punto da condannare l’industrializzazione del dopo guerra e che tenta di sopravvivere tornando all’agricoltura ed al turismo, è la Sicilia che difende i propri dialetti e le proprie tradizioni dalla scomposta avanzata della modernità. Questa Sicilia, ancora di nicchia ma più dinamica di quanto si possa pensare, sembra essere quella in grado di riprendersi il territorio dopo le stragi di mafia e del politicamente corretto.

 

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