"Che Fine Ha Fatto lo Stato-Nazione"
di Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak

Meltemi, Roma 2009

Tratto dal sito www.tecalibri.it


Judith ButlerGayatri Chakravorty Spivak

Da p. 7.

Introduzione di Ambra Pirri
"In principio c'era il Mondo, unico e intero; adesso giace in pezzi, frammentato e diviso in piccole nazioni e sebbene la nazione sia stata inventata, o immaginata come esistente, solo in Europa nel XIX secolo, e' stata da allora la causa di inimmaginabili conflitti e sofferenze" (Arish Trivedi, The Nation across the World)
Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak, due tra le piu' influenti studiose femministe, dialogano insieme dello stato-nazione e del significato che ha l'appartenenza allo stato-nazione in un mondo ormai globalizzato; ma discutono anche - e forse soprattutto - di cosa significhi essere senza stato.
L'occasione e' un seminario su "Lo stato globale" organizzato nel maggio del 2007 dall'Universita' della California a Irvine, ma le due accademiche - oltre ad affrontare problemi di carattere teorico - trasformano il confronto pubblico in un'occasione politica.
L'11 settembre 2001 gli Stati Uniti, colpiti al cuore, scoprono la propria vulnerabilita' e decidono di lanciare la loro guerra preventiva per non lasciare dubbi su chi ancora detenga il potere economico, politico e militare nel mondo; ma non e' solo all'esterno, contro il nemico terrorista ovunque esso si annidi, che la politica securitaria di George W. Bush colpisce; anche sul fronte interno ingaggia quella che Appadurai ha definito una "furiosa battaglia contro i migranti clandestini (...) e qualunque tipo di dissenso" (2002, p. 107).
Spivak e Butler, fortemente contrarie alla politica di Bush, ne hanno discusso pubblicamente e a piu' riprese con i loro interventi durante tutta la sua presidenza, proprio come fanno in questo dialogo, in cui affrontano il problema dell'immigrazione non autorizzata e analizzano i modi in cui i migranti hanno lottato per essere riconosciuti. Esattamente un anno prima che le due studiose si incontrassero a Irvine, i latinos provenienti illegalmente dal Messico e dal centro-America avevano attraversato le strade delle principali citta' della California --San Francisco, Los Angeles, San Diego - al grido di "somos equales" e cantando in spagnolo l'inno nazionale degli Stati Uniti; le lotte si erano poi estese agli stati vicini, il Nevada, l'Arizona, fino a raggiungere lo stato di New York. Gli "illegal aliens" (stranieri illegali), come li chiamano negli Stati Uniti, non solo si dichiarano eguali ma, come sottolinea Butler, mettono al centro "l'interessante problema della pluralita' della nazione", del "noi" e del "nostro": a chi appartiene "el nuestro hymno"? (vedi infra, p. 60).
Molte cose sono cambiate negli Usa da quando, alla fine del 2007, e' stato pubblicato questo dialogo; scriveva Butler ancora nel luglio del 2003 nella prefazione a Vite precarie (2004, p. 9): "Nell'autunno del 2001 mi resi conto che gli Stati Uniti stavano perdendo l'occasione di ridefinirsi in quanto membri di una comunita' globale e che, anzi, cominciavano a consolidare discorsi nazionalisti, a estendere meccanismi di sorveglianza, a sospendere i diritti costituzionali e, infine, a sviluppare forme implicite ed esplicite di censura. Il susseguirsi di questi eventi, da un lato, ha visto vacillare l'impegno pubblico degli intellettuali verso principi di giustizia e, dall'altro, ha indotto i giornalisti ad abbandonare la celebre tradizione del giornalismo investigativo".
I problemi che le due studiose affrontano in questo dialogo e su cui si interrogano, proprio come le parole di Butler che ho appena citato, oggi - dopo l'elezione di Barack Obama - sono paradossalmente piu' interessanti per noi che per loro. Ancora non sappiamo come si comportera' Obama con gli "illegal aliens", sappiamo pero' che fin dal suo insediamento il primo presidente nero degli Stati Uniti ha ricordato al suo popolo e al mondo intero che gli Usa sono una nazione di migranti, che i movimenti e gli scambi tra i popoli sono alla base della civilta' e che, quale che sia la loro provenienza iniziale, nessun gruppo deve avere il sopravvento sugli altri. Ma prima di affrontare il problema dei migranti, il problema cioe' dei "nostri altri" coloro sui quali - o contro i quali - stiamo costruendo e confermando la nostra confusa identita' europea e sulla cui sorte l'Occidente rischia di giocarsi il suo futuro di democrazia e stabilita', vorrei soffermarmi su Spivak e su Butler. (...)
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Da p. 31
- Judith Butler: Perche' stiamo mettendo insieme letteratura comparata e stati globali? Le studiose, gli studiosi di letteratura cosa hanno a che fare con gli stati globali? Siamo, e' ovvio, catturati dalle parole. In quale stato siamo quando ci poniamo queste domande sugli stati globali? E quali stati intendiamo? Gli stati sono indiscutibili "loci" di potere, ma lo stato non e' tutto il potere possibile. Lo stato non e' sempre lo stato-nazione. Per esempio, abbiamo stati non-nazionali, e abbiamo stati di sicurezza che contestano attivamente la base nazionale dello stato. Ecco che il termine stato puo' gia' essere dissociato dal termine "nazione" e i due possono essere messi insieme in modo approssimativo attraverso un trattino, ma che lavoro fa il trattino? Il trattino fa un gioco di finezza con una relazione che ha bisogno di essere spiegata? Indica una certa saldatura che e' storicamente accaduta? Suggerisce una fallibilita' al cuore della relazione?
Lo stato in cui siamo quando facciamo queste domande puo' avere o puo' non avere a che fare con lo stato in cui siamo. In che modo, dunque, capiamo questo insieme di condizioni e di disposizioni che influiscono sullo "stato in cui siamo" (che puo', dopo tutto, essere uno stato mentale) rispetto allo "stato" in cui siamo se e quando possediamo diritti di cittadinanza o quando lo stato funziona come il domicilio provvisorio del nostro lavoro? Se ci soffermiamo per un momento sul significato di "stati" come le "condizioni in cui ci troviamo", allora sembra che alludiamo al momento della scrittura stessa o forse persino a una certa condizione di turbamento, di vago malessere: in quale tipo di stato siamo quando cominciamo a pensare allo stato?
Lo stato significa le strutture legali e istituzionali che delimitano un certo territorio (anche se non tutte queste strutture istituzionali appartengono all'apparato dello stato). Di conseguenza, si deve supporre che lo stato funzioni da matrice per gli obblighi e le prerogative della cittadinanza. E' cio' che costituisce le condizioni da cui siamo giuridicamente vincolati. Potremmo aspettarci che lo stato presupponga almeno una soglia minima di appartenenza giuridica, ma dal momento che lo stato puo' essere precisamente cio' che espelle e sospende i modi di protezione legale e i suoi obblighi, esso puo' metterci, puo' mettere alcuni di noi, proprio in un certo stato. Puo' significare la fonte della non-appartenenza, persino produrre quella non-appartenenza come uno stato quasi permanente. Lo stato, allora, ci fa stare di malumore o, addirittura, ci rende inadeguati e furiosi. Ecco perche' ha senso sottolineare che al cuore di questo "stato" - che comprende sia gli aspetti giuridici della vita sia tutti gli altri - si e' prodotta una certa tensione tra modi di essere o stati mentali, costellazioni della mente temporanee o provvisorie di un tipo o di un altro, e insiemi giuridici e militari che governano i modi e i luoghi in cui possiamo muoverci, associarci, lavorare e parlare.
Se lo stato e' cio' che "lega", chiaramente e' anche cio' che puo' di fatto slegare. E se lo stato lega in nome della nazione, evocando con la forza, se non con la potenza, una certa versione della nazione, poi anche slega, rilascia, espelle, bandisce. E se fa quest'ultima cosa, non sempre la fa con strumenti emancipatori, cioe' "lasciando andare" o "liberando"; espelle esercitando proprio un potere che si serve di barriere e di prigioni e, dunque, con la modalita' di un contenimento certo. Noi non siamo fuori dalla politica quando veniamo spossessati in tali maniere. Piuttosto, veniamo depositati in una situazione densa di potere militare in cui le funzioni giuridiche diventano la prerogativa dei militari. Questa non e' la nuda vita, ma una particolare formazione di potere e di coercizione concepita per produrre e per mantenere la condizione, lo stato di spossessato. Cosa vuol dire essere allo stesso tempo contenuti e spossessati dallo stato? E cosa vuol dire non essere contenuti dallo stato o essere discontinui rispetto allo stato, consegnati ad altre forme di potere che possono o meno avere caratteristiche simili a quelle dello stato? Non e' sufficiente considerare come una sorta di definizione stipulativa il fatto che il rifugiato appartenga a delle popolazioni che si muovono tra stati giuridici esistenti e autonomi. Quando e dove un "rifugiato" viene espulso da uno stato, o viene di forza spossessato in qualche altra maniera, spesso non ha alcun luogo in cui andare e, anche se arriva da qualche parte, e' solo in transito: puo' trovarsi all'interno dei confini di un dato stato ma, per l'appunto, non come cittadino; viene dunque ricevuto, per cosi' dire, a condizione di non appartenere a quell'insieme di vincoli e di prerogative giuridiche che stipulano la cittadinanza o, se e' il caso, di appartenervi solo in maniera differenziale e selettiva. Potrebbe sembrare che costui attraversi una frontiera e arrivi in un altro stato, ma e' a questo punto che noi non sappiamo se lo stato in cui arriva sia caratterizzato dal suo potere giuridico e militare e dai suoi modi di appartenenza nazionale stipulati sotto la rubrica di cittadino, o da un certo insieme di disposizioni che caratterizzano il modo della non-appartenenza in quanto tale. E anche se il rifugiato arriva necessariamente da qualche parte (possiamo vedere che siamo gia' in una sorta di narrativa di viaggio distopica), non si tratta di un altro stato-nazione, di un altro modo di appartenenza; potrebbe trattarsi di Guantanamo, dove non c'e' stato (anche se un potere dello stato, delegato, controlla e terrorizza il territorio in cui i suoi abitanti vivono), o potrebbe trattarsi di Gaza, descritta a proposito come "una prigione all'aria aperta".
In casi simili, il trasferimento di una popolazione fuori dallo stato e' difficile da descrivere, dal momento che puo' ben succedere che il trasferimento o l'espulsione serva a fondare uno stato, come accadde nel giorno di Nagbal nel 1948. E puo' succedere, come abbiamo visto nel caso dell'Afghanistan e dell'Iraq, che le popolazioni fuggano da uno stato di guerra, un differente tipo di stato rispetto a quello che concepiamo come luogo di diritti e doveri, di prerogative e di protezioni giuridiche.
Cio' che vorrei suggerire e' che non possiamo presumere un movimento da uno stato stabilito a uno stato di privazione metafisica; questi movimenti sono piu' complessi e richiedono un tipo di descrizione differente. Solo uno di questi e' descritto dall'atto di sovranita' attraverso cui le protezioni costituzionali vengono ritirate e sospese. Si puo' essere privati di tali protezioni in modi diversi, e non e' sempre possibile supporre che tali protezioni fossero intatte prima di una tale privazione. Per di piu', le popolazioni che stiamo tentando di descrivere, coloro che sono effettivamente diventati senza-stato, sono ancora sotto il controllo del potere dello stato. In questa maniera, costoro sono privati della protezione legale ma non sono in alcun modo relegati alla "nuda vita": la loro e' una vita immersa nel potere. Il che ci ricorda, in modo cruciale, che il potere non e' la stessa cosa della legge.
Noi tendiamo a descrivere l'essere senza-stato attraverso certe procedure narrative e tropologiche. Per esempio, una cosa e' essere privati del politico ed essere "riportati" a uno stato di Natura (che costituirebbe ancora un'altra sensazione rispetto al tipo di "stato" in cui ci potremmo trovare), ma cio' equivarrebbe - per l'appunto - a essere privi di una collocazione riconoscibile. Talvolta e' vero che le popolazioni arrestate e deportate a causa delle guerre in Afghanistan e in Iraq sono state imprigionate con la forza in luoghi sconosciuti; sarebbe pero' importante distinguere tra la sensazione imposta e forzata di essere privi di un posto - una forma estrema di spossessamento - e le deliberazioni protocollari che stabiliscono e sorvegliano le barriere e le celle della prigione extra-territoriale, e che coincidono con le trasformazioni del potere dello stato. Questo, a sua volta, nell'agire fuori dal dominio territoriale stabilito della sua sovranita', materializza la propria sovranita' in quanto Impero.
Nessuno e' mai ritornato alla nuda vita, quale che sia il grado di destituzione della sua situazione, perche' c'e' un insieme di poteri che producono e mantengono questa situazione di destituzione, spossessamento e dislocamento, che generano proprio questa sensazione di non sapere dove si e' e se ci sara' mai un altro posto in cui andare o essere. Dire che coloro che sono imprigionati sono "ridotti" a elementi basilari e' esatto - questi sono i compiti e le pratiche, rese pubbliche, della tortura militare. Ma sembra necessario scandagliare questo paradosso: la riduzione e la spoliazione del prigioniero, specialmente del prigioniero di guerra, sono uno stato prodotto attivamente, mantenuto, reiterato e monitorato da un dominio di potere complesso e violento, non esclusivamente l'atto di un sovrano o la trasformazione di un potere sovrano. Dopo tutto, la condizione di possibilita' di tali prigioni extra-territoriali e' che sfuggono alle condizioni territoriali della sovranita' e del costituzionalismo in quanto tali: o, piuttosto, esse sono precisamente modi per sostenere tali dichiarazioni. E tuttavia, anche se gli ufficiali di governo che parlano con i media hanno la possibilita' di giustificare simili istituzioni grazie a espressioni di-tipo-sovrano, questo non vuol dire che la sovranita' sia sufficiente a descrivere completamente l'operazione di potere al lavoro all'interno di questi complessi carcerari.
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Da p. 66
- Gayatri Chakravorty Spivak: No, e' assolutamente affascinante. Io cito Kant e tu citi Hegel. Questa e' la differenza.
- Judith Butler: Anche se ho avuto piu' interesse per Kant negli ultimi tempi.
- Gayatri Chakravorty Spivak: Io continuo ad avere interesse per Hegel, sono una marxista. E per la verita' Arendt mi piace abbastanza. Ovviamente non appartiene alla nostra contemporaneita'. Ma, d'altra parte, sta davvero tentando di misurarsi con la sua situazione. Ci sono molte cose di cui parla che fanno proprio vibrare una corda profonda. Per esempio, lei vede chiaramente l'evidenza di molte nazionalita' all'interno di un singolo stato. Infine, parla degli ebrei ma in realta' sta scrivendo dell'Europa dell'Est e di quella centrale. Scrive molto della Cecoslovacchia e delle differenti nazionalita' all'interno di quello stesso stato. Vede lo stato come una struttura astratta. Quando l'inno nazionale degli Stati Uniti viene cantato in spagnolo nelle strade di San Francisco, ecco di che cosa parlerebbe lei - del fatto che il collegamento tra lo stato Usa e una putativa nazione americana (quel che Samuel Huntington chiamerebbe il Credo americano) e' qualcosa di storicamente limitato, con un futuro limitato. Non parla degli ottomani quando parla di uno stato con diverse nazionalita'. Come ho scritto altrove, quando Stalin fa i suoi discorsi sul colonialismo comincia prima del 1917. Parlando al Bund proprio delle differenti nazionalita' all'interno dello stesso stato, dice: "Guardate, vi daremo privilegi nazionali all'interno dello stesso sistema statale dei Soviet". Dopo il 1917, e' piu' un'offerta di autonomia culturale.
Tu [Judith] hai parlato in modo eloquente, con passione teorica, delle implicazioni dell'essere senza stato in California. Anche a New York c'e' una richiesta di porre fine all'idea degli stranieri illegali attraverso la richiesta stessa. Tuttavia, se guardiamo al passato, dobbiamo notare che, nonostante Arendt menzioni la rivoluzione francese, non menziona gli ottomani. Anche se deve registrare il fatto che il numero degli armeni e' superiore a qualunque altro numero con cui lei abbia a che fare. La sua preveggenza avrebbe dovuto includere le conversazioni che hanno luogo oggi e che riguardano la risoluzione dei conflitti etnici nel Caucaso. Nell'Europa orientale, la memoria degli ottomani e' ancora viva. Ma la Bulgaria, per 500 anni sotto il governo ottomano e, a rigor di termini, per 41 anni sotto l'egemonia sovietica, sta negoziando la postcolonialita' come postcomunismo. Il Caucaso del sud oggi porta il pesante fardello del dislocamento interno (l'essere-senza-stato) e dell'intervento militare come risultato del gioco tra gli imperi multi-etnici degli ottomani e dei russi.
Volevo mostrare questo angolo buio prima di tornare agli Stati Uniti. Io sono fortemente d'accordo con Judith che il fatto di cantare un inno nazionale non porti con se' la promessa performativa di questo nuovo modo di pensare ai diritti a venire. Quel che e' importante ricordare, attraverso situazioni piu' o meno favorevoli, e' che l'inno nazionale, incidentalmente a differenza dell'Internazionale (o di "We shall overcome"), e', in linea di principio, intraducibile.
L'inno nazionale dell'India fu scritto in bengali, che e' la mia lingua materna e una delle maggiori lingue dell'India. Deve essere cantato in hindi senza nessun cambiamento nella grammatica o nel vocabolario. Deve essere cantato in hindi poiche', come insiste Bush, l'inno nazionale deve essere cantato nella lingua nazionale. Nessuna traduzione in quel caso. Quando l'inno nazionale indiano viene cantato, alcuni bengalesi cantano ad alta voce con una pronuncia bengali e un accento che e' distintamente differente dalla pronuncia e dall'accento hindi, ma l'inno rimane hindi, anche se e' bengali. Lo stato-nazione richiede la lingua nazionale.
L'inno menziona numerosi luoghi con differenti nazionalita', differenti lingue e, talvolta, differenti alfabeti. Due differenti famiglie linguistiche, alcune indo-europee, alcune dravidiche nella struttura come le lingue agglutinative finno-ugriche. L'inno menziona anche sette religioni. Attenzione, questa non e' la situazione delle migrazioni postcoloniali in Europa o delle immigrazioni post-Illuminismo negli Stati Uniti. Queste sono formazioni piu' vecchie. Tuttavia, la lingua dell'inno non puo' essere negoziata. Arendt teorizzo' l'essere senza-stato ma non pote' teorizzare il desiderio di cittadinanza.
Quando Arendt parla di questi luoghi dell'Europa orientale e dell'Europa centrale, delle attivita' dell'impero russo e dell'impero asburgico, prova ripetutamente a dire che le minoranze venivano trattate come se fossero colonizzate. Questo e' un punto importante, forte, nel contesto degli stati globali oggi. Se tu riterritorializzi Hannah Arendt al di fuori della situazione del 1951 e dei diritti dell'uomo, ti rendi conto che l'esperimento dello stato-nazione - che suggerisce che sia la nazione a organizzare lo stato moderno - ha poco piu' di un secolo e non ha realmente avuto successo. Arendt dice che la sua disintegrazione, abbastanza curiosamente, comincio' proprio nel momento in cui il diritto all'autodeterminazione nazionale venne riconosciuto per tutta l'Europa, e la supremazia della volonta' della nazione sopra tutte le istituzioni legali e astratte - che e' lo stato - venne universalmente accettata. La nazione vinse sullo stato, per cosi' dire.
Oggi stiamo assistendo al declino dello stato-nazione nella globalizzazione. Ma il punto che dobbiamo sottolineare e' che la sua forza genealogica e' ancora solida. In generale, il declino e' un risultato della ristrutturazione economica e politica dello stato nell'interesse del capitale globale. Ma Arendt ci permette di realizzare che cio' potrebbe anche accadere perche' lo stato-nazione come forma era difettoso fin dall'inizio. Mentre una varieta' di programmi di unificazione stile stato-nazione collassano intorno a noi, quel che emerge e' il vecchio miscuglio multi-etnico. Ci sono gli stati dell'Europa centrale e orientale, i Balcani e il Caucaso. Emergenti sono anche l'India e la Cina. Smisurati stati con molte "nazionalita'" che non possono essere pensati come stati-nazione in senso arendtiano. Tuttavia, a dispetto del carattere post-nazionale del capitale globale, la struttura politica astratta e' ancora situata nello stato. Gli Stati Uniti hanno generato una qualche struttura postnazionate, combattiva, che complica il problema.
In un simile mondo, il femminismo globale potrebbe cercare di reinventare lo stato come struttura astratta con uno sforzo persistente di tenerlo libero da nazionalismi e da fascismi. Infatti, quando si canta l'inno nazionale in spagnolo, e' a queste astratte strutture che si fanno delle rivendicazioni. Come insisteva Judith, il modo di questa rivendicazione e' performativo e utopico. Ma che tipo di utopia rivendica? Il punto, qui, e' di opporsi al capitalismo senza regole, non di trovare lineamenti di utopia in un'appartenenza non-esaminata allo stato capitalista. La reinvenzione dello stato va al di la' dello stato-nazione fin dentro i regionalismi critici. Queste aree poliglotte e questi grandi stati sono di un modello differente. Hannah Arendt, parlando di questi subito dopo la seconda guerra mondiale, poteva pensarvi solo come a un problema.
Noi, in una congiuntura differente, possiamo almeno pensare a delle soluzioni. Forse bisognerebbe rifare i confini nazionali, abbastanza recenti, e pensare a giurisdizioni transnazionali. La risoluzione dei conflitti senza la tutela della pace internazionale lo richiede proprio allo scopo di combattere quel che e' accaduto sotto la globalizzazione. Noi pensiamo al declino dello stato-nazione come a un dislocamento all'interno delle strutture astratte del welfare che si muovono verso un regionalismo critico che combatta il capitalismo globale. Hannah Arendt pensa al capitalismo in termini di classe piuttosto che di capitale. Abbiamo bisogno di capire il ruolo determinante di qualcosa che non e' ne' nazionale ne' determinato dallo stato. Questo e' il capitale e Arendt non pensa a questo.
Proviamo a considerare per un momento cosa fa il capitale che globalizza. Proviamo anche a ricordare che il movimento del capitale per divenire globale, che e' una caratteristica inerente al capitale, e che oggi puo' accadere per ragioni di carattere tecnologico, non e' interamente correlato agli stati-nazione o alla cattiva politica. A causa di questa spinta, vengono rimosse le barriere tra le fragili economie di stato e il capitale internazionale. E, di conseguenza, lo stato perde il suo potere redistributivo.
Le priorita' diventano globali piuttosto che essere in relazione allo stato. Noi adesso abbiamo lo stato manageriale sul modello del libero mercato. Galbraith ebbe il buon senso, molto tempo fa, di indicare alla gente che il cosiddetto libero mercato era profondamente regolato dall'interesse del capitale. Quando questi stati manageriali lavorano con queste priorita' regolate globalmente, certi tipi di domande non emergono. Il mercato non chiedera' mai acqua pulita e potabile per i poveri. Altri tipi di istituzioni devono ricavare questi ordini da qualcosa come lo stato. Questa discussione ci porterebbe dentro la societa' civile internazionale e lontano da Arendt. Quel che io sto tentando di fare qui e' di abbozzare la connessione tra lo stato globale e le meditazioni preveggenti di Arendt sullo stato-nazione, cosi' che possiamo muoverci verso quella parte detto stato che rimane utile. Arendt scrive durante il remoto inizio della globalizzazione, e non parla del capitale. Tuttavia, quel che stava accadendo nel costruire un nuovo mondo in cui essere-senza-stato sarebbe diventato endemico ha a che fare col capitale in modo abbastanza profondo. Ideologicamente, era l'inizio dello smantellamento dello stato del welfare nel nord e dello smantellamento dello stato in via di sviluppo nel sud. La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale cominciarono con una missione di tipo socialista e internazionale senza il vantaggio della struttura statale socialista. Se si pensa ai primi progetti, come l'Indus Valley, si vede che erano persino regionalisti nella struttura. Ma questa fase cambio' rapidamente e completamente. Lo sviluppo ben presto divenne un alibi per uno sfruttamento sostenibile. Hannah Arendt legge l'essere senza-stato come il sintomo dei limiti dello stato-nazione. Questo tipo di lettura e' nella tradizione del Diciotto Brumaio, in cui Marx legge la rivoluzione borghese come la condizione di un successivo consolidamento del potere esecutivo (Marx 1852). Judith ci ha mostrato che Arendt rappresenta il senza-stato come la scena dei diritti al di la' della nazione. Marx, si sa, mostra che sebbene la rivoluzione borghese sembrasse introdurre la possibilita' della democrazia parlamentare e della partecipazione del cittadino, quel che riusci' a fare fu di consolidare il potere dell'esecutivo. Judith parla di un diritto che appartiene a una contraddizione performativa. Il mio punto di vista sarebbe che questi diritti che sono adesso nella fase dichiarativa, in una dichiarazione universale piuttosto che in una contraddizione performativa, sono predicati sul fallimento sia dello stato (Arendt) che della rivoluzione (Marx). Ho scritto su cio' piu' ampiamente. Per riassumere: l'imperialismo ha regolarizzato l'amministrazione delle colonie fino a che lo sfruttamento sostenuto non e' diventato un'attivita' costante. Le rivoluzioni comuniste hanno fatto la stessa cosa in un altro settore. La politica e cosi' pure l'economia hanno dato una spintarella al declino dello stato-nazione. Una caratteristica lungo questo cammino erano i vecchi movimenti sociali, collettivi extra-stato che lavoravano per salvare la societa' civile dalle depredazioni dello stato. Quel che rimane del vecchio impulso adesso sembra sempre piu' interessato a ripensare lo stato.
Un altro tipo di azione collettiva extra-stato ha fatto il suo ingresso sulla scena globale dopo il 1989, in larga misura nell'interesse dello sfruttamento sostenuto. L'Organizzazione Mondiale del Commercio e' la sua arma economica; le Nazioni Unite sono quella politica e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo quella giuridico-legale. Questa struttura di governance mondiale costruita in modo vago non lavora necessariamente nell'interesse degli stati del sud globale. (...)


a cura di La Nonviolenza è in Cammino

Judith Butler, pensatrice femminista americana, nata nel 1956, insegna attualmente retorica e letteratura comparata all'Universita' di Berkeley, California; e' figura di primo piano del dibattito contemporaneo su sessualita', potere e identita'; le sue ricerche rappresentano uno dei contributi piu' originali all'interno dei cultural studies e della queer theory. Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 marzo 2003 riprendiamo questa presentazione di Judith Butler scritta da Ida Dominijanni: "Judith Butler e' una delle massime figure di spicco nel panorama internazionale della teoria femminista. Docente di filosofia politica all'universita' di Berkeley in California, ha pubblicato nell'87 il suo primo libro (Subjects of Desire) e nel '90 il secondo, Gender Trouble, testo tuttora di culto nei campus americani, cruciale per la messa a fuoco delle categorie del sesso, del genere e dell'identita'. Del '93 e' Bodies that matter (Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1995), del '97 The Psychic Life of Power. Filosofa di talento e di solida formazione classica, Butler appartiene a quello stile di pensiero post-strutturalista che intreccia la filosofia politica con la psicoanalisi, la linguistica, la critica testuale; e a quella generazione del femminismo americano costitutivamente attraversata e tormentata dalle differenze sociali, etniche e sessuali fra donne e dalla frammentazione dell'identita' che ne consegue. Decostruzione dell'identita', analisi del corpo fra materialita' e linguaggio, critica della norma eterosessuale e dei dispositivi di inclusione/esclusione che essa comporta, critica del potere e del biopotere sono gli assi principali del suo lavoro, che sul piano politico sfocia in una strategia di radicalita' democratica basata sulla destabilizzazione e lo shifting delle identita'. Fin da subito attenta ai nefasti effetti dell'11 settembre e della reazione antiterrorista sulla democrazia americana, Butler e' fra gli intellettuali americani maggiormente impegnati nel movimento no-war. 'La rivista del manifesto' ha pubblicato sul n. 35 dello scorso gennaio il suo Modello Guantanamo, un atto d'accusa del passaggio di sovranita' che negli Stati Uniti si va producendo all'ombra dell'emergenza antiterrorista: fine della divisione dei poteri, progressivo svincolamento del potere politico dalla soggezione alla legge, crollo dello stato di diritto con le relative conseguenze sul piano del diritto penale (demolizione delle garanzie processuali) e del diritto internazionale (violazione di trattati e convenzioni). A dimostrazione di come la guerra in nome della liberta' e la soppressione delle liberta' si saldino in un'unica offensiva di abiezione dei 'corpi che non contano', per le strade di Baghdad e nelle gabbie di Guantanamo". Opere di Judith Butler disponibili in italiano: Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1995; La rivendicazione di Antigone, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Vite precarie. Contro l'uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004; Scambi di genere. Identita', sesso e desiderio, Sansoni, Firenze 2004; Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006. Da "Alias" del 7 ottobre 2006 riprendiamo anche la seguente scheda: "Di Judith Butler, filosofa californiana fra le piu' amate e discusse del panorama femminista internazionale, sono disponibili in italiano Scambi di genere (Sansoni 2004, opinabile traduzione di Gender Trouble, il libro del 1990 che l'ha resa famosa, consacrandola come teorica queer), Corpi che contano (Feltrinelli 1996), La rivendicazione di Antigone (Bollati Borighieri 2003), Vite precarie (Meltemi 2003), La vita psichica del potere (Meltemi 2005). Critica della violenza etica testimonia la piu' recente curvatura del percorso di Butler, che la porta ben oltre il dirompente inizio di Gender Truble, come lei stessa argomenta in Undoing Gender (Routledge 2004) di prossima uscita (Meltemi): la sua ricezione italiana, troppo legata alla sua immagine di partenza, dovrebbe giovarsene. Per un confronto fra posizioni diverse all'interno di una comune matrice femminista poststrutturalista, cfr. Il resoconto di un recente incontro in Polonia fra Butler e Rosi Braidotti in www.metamute.org". Dal sito della Libreria delle donne di Milano riprendiamo la seguente recente scheda: "Judith Butler e' Maxine Elliot Professor nel Dipartimento di Retorica e Letterature comparate all'Universita' della California di Berkeley. Ha insegnato in precedenza a Princeton e tiene frequentemente corsi e conferenze a Parigi e Francoforte. Di formazione post-strutturalista, e' una figura-ponte fra la filosofia europea continentale e la filosofia e le scienze umane nordamericane: fra gli autori piu' ricorrenti nei suoi scritti: Hegel, Nietzsche, Foucault, Derrida, Freud, Lacan, De Beauvoir, Irigaray, J. L. Austin. Nota in tutto il mondo per il contributo decisivo che ha dato al pensiero femminista con la teoria della performativita' del genere (Gender Trouble, 1990), lavora al confine fra filosofia politica, psicoanalisi e etica. Muovendo, fin dai primi libri, dalla teoria della sessualita', dalla critica della nozione di identita' e dal rapporto fra costituzione della soggettivita', desiderio e norme, negli scritti piu' recenti si interroga sullo statuto dell'umano e delinea una "ontologia della fragilita'" in risposta alla crisi del soggetto sovrano e della sovranita' statuale. Per Gender Trouble, tradotto in venti lingue, e' stata annoverata dal magazine britannico "The Face" fra le cinquanta personalita' di maggiore influenza sulla cultura popolare negli anni Novanta. Con Precarious Life si e' affermata come una delle piu' impegnate voci critiche del pensiero politico americano del dopo 11 settembre. Attualmente sta lavorando sulla critica della violenza di stato nel pensiero ebraico pre-sionista. Quasi tutta la sua opera e' disponibile in italiano e la sua visita a Roma coincide con la traduzione italiana del suo primo libro, Subjects of Desires, e dell'ultimo, Who Sings the Nation State?, scritto con Gayatri Chakravorty Spivak. Opere di Judith Butler: Subjects of Desire: Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, Columbia University Press, New York 1987 (di prossima traduzione presso Laterza); Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London 1990 (trad. it. Scambi di genere. Identita', sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004); Bodies that Matter. On the Discoursive Limits of "Sex", Routledge, London 1993 (trad. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del "sesso", Feltrinelli, Milano 1996); Exitable Speech: A Politics of the Performative, Routledge, London-New York 1997; The Psychic Life of Power: Theories in Subjection, Stanford University Press, Stanford 1997 (trad. it. La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005); Antigone's Claim. Kinship between Life and Death, Columbia University Press, New York 2000 (trad. it. La rivendicazione di Antigone. La parentela fra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 2003); Precarious Life. The Power of Mourning and Violence, Verso, London 2004 (trad. it. Vite precarie. Contro l'uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004); Undoing Gender, Routledge, London-New York 2004 (trad. it. La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006); Giving an Account of Oneself, Fordham University Press, New York 2005 (trad. it. Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006)". Opere su Judith Butler: cfr. il volume di "Aut aut", n. 344, ottobre-dicembre 2009, monografico su "Judith Butler. Violenza e non-violenza".


a cura di La Nonviolenza è in Cammino

Gayatri Chakravorty Spivak insegna alla Columbia University di New York; bengalese di nascita, vive negli Stati Uniti; e' una delle piu' note e apprezzate teoriche femministe americane e tra le massime rappresentanti degli studi postcoloniali. Tra le opere di Gayatri Chakravorty Spivak: In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, London, Methuen 1987; Selected Subaltern Studies, edited with Ranajit Guha, Oxford, Oxford University Press 1988; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, edited by Sarah Harasym, London, Routledge 1990; Outside In the Teaching Machine, London, Routledge 1993; A Critique of Post-Colonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present, Harvard University Press 1999; Death of a Discipline, New York, Columbia University Press 2003; in italiano: "La politica delle interpretazioni" in AA. VV., Spettri del potere, Meltemi, Roma 2002; Morte di una disciplina, Meltemi, Roma 2003; Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004. Su Gayatri Chakravorty Spivak riproduciamo la seguente scheda apparsa sul quotidiano "Il manifesto" del primo febbraio 2005: "Gayatri Chakravorty Spivak e' nata il 24 febbraio 1942 a Calcutta dove si e' laureata. Nel 1960 e' andata a studiare negli Stati Uniti, alla Cornell University, dove ha preso un master nel 1962 e il PhD nel 1967. Ha insegnato inglese e letteratura comparata in numerose universita', tra cui Stanford, Santa Cruz e la Goethe-Universitat a Francoforte. E' Avalon Foundation Professor nelle Humanities alla Columbia University di New York dove insegna dal 1991. Non ha mai voluto prendere la cittadinanza statunitense. Nel 1976 ha tradotto De la Grammatologie di Jacques Derrida firmando una prefazione che l'ha resa famosa. Ha scritto piu' di cento saggi, sparsi in volumi collettanei: alcuni di essi sono raccolti nei suoi pochi libri. In Italia, i suoi primi testi a essere tradotti sono stati due saggi: "Decostruire la storiografia", contenuto in Subaltern Studies, Modernita' e (post)colonialismo, pubblicato da Ombre corte nel 2002; e "La politica delle interpretazioni" nel volume collettaneo Spettri del potere, edito da Meltemi nel 2002. Sempre Meltemi ha curato la traduzione di Morte di una disciplina (2003) e ora del volume A Critique of Postcolonial Reason (Harvard University Press, 1999), nelle librerie italiane con il titolo Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza.Tra i suoi testi pubblicati in inglese ricordiamo: In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, Methuen, New York 1987; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, ed. Sarah Harasyn, Routledge, New York 1990; Outside in the Teaching Machine, Routledge, New York, 1993"

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