Titolo originale: “The Collapse of the Old Oil Order

Fonte: http://www.countercurrents.org
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03.03.2011


Michael T. Klare è docente di studi sulla pace e sulla sicurezza all’Hampshire College, collabora regolarmente con TomDispatch e l’autore del recente “Rising Powers, Shrinking Planet” (“Potenze emergenti. Come l’energia ridisegna gli equilibri politici mondiali”, Edizioni Ambiente, Milano 2010, ndt). Un film-documentario del suo precedente libro, “Blood and Oil” è disponibile presso la Media Education Foundation


Il circolo vizioso di Michael T. Klare


Il collasso del vecchio ordine petrolifero – Michael T. Klare
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICIOGA

Qualunque sia l’esito delle proteste, sommosse e ribellioni che stanno ora spazzando il Medio Oriente, una cosa è certa: il mondo del petrolio sarà trasformato in maniera definitiva. Dobbiamo considerare tutto ciò che sta accadendo come solo il primo tremore di un terremoto del petrolio, che scuoterà il nostro mondo fin nelle sue parti più profonde.
Per un secolo dalla scoperta del petrolio nel sud-ovest della Persia prima della prima Guerra Mondiale, le potenze occidentali sono ripetutamente intervenute in Medio Oriente per assicurare la sopravvivenza dei governi autoritari dediti alla produzione di petrolio. Senza tali interventi l’espansione delle economie occidentali dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’attuale ricchezza delle società industrializzate sarebbe inconcepibile

Qui, in ogni caso, sono riportate notizie che dovrebbero essere in prima pagina in qualsiasi giornale nel mondo: il vecchio assetto del petrolio sta morendo e con esso vedremo la fine del petrolio accessibile e a buon mercato – per sempre.

La fine dell’età del petrolio

Proviamo a misurare cosa è effettivamente a rischio nel tumulto corrente. Per iniziare, non c’è praticamente alcun modo di rendere piena giustizia al ruolo cruciale svolto dal petrolio del Medio Oriente nell’equazione energetica mondiale. Sebbene l’economico carbone abbia alimentato l’iniziale Rivoluzione Industriale, con le ferrovie, le navi a vapore, le industrie, il petrolio a buon mercato ha reso possibile l’automobile, l’industria aeronautica, i sobborghi, l’agricoltura meccanizzata e l’esplosione della globalizzazione economica. E mentre un pugno delle maggiori aree produttrici di petrolio ha lanciato l’Era del Petrolio – USA, Messico, Venezuela, Romania, l’area attorno a Baku (in ciò che un tempo era l’impero russo zarista) e le Indie orientali olandesi – è stato il Medio Oriente che ha spento la sete mondiale per il petrolio fin dalla Seconda Guerra Mondiale.

Nel 2009, l’anno più recente per cui sono disponibili tali dati, BP ha riferito che i produttori nel Medio Oriente e nel Nord Africa insieme hanno prodotto 29 milioni di barili al giorno, cioè il 36% della fornitura totale mondiale – e persino questo non dà l’idea dell’importanza di tali regioni nell’economia del petrolio. Più di ogni altra zona, il Medio Oriente ha incanalato la sua produzione nei mercati di esportazione per soddisfare le voglie energetiche di potenze importatrici di petrolio come Stati Uniti, Cina, Giappone e l’Unione Europea. Stiamo parlando di 20 milioni di barili esportati ogni giorno. Confrontiamoli ai 7 milioni di barili esportati della Russia, il maggiore singolo produttore mondiale, ai 6 milioni del continente africano e al misero milione del Sud America.

Come succede, i produttori mediorientali saranno persino più importanti nei prossimi anni perché possiedono, secondo stime, i due terzi delle restanti riserve di petrolio non ancora sfruttate. Secondo le recenti proiezioni del Dipartimento di Energia USA, il Medio Oriente e il Nordafrica forniranno insieme approssimativamente il 43% dell’approvvigionamento di petrolio greggio entro il 2035 (rispetto al 37% del 2007) e produrranno persino una quota ancora maggiore del petrolio esportabile mondiale.

Per porre la questione senza mezzi termini: l’economia mondiale richiede un aumento dell’offerta di petrolio a prezzi accessibili. Il Medio Oriente da solo può provvedere a tale fabbisogno. Ecco perché i governi occidentali hanno a lungo appoggiato regimi autoritari “stabili”nella regione, occupando e addestrando le proprie forze di sicurezza. Ora questo invalidante ordine pietrificato, il cui successo più grande è stato produrre petrolio per l’economia mondiale, si sta disintegrando. Non contate su alcun nuovo ordine (o disordine) per fornire abbastanza petrolio a buon mercato per preservare l’Età del Petrolio.

Per capire perché sarà così, è necessaria una piccola lezione di storia.

Il colpo di stato iraniano

Dopo che la Anglo-Persian Oil Company (APOC) scoprì il petrolio in Iran (allora conosciuta come Persia) nel 1908, il governo britannico ha cercato di esercitare un controllo imperialista sullo stato Persiano. A capo di tale impulso c’era il Primo Lord della Marina Winston Churchill. Dopo aver ordinato la conversione dal carbone al petrolio delle navi da guerra britanniche prima della I Guerra Mondiale e aver deciso di porre una significativa fonte di petrolio sotto il controllo di Londra, Churchill orchestrò la nazionalizzazione dell’APOC nel 1914. Alla vigilia della II Guerra Mondiale, l’allora Primo Ministro Churchill curò l’allontanamento dello Shah Reza Pahlavi, vicino alla Germania, e l’ascesa di suo figlio, il 21enne Mohammed Reza Pahlavi.

Sebbene incline a esaltare i suoi (mitici) legami con il passato impero persiano, Mohammed Reza Pahlavi fu un docile strumento degli inglesi. I suoi sudditi, tuttavia, risultarono sempre meno disposti a tollerare l’asservimento ai feudatari imperiali di Londra. Nel 1951, il Primo Ministro Mohammed Mossadeq, democraticamente eletto, si guadagnò il sostegno del parlamento in merito alla nazionalizzazione dell’APOC, che fu ribattezzata Anglo-Iranian Oil Company (AIOC). L’iniziativa fu molto popolare in Iran ma causò panico a Londra. Nel 1953, per salvaguardare il loro gioiello, i leaders britannici cospirarono in modo infame con l’amministrazione del presidente americano Dwight Eisenhower e con la CIA per progettare un colpo di stato per deporre Mossadeq e riportare in Iran lo Shah Pahlavi dal suo esilio a Roma, una storia raccontata recentemente con grande sfarzo da Stephen Kinzer nel suo “All the Shah’s Men” (“Tutti gli uomini dello Shah)”.

Fino alla sua deposizione nel 1979, lo Shah esercitò una dittatura spietata sulla società iraniana, in parte grazie al cospicuo aiuto dell’esercito Usa e della polizia. All’inizio schiacciò la sinistra laica, alleata di Mossadeq, quindi l’opposizione religiosa, guidata dall’esilio dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini. A causa della loro brutale esposizione al carcere e ai proiettili della polizia, forniti dagli Stati Uniti, gli oppositori dello Shah iniziarono a detestare la sua monarchia e Washington in egual misura. Nel 1979, naturalmente, il popolo iraniano scese per le strade, lo Shah fu deposto e l’Ayatollah Khomeini prese il potere.

Molto può essere imparato da questi eventi, che hanno portato all’attuale stallo nelle relazioni tra USA ed Iran. Il punto chiave da capire, però, è che la produzione di petrolio iraniana non si riprese mai dalla rivoluzione del 1979-1980.

Tra il 1973 e il 1979 l’Iran aveva raggiunto una produzione vicina ai sei milioni di barili di petrolio al giorno, una delle maggiori al mondo. Dopo la rivoluzione, l’AIOC (ribattezzata British Petroleum o più tardi semplicemente BP) fu nazionalizzata e di nuovo i manager iraniani si fecero carico della gestione della compagnia. Per punire i nuovi leader iraniani, Washington impose pesanti sanzioni economiche, ostacolando gli sforzi della compagnia per ottenere tecnologia e assistenza straniere. La produzione di petrolio crollò a due milioni di barili al giorno e, persino tre decenni più tardi, si aggirava solo intorno a poco più di quattro milioni di barili al giorno, anche se il paese possiede la seconda più grande riserva mondiale di petrolio dopo l’Arabia Saudita.

I sogni dell’invasore

L’Iraq ha seguito un percorso simile. Sotto Saddam Hussein, la compagnia petrolifera di stato Iraq Petroleum Company (IPC) produceva fino a 2,8 milioni di barili al giorno sino al 1991, quando la Prima Guerra del Golfo contro gli USA e le seguenti sanzioni fecero scendere la produzione a mezzo milione al giorno. Anche se dal 2001 la produzione è di nuovo risalita a circa 2,5 milioni di barili al giorno, non ha mai raggiunto i picchi precedenti. Mentre il Pentagono preparava l’invasione dell’Iraq alla fine del 2002, comunque, insiders dell’amministrazione ed esuli iracheni ben inseriti, parlavano sognanti di una età dell’oro che sarebbe arrivata, in cui le compagnie petrolifere straniere sarebbero state invitate a tornare nel paese, la compagnia statale petrolifera sarebbe stata privatizzata e la produzione avrebbe raggiunto livelli mai visti prima.

Chi può dimenticare lo sforzo che l’amministrazione Bush e i suoi funzionari a Baghdad hanno messo in atto per avverare il loro sogno? Dopo tutto, i primi soldati americani che avevano raggiunto la capitale irachena avevano assicurato l’incolumità del palazzo del Ministero del Petrolio, anche se avevano permesso ai saccheggiatori iracheni di regnare sovrani nel resto della città. Il luogotenente Paul Bremer III, il proconsole poi scelto da Bush per supervisionare la creazione di un nuovo Iraq, portò sul posto un team di dirigenti petroliferi americani per sovrintendere alla privatizzazione dell’industria petrolifera del paese, mentre il Dipartimento per l’Energia degli USA previde fiduciosamente nel maggio 2003 che la produzione irachena sarebbe cresciuta a 3,4 milioni di barili al giorno nel 2005, 4,1 milioni entro il 2010 e 5,6 milioni entro il 2020.

Nulla di tutto ciò è naturalmente accaduto. Per molti iracheni, la decisione degli USA di mettersi immediatamente a capo del Ministero del Petrolio è stata un punto di svolta istantaneo che ha trasformato il possibile sostegno per il rovesciamento di un regime tirannico in rabbia e ostilità. La presa di posizione di Bremer per privatizzare la compagnia petrolifera di stato ha similmente prodotto una feroce reazione nazionalista tra gli ingegneri petroliferi iracheni, che hanno sostanzialmente affondato il piano. Abbastanza presto è scoppiata un’insurrezione sunnita su larga scala. La produzione di petrolio è rapidamente crollata, attestandosi a soli 2 milioni di barili al giorno tra il 2003 e il 2009. Durante il 2010 essa è finalmente tornata a 2,5 milioni di barili – ben lontana da quella sognata di 4,1 milioni di barili.

Non è difficile trarre una conclusione: gli sforzi da parte di stranieri per controllare l’ordine politico in Medio Oriente per il bene della produzione del petrolio genereranno inevitabilmente pressioni compensative il cui risultato sarà una minore produzione. Gli USA e le altre potenze che guardano le insurrezioni, ribellioni e proteste che si accendono attraverso il Medio Oriente dovrebbero infatti essere cauti: qualunque sia la loro volontà politica o religiosa, le popolazioni locali tirano sempre fuori una feroce, appassionata ostilità verso il predominio straniero e, messe alle strette, sceglieranno l’indipendenza e la possibilità di libertà piuttosto che una maggiore produzione di petrolio.

Le esperienze in Iran e Iraq possono non essere paragonate in modo usuale a quelle in Algeria, Bahrain, Egitto, Iraq, Giordania, Libia, Oman, Marocco, Arabia Saudita, Sudan, Tunisia e Yemen. Comunque ognuno di loro (e altri paesi similmente suscettibili di essere coinvolti nei tumulti) mostra alcuni elementi di identico stampo politico autoritario e tutti sono connessi a livello del petrolio. Algeria, Egitto, Iraq, Libia, Oman e Sudan sono produttori di petrolio; Egitto e Giordania difendono oleodotti vitali e, nel caso dell’Egitto, un oleodotto cruciale per il trasporto del petrolio; Bahrain e Yemen come l’Oman occupano punti strategici lungo le maggiori rotte del petrolio. Tutti hanno ricevuto sostanziali aiuti militari dagli USA e/o ospitano importanti basi militari. E, in tutti questi paesi, lo slogan è sempre lo stesso: “Il popolo vuole che il regime cada”.

Due di questi regimi sono già caduti, tre sono traballanti e gli altri sono a rischio. L’impatto sui prezzi mondiali del petrolio è stato rapido e spietato: il 24 febbraio, il prezzo per il greggio North Brent, un punto di riferimento del settore, ha sfiorato i 115 dollari al barile, il prezzo più alto dalla crisi economica dell’ottobre del 2008. Un altro greggio di riferimento, il West Texas Intermediate, ha varcato, per poco e sinistramente, la soglia dei 100 dollari.

Perché i Sauditi sono la chiave

Finora il maggiore produttore mediorientale di petrolio, l’Arabia Saudita, non ha mostrato palesi segni di vulnerabilità, altrimenti i prezzi sarebbero saliti persino di più. Tuttavia, la casa reale del vicino Bahrain è attualmente in guai seri; decine di migliaia di manifestanti – oltre il 20% del suo milione e mezzo di persone – sono scesi più volte per le strade, nonostante le minacce di aprire il fuoco, in un movimento per l’abolizione del governo autocratico del re Hamad ibn Isa al-Khalifa e la sua sostituzione con un governo autenticamente democratico.

Questi sviluppi sono particolarmente preoccupanti per la leadership saudita perché il cambiamento in Bahrain è guidato dalla popolazione sciita, a lungo abusata, contro una radicata élite sunnita al potere. Anche l’Arabia Saudita ha al suo interno – sebbene non come in Bahrain – una popolazione a maggioranza sciita che ha sofferto la discriminazione dai governanti sunniti. C’è la preoccupazione a Riyadh che le manifestazioni esplose in Bahrain possano diffondersi nell’adiacente e ricca provincia dell’Arabia Saudita – l’unica area dove gli sciiti formano la maggioranza -, diventando una grossa minaccia per il regime. In parte per prevenire ogni ribellione da parte dei giovani, il vecchio re 87enne Abdullah ha appena promesso 10 miliardi di dollari, che sono parte di un pacchetto di 36 miliardi di sovvenzioni per aiutare i giovani cittadini sauditi a sposarsi e ottenere case e appartamenti.

Anche se la ribellione non arriverà in Arabia Saudita, il vecchio ordine del petrolio del Medio Oriente non potrà essere ricostruito. Il risultato è sicuramente un declino di lungo termine nelle disponibilità future di petrolio esportabile.

Tre quarti degli 1,7 milioni di barili di petrolio che la Libia produce al giorno sono stati rapidamente ritirati dal mercato non appena le agitazioni sono iniziate. Gran parte di esso può rimanere fuori dal mercato per un tempo indefinito. Egitto e Tunisia si attende che ripristino presto la produzione, modesta in entrambi i paesi, ai livelli precedenti alle manifestazioni, ma è improbabile che abbraccino l’idea delle grandi joint-ventures con imprese straniere che potrebbero aumentare la produzione, indebolendo il controllo locale. L’Iraq, la cui maggiore raffineria è stata gravemente danneggiata dai ribelli la scorsa settimana, e l’Iran non mostrano segni di poter incrementare significativamente la produzione nei prossimi anni.

Il giocatore cruciale è l’Arabia Saudita, che ha appena aumentato la produzione per compensare le perdite libiche sul mercato globale. Ma non aspettiamoci che questo duri per sempre. Supponendo che la famiglia reale sopravviva all’attuale ciclo di sconvolgimenti, dovrà deviare la maggior parte della sua produzione giornaliera per soddisfare il crescente consumo interno e di carburante per le locali industrie petrolchimiche che potrebbero soddisfare una popolazione in rapida crescita, inquieta con impieghi meglio retribuiti.

Dal 2005 al 2009 i sauditi hanno consumato circa 2,3 milioni di barili al giorno, lasciandone 8,3 milioni per l’esportazione. Solo se l’Arabia Saudita continuerà a fornire almeno tale quantità ai mercati internazionali, il mondo potrebbe persino soddisfare i suoi bisogni previsti di petrolio a buon prezzo. Questo non è probabile che si verifichi. I reali sauditi hanno espresso riluttanza per aumentare la produzione molto al di sopra dei 10 milioni di barili al giorno, temendo danni ai loro settori rimanenti e quindi un calo nei profitti futuri per la loro numerosa stirpe. Allo stesso tempo, l’aumento della richiesta interna si prevede che consumerà una sempre crescente quota della produzione netta del paese. Nell’aprile 2010 l’amministratore delegato della compagnia di stato Aramco, Khalid al-Fahlil aveva previsto che il consumo interno potrebbe raggiungere l’incredibile cifra di 8,3 milioni di barili al giorno entro il 2028, lasciando soltanto pochi milioni di barili per l’esportazione, con la garanzia che, se il pianeta non rivolgerà l’attenzione ad altre fonti energetiche, ci sarà fame di petrolio.

In altre parole, se si traccia una traiettoria ragionevole dagli sviluppi attuali nel Medio Oriente, essa è già con le spalle al muro. Dato che nessuna area è capace di rimpiazzare il Medio Oriente come primo produttore mondiale di petrolio, l’economia stessa del petrolio deperirà – e con essa l’economia mondiale nel suo complesso.

Dobbiamo considerare il recente aumento dei prezzi del petrolio come solo un lieve tremore che annuncia un terremoto petrolifero prossimo a venire. Il petrolio non sparirà dai mercati internazionali, ma nei prossimi decenni non raggiungerà mai i volumi necessari a soddisfare la domanda mondiale prevista e ciò significa che, più presto che tardi, la scarsità sarà la condizione dominante dei mercati. Solo il rapido sviluppo di fonti energetiche alternative e una drammatica riduzione nel consumo di petrolio potrebbe risparmiare al mondo le più gravi ripercussioni economiche.

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Internazionale, numero 891
1 aprile 2011

Il circolo vizioso
di Michael T. Klare
Traduzione di Giusi Muzzopappa.

Il prezzo dei prodotti alimentari dipende fortemente da quello del petrolio. Non si può risolvere la crisi attuale senza ridurre e razionalizzare i consumi energetici.

Quando in futuro gli storici cercheranno di capire le cause delle rivolte del 2011 in Nordafrica e Medio Oriente, scopriranno che una delle prime proteste, quella in Algeria, è legata al rincaro dei prezzi dei generi alimentari. Il 5 gennaio 2011 alcuni gruppi di giovani hanno protestato ad Algeri, Orano e in altre grandi città contro l’aumento dei prezzi, bloccando le strade, assaltando le caserme della polizia e incendiando i negozi. Certo, la loro rabbia è stata alimentata anche da altri problemi, come la disoccupazione, la corruzione e la carenza di abitazioni, ma il primo impulso è arrivato dal costo eccessivo dei generi alimentari.

Man mano che l’epicentro delle proteste giovanili si spostava altrove, prima in Tunisia, poi in Egitto e quindi in Medio Oriente, quest’argomento è passato in secondo piano rispetto a richieste politiche più esplicite, ma non è mai sparito del tutto. Anzi, è rimasto il tema al centro delle proteste in Giordania, Sudan e Yemen. E ora che i prezzi dei generi di prima necessità continuano a crescere, in parte a causa dell’aumento del prezzo del petrolio, le proteste non potranno che moltiplicarsi.

La rivolta degli esclusi
La questione dei prezzi dei generi alimentari è molto sentita in Medio Oriente perché la maggioranza delle persone è stata esclusa dall’enorme ricchezza accumulata da parenti e amici dei tiranni al potere in tutti questi anni. Un altro motivo è che i generi alimentari incidono pesantemente sul bilancio delle famiglie: quando i prezzi aumentano, com’è successo negli ultimi sei mesi (in alcuni casi fino al 50 per cento), le famiglie che già prima stentavano a far quadrare i conti precipitano in condizioni di povertà estrema. “Il governo ci sta umiliando”, ha detto un giovane manifestante ad Algeri: “Hanno aumentato il prezzo dello zucchero e dobbiamo pagare l’affitto, l’elettricità, l’acqua e la benzina. Siamo diventati tutti poveri”.

Un aspetto paradossale è che molti di questi paesi sono produttori di petrolio, e quindi gli ultimi rialzi del prezzo del greggio hanno fatto aumentare in modo consistente le loro entrate. Tralasciando il fatto che solo un’élite approfitta dei benefici garantiti dal petrolio (di solito i petrodollari spariscono nei conti esteri delle famiglie al potere), il rialzo del prezzo del greggio peggiora le condizioni di vita della popolazione perché fa crescere i prezzi dei generi alimentari.

Nel tentativo di aumentare i raccolti per nutrire una popolazione mondiale in continua crescita, gli agricoltori hanno sviluppato una dipendenza sempre maggiore dal petrolio, ormai indispensabile nelle attività più essenziali. Questa tendenza è cominciata con la meccanizzazione dell’agricoltura dopo la seconda guerra mondiale e con la rivoluzione verde degli anni sessanta e settanta. Ed è proseguita con l’introduzione degli organismi geneticamente modificati e con la proliferazione delle “fattorie-fabbrica” gestite dalle grandi multinazionali. Il petrolio fa funzionare i macchinari agricoli e i veicoli che trasportano i prodotti fino ai mercati ed è impiegato come materia prima nella produzione dei pesticidi, degli erbicidi e dei fertilizzanti artificiali usati nell’agricoltura moderna. Ecco perché qualsiasi aumento del prezzo del petrolio si traduce in un aumento del costo di produzione del cibo.

Il legame tra cibo e petrolio è diventato molto evidente nel 2007-2008, quando i prezzi del greggio e quelli dei generi alimentari hanno raggiunto livelli record, contribuendo alla recessione dei mesi successivi. Tra il luglio del 2007 e il giugno del 2008 il prezzo del greggio è aumentato dell’87 per cento, da 75 a 140 dollari al barile. Nello stesso periodo sono schizzati verso l’alto anche i prezzi dei generi alimentari di base: da 160 a 225 dollari secondo l’indice dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), per gli alimenti di base che nel 2002-2004 costavano in media 100 dollari.

Nel 2009 anche la Banca mondiale ha confermato questo legame, dal momento che “la produzione agricola è abbastanza intensiva da un punto di vista energetico”. Secondo la Banca mondiale, l’aumento dei prezzi del petrolio “ha provocato un rincaro del carburante necessario al funzionamento dei macchinari e dei sistemi d’irrigazione. Inoltre ha fatto aumentare il prezzo dei fertilizzanti e di altre sostanze chimiche che richiedono molto energia per essere prodotte”.

Cibo o carburante?
Come se non bastasse, l’aumento del prezzo del petrolio, combinato con la lotta dei governi di tutto il mondo contro il riscaldamento globale, ha incentivato l’impiego di alcune piante per produrre biocarburanti invece che cibo. Questo ha inevitabilmente contribuito a innalzare i prezzi dei generi alimentari.

Secondo le stime della Banca mondiale, ogni volta che il petrolio supera i 50 dollari al barile, un aumento dell’1 per cento si traduce in un rincaro dello 0,9 per cento del prezzo del mais, “perché ogni aumento di un dollaro del prezzo del petrolio aumenta il margine di profitto dell’etanolo e, di conseguenza, la richiesta di mais per la produzione di biocarburante”. Non bisogna stupirsi, quindi, se negli ultimi sei anni l’aumento della produzione mondiale di mais sia stato assorbito per due terzi dalla crescente richiesta di biocarburante negli Stati Uniti, lasciando poco spazio per soddisfare la domanda mondiale di cibo e di mangime.

L’impennata dei prezzi nel 2008 ha provocato disordini in molti paesi, tra cui Egitto, Haiti e Pakistan. L’anno dopo, nel tentativo di evitare altre rivolte, i paesi del G8 si sono impegnati a devolvere venti miliardi di dollari in tre anni a favore dell’agricoltura nei paesi in via di sviluppo. Finora, tuttavia, è stato erogato meno di un ventesimo di quella somma ed è stato fatto poco per aumentare la produzione mondiale di generi alimentari. E ora, con la nuova impennata dei prezzi del petrolio, è probabile che i prezzi battano i record precedenti, facendo aumentare il rischio di nuovi disordini in tutto il mondo.

Ci troviamo in effetti davanti a un circolo vizioso: il prezzo del petrolio fa salire quello dei generi alimentari; a sua volta il rincaro del cibo provoca disordini politici nei paesi produttori di petrolio, che di conseguenza spingono ancora più in alto i prezzi del greggio e quindi quelli dei generi alimentari.

Questa spirale è accelerata dall’effetto dei cambiamenti climatici. È vero che non si può attribuire un particolare evento meteorologico al riscaldamento globale, ma la crescente frequenza e intensità di eventi gravi, tra cui la disastrosa siccità della scorsa estate in Russia e Ucraina, le recenti inondazioni in Australia e la siccità che ha colpito il nord della Cina, sono coerenti con i modelli elaborati per descrivere gli effetti dei cambiamenti climatici. Questi eventi hanno colpito aree importanti per la produzione di grano, alimentando i timori sull’adeguatezza delle scorte e causando ulteriori rincari dei generi alimentari.

Ultima analisi
La rabbia provocata dal costo eccessivo del cibo può anche passare in secondo piano rispetto alle preoccupazioni di carattere politico nelle recenti rivolte in Nordafrica e Medio Oriente. Ma i prezzi del cibo non sono mai stati così alti da quando, vent’anni fa, la Fao ha cominciato a calcolare il suo indice. E ora gli esperti prevedono un peggioramento dovuto all’impennata del petrolio. Data la gravità della situazione, gli appelli lanciati nel 2009 dal G8 per un miglioramento della produzione agricola nei paesi in via di sviluppo sono ancora più urgenti. Lo stesso vale per la richiesta di misure che aumentino la disponibilità e l’accessibilità dei generi alimentari di prima necessità.

Tutto però dipende in ultima analisi dal petrolio. Per riuscire ad abbassare i prezzi di cibo e carburante, dobbiamo innanzitutto ridurre sensibilmente il consumo di prodotti petroliferi e rallentare il processo di riscaldamento globale. Inoltre bisogna finirla una volta per tutte di sostenere dittatori che fondano il loro potere sul petrolio.

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