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Apr 27, 2016

 

Le nuove classi medie cosmopolite, guardie pretoriane del capitalismo terminale

di Paolo Borgognone

autore, per la casa editrice Zambon

 

Premessa. Il liberalismo contemporaneo come “fatto sociale” totale

 

Il liberalismo è un “fatto sociale” totale, culturale, politico, economico. E’ l’involucro politico-culturale più adatto per l’espansione illimitata del capitalismo odierno (assoluto, perché sciolto da ogni legame e vincolo precedente e terminale, perché dei tempi “ultimi”). In un suo saggio, il filosofo Costanzo Preve ebbe a dire, in merito al ventennio neoliberista (1989-2009) succeduto al tragicomico crollo del comunismo storico novecentesco nei Paesi dell’Europa centrorientale e in Unione Sovietica:

«[…] l’ultimo ventennio neoliberista (1989-2009) è stato anche una sorta di grande ed oscena orgia bacchica di festeggiamento per la caduta del baraccone tarlato del comunismo storico novecentesco, che d’accordo con Jameson definirei un grande esperimento di ingegneria sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta, cupola geodesica generalmente definita “totalitarismo” nel pensiero politico occidentale apologetico del capitalismo»[1].

 

La “fine capitalistica della Storia” teorizzata dal politologo neodemocratico Francis Fukuyama appare infatti, da una prima lettura, la nuova religione identitaria di massa in nome della quale si celebrano i riti bacchici tesi all’esaltazione della globalizzazione ipercapitalistica e alla celebrazione dell’«onnipotenza dell’economia»[2], o monoteismo del mercato.

Il programma mondialista, genericamente denominato di “fine capitalistica della Storia” (Francis Fukuyama, 1989), tende irrimediabilmente all’uniformazione neocoloniale globale sotto l’egida della cultura politica dominante dopo il 1989 (e, per certi versi, in Europa Occidentale, già dopo il 1945), ossia il liberalismo come «l’ideologia moderna per eccellenza»[3], un’ideologia fondata sulla metafisica del progresso quale destino ultimo dell’umanità. Il liberalismo è una cultura politica unitaria, equivocata dai suoi teorici e apologeti di sinistra come sostanzialmente scindibile in due tronconi opposti, «un liberalismo politico e culturale “buono”»[4] ascrivibile alla sinistra e all’estrema sinistra postmoderne in quanto «punta più mobile dello Spettacolo moderno»[5] e un «liberalismo economico “cattivo”»[6], ascrivibile invece alla destra erroneamente e tendenziosamente definita “conservatrice”. Il liberalismo totalitario (ossia che totalizza in sé sinistra culturale, centro politico e destra economica e che definisce «fuori dalla Storia» e «fuori dal Tempo» ogni istanza e rivendicazione di critica radicale al suo programma di uniformazione globale) contemporaneo, come nota Charles Robin, «affonda le sue vere radici intellettuali in quella che, al momento presente, è necessario chiamare “sinistra”, ossia quel conglomerato di pensieri eterocliti uniti dall’idea (e a partire da postulati e intenti politici spesso discordanti) che la lotta per le “libertà individuali” e il riconoscimento delle “minoranze” – fondamento metafisico dell’attuale “diritto alla differenza” – dovrebbe apparire come l’unico fondamento concepibile di ogni progetto di civiltà “moderno” e “progressista”»[7].

In tale contesto, di omologazione cosmopolitica eurocentrica tendente alla disarticolazione, per via principalmente pubblicitaria, dei legami sociali comunitari dei popoli, ricordiamo quanto dichiarato da Costanzo Preve circa i mass-media contemporanei quali strumenti di riproduzione dell’attuale processo di flessibilizzazione desiderante e narcisistica delle masse come conseguenza e parte integrante dell’autoimposizione del monoteismo del mercato quale nuova religione identitaria obbligatoria di sradicamento consumistico globalizzato: «Le nuove cerimonie religiose sono officiate da mezzibusti televisivi sorridenti che si consultano con economisti che ripetono solenni parole in inglese roteando una pipa spenta. L’ideologia di questa nuova società è quella della fine della storia»[8]. Il “circo mediatico” giornalistico liberale contemporaneo è appropriatamente definito da Preve come una vera e propria forma di «clero secolare».

Infatti, «in riferimento all’attuale congiuntura, Preve distingue tra un “clero secolare” (gli apparati mediatici) e un “clero regolare” (gli apparati universitari che forniscono una legittimità all’ordine del mondo), accomunati dal raddoppiamento simbolico-religioso dell’assetto capitalistico»[9]. Preve, in un importante saggio del 1999, scrisse apertamente che «il clero giornalistico secolare ha il compito di organizzare una rappresentazione quotidiana profana, il cui scopo è quello di simulare la sacralità del dominio della Nuova Nobiltà finanziaria transnazionale ultracapitalistica e postborghese»[10]. Va ricordato, anche e soprattutto che «i gradi superiori del circo mediatico sono composti da opinionisti cosmopoliti e poliglotti»[11], il cui minimo comun denominatore ideologico è la rivendicata adesione al liberalismo di sinistra come motore propulsore politico di una società fondamentalmente liberalizzata a livello culturale, politico ed economico.

Il “circo mediatico” liberale contemporaneo è infatti il promotore politico-culturale «della cultura mondiale americana», una cultura il cui «obbiettivo è una società universale di consumo che non sarebbe composta di tribù, popoli, nazioni o cittadini, ma soltanto di questa nuova razza di uomini e di donne che sono i consumatori»[12]. Gli strapagati pagliacci colti facenti parte degli strati superiori del “circo giornalistico” liberale di sinistra non fanno altro che diffondere, presso il volgo desideroso di spettacolo trash e di spettacolo porno centrati sul chiacchiericcio del talk show politicamente corretto riproduttore della obsoleta dicotomia centrodestra/centrosinistra (perfettamente funzionale al mantenimento inalterato della società liberale odierna) e sull’esibizionismo narcisistico proprio del reality show (in stile Grande Fratello o L’Isola dei Famosi) per teledipendenti compulsivi di ogni ordine e grado, le idee dominanti al servizio delle classi dominanti. Ma qual è la cultura politica caratterizzante queste élites dominanti (Global Class) aventi come obiettivo la flessibilizzazione consumistica, individualistica, narcisistica e cosmopolitica integrale delle masse, nell’ambito di un capitalismo “puro” tendente all’abbattimento di ogni ostacolo (frontiere nazionali, morali, politiche e religiose) all’espansione illimitata della open society perfettamente confacente al dispiegarsi incontrastato di un modello socio-politico ed economico fondato sull’omologazione globale alla suddetta «cultura mondiale americana»?

La risposta a tale domanda è ravvisabile nelle seguenti parole di Costanzo Preve: «A partire dal 1980 circa siamo […] di fronte a una vera e propria seconda rivolta delle élites […]. Mentre la prima rivolta delle élites (1871-1914) si basava prevalentemente sulla riorganizzazione della sovranità monetaria dello Stato nazionale (con accompagnamento culturale alla Nietzsche-Pareto), questa seconda rivolta delle élites si basa prevalentemente sul controllo di uno spazio economico globalizzato, e il suo accompagnamento culturale non è più prevalentemente di “destra” (Nietzsche, Pareto, Kipling, ecc.), ma è prevalentemente di “sinistra” (postmoderno, Lyotard, Bobbio, Rawls, Habermas, religione olocaustica di colpevolizzazione infinita dell’Europa, ideologia interventistica dei diritti umani, governo dei giudici e dei giornalisti, costituzione materiale basata sullo scandalismo, irrisione della religione vista come residuo superstizioso premoderno, sostituzione del Big Bang alla creazione divina, imposizione del coito e del godimento immediato al posto dell’amor cortese e del dolce stil novo, ecc.)»[13].

La liberalizzazione sessuale è la prima tappa verso la costruzione di una società consumistica integralmente liberale laddove l’emancipazione di genere viene letteralmente convertita in uno strumento ideologico «al servizio della riproduzione del Capitale»[14]. Infatti, in una società realmente liberale, «il sistema capitalistico dovrà naturalmente dispiegare i suoi mezzi più efficaci per ultimare l’opera di discredito totale delle donne che ancora recalcitrano a conformarsi allo standard liberale della donna “attiva”, “indipendente” e “moderna”. Di qui, come si sarà capito, l’interesse pedagogico per la serie Sex and the City»[15]. La liberalizzazione tecnologica (comunicazione universale globale tramite l’Internet sociey) è la seconda tappa sulla via della realizzazione di una società integralmente liberale. Da notare come oggi, i sostenitori più accesi dell’affermazione, su scala globale, delle nuove tecnologie di comunicazione multimediale siano proprio i liberali camuffati da comunisti estremisti quali Toni Negri e Alain Badiou. Costoro infatti, aedi di una “rivoluzione cosmopolitica di massa” venduta al ceto medio dei semicolti loro interlocutori come “socialismo dal volto umano” del XXI secolo, non esitano ad affermare che «è lo sviluppo stesso del capitalismo ciò che porterà a costruire automaticamente la “base materiale del socialismo”»[16].

Secondo Negri e Badiou, infatti, «si tratta semplicemente […] di affidarsi a quello sviluppo rivoluzionario (se non addirittura, come proponeva ingenuamente Gilles Deleuze, di “accelerarne tutti i processi”) e attendere con pazienza il giorno in cui – quando l’“involucro capitalista” non sarà più abbastanza solido per contenere la dinamica impetuosa delle “nuove tecnologie” – la società comunista potrà sorgere da se stessa, armata da capo a piedi, come una Minerva che esce dalla testa di Giove»[17]. Ora, tutti sanno che una tale interpretazione degli odierni processi di globalizzazione è, nella migliore delle ipotesi, una lucida follia perché, com’è noto, lungi dal costituire strumenti di emancipazione, le nuove tecnologie di comunicazione universale, sulla scorta dell’industria pubblicitaria più in generale, non svolgono altra funzione che quella di agire nella «deliberata costruzione di un uomo integralmente rimodellato in funzione delle sole esigenze del Mercato e del “governo democratico mondiale”»[18]. Il principale fattore di legittimazione di una società liberalizzata e unificata al compulsivo desiderio di consumo e di riconoscimento individuale è la presentazione del liberalismo come ideologia unica del “progresso” e della “democrazia” da parte dei suoi cantori e propagandisti. Non a caso, Ezio Mauro, ex direttore del principale quotidiano italiano di orientamento liberale di sinistra (la Repubblica), ebbe apertamente a dichiarare che «un azionismo di massa è stato il sogno di Repubblica, e non importa se un sogno di minoranza, pur di testimoniare per quarant’anni “una certa idea dell’Italia”, secondo la formula di Piero Gobetti»[19]. Mauro veicola, senza mezzi termini, l’idea che i liberali di sinistra coltivano in merito al processo di normalizzazione neocapitalistica e neoborghese dell’Italia come parte integrante del mondo unificato all’insegna del cosmopolitismo neoliberale, nel momento in cui delinea il sistema politico confacente a codesto obiettivo attraverso l’istituzionalizzazione di un bipolarismo solidale centrato sull’alternanza al governo tra un partito liberaldemocratico di sinistra pro-Ue e pro-Usa, e un partito liberalconservatore di destra pro-Ue e pro-Usa; l’alternanza unica proposta da Mauro esclude categoricamente ogni avversario della società liberale, bandendolo dallo spazio politico pubblico con l’infamante accusa di “populismo antisistema”.

Scrive infatti Ezio Mauro: «Abbiamo creduto in una società politica dell’alternanza, nella distinzione feconda e vitale tra i concetti di destra e sinistra e le loro proiezioni politiche. Con la speranza […] di vedere finalmente in campo una sinistra risolta, europea, moderna e occidentale (il ritardo è enorme e dunque colpevole) e una destra finalmente liberata da tentazioni cesariste, padronali, nostalgiche o xenofobe, che in Italia non c’è mai stata. Un’Italia in cui si confrontino una sinistra riformista, di governo, e un partito conservatore autenticamente liberale è il traguardo che indichiamo da decenni: oggi tanto più urgente, prima che arrivi l’onda alta del populismo antisistema che coltiva la rabbia e la disperazione senza mai riuscire a trasformarle in politica, scagliandole in una feroce gioia contro le istituzioni»[20]. Le parole di Ezio Mauro rappresentano il più fulgido esempio della summenzionata “seconda rivolta delle élites” a copertura ideologica liberale di sinistra e costituiscono la testimonianza più efficace dell’attuale politica dei mass-media di larga tiratura. Una politica volta alla promozione (per conto delle classi dominanti transnazionali finanziarizzate) di modelli di riferimento politici e comportamentali centrati sul postulato della liberalizzazione (politica, economica, sociale e culturale).

I guardiani del Nuovo Ordine Mondiale Tardocapitalista: Generazione Erasmus e “circo mediatico” liberal

La cultura politica della nuova classe media globale, caratteristica dell’odierna Erasmus Generation, ossia i ragazzi «per i quali il mondo è un luogo di vacanze-studio»[21], fece, a livello televisivo, ovvero di cultura di massa, il suo trionfale ingresso in Italia attraverso i serial tv per adolescenti trasmessi, a partire dai primi anni Novanta, da Italia 1. Come scrive infatti Giuseppe Ricci nel libro La teledittatura, «il 1992 fu […] l’anno del serial giovanile Made in Usa Beverly Hills 90210 (con protagonisti un gruppo di giovani della borghesia californiana)»[22]. I serial di Italia 1, destinati alla formazione dell’immaginario collettivo e della “cultura politica” delle nuove generazioni nate tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, si distinguevano (perfettamente in linea con l’imprinting della sopradescritta “seconda rivolta delle élites”) per essere prossimi a un’impostazione di taglio liberal. Ancora recentemente, in un’intervista al Secolo d’Italia, un autore televisivo di formazione situazionista, Carlo Freccero, ha indicativamente definito il format del telefilm americano quale paradigma della «tv intelligente»[23]. Secondo Freccero, la fiction statunitense rappresentava il futuro proprio in quanto “innovatrice” perché, diversamente da quella italiana, pedagogica e incentrata sulla memoria storica, «lavora sull’immaginario, parla di morte, transessualità, violenza, multiculturalismo, le personalità che racconta sono estreme»[24]. In altri termini, la fiction americana si rivolge ai “fighi” della società postmoderna, ai desideranti e ai “soddisfatti” dei processi di globalizzazione. Le serie tv americane devono essere considerate, secondo quanto scrive entusiasticamente Limes (la rivista del mondialismo per eccellenza), «un formidabile agente di influenza del fascino dell’american way of life»[25] a livello globale:

L’americanizzazione del mondo non è finita […]. La «narrazione» degli Stati Uniti avanza attraverso le serie televisive, non ha rivali nel mondo e rimane l’unica capace di muoversi in un mercato internazionale e non semplicemente in un orizzonte regionale. Ciò deriva anche dalla nuova profondità tematica dei prodotti televisivi seriali, e dalla maturazione di questo settore nella sua capacità di raccontare i diversi volti dell’America all’esterno e all’interno. Se il problema dell’offerta culturale degli avversari (in primis la Cina) è sempre più legato alla chiusura e al riflesso paranoico contro i sabotatori esterni, la galassia della serialità televisiva americana costituisce un mosaico plurale, dove si intersecano i diversi volti di una nazione-mondo: inesauribile ricchezza tematica e originale interazione con la società e la politica sono i fondamenti del «potere seriale»[26].

Le parole riportate più sopra devono essere tenute nella massima considerazione in quanto il sogno americano (la sopraccitata «narrazione degli Stati Uniti») rappresentato dall’idea liberale, cosmopolita e giovanilistica di America (l’America della new global middle class di New York e Los Angeles, contrapposta alla propagandata, dai complottisti liberali, «paranoia» conservatrice e “nazionalista” dei Paesi a vario titolo resistenti alla travolgente espansione del “modello socio-culturale americano”, ossia Russia, Cina, Iran, ecc.), diffusa a piene mani dai media occidentali, è funzionale ad attrarre al conformismo delle mode neoedonistiche a stelle e strisce una larga fascia di pubblico adolescenziale e post-adolescenziale, studentesco, futura massa di manovra per “sovversioni colorate” made in Usa all’Est e futuro fattore sociologico di consolidamento della “democrazia di libero mercato e libero desiderio consumistico” nei Paesi del cosiddetto “mondo libero”. Il “capostipite” dei summenzionati teen-drama, Beverly Hills , fu co-prodotto, nel 1990, da Aaron Spelling e Darren Star, che non erano conservatori, ma liberali di sinistra, politicamente vicini al Partito Democratico, di idee sioniste e, nel caso di Star (successivamente anche autore della serie Sex and the City), apertamente gay. Beverly Hills 90210 raccontò infatti, per 296 estenuanti e interminabili episodi (in onda su Italia 1 inizialmente in prima serata, una volta la settimana), le vicissitudini legate alle problematiche concernenti l’approdo all’età adulta di una masnada di adolescenti di estrazione alto-borghese, residenti nel quartiere vip di Beverly Hills, Los Angeles, California. Il rapporto con i genitori e con gli amici, il sesso, l’amore (inteso nell’accezione postmoderna, consumistica, del termine), l’Aids, la politica (i protagonisti di Beverly Hills 90210 rappresentavano lo stereotipo dell’elettore “democratico” di classe media), la droga (vissuta come una componente “accettabile” nell’ambito dei processi di integrazione sociale dei teenagers), erano i temi con i quali i protagonisti del serial si “confrontavano”.

Beninteso, e qui si situava la portata ideologica dell’operazione, sempre e comunque da una prospettiva culturale acriticamente assertrice del primato della cultura politica, sociale ed economica del liberalismo come portato “ontologico” della Postmodernità. Il serial metteva infatti in discussione svariati postulati culturali caratterizzanti l’America “profonda” e conservatrice e, di riflesso, esaltava gli stili di vita “moderni”, disinibiti e finanche socialmente “impegnati”, dei settori maggiormente benestanti dell’alta borghesia (new global middle class) della West Coast. I giovani e beffardi protagonisti di Beverly Hills 90210 vivevano infatti in maniera disincantata e disinibita i privilegi di una posizione sociale acquisita per nascita e che nel serial restava quasi sullo sfondo, come un elemento scenografico, a significare che, in un certo qual senso, gli americani erano, naturaliter, «tutti ricchi, giovani, belli, intelligenti, progressisti».

L’esperimento, riuscito in quanto innegabilmente seducente agli occhi di un certo pubblico, fu ripetuto, qualche anno più tardi, attraverso la trasmissione, sempre su Italia 1, in prima serata una volta la settimana dal 7 ottobre 1993, del serial Melrose Place, ancora una volta ideato da Spelling e Star. Nei suoi 226 episodi, Melrose Place si configurò come una specie di «fratello maggiore» di Beverly Hills 90210, in quanto destinato a un pubblico adulto o comunque post-adolescenziale.

Le tematiche trattate (e anche alcuni attori protagonisti del serial) erano sostanzialmente quelle di Beverly Hills 90210, ma da una prospettiva maggiormente improntata al cinismo, all’intrigo e al rapace desiderio di affermazione individuale caratterizzante il cosiddetto «mondo degli adulti»; dei giovani adulti americani ovviamente, inseriti sic et simpliciter in un contesto socio-scenografico in cui troneggiavano lusso, glamour e mondanità. Se infatti Beverly Hills 90210 era il serial concepito per formare docili e conformisti ceti studenteschi di “bravi ragazzi” perbenisti e politicamente corretti sino al midollo, rispettosi del (dis)ordine capitalistico esistente, Melrose Place si caratterizzava per essere il format ideale al fine di forgiare all’arrivismo e al cinismo individualistico del “mondo del lavoro” e “delle relazioni sentimentali tra adulti”, la massa di pecoroni universitari degli anni Novanta, futuri garanti sine die, con i loro comportamenti elettorali, abitudini individuali e stili di vita “collettivi”, del consenso necessario all’odierno sistema neoliberale occidentale di sfruttamento, flessibilizzazione e alienazione totalitaria di massa, per perpetuarsi di secolo in secolo. I “nuovi soggetti” conformisti forgiati ad arte dal modello televisivo e pubblicitario made in Usa rappresentano, nel “mondo libero”, la guardia bianca per il consolidamento del sistema, gli agenti dominati delle classi dominanti.

Nei Paesi da destabilizzare in nome della “democrazia americana” invece, i “nuovi soggetti” di cui sopra esercitano il ruolo di Quinta Colonna filoccidentale per sovvertire e rovesciare il katechon. Per comprendere fino in fondo la matrice socio-culturale delle cosiddette “nuove classi medie globalizzate” è necessario partire da una definizione di Costanzo Preve sul tema: «[…] la classe media globale occidentalizzata (western-type global middle class). Questa classe media senza coscienza infelice, priva di tentazioni fasciste e/o comuniste, si definisce principalmente sulla base del reddito e delle forme di consumo “colto” (abbigliamento, arredamento, viaggi culturali, eventi, presenzialismo mondano-mediatico, accesso a servizi scolastici e medici di buon livello, conoscenza dell’inglese, relativa sicurezza del reddito, voto politico di centro con sfumature puramente “estetiche” di sinistra e “religiose” di destra, eccetera). Questa classe media globale occidentale non ha più le vecchie inquietudini della piccola borghesia, e quindi non è più attratta dagli “estremi” politico-culturali. Filosoficamente nichilista, il suo relativismo nichilistico dipende però esclusivamente dal livello del reddito. Quando quest’ultimo calasse in modo radicale, ci si potrebbe aspettare riorientamenti culturali per ora imprevedibili. I giornali e la produzione editoriali sono “tarati” per i suoi gusti, laddove la televisione è invece “tarata” per la classe che le sta al di sotto […], il post-proletariato flessibile, precario e integrato in un sistema performativo di consumi differenziati»[27]. Preve afferma apertamente quanto segue: «[…] penso che la vecchia borghesia sia stata sostituita da un nuovo mostro, una sorta di global upper class post borghese»[28]. Questa neoborghesia (new global middle class), come rileva giustamente Jean-Claude Michéa, essendo formata prevalentemente da «personalità “moderne” e “trasversali”»[29] che «non possono avere, in linea di massima, alcun impiego reale al di fuori di una società basata sul primato del valore di scambio (è il caso, per esempio, di tutti quelli che oggi lavorano nella pubblicità, nel “nuovo management” o nell’industria mediatica della disinformazione mainstream)»[30], non può risultare in alcun modo la base di consenso per formazioni politiche genericamente (quanto tendenziosamente ed erroneamente) indicate dalla pubblicistica di sinistra come “neofasciste” (Front National, FP?, Vlaams Belang, Srpska Radikalna Stranka, LDPR, ecc.). La natura del fascismo, infatti, come osserva Preve, «non è stata quella di una rivolta delle élites, ma quella di un vasto e contraddittorio movimento dei ceti medi e della piccola borghesia tradizionale contro la proletarizzazione, rappresentata simbolicamente dalla minaccia del bolscevismo russo»[31]. In effetti, come scriveva, già nel 2002, il giornalista Maurizio Blondet, la tecnocrazia neoliberale di Bruxelles, cultrice e levatrice della new global middle class cosmopolita e dedita alla cultura dell’Erasmus, attuò delle disposizioni limitative del normale processo democratico interno ai Paesi membri della Ue, al fine di indirizzare le scelte elettorali dei ceti popolari, scoraggiandoli dal votare per il “partito sbagliato” e allo scopo, contemporaneamente, di sanzionare gli Stati che osavano, in qualche modo, ribellarsi al dettato integrazionista fondato sull’egemonia culturale della neoborghesia figlia della «secolarizzazione compiuta»[32], del Regno di Narciso e del processo di formazione dei nuovi ceti semicolti veicolato, in Italia, dal costume «scalfariano»[33], bobbiano, arendtiano, negriano (nell’accezione di Toni Negri). Afferma infatti Blondet, ricostruendo la nota vicenda del “caso Haider”, risalente all’inizio del 2000:

Sia ricordato qui, come caso estremo e illuminante, in vista del futuro, il trattamento riservato all’Austria per il caso J?rg Haider. La colpa del personaggio è di aver minacciato di formulare proprie politiche di controllo dell’immigrazione: scelta politica sovrana che la Commissione preclude a sé e agli altri. Votato (colpa imperdonabile) da un numero sufficiente di concittadini, Haider è stato associato al governo dalla Democrazia cristiana austriaca: quelle politiche rischiavano di diventare programma di governo. Da qui la mossa preventiva: quattordici capi di Stato europei, ognuno per sé, hanno dato l’ostracismo all’Austria, Stato membro, come Stato «xenofobo», «razzista» e «oppressivo delle minoranze». Senza beninteso che l’ombra di una politica razziale o discriminatoria fosse neppure ventilata in Austria. A Haider – che può risultare personaggio sgradevole – ma che è stato democraticamente eletto – si è intimato di firmare un «impegno scritto per la democrazia»: umiliante ingerenza verso un Paese dove vige il pluralismo parlamentare, e segnale di ciò che l’Europa considera democrazia: non il voto popolare, bensì l’adesione preventiva a una politica comune, predeterminata da Bruxelles. Espressione di un elettorato localmente scontento della pochezza europeista, Haider è stato dipinto come un nuovo Goebbels e impedito di partecipare al governo. Il delitto di lesa maestà ai burosauri non deve avere cittadinanza[34].

Dinnanzi alle sanzioni imposte dai sopraccitati «burosauri» della Ue nei confronti dell’“eretica” Austria, i politicanti della destra italiota, invece di rimarcare la necessità di un programma nazionale volto alla tutela della sovranità politica del Paese nei confronti di qualsivoglia ingerenza esterna, fecero a gara nel prostrarsi al giudizio censorio dei tecnocrati liberali di sinistra della Ue, arrivando a stracciarsi le vesti politiche di «nazionalisti» e «patrioti» per dimostrare la propria assoluta fedeltà a Bruxelles e alle lobby che ne determinano la politica sociale libertaria e la politica economica liberista. Gianfranco Fini, presidente di Alleanza Nazionale, un partito che, a parole, si diceva «conservatore» e interprete degli interessi collettivi del popolo italiano al di sopra di ogni imposizione e ingerenza straniera, si precipitò, prendendo formalmente le distanze da qualsiasi espressione politica “populista” ed “euroscettica”, a ribadire la fedeltà, sua e dei suoi sodali, all’Unione europea, alla Nato, a Israele e alla «democrazia occidentale». Umberto Bossi, leader della Lega Nord, si barcamenò tra una certa qual comprensione per le istanze sovraniste dei “populisti” austriaci e successive prese di distanza nei fatti. Disse infatti Bossi:

Io Haider l’ho incontrato solo una volta e abbiamo parlato di Europa, di questo scandalo di un Parlamento europeo che non conta niente e di una Commissione […] che decide tutto, anche se ci debba essere una famiglia omosessuale, da questo alle quote latte. Di una Europa nelle mani del potere massonico e delle lobby. Di questo e solo di questo abbiamo parlato […]. Haider è un nazionalista, è uno come de Gaulle. Con lui siamo d’accordo sul fatto che oggi il potere in Europa è un potere losco, occulto, nelle mani delle lobby[35].

Immediatamente dopo però, il leader leghista tenne a precisare: «Io non sono d’accordo con Haider», in quanto la Lega si presentava come partito federalista e finanche secessionista, mente la FP? del tribuno “populista” carinziano era considerata, dai perbenisti e benpensanti italioti, un partito «nazionalista» quando non addirittura «fascista». Bossi, infine, si affrettò a “scagionare” l’“Unto del Signore” della coalizione di centrodestra, ossia il cavalier dottor impresario Silvio Berlusconi, dall’aver mai intrattenuto qualsivoglia rapporto politico con il “populista euroscettico” Haider. Berlusconi infatti avrebbe dovuto confermarsi candidato “presentabile” a garanzia di media ed elettori liberali e “moderati”, in vista delle successive elezioni politiche del maggio 2001. Disse infatti Bossi, volutamente più tranchant che mai: Berlusconi di Haider non sa niente, non lo conosce e non gli ha mai parlato[36].

L’allora segretario nazionale del Movimento Sociale – Fiamma Tricolore (MS-FT), Pino Rauti, espresse da par suo un parere positivo nei confronti dell’esito delle elezioni austriache che avevano premiato Haider, arrivando a dire: «Se l’Ue impone sanzioni ai Paesi che hanno votato, liberamente, per un partito sgradito alle élite di Bruxelles, allora le elezioni cosa le facciamo a fare?». Peccato che si trattava di quello stesso Pino Rauti che, in precedenza, aveva espulso dal partito Giancarlo Chetoni, toscano, responsabile Esteri del MS-FT, reo di aver proposto, in sede congressuale, un documento di politica internazione di aperta impronta antisionista. L’ipocrisia e la sudditanza politica di una certa destra europea, sedicente “tradizionale” ma ormai divenuta, sostanzialmente, “europeista” (ovvero eurocentrica), neoliberale (dunque politicamente inutile e dannosa per chiunque caldeggi ipotesi di alternativa radicale all’odierna società liberale massificata e americanizzata) e filosionista, è riassunta magistralmente dal giornalista tedesco Jürgen Els?sser che, sin dal 2008, scriveva in merito:

[…] negli ultimi anni i vecchi fascisti furbi hanno cambiato orientamento politico e si sono uniti ai neoconservatori: Gianfranco Fini, il presidente di Alleanza Nazionale, è stato premiato a Gerusalemme con un ordine per i suoi meriti per Israele; mentre il Front National può godere dell’appoggio di sionisti francesi perché pare che solo Le Pen combatta in modo coerente il pericolo islamico; la FP? si è divisa, adesso è Haider stesso a guidare la neoliberale BZ? sotto la bandiera arancione; il veneratore rumeno di Hitler, Vadim Tudor, si atteggia a più grande amico di Israele e ne riceve aiuti per la sua campagna elettorale. Dove hanno avuto il potere, come a Roma e a Vienna, questi partiti sono stati tra l’altro dei buoni portavoce del programma neoliberale tradendo il loro programma nazionale[37].

L’esplicita presa di distanza dei “conservatori liberali” italioti dal “populista plebeo” Haider non bastò a placare l’ira degli esponenti liberal della coalizione di centrosinistra che, strumentalmente, inscenarono una campagna elettorale tesa alla demonizzazione del «fascista» Fini e del «troglodita» Bossi, a dire dei “democratici di sinistra” e dei rifondaroli non sufficientemente “affidabili” a quanto richiesto, in tema di “democrazia”, “liberalismo culturale” e promozione dei “diritti individuali” di drogati, gay e desideranti di ogni sorta, da parte della Ue e dei mercati finanziari internazionali. La campagna elettorale del 2001, così condotta (a colpi di satira “europeista” e di Stato targata f.lli Guzzanti), culminò nel tragicomico teatrino televisivo tra i fautori (berlusconiani) dell’allontanamento dalla tv pubblica (Rai-TV) degli anchors prediletti dal ceto medio semicolto politically correct di estrazione “progressista” (Santoro-Luttazzi-Biagi) e gli oppositori (antiberlusconiani) del cosiddetto “editto bulgaro”. Il tutto mentre l’Italia veniva, sempre più e inesorabilmente, assorbita nelle sabbie mobili dell’atlantismo, del conformismo ultraliberale e cosmopolitico, nonché del liberismo economico a oltranza. Il processo di normalizzazione conformistica e neoliberale cui l’Italia era, in quegli anni, sottoposta, e che avrebbe dato i suoi frutti avvelenati a partire dalla “crisi” del 2008-2011, fu adeguatamente anestetizzato, dal ceto politico e dal “circo mediatico” di complemento, attraverso la somministrazione di massicce dosi di narcotico televisivo e giornalistico per “ceti colti”. La neoborghesia italiota teledipendente, in quel frangente storico, si occupava infatti più del destino occupazionale di un torno di giornalisti tanto miliardari quanto culturalmente allineati al sistema di compatibilità neoliberali ed euro-atlantiche, che non del destino politico, di desovranizzazione inarrestabile, del proprio Paese. Così, mentre l’espressione più fulgida del conformismo cosmopolitico partitizzato “europeista”, ossia il Partito socialista europeo (PSE), «ha minacciato di codificare “i limiti del comportamento politico accettabile”, ovviamente a “difesa della democrazia” (dettata dall’alto)»[38] contro i cosiddetti “populisti euroscettici” e vario titolo “filo-russi”, le classi dirigenti tecnocratiche europeistiche, camuffate da esponenti dell’“intransigentismo” progressista, ambientalista e femminista, caldeggiavano esperimenti di ingegneria sociale tesi alla creazione di un «homunculus novus»[39], il teenager globale americanocentrico (accanito divoratore mediatico di serial tv a stelle e strisce) forgiato all’antropologia del desiderio capitalistico illimitato dall’esperienza nomadistica, individualistica, snazionalizzante e depsicologizzante dell’Erasmus. Dichiara infatti, a conferma di codesti progetti mondialisti di ingegneria sociale postmoderna, uno tra i più quotati (dal punto di vista mediatico) rappresentanti dell’intellighenzia cosmopolita e ultralibertaria made in EU, il caporione “verde” Daniel Cohn-Bendit:

La ricetta per una sana e più completa integrazione europea sarebbe l’Erasmus obbligatorio per ogni studente universitario. I giovani vanno all’estero, un terzo di loro finisce per innamorarsi d’un ragazzo o una ragazza d’un altro Paese, così restano insieme e il patto fra le genti è siglato […]. Così […] costruiamo davvero l’Europa unita[40].

Il sottosegretario agli Esteri del governo Renzi, Sandro Gozi, un deputato del Pd iscritto anche ai Radicali italiani del duo filosionista e “amerikano” a oltranza Bonino-Pannella, nonché membro del think tank ultraliberale European Council of Foreign Relations (comprendente al suo interno figure di spicco del panorama politico-imprenditoriale a stelle e strisce e “a stella di David” italiota, tipo Giuliano Amato, Emma Bonino, Maria Cuffaro, Marta Dassù, Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Franco Frattini, Emma Marcegaglia, Lapo Pistelli e Luisa Todini), si è, a sua volta, del tutto comprensibilmente vista la “stoffa” del personaggio, prodigato nell’apologia diretta della Erasmus Generation, questa generazione «libera, poliglotta e cosmopolita»[41] di “studenti internazionali” «artatamente educati […] alla vita allegra»[42] e integralmente secolarizzati al materialismo pratico più gretto, caratteristico di quella che il sottosegretario Gozi definisce «una società laica [dove] non devono esserci tabù»[43]. Una società nel cui ambito ogni studente avrebbe dovuto preventivamente conoscere «il suo valore di mercato»[44]. Gozi ha pubblicato recentemente un libro, guarda caso edito dalla casa editrice dell’Università Bocconi di Milano (tempio della cultura neoliberale italiota), dall’inequivocabile titolo: Generazione Erasmus al potere. Il coraggio della responsabilità. In questo pamphlet, Gozi traccia un profilo apologetico del “mondo senza confini” e “senza limiti” (un mondo unificato dove gli Stati nazionali regrediscono al rango di filiali locali di aziende multinazionali e startup con sede a New York o Londra). Il mondo unificato, open society, tratteggiato da Gozi, è infatti “Cosmopolis”, sorta di multinazionale delle relazioni sociali, politiche ed economiche privatizzate, gestita in conto terzi da babbioni filoamericani e figli di papà, rincoglioniti di ceto medio sans frontières sui cui volti si sarebbe potuta ravvisare unicamente «una tranquilla tabula rasa con al centro un unico pensiero: se stessi»[45]. Una volta descritto il profilo politico (liberale di sinistra) e sociologico (classe media postmoderna, totalmente americanizzata) dei gestori di “Cosmopolis” sfornati dal Programma Erasmus e dalle business school private anglosassoni, Gozi si esibisce in una vera e propria, nonché inquietante, dimostrazione di cieco fideismo ideologico nei confronti della più radicale e spaventosa operazione di ingegneria sociale mai pensata dal 1945 a oggi, ossia la creazione del “cittadino nomade globale” europeista, totalmente sradicato da precedenti riferimenti identitari e comunitari e conquistato alla causa del disimpegno e del divertimento sans frontières dal passaggio (burocratico, omologante e ormai pressoché obbligatorio) dell’Erasmus come “certificato di ammissione” nel novero della open society per monadi consumistiche, pauperizzate e standardizzate agli stili di vita e di consumo “trendy” di ogni sorta. Scrive infatti Gozi, ricordando come anche il vate della filosofia del disincanto e della rassegnazione cosmopolitica all’italiana, il defunto Umberto Eco, fosse un incallito sostenitore dell’Erasmus quale megamacchina creatrice ex novo di identità postnazionali:

L’Erasmus è la più geniale intuizione avuta dall’Unione europea per costruire il proprio futuro […]. Oggi sono milioni i giovani europei a fare l’Erasmus… Ragazze e ragazzi che trovano assolutamente normale frequentare l’università a Bologna come a Bruges o a Barcellona, che scrivono su WhatsApp in francese o in inglese […]. Ragazze e ragazzi che hanno avuto l’occasione di studiare in ogni angolo d’Europa: e non solo di studiare, se diamo un’occhiata ai dati pubblicati dalla Commissione europea secondo cui dal 1987 è nato più di un milione di bambini frutto di incontri Erasmus. Bambini che nelle vene hanno sicuramente il sangue blu a stelle fin dalla nascita… Già, Umberto Eco aveva proprio ragione […]. Il nostro semiologo disse che l’Europa si sarebbe naturalmente realizzata grazie alle coppie che si incontravano col Programma Erasmus, i cui figli sarebbero stati europei nel loro DNA[46].

Tutto ciò non può che far rabbrividire. Gozi si spinse infatti a teorizzare, apertamente, il dileguare di ogni identità nazionale preesistente in un magma cosmopolitico indistinto dove il liberalismo totalitario contemporaneo, il liberalismo illimitato della Fun Generation, sarebbe divenuto il tratto non soltanto culturale ma antropologico e finanche razziale («il sangue blu a stelle» degli sradicati nati dagli intrecci amorosi degli studenti internazionali fuori sede) delle nuove generazioni di moltitudini, spaesate e integralmente deresponsabilizzate, abitanti i Paesi della Ue. Un’Europa, o meglio, una sedicente Unione europea “unita”, cioè unificata, all’insegna della disarticolazione consumistica e conformistica di ogni differenza e finanche abitudine tradizionale. Un’Unione europea egemonizzata, a livello sociologico e culturale, dal citato homunculus novus, il furita, il teenager americanocentrico di classe media totalmente addomesticato ai dettami politici e agli stili di vita propri della omologazione conformistica dei consumi, dei desideri, delle mode, dei sentimenti e degli atteggiamenti comportamentali individuali. Il teenager americanocentrico di classe media (culturalmente e psicologicamente frollato, tramite teledipendenza, internet-dipendenza ed Erasmus come vacanza-studio permanente) desideroso di opportunità di successo, divertimento e visibilità individuale, avrebbe infatti considerato normale e scontato, addirittura auspicabile, la riproduzione, sine die, del mondo così com’era.

Il teenager americanocentrico di classe media infatti, a prescindere dall’età biologica e dalla capacità di spesa che lo contraddistinguono, approva supinamente il programma politico, “neoliberale integrazionista”, della sinistra “democratica” odierna, così mirabilmente riassunto, nel libro pubblicatogli dalla “Bocconi University Press”, dal già citato Sandro Gozi:

Non credo che ci siano classi sociali che si scontrano, credo anche che le opportunità per la classe media siano sempre maggiori e sempre di maggior qualità[47].

Svincolata dalla comunità originaria di appartenenza, l’individualità diviene individualismo, il popolo moltitudine, la nazione cosmopolis, la spiritualità religiosa tradizionale fideismo in una non meglio precisata new age di liberalizzazione universale, dove tutto è consentito (per chi dispone della capacità di spesa atta a poterselo permettere). In questo senso, le parole del politologo Gérard Dussouy riguardo all’implosione, nei Paesi della Ue, delle società tradizionali, sostituite da una postsocietà cosmopolitica e individualistica, unificata sulla base dell’antropologia del desiderio consumistico dei singoli ed egemonizzata dal liberalismo di sinistra, storicista e progressista, declinato nelle sue varie accezioni (liberalsocialismo, azionismo, “riformismo” socialdemocratico, radicalismo democratico, ecc.), come cultura politica del permissivismo conformistico senza frontiere, portato dell’eredità del precedente “trentennio glorioso” del capitalismo relativo europeo, sono illuminanti:

L’implosione delle società europee […] è anzitutto la conseguenza degli effetti parossistici dell’ideologia del «lasciar fare, lasciar andare» che ha invaso l’intero Occidente durante il suo eccezionale arricchimento della seconda metà del ventesimo secolo. Questa ideologia è l’amalgama di presupposti liberali e socialisti che lasciavano intendere che tutto fosse ormai possibile e permesso in una società definitivamente lanciata sulla via del progresso e della crescita continua. La prosperità di questo periodo unico della storia economica occidentale ha generato, in conclusione, l’anomia di una società fondata solo sul consumo[48].

La costituzione, già dopo il 1945 ma soprattutto a seguito del “boom produttivistico” del 1958-1963 e del “boom consumistico” degli anni Ottanta, dell’odierna new global middle class è parte integrante, costituente e consequenziale del summenzionato processo di “rivolta delle élites” a copertura ideologica liberale di sinistra. Pertanto, essendo fondamentalmente in aperta contraddizione e in aperto conflitto politico-culturale con la residuale “piccola borghesia tradizionale” (spesso di estrazione provinciale e a vocazione stanziale) non esente da tentazioni elettorali in direzione dei poli cosiddetti “estremi”, l’odierna new global middle class, di estrazione prevalentemente urbana e a vocazione cosmopolitica, si configura come il bacino d’utenza elettorale privilegiato della sinistra liberale. Scrive, infatti, assai appropriatamente, Jean-Claude Michéa: «[…] dato che quelle nuove classi medie – che si sviluppano, oggi, in tutte le grandi aree metropolitane del pianeta – tendono essenzialmente a raggruppare “gli agenti dominati della globalizzazione capitalista” (André Gorz), era parimenti inevitabile che finissero per diventare pian piano – per effetto della loro situazione sociale contraddittoria e della cattiva coscienza che l’accompagna regolarmente – una delle basi elettorali privilegiate della nuova sinistra liberale […]. E dunque, a tale titolo, il principale supporto sociologico di quel liberalismo culturale che è diventato lo spirito del tempo – incontestabile e incontestato – della società dello Spettacolo»[49].

Dunque, se i nuovi ceti medi cosmopoliti sono «gli agenti dominati della globalizzazione capitalistica» a direzione ideologica liberale di sinistra, nonché il serbatoio d’utenza elettorale dei partiti liberaldemocratici atlantisti (Partito democratico, Parti socialiste, SPD, Labour Party, PSOE, e chi più ne ha, più ne metta) e hanno sostituito, sociologicamente, politicamente, economicamente e culturalmente la piccola borghesia tradizionale potenzialmente fascista e/o comunista, allora è totalmente assurdo, oggi, in determinati Paesi dell’Europa centrale e occidentale (Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Spagna, Portogallo, Austria, Ungheria, ecc.), innalzare, da parte di una certa qual sinistra (in verità elettoralmente residuale, politicamente catacombale e culturalmente settaria), il vessillo dell’antifascismo a mo’ di legittimazione di una parte politica “progressista” «integrata nella società capitalista, non nelle vesti di una mera sovrastruttura culturale, ma come forza propulsiva e innovativa essenziale al progresso illimitato della società capitalista»[50]. Se ha un senso definirsi antifascisti in Ucraina, dove le milizie d’assalto nazi-atlantiste (eredi del collaborazionismo banderista) giuocano un ruolo di manovalanza attiva nella destabilizzazione americana e anti-russa del Paese, è totalmente insensato proporsi come tali in Italia, dove l’egemonia politico-culturale è al 100 per cento di matrice liberale, dove l’ultimo combattente della Repubblica Sociale ha perlomeno 95 anni e dove il cosiddetto «neofascismo di servizio atlantico» ha chiuso i battenti, scaricato dai suoi stessi patrocinatori della CIA (per manifesta inutilità a seguito del passaggio a una società integralmente televisiva, mediatizzata e in fase di conseguente liberalizzazione) nel 1980. Costanzo Preve ha scritto che «l’antifascismo non fu solo un fenomeno storicamente legittimo, il che è ovvio, ma un momento luminoso nella storia europea e internazionale»[51], soprattutto, aggiungo io, in Paesi quali la Serbia e l’Unione Sovietica. Non così per l’Italia, dove, col senno del poi, l’antifascismo dei liberaldemocratici e degli azionisti si è dimostrato essere null’altro che la protesi ideologica di legittimazione della futura, cioè odierna, società liberale. Per cui, l’antifascismo dei liberali di sinistra, dei radical-democratici, degli azionisti e dei socialdemocratici è stato “cattivo”. Ciò non significa assolutamente, per converso, che il regime fascista sia stato “buono”. Anzi, la mia condanna del colonialismo (e del razzismo) fascista (1935-1943) è senz’appello, così come quella del regime mussoliniano propriamente detto (1922-1943). A proposito della categoria di “antifascismo democratico” (o antifascismo liberal-borghese), faccio essenzialmente mie le parole scritte in merito da Costanzo Preve, parole che dovrebbero essere imparate a memoria da tutti coloro i quali intendono l’antifascismo come una categoria univoca, non passibile di sfumature interpretative anche rilevanti e che reputano tale categoria inscindibilmente legata a quella di anticapitalismo:

La generazione di Bobbio, soprattutto nella sua componente liberaldemocratica e azionista, non ha mai saputo che cosa fosse[ro] il colonialismo e l’imperialismo, e non bisogna dunque pensare che le interessino veramente gli iracheni, i serbi o altre sconosciute tribù balcaniche e mediorientali. Per questa generazione il fascismo era cattivo perché impediva la libera discussione delle opere di Benedetto Croce, non perché gettava i gas asfissianti sugli eroici combattenti etiopici, che Dio li benedica. Per quanto mi riguarda, cento intellettuali torinesi confinati a Brancaleone Calabro oppure nei paesotti dopo Eboli in cui si era fermato Gesù Cristo sono certamente una cosa grave e incresciosa, ma non valgono la metà di cento combattenti etiopici riversi con la bocca aperta che sputa il sangue provocato dai gas asfissianti sulle rive del lago Tana[52].

L’antifascismo cui faccio riferimento, stante le considerazioni di cui sopra, è pertanto, per intendersi, quello di Aleksandr Dugin e di Vojislav Seselj, e non certo quello di Gobetti, di Bobbio, di Altiero Spinelli, di Walter Veltroni, di Fausto Bertinotti, di Armando Cossutta e di Emma Bonino. Tuttavia, concordo con Costanzo Preve, nel momento in cui scrive: «Il fascismo è un fenomeno storico integralmente conchiuso, perché non esistono sociologicamente più le componenti sociali piccolo-borghesi che esso mobilitava»[53], essendo oggi la precedente borghesia tradizionale totalmente frollata negli attuali ceti medi americanocentrici. Allo stesso modo, il comunismo storico novecentesco si è vilmente levato dai piedi, in Europa, tra il 1989 e il 1991, proprio in quanto politicamente, culturalmente ed economicamente incapace di egemonizzare alla sua causa i ceti medi autoctoni. Nonostante questi dati di fatto inequivocabili, «l’antifascismo in assenza di fascismo e l’anticomunismo in assenza di comunismo hanno ancora davanti a sé anni, e probabilmente decenni. E’ frustrante per le singole vite umane di chi ha capito la follia di questo meccanismo, ma evidentemente si è qui di fronte a quei “tempi geologici” che a volte la storia si permette di adottare»[54].

Infine, è d’uopo ravvisare le origini culturali della cosiddetta “buona vecchia borghesia” per comprendere che, personalmente, facendo riferimento a un ideale cavalleresco di società, un ideale fondato su valori di onore, di patria tradizionale e di socialismo originario e non settario, non ho alcuna simpatia per questo ceto sociale composto perlopiù da cialtroni tarlati dalle proprie contraddizioni e dai propri ossessivi tabù: «La determinazione culturale, infine, vede la borghesia interessata prima dal razionalismo laico (l’illuminismo settecentesco), poi dall’esaltazione della scienza e della tecnica collegate alla produzione mercantile (le varie forme di positivismo), e non può infine sfuggire alla consapevolezza tragica della contraddittorietà dei propri stessi valori (Nietzsche, Heidegger, varie forme di nichilismo, eccetera)»[55].

E’ ovvio che, al netto delle considerazioni di cui sopra, come giustamente peraltro afferma un pensatore politico e filosofico del calibro di Aleksandr Dugin, con la cultura borghese non può sussistere alcun compromesso. Una simile constatazione è paradossalmente avallata non tanto dal sottoscritto quanto dagli stessi esponenti della sinistra transitata, in blocco, sulla sponda dell’atlantismo, del sionismo e del liberalismo più oltranzisti. E’ sufficiente, a riguardo, citare le parole di Massimo D’Alema, presidente del Consiglio ai tempi della guerra d’aggressione della Nato contro la Jugoslavia (marzo-giugno 1999). D’Alema, commentando il suo impegno di “premier di guerra” e permettendosi addirittura di ironizzare sulla portata del proprio servilismo atlantista, disse: «Era buffo che avessimo un moderato come Dini che garantiva i serbi e un comunista come me che garantiva gli americani. Ma non ci fu mai un vero problema politico interno. Fin dal primo momento io misi le cose assolutamente in chiaro nel Consiglio dei ministri. Dissi: “Questa è una cosa che io ritengo che si debba fare. Me ne assumo la responsabilità. Se finirà male, mi dimetterò”. Punto e basta. Non si votò in Consiglio dei ministri, e nemmeno in Parlamento, cosa che poi mi è stata anche rimproverata»[56]. Lo stesso Pdci, il Partito dei comunisti italiani che oggi rivendica una purezza ideologica “cristallina” tale da consentire ad alcuni suoi esponenti periferici di ergersi a guardiani dell’ortodossia marxista da presunte quanto indimostrabili, poiché frutto di ossessioni metafisiche, “contaminazioni” e “infiltrazioni” di cosiddetti “rosso-bruni”, nacque nel 1998 come costola esterna dell’allora corrente dalemiana dei Ds. Il Pdci fu costituito dalla scissione del nucleo sostanzialmente cossuttiano del Prc e ormai è noto che quella scissione fu «fatta per fare la guerra a Milosevic»[57] garantendo in tal modo la sussistenza dell’esecutivo di centrosinistra, che passò dalla guida di Prodi a quella di D’Alema, il vero patrocinatore della nominata scissione del Pdci da Rifondazione comunista. Del “fondatore” e leader del Pdci, Armando Cossutta, il filosofo marxista Stefano G. Azzarà ha icasticamente scritto: «Previdente padre di famiglia, per le classi subalterne italiane fece certamente più di Ingrao ma meno di Fanfani. A lui dobbiamo una agguerrita pattuglia di deputati e assessori, alcuni improbabili piccoli Lenin di provincia e soprattutto il governo D’Alema. Il suo capolavoro – nonché sintesi di un impegno politico sempre improntato alla saldezza degli ideali – fu però la visita a Slobodan Milosevic un giorno prima di bombardarlo»[58]. Azzarà aggiunse, in epitaffio all’avventura storico-politica dell’ideologicamente “intransigente” (attraverso l’ostentazione del ripetuto leitmotiv antifascista esternato in totale assenza di fascismo) ma politicamente compromissorio e consociativo Pdci che «l’esperienza insegna: chi tocca il PdCI prende la dalemite o muore politicamente.

Da quel momento comincia a vedere la sinistra ovunque ci sia la possibilità remota di un assessorato, persino nella sentina di Bassolino, oppure viene per sua fortuna espulso»[59]. In Italia i leader della sinistra “di governo”, in primis l’ex comunista piccista D’Alema, hanno sempre ostentato il proprio liberismo in politica economica, vantandosi di costituire, con le loro raffazzonate coalizioni “uliviste-arcobaleno”, il polo liberale per eccellenza, i veri avversari politici di una destra da sempre osteggiata non sul terreno dell’anticapitalismo bensì mediante la grottesca (per una forza di sinistra che voglia ritenersi tale) “accusa” politica relativa al “non aver mantenuto le promesse” in tema di “rivoluzione liberale” della società, della politica e dell’economia italiane. Esemplari, in merito, le seguenti parole pronunciate dall’ex presidente del Consiglio italiano ai tempi della guerra d’aggressione della Nato contro la Jugoslavia (1998-2000): «Quello [D’Alema si riferisce al frangente storico in cui fu premier, nda] è il periodo in cui l’Italia ha avuto le migliori performance in termini di crescita di pil e i migliori risultati di contenimento della spesa e del deficit pubblico. Viene considerata una stagione in cui le liberalizzazioni hanno proceduto in maniera più spedita e coraggiosa. E ci furono anche riforme significative del mercato del lavoro […]. Certo, noi volevamo adottare misure ancora più radicali e io posi il tema della revisione della struttura contrattuale e del completamento della riforma previdenziale. Si vede che i tempi non erano maturi. Ma il mio governo non cadde per deficit di riformismo. Per deficit di riformismo normalmente, in Italia, i governi restano in carica. Purtroppo»[60]. Se le parole di D’Alema più sopra riportate non fossero sufficienti a convincere il lettore della reale portata relativa all’effettivo ruolo dei ceti dirigenti liberali di sinistra in Italia come tutori degli interessi delle classi dominanti finanzcapitalistiche sovranazionali, potrebbe allora essere utile citare questo significativo passo, estratto da un libro di Andrea Romano, uno dei più stretti consiglieri politici di D’Alema ai tempi in cui, da principale “avversario” politico di Berlusconi (1994-2000), il segretario pidiessino proponeva se stesso e il suo partito all’elettorato come le autentiche forze politiche impegnate nell’attuazione della “rivoluzione liberale” tesa alla normalizzazione neocapitalistica e atlantista del Paese: «La “rivoluzione liberale” di D’Alema era la traduzione italiana di uno sforzo comune a tanta parte della sinistra europea, quella parte che di lì a poco sarebbe arrivata al governo in Francia, Gran Bretagna, Germania. Ma nel caso italiano c’era qualcosa in più. Per la prima volta dal 1987, da quando Alessandro Natta aveva proclamato il Pci “parte integrante della sinistra europea”, questo obiettivo diventava qualcosa di più di un vuoto esercizio di retorica identitaria. Ancor più di quanto non fosse stato per l’avvio della segreteria D’Alema, che pure aveva deciso di fare del “socialismo europeo” un punto fermo della collocazione internazionale del partito, alla ricerca di un ancoraggio assai più solido delle fumisterie “oltriste” su cui era nato il Pds con Occhetto. Solo con la “rivoluzione liberale” per un “paese normale” quell’ambizione acquistava per la prima volta concretezza. Era qui che la sinistra postcomunista italiana annunciava di volersi misurare con gli stessi obiettivi che si sperimentavano nei laboratori della socialdemocrazia europea, uscendo dalla rivendicazione identitaria per confrontarsi con slogan e programmi che ovunque in Europa impegnavano i socialisti»[61]. Il renzismo, in questo senso, non è che la prosecuzione del percorso, così paradossalmente ben narrato da Romano, di adesione totale della sinistra “postcomunista” italiana alla vulgata ultracapitalistica “venduta” all’opinione pubblica di ceto medio semicolto (knowledge class) come “processo di modernizzazione”. Afferma infatti, in proposito, lo stesso Andrea Romano: «Sono stato vicino a D’Alema quando parlava di rivoluzione liberale. Purtroppo quella rivoluzione è rimasta solo sulla carta, mentre Renzi la sta facendo per davvero»[62]. Il fatto che i principali esponenti dell’attuale ceto politico socialdemocratico e liberaldemocratico europeo di complemento agli interessi dei gruppi strategici sovranazionali di riproduzione turbo-capitalistica siano addirittura cooptati dalla Nuova Classe Globale è confermato dalle seguenti parole, pronunciate da Sergio Marchionne nei riguardi di Matteo Renzi: «Per me la cosa importante è andare in una certa direzione, andare avanti. Diamogli spazio, l’abbiamo messo là per quella ragione lì»[63]. Significativo notare che, nel 2012, in occasione delle elezioni presidenziali in Serbia, dove Fca ha degli interessi determinati, Marchionne si fosse prodigato a esternare il sostegno del gruppo industriale transnazionale di cui è amministratore delegato al candidato liberale di sinistra, il presidente uscente Boris Tadic, considerato maggiormente “affidabile” e ideologicamente “compatibile” con gli attuali processi di globalizzazione made in Usa rispetto al proprio avversario, il “conservatore” (poi risultato elettoralmente vincente) Tomislav Nikolic. La metamorfosi, in chiave liberaldemocratica e atlantista, della sinistra italiana, fu da sempre caldeggiata dalla punta di lancia del “circo mediatico” liberal-progressista italiota, ossia il quotidiano la Repubblica. A rivendicare tutto ciò è l’ex direttore di codesto quotidiano, Ezio Mauro, il quale scrive: «Repubblica ha informato i suoi lettori giorno dopo giorno, come vuole la missione di un giornale. Ma è stata anche un attore culturale e non soltanto uno spettatore della vicenda italiana. Il genio di Scalfari quarant’anni fa […] ha scommesso su un cambiamento del Paese che avesse le sue radici nella modernizzazione, nell’Europa, nella piena agibilità di un sistema politico bloccato.

Il giornale ha creduto che la sinistra italiana potesse essere un soggetto importante per questa modernizzazione, sapendo che per farlo doveva compiere la sua storia uscendo dalla corazza comunista per incrociare la cultura politica liberal-democratica […]. Con la speranza, che questo giornale ha sempre sollecitato, di vedere finalmente in campo una sinistra risolta, europea, moderna e occidentale»[64]. Il rapporto, strettissimo, corrente tra padroni, stampa aziendale e sinistra liberaldemocratica è addirittura esplicitamente rivendicato da Ezio Mauro, nel momento in cui l’ex direttore de la Repubblica scrive: «Per l’imprinting di Scalfari e Caracciolo, i giornali del Gruppo Espresso hanno scelto di camminare di fianco alla sinistra italiana, seguendo la mappa dei valori liberal-democratici, stimolandola a evolvere in questa direzione. E alla Stampa […] insieme all’impianto filo-governativo della più grande impresa italiana si è raccolta quella cultura liberale di sinistra che nasce dall’azionismo, e che ha portato a scrivere per quel giornale Casalegno, Bobbio, Galante Garrone, Mila, Jemolo. Due storie giornalistiche diverse dunque (una a Torino, da De Benedetti a Ronchey, a Mieli, l’altra a Roma, di forte impronta scalfariana) e un riferimento culturale che nasceva direttamente dalla couche azionista per gli uni, dalla sinistra attenta al vincolo liberal-democratico per gli altri»[65]. Non pago di aver esplicitamente affermato il potenziale coercitivo e censorio del «vincolo liberaldemocratico» nei confronti di qualsivoglia opzione giornalistica improntata a un diverso approccio culturale, il pasdaran del capitalismo contemporaneo Ezio Mauro, nel momento in cui scrive che «il mercato non si muove mai per caso quando sceglie i suoi uomini, così come il giornalismo quando fa le sue scelte di vertice»[66], apertamente quanto spudoratamente avalla la tesi di Pierre Bourdieu relativa agli intellettuali come «gruppo sociale dominato delle classi dominanti» nonché, aggiunge il sottoscritto, quale “gruppo sociale cooptato dalle classi dominanti”. Sostanzialmente, gli intellettuali liberali odierni si connotano alla stregua di clown colti, totalmente addomesticati all’ideologia e agli interessi economici delle classi dirigenti neocapitalistiche. Gli intellettuali, oggi, essendo di fatto dei meri tecnici del consenso neoliberale, svolgono principalmente il ruolo di promotori, presso il pubblico-consumatore teledipendente, della filosofia del disincanto e della rassegnazione, secondo cui «non c’è più niente da fare, la storia è finita, il capitalismo ha vinto e il mondo va sopportato così com’è». D’altronde, se gli intellettuali non fossero e non agissero come un gruppo sociale dominato, cooptato e selezionato (dopo anni di “formazione” in costosissime business school private dove agli allievi-somari di famiglia “bene” viene insegnato esclusivamente che il mondo dev’essere politicamente, economicamente e socialmente riprodotto così com’è) dalle classi dominanti, non avrebbero accesso ai media e sarebbero costretti, non potendo esercitare lo strapagato ruolo di teatranti nell’avanspettacolo di quart’ordine dei talk show politicamente corretti, a trovarsi un lavoro da “comuni mortali”, magari precario e a stipendio zero. Siccome non credo che i principali editorialisti dei media liberali italioti si risolveranno presto, “folgorati sulla via di Damasco” dell’onestà intellettuale, ad abbandonare i rispettivi posti di opinion makers miliardari in luogo del più consono, per loro, mestiere di venditore di bibite, cocco e tappeti “persiani” made in Taiwan sull’affollato lungomare estivo della riviera romagnola o della Costa del Sol, temo seriamente che il “circo mediatico” di centrosinistra guardia bianca degli interessi speculativi di capitalisti d’ogni sorta riprodurrà se stesso ancora per secoli e che sarà compito del pubblico-lettore e del pubblico-ascoltatore cominciare, “facendosi furbo” come si suol dire, ad agevolare la costituzione di nuovi canali d’informazione alternativi al mainstream, cessando di prestar fede alla vulgata giornalistica (e accademica) generalista e di complemento, per volgere la propria attenzione altrove. Non sono però, in definitiva, molto ottimista in merito, essendo al corrente del fatto che il ceto medio italiano è tra i più conformisti del mondo e che le classi popolari nostrane sono state frollate, da un trentennio abbondante di spettacolo commercial-televisivo trash, in un magma neoplebeo e flessibilizzato tale da far apparire il sottoproletariato rurale e provinciale ucraino-occidentale animatore del golpe di Euromaidan una sorta di vera e propria “avanguardia rivoluzionaria anticapitalista”.

Conformismo, Stupidità e Nichilismo, tratti culturali fondanti della sinistra “giovanilistica” contemporanea

Tenendo presente i dati di fatto di cui sopra, e ricordando che Ezio Mauro afferma esplicitamente che la cultura liberaldemocratica di sinistra è espressione «di un’Italia di minoranza ma vogliosa di Europa […] e di riforme»[67], non credo che sia corretto sostenere che «la progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l’incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione»[68]. In effetti, io penso che la sinistra, oggi, non abbia alcuna intenzione di parlare alle classi popolari e che tale disaffezione nei confronti di quello che viene creduto il suo elettorato “storico” non sia dovuto a una generica «incapacità» da parte dei suoi dirigenti di comprendere le dinamiche del capitalismo contemporaneo. Il divorzio politico tra la sinistra e le classi popolari è infatti riconducibile alla messa in pratica, da parte dei cosiddetti “progressisti”, di una strategia vera e propria di sostegno politico alla radicalizzazione dei processi di globalizzazione americanocentrica.

L’abbattimento del katechon (dai media liberali venduto all’opinione pubblica appunto sotto la dicitura giornalistica di “globalizzazione”) è infatti un fenomeno “epocale” e di chiara impronta coloniale, che la sinistra postmoderna interpreta però come una sorta di moto progressivo verso la cosmopolitica “società di liberi ed eguali”, esattamente come la sinistra sessantottesca aveva travisato il casino di fabbrica e il casino studentesco di quegli anni (1966-1973) per la palingenesi di una imminente rivoluzione comunista. Rammentiamo infatti, con Jean-Claude Michéa, che per la sinistra storicista e positivista «l’ideologia progressista è fondata sulla credenza che esista un “senso della storia” e che ogni passo avanti costituisca un passo nella giusta direzione»[69]. A questo punto, se l’obiettivo della sinistra liberale è quello di porsi volontariamente, consapevolmente e senza riserve come garante degli interessi della Nuova Classe Globale fautrice della mondializzazione turbocapitalistica (dai liberali e dai radicali di sinistra interpretata, appunto, come moto progressivo di emancipazione cosmopolitica individuale nel nome delle cosiddette “libertà civili”), è chiaro che gli interlocutori cui tale polo dovrà rivolgersi non potranno che essere i sostenitori più accaniti della globalizzazione socio-culturale, ossia quei disinibiti, narcisisti, cinici e pronti a tutto pur di soddisfare il proprio desiderio individuale al consumo compulsivo «agenti dominati delle classi dominanti» (new global middle class), che Jean-Claude Michéa così tratteggia:

«Da quando la sinistra è convinta che l’unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent’anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli “agenti dominati della dominazione”, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i “tabù” del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è “un fatto sociale” totale. E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di “produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o “madri in affitto”), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù»[70]. La sinistra culturale e politica, almeno dal Sessantotto a oggi, ha contribuito pesantemente alla liquefazione dei legami sociali collettivi, ossia alla transizione da una società a direzione ideologica “borghese tradizionale”, e a direzione politica piccolo-borghese democristiana mediata da consistenti dosi di economicismo sindacalizzato piccista, a una postsocietà nichilistica integralmente di spettacolo, frammentata su linee dettate dall’egoismo consumistico dei singoli individui ridotti, dalla precedente teledipendenza e dalle nuove dipendenze da internet (World Wide Web), a monadi depsicologizzate e nevrotiche.

L’esito sociologico dell’odierna “società del Capitale” a direzione culturale gauchiste, ossia la cosiddetta Erasmus Generation ha dal canto suo prodotto, produce e produrrà conformismo e nomadismo, deresponsabilizzazione e disimpegno, cosmopolitismo e cinismo, promiscuità, alcolismo e disinvoltura giovanilistica nell’abuso di droghe. Tutte categorie sociologiche e attitudini comportamentali perfettamente confacenti alla riproduzione dell’odierna società globale, fondata sulla religione idolatrica del monoteismo del mercato e dell’universalismo dei “diritti di libertà individuali”. Ma soprattutto, l’Erasmus Generation (tanto decantata dai cultori, politici e giornalistici, del politically correct) ha prodotto, produce e produrrà stupidità (individuale e collettiva). Il principale problema del nostro tempo, a livello di cultura giovanile, risiede nel fatto che un numero sempre più consistente di giovani e giovanissimi si sia ormai istupidito. Se così non fosse infatti, tali giovani non cederebbero, in maniera ostinatamente e ostensivamente consenziente, alle lusinghe del circo mediatico che, ogni giorno, a reti unificate e su tutti i giornali, li invita a lasciare il proprio Paese, le loro famiglie e a rinunciare a qualsivoglia spiraglio di dignitoso impegno politico e civile teso a cambiare le cose “a casa propria”, per andare a pulire i cessi nelle catene multinazionali di caffetterie a Londra[71].

 

Note

[1] C. Preve, L. Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul Nuovo Ordine Mondiale, introduzione di Stefano Sissa, Il Prato, Padova, 2015, p. 147.

[2] C. Preve, Nazione italiana, Europa e Mediterraneo. Il presente come storia. Coscienza storica, memoria storica, liberazione, VI parte, in http://www.kelebekler.com/occ/prevenazione06.htm

[3] J-C. Michéa, L’impero del male minore. Saggio sulla civiltà liberale, Libri Scheiwiller, Milano, 2008, p. 21.

[4] Ivi, p. 16.

[5] Ivi.

[6] Ivi.

[7] C. Robin, La sinistra del capitale e dell’alta finanza. Liberalismo culturale, mercato globalizzato, società liquida, Controcorrente, Napoli, 2015, p. 162.

[8] C. Preve, Nazione italiana, Europa e Mediterraneo. Il presente come storia. Coscienza storica, memoria storica, liberazione, VI parte, cit.

[9] D. Fusaro, a cura di, Fichte. Missione del dotto, postfazione di Marco Ivaldo, Bompiani, Milano, 2013, p. 155, nota 70.

[10] C. Preve, Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi, CRT, Pistoia, 1999, p. 21.

[11] Ivi, p. 22.

[12] Ivi, p. 14.

[13] C. Preve, L. Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul Nuovo Ordine Mondiale, op. cit., p. 323-324.

[14] C. Robin, La sinistra del capitale e dell’alta finanza. Liberalismo culturale, mercato globalizzato, società liquida, op. cit., p. 148.

[15] Ivi, p. 149.

[16] J-C. Michéa, I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, Neri Pozza, Vicenza, 2015, p. 35.

[17] Ivi.

[18] Ivi, p. 75.

[19] E. Mauro, Una certa idea dell’Italia, in «la Repubblica», 15 gennaio 2016.

[20] Ivi.

[21] M. Blondet, Usa vuole basi nel Sinai (e noi, “verità per Regeni”), in «Blondet & Friends», 21 aprile 2016.

[22] G. Ricci, La teledittatura. Il berlusconismo: neo-civilizzazione sociale e consenso politico, Kaos Edizioni, Milano, 2003, p. 49.

[23] F. Rossi, Copiamo Dr. House e lasciamo stare Sarkò, intervista a Carlo Freccero, in «Secolo d’Italia», 27 gennaio 2008.

[24] Cit. in Non firmato, Freccero: vincenti i serial Usa. Arbore: manca il varietà, in «Corriere della Sera», 30 novembre 2006.

[25] A. Aresu, L’irresistibile impero dei telefilm americani, in AA. VV., Media come armi, Quaderni Speciali di «Limes», 2012, p. 173.

[26] Ivi, p. 175.

[27] C. Preve, L. Tedeschi, Alla ricerca della speranza perduta, Settimo Sigillo, Roma, 2008, p. 124.

[28] C. Preve, L. Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul Nuovo Ordine Mondiale, op. cit., p. 179.

[29] J-C. Michéa, I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, op. cit., p. 67.

[30] Ivi.

[31] C. Preve, L. Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul Nuovo Ordine Mondiale, op. cit., p. 323.

[32] M. Blondet, No Global. La formidabile ascesa dell’antagonismo anarchico, Edizioni Ares, Milano, 2002, p. 64.

[33] Ivi, p. 63.

[34] Ivi, p. 23-24.

[35] G. Passalacqua, Bossi assolve Haider: “E’ solo nazionalista”. Il Senatùr: “Berlusconi? Non conosce il governatore della Carinzia, non gli ha mai parlato”, intervista a Umberto Bossi, in «la Repubblica», 13 luglio 2000.

[36] Ivi.

[37] J. Els?sser, Cavallette. Capitale finanziario, balcanizzazione e fallimento della sinistra, Zambon, Frankfurt, 2008, p. 117.

[38] M. Blondet, No Global. La formidabile ascesa dell’antagonismo anarchico, op. cit., p. 24.

[39] Ivi, p. 63.

[40] Cit. in P. Borgognone, L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, prefazione di Cesare Allara, Zambon, Frankfurt, 2016, p. 962.

[41] S. Gozi, Generazione Erasmus al potere. Il coraggio della responsabilità, Università Bocconi Editore, Milano, 2016.

[42] S. Caldarella, La società del contrario. Uno scritto sulla cultura di massa e i suoi intellettuali, Zambon, Frankfurt, 2004, p. 119.

[43] S. Gozi, Generazione Erasmus al potere. Il coraggio della responsabilità, op. cit.

[44] S. Caldarella, La società del contrario. Uno scritto sulla cultura di massa e i suoi intellettuali, op. cit., p. 119.

[45] Ivi.

[46] S. Gozi, Generazione Erasmus al potere. Il coraggio della responsabilità, op. cit., p. 2-3.

[47] Ivi, p. 82.

[48] G. Dussouy, Fondare lo Stato europeo. Contro l’Europa di Bruxelles, prefazione di Dominique Venner, Controcorrente, Napoli, 2016, p. 15.

[49] J-C. Michéa, I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, op. cit., p. 67-68.

[50] C. Preve, L. Tedeschi, Alla ricerca della speranza perduta, op. cit., p. 23.

[51] C. Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli, 2006, p. 196.

[52] C. Preve, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente, Editrice C.R.T., Pistoia, 2000, p. 126.

[53] C. Preve, E. Orso, Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla struttura di classe del capitalismo contemporaneo, Petite Plaisance, Pistoia, 2010, p. 166.

[54] Ivi, p. 166-167.

[55] C. Preve, L. Tedeschi, Alla ricerca della speranza perduta, op. cit., p. 119.

[56] S. Cappellini, Kosovo, fu un errore bombardare Belgrado, intervista a Massimo D’Alema, in «Il Riformista», 24 marzo 2009.

[57] S. G. Azzarà, Bibi e Bibo litigano. D’Alema e Vendola al lavoro per il nuovo centrosinistra, in «Materialismo Storico», 10 marzo 2016.

[58] S. G. Azzarà, Armando Cossutta, detto Bibì, in «Materialismo Storico», 15 dicembre 2015.

[59] S. G. Azzarà, Non c’è speranza per Spezzaferro. Gli restano il PdCI e il Manifesto, in «Materialismo Storico», 12 marzo 2016.

[60] S. Cappellini, Kosovo, fu un errore bombardare Belgrado, intervista a Massimo D’Alema, cit.

[61] A. Romano, Compagni di scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti, Mondadori, Milano, 2008, p. 95.

[62] T. Ciriaco, Romano: “Matteo fa quel che non fece D’Alema, i nostri elettori votano tutti per lui”, intervista ad Andrea Romano, in «la Repubblica», 21 ottobre 2014.

[63] Cit. in P. Borgognone, L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale, op. cit., p. 34.

[64] E. Mauro, Una certa idea dell’Italia, cit.

[65] E. Mauro, Polo Repubblica-Stampa, le radici comuni, in «la Repubblica», 3 marzo 2016.

[66] Ivi.

[67] Ivi.

[68] F. Gambaro, Jean-Claude Michéa: “La sinistra deve rifondare l’alleanza illuminista”, intervista a Jean-Claude Michéa, in «la Repubblica», 19 dicembre 2015.

[69] Ivi.

[70] Ivi.

[71] Cfr. molto interessante, M. Blondet, Grande innovazione del capitalismo avanzato: gli schiavi, in «Blondet & Friends», 26 aprile 2016.

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