Fonte: Aurora sito

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=54569

24/06/2016

 

La lunga strada verso l’inganno. Fatti e antefatti di Pearl Harbor

di Luca Baldelli  

 

7 dicembre 1941, il Giappone militarista e filo-fascista di Hirohito, Konoye (Primo Ministro), Matsuoka (abile e inflessibile Ministro degli Esteri), Shiratori (Ambasciatore nipponico a Roma), sferra l’attacco aereo contro la flotta statunitense a Pearl Harbor. Gli USA di Franklin Delano Roosevelt hanno offerto su un piatto d’argento, anzi dorato, il pretesto per rompere la cortina avvolgente dell’isolazionismo ed entrare in guerra contro l’Asse. Nel Paese, gli umori contrari ad ogni coinvolgimento nel conflitto mondiale erano stati, almeno fino al 1940, maggioritari tra l’opinione pubblica e con assoluta trasversalità in riferimento al mosaico delle forze politiche: democratici, repubblicani, per tacer dei populisti di Padre Coughlin, fervente filofascista, animatore di trasmissioni radiofoniche trasudanti odio verso le “plutocrazie”, tutti, in stragrande maggioranza, desideravano stare alla finestra a guardare svilupparsi un conflitto che, nelle intenzioni dei centri di potere yankee, doveva, ad un tempo, provocare la reciproca distruzione di Germania e URSS e, poiché ciò non dispiaceva, anche logorare la potenza economica e l’impero coloniale inglesi. Poi, sulle macerie del Reichstag, del Cremlino e dei vari lembi isolani e coloniali di Albione, il giovane Impero USA avrebbe consolidato e moltiplicato le sue fortune, facendole ricadere nelle tasche dei suoi tycoons attraverso l’ineffabile cornucopia della dominazione militare, valutaria e finanziaria estesa a tutto l’orbe terracqueo. Non era in fondo una novità, questa: negli anni ’20 e ’30 l’azione del Partito Repubblicano, con personaggi quali il Senatore Henry Cabot Lodge, del Massachusetts, e William E. Borah, dell’Idaho, era stata improntata al più marcato isolazionismo che naturalmente non precludeva, anzi mascherava, un imperialismo accentuato nel “cortile di casa” sudamericano e in altre aree. A partire dal 1940, con il crescere del confronto nippo–statunitense e anglo–nipponico nel quadrante asiatico, cresce il bisogno di agitare il “pericolo giallo”, spauracchio al quale il fascismo giapponese offre, con il suo volto aggressivo ed espansionista (molto simile a quello anglo-statunitense, d’altro canto), notevoli appigli.

L’astro dell’isolazionismo, pertanto, appare calante. I megafoni della propaganda anglo-statunitense martellano inesorabilmente e senza pausa l’opinione pubblica: il Sol Levante viene dipinto come ricettacolo di ogni male e di ogni pericolo, come una minaccia alla sopravvivenza stessa dell’Occidente e del suo ordine economico.

Naturalmente, che lì vi sia un regime fascista non impensierisce l’establishment statunitense: a Washington sono stati allevati e protetti i peggiori tiranni, dal nicaraguense Somoza, mandante dell’assassinio di Sandino, al dominicano Trujillo, razzista incallito, passando per il cubano Batista e l’haitiano Duvalier.

Framklin Delano Roosvelt

Ciò che turba i sonni dell’Impero yankee è la possibilità che l’Asia, quantunque sotto la fascistissima “Sfera comune di prosperità della Grande Asia Orientale” egemonizzata da Tokyo, una sorta di Nuovo Ordine Europeo in salsa orientale, possa scuotersi di dosso il giogo del capitalismo di rapina occidentale, a netta prevalenza inglese (in misura minore statunitense) e inaugurare un’era di nuovi rapporti di forza in quella parte del Pianeta. Contro questa iattura, l’isolazionismo, caldeggiato all’inizio anche da Franklin Delano Roosevelt per poter essere rieletto, non solo non basta ma è controproducente. Bisogna passare all’opzione militarista, con buona pace dei Prescott Bush e di quanti, per interessi economici opposti ma coincidenti, e per sentimenti filofascisti, sostengono l’appeasement tanto con la Germania quanto con il Giappone. Bisogna provocare l’Impero del Sol Levante e spingerlo a fare il passo falso, in modo tale da giustificare una dichiarazione di guerra, per la quale il terreno è stato d’altro canto preparato, nell’opinione pubblica, con la demonizzazione del Giappone. Ancora nel luglio 1941, un sondaggio Gallup rileva come il 79% dell’opinione pubblica statunitense sia contro la guerra e a favore di una non ingerenza negli affari europei. A novembre, la percentuale dei contrari, nonostante il martellamento mediatico nippofobico, tocca la soglia rilevante del 61%. Roosevelt, la cui fretta di entrare in guerra è notata persino, a più riprese, da vari uomini politici nell’arco temporale 1940/41 (in modo particolare da Churchill, nel corso della Conferenza Atlantica dell’agosto ’41), diviene l’alfiere della linea interventista, anche se deve guardarsi le spalle dalla fronda di infiltrati e isolazionisti duri a morire.

 

Attraverso i media, come abbiamo visto, l’entourage presidenziale cerca di manipolare in ogni modo l’opinione pubblica, unendo, al consueto antisovietismo radicato nella mentalità statunitense, la più truculenta greuelpropaganda contro il Giappone. Tutto ciò non è però sufficiente! Occorre concepire piani militari, provocazioni, azioni false flag capaci di scuotere l’opinione pubblica, finanche di scioccarla, per spostare l’asse delle scelte verso l’impopolare opzione bellica. Occorre, in ambito militare, procedere anche con purghe di vasta entità, se necessario; non sono ammesse deroghe, critiche o distinguo in merito ai piani di guerra (folli, come quelli nipponici!) che si stanno preparando. Gli USA, al contrario dell’URSS, non sono un Paese invaso, attaccato e dunque legittimato a muovere guerra per salvare se stesso, la sua gente, le sue conquiste sociali; anzi, con i “Neutrality Acts”, Washington ha sancito di non volersi impicciare delle sorti del Vecchio Continente e di altre aree del Pianeta che non siano il proprio “courtyard”. Alla guerra ci si deve arrivare con l’inganno, “by the way of deception”, per dirla alla yankee. E’ l’ottobre del 1940 quando il Capitano di Corvetta Arthur H. McCollum confeziona un documento molto importante per capire lo svolgersi dei fatti: un memorandum in otto punti (“Eight Action Memo”), incentrato sulle migliori strategie per spingere il temuto Giappone alla guerra.

 

Vediamoli uno per uno:

1. Stabilire un’alleanza con la Gran Bretagna per utilizzare le basi militari di Singapore;

2. Cementare un’ intesa con i Paesi Bassi per l’utilizzo delle basi nelle Indie olandesi;

3. Intraprendere ogni azione utile per appoggiare il Governo di Chiang Kai Shek in Cina;

4. Inviare un’intera divisione di incrociatori pesanti nelle acque dell’Estremo Oriente;

5. Inviare due divisioni di sottomarini nella sfera di influenza giapponese;

6. Tenere il grosso della flotta statunitense in prossimità delle Hawaii;

7. Spingere gli olandesi a non accordare concessioni di alcun tipo al Giappone, in particolare nell’ambito dei commerci petroliferi;

8. Varare un embargo totale verso il Giappone, assieme alla Gran Bretagna.

 

Gli storici ancora discutono su quale fosse il reale livello di conoscenza di Roosevelt rispetto a questo memorandum, ma appare ovvio che il Presidente ne sapesse almeno qualcosa! Infatti, tutte le azioni intraprese da Franklin Delano Roosevelt verso il Giappone, a partire dal 1940, sono coerenti con il dettato e con i propositi contenuti nei punti sopra riportati. Roosevelt, infatti, nel 1940/41, mette a segno uno dopo l’altro dei colpi che finiranno per convincere il Sol Levante circa l’inevitabilità della guerra con gli USA.

Sul piano delle relazioni estere ed economiche, l’embargo statunitense sui minerali e i metalli, diretti verso un Giappone ormai lanciato sull’Indocina in “disimpegno coloniale” da parte del governo di Vichy, apre le danze belliche: esso pesa notevolmente sull’economia nipponica, dal momento che, ancora nel 1938/39, oltre il 70% dei metalli ferrosi e più del 93% del rame utilizzati in Giappone venivano importati dagli USA. Sul piano strettamente interno, l’Ammiraglio Richardson, Comandante in capo della Marina, viene estromesso a causa del suo rifiuto di accettare deliberate provocazioni antinipponiche e di avallare una linea suicida su tutti i fronti: il governo statunitense, infatti, mentre fa spostare le flotta verso le Hawaii, a Pearl Harbor, non organizza e non rende possibili le più adeguate difese del caso contro attacchi aerei e a mezzo di siluri, assolutamente imprescindibili per assicurare l’integrità e l’invulnerabilità dei “pezzi da novanta” del patrimonio militare navale. Il Pacifico, è chiaro, deve tingersi di sangue, perché solo così si può avere la scusa per entrare in guerra: questo è il messaggio che arriva alle orecchie dei più accorti e a nulla serve nasconderlo con la cortina fumogena dei frasari di convenienza. Pearl Harbor, la località destinata ad assurgere alle massime vette della storia contemporanea, comincia a venir adocchiata e scrutata dal mirino giapponese, paradossalmente (si fa per dire…) secondo i piani statunitensi. Del resto, non è la prima volta che il nome di questa esotica località fa il proprio ingresso nei piani bellici, reali e virtuali, e nelle esercitazioni militari: nel 1932, l’Ammiraglio Yarnell, nel contesto di una simulazione, fa attaccare da 152 aeroplani la postazione navale di Pearl Harbor; nel 1938, poi, l’Ammiraglio King, sempre nell’ambito di un’esercitazione, fa attaccare la postazione navale da velivoli levatisi in volo dalla portaerei Saratoga. C’è però dell’altro e ha a che fare con… la “magia”. Niente di esoterico, per carità (almeno in questo cas…)! Si tratta del sistema “MAGIC”, complesso di sistemi di decodifica delle comunicazioni cifrate giapponesi. Ebbene, in quel burrascoso biennio 1940/41, l’intelligence statunitense è arrivata ormai a decodificare quasi tutti i messaggi in codice provenienti da Tokyo. Il sistema “MAGIC” è una sorta di scatola magica dentro alla quale vi sono vari scompartimenti, corrispondenti a diversi livelli di codifica: RED (poi PURPLE, usato dalle Ambasciate), TSU (J–19) e OITE (PA–K2), utilizzati dai Consolati, JN–25 (Codice della Marina Imperiale Giapponese, poi sostituito da BAKER 9). La querelle tra gli storici, ancora oggi, investe un argomento centrale: al dicembre del 1941, gli statunitensi avevano decifrato davvero i messaggi in codice nipponici? La tesi ufficiale è che l’attacco di Pearl Harbor non poteva essere previsto, dato che i messaggi criptati non erano stati decifrati in tempo. In particolare, si è sostenuto, la trasmissione dei dispacci era avvenuta con un’ora e quaranta minuti di ritardo rispetto al blitzkrieg nipponico: il messaggio sarebbe giunto infatti sulle scrivanie del Dipartimento di Stato alle 14,05. Questa la tesi ufficiale, giustificativa e assolutoria; la realtà, come vedremo, attesta ben altri fatti.

 

Un passo indietro, per riallacciarci ai preparativi bellici e inquadrare nelle giuste coordinate spazio-temporali il tutto. Il 1940 segna dunque, come abbiamo ricordato, le prime misure commerciali di boicottaggio degli USA verso il Giappone, la formulazione del Piano McCollum, l’allontanamento dell’Ammiraglio Richardson, l’escalation della preparazione bellica mirata a colpire il Sol Levante. Matsuoka, Ministro degli Esteri nipponico, dichiara l’Indocina e le Indie francesi zone d’interesse giapponese. L’ala dura dei fascisti giapponesi, come desiderato dagli anglo–statunitensi, si rafforza sempre più, a scapito dei moderati. Si va estendendo, come conseguenza del titanico bracco di ferro ingaggiato, l’area di penetrazione economica e politica di Tokyo nel quadrante asiatico. L’anno successivo, il 1941, segna una tappa ancora più avanzata di questa strategia, con il tandem anglo–statunitense in cabina di regia. Il Giappone viene fatto oggetto di rappresaglie economiche e politiche con funzione di aperte provocazioni, di catalizzatori del conflitto che si vuole in ogni modo. In Inghilterra si procede con arresti in massa di cittadini nipponici incolpevoli, o meglio colpevoli solo di appartenere ad un Paese messo ormai nel mirino. Quando, nel luglio del 1941, Tokyo ottiene dal Governo di Vichy la possibilità di piazzare forze militari e avamposti difensivi nel cuore della vecchia Indocina francese, le contraddizioni inter–imperialiste con l’occidente si acuiscono sempre più.

Ogni passo in avanti rassicurante della diplomazia giapponese, guidata in gran parte da elementi borghesi o vetero-aristocratici moderati, quantunque legati a concezioni imperialiste e nazionaliste, viene sabotato in maniera premeditata dagli USA: in tale maniera, prende quota il “Partito dello scontro bellico”, la fazione radicale, oltranzista, guidata da Hideki Tojo, Ministro della Guerra. Se nel 1940 il boicottaggio economico statunitense aveva interessato i minerali e i metalli, nel 1941 la giugulazione economica colpisce il Sol Levante in maniera ancora più pesante: nel mese di luglio, tutti i beni del Giappone vengono infatti congelati, all’indomani dell’accordo tra Tokyo e Vichy. Ad agosto, nel caldo canicolare che infiamma il mondo, e non solo meteorologicamente, la grande ed eroica URSS combatte per fermare il tedesco invasore in totale solitudine!, gli USA avanzano con tutte le pedine più insidiose sullo scacchiere, sferrando l’embargo totale sul petrolio e i carburanti diretti verso il Giappone.
Hideki Tojo

Tokyo, per rendere l’idea, importa, nell’anno di grazia 1939 ben l’80% del petrolio dagli USA! E’ chiaro il messaggio che si vuol lanciare: via ogni residua trattativa, Tokyo sia stritolata nella morsa del boicottaggio e la parola passi alle armi. Come può, infatti, un Paese poverissimo di materie prime e sovrappopolato come il Giappone, fare a meno di approvvigionamenti vitali per la sua economia? Se si chiudono in faccia al Sol Levante le porte degli scambi commerciali in settori di importanza vitale, è evidente che si spera che Tokyo stesso cerchi di riaprirsele con azioni di forza nella regione asiatica, precisamente nell’area del Borneo e delle Indie olandesi, compiendo così il fatidico passo falso.

 

L’imperialismo porta la guerra come le nuvole la pioggia: questa verità, elementare per ogni militante marxista–leninista e antimperialista, emerge chiaramente osservando sul quadrante internazionale le mosse degli USA nel periodo da noi preso in considerazione, oltre naturalmente a quelle della Germania e degli altri Paesi alleati o vicini all’Asse, Giappone incluso (con l’ala dura dei militari in azione di rafforzamento speculare a quella dei falchi yankee). Gli Stati maggiori preparano piani di guerra sempre più dettagliati, con la previsione di attuarli nel più breve tempo possibile. I giapponesi sono agguerriti e non intendono lasciare l’iniziativa a Roosevelt, per trovarsi poi impreparati e costretti a impaludare le proprie truppe nelle secche degli Oceani, con esiti rovinosi. Così, l’aeronautica giapponese, con spirito di iniziativa e dinamismo superiori a quelli degli altri corpi militari, rispolvera il vecchio progetto (prima appartenuto al capitolo “varie ed eventuali”) di colpire Pearl Harbor, ovvero quella stessa base navale delle Hawaii che, con perfetta coerenza rispetto agli intenti provocatori di Roosevelt, e in spregio agli inviti alla prudenza di parte dei vertici militari della Marina USA, è stata trasformata nella piazzaforte yankee del Pacifico. Quel luogo esotico, evocante coralli e corone di fiori a cingere il collo dei turisti, sta per diventare la dependance fisica e storica dell’Harmageddon… E lo sanno in molti, anche se per decenni si darà ad intendere che non è così!

 

Nel gennaio del 1941, Ricardo Shreiber, inviato peruviano a Tokyo, confida a Max Bishop, terzo Segretario dell’Ambasciata USA, di essere a conoscenza di un piano giapponese per attaccare Pearl Harbor. Di questa informazione viene messo al corrente il Dipartimento di Stato, assieme all’Ammiraglio Kimmel, nuovo comandante della flotta, il quale sarà poi destinato a fare da capro espiatorio per una mancata difesa della base navale voluta scientemente da chi già aveva programmato la guerra, non certo da lui. Il 31 marzo successivo, la relazione navale Bellinger–Martin ribadisce, nero su bianco, che si sta preparando un attacco giapponese, con Pearl Harbor come bersaglio. Ad agosto è Dusko Popov, uno dei principali agenti inglesi, nome in codice “Triciclo”, a rivelare all’FBI il piano di attacco a Pearl Harbor. Più o meno nello stesso periodo, il senatore Guy Gillette, venuto a conoscenza dei preparativi bellici in maniera dettagliata, allerta il Dipartimento di Stato e lo stesso Franklin Delano Roosevelt. Nell’ottobre del 1941, l’agente segreto Sorge, messosi a disposizione dell’URSS per la suprema causa della pace mondiale, informa del prossimo attacco a Pearl Harbor il Cremlino che, prontamente, gira la preziosa dritta agli USA, anche se dai verbali del governo statunitense sparirà ogni riferimento al fatto (ben 32000 passaggi “sbianchettati” dagli omissis!) Oltre a questi avvertimenti, tutti convergenti verso un unico obiettivo, chiaro e preciso, c’è l’attività di decifrazione dei messaggi in codice giapponesi da parte degli USA, che procede inarrestabile come un Panzer. Altro che messaggi tradotti in ritardo o trasmessi in maniera non tempestiva, magari per le rivalità tra Marina ed Esercito Usa! In quel 1941, il Governo americano sa tutto. I “non c’ero e se c’ero dormivo” fanno inorridire ogni serio storico che valuti prove e riscontri!

 

Il Capitano J.Holtwick, nel giugno 1971, scrive a corredo dei documenti del “Naval Security Group History to World War II“: “Dal 1° dicembre del 1941, noi avevamo decifrato il codice giapponese in maniera quasi integrale”. Winston Churchill, dal canto suo, afferma: “Dalla fine del 1940, gli statunitensi avevano penetrato la barriera dei cifrari giapponesi e avevano decodificato la gran parte dei messaggi militari e diplomatici” (si veda, in particolare, il volume “La seconda Guerra Mondiale – La Grande Alleanza”, Arnoldo Mondadori Editore, 1965). Non finisce qui: nel 1979, la NASA rende pubblici 2413 messaggi JN–25 decodificati (relativi alle comunicazioni della Marina giapponese) sui 26581 intercettati dagli USA tra il 1° e il 4 dicembre 1941. Si scopre che essi contengono importanti dettagli concernenti l’esistenza, l’organizzazione logistica e gli obiettivi dell’attacco di Pearl Harbor. In quel periodo, Roosevelt viene informato non una, ma due volte al giorno su tali messaggi dal suo aiutante, John Beardell. Insomma, i vertici del potere statunitense, a partire dal Presidente Roosevelt, sanno tutto o quasi. e nonostante ciò nessuno prende misure di sicurezza degne di questo nome per proteggere Pearl Harbor, indicato espressamente nei messaggi come target. La scusa dell’incertezza circa gli obiettivi nel mirino dei giapponesi, mutevoli e plurimi nelle intenzioni “captate” dai crittografi, quindi, non regge, specie alla luce del fatto che proprio a Pearl Harbor gli USA avevano voluto concentrare la parte più rilevante della loro flotta, nell’intento di farne il bersaglio principe che potesse poi giustificare la rottura della neutralità e l’ingresso in guerra, con forze fresche e mezzi dispiegati in quantità. Lo storico Robert Stinnet, con rigore, imparzialità e ricchezza di riferimenti documentali, ha trattato magistralmente l’argomento, dimostrando l’insostenibilità di certe tesi assolutorie. Sta di fatto che il 7 dicembre, nel Pacifico, a Pearl Harbor, la potenza di fuoco dell’aviazione giapponese giunge indisturbata e quasi indisturbata riparte, dopo aver spedito tra le fiamme e i flutti selvaggi, distrutti o danneggiati, 6 corazzate, 3 incrociatori, 188 velivoli e via elencando. I morti sono 2403 tra gli statunitensi, dei quali 68 civili; 1178 i feriti. Stranamente (si fa per dire…) nella baia, quel giorno, non sono però all’ancora le tre portaerei USA che costituiscono il vero obiettivo dell’attacco: l’Enterprise, la “Hornet e la Yorktown. Questi assi nella manica, misteriosamente celati agli artigli dei falchi dell’aria nipponici, saranno determinanti per le sorti del conflitto a partire dalla battaglia delle Midway. Fortunosa coincidenza? O piano premeditato per sacrificare parte della flotta in nome della più alta esigenza di dar fuoco alle polveri? Roosevelt, del resto, non aveva sempre detto che era pronto a immolare sull’altare della guerra, come vittime sacrificali, alcune imbarcazioni della Marina statunitense e taluni equipaggiamenti dell’Esercito?

 

L’attacco giapponese, certamente congegnato con maestria, è un fatto che non parla da solo, decontestualizzato e preso in sé e per sé! Infatti, a chi addebitarlo? Al fascismo militarista giapponese e basta? Certamente l’espansionismo nipponico, che doveva mascherare le proprie mire dietro lo schermo della retorica anticoloniale della liberazione dell’Asia dal dominio occidentale, ha giocato il suo ruolo. Accanto ad esso, però, va collocata la tigre di carta che, col suo fiato e i suoi artigli, l’ha rafforzato e, in quel frangente, ne ha condizionato le mosse come con un telecomando: l’imperialismo statunitense, sempre anelante all’individuazione di un nemico attorno al quale coalizzare l’opinione pubblica per propositi bellici. L’11 settembre, in fondo, non è una data ma una filosofia, una strategia della provocazione vecchia quanto l’Impero statunitense, dall’affondamento della nave USS Maine che fece scoppiare la guerra ispano–americana nel 1898, alle Due Torri, passando per Pearl Harbor.

Il Giappone sarà sconfitto nel secondo conflitto mondiale, in primo luogo dai popoli liberi che, se da un lato volevano scuotere il giogo dell’imperialismo occidentale, dello sfruttamento dei monopoli con le loro teste d’uovo a Londra, Parigi e Washington, dall’altro non desideravano finire da questa padella nella brace degli zaibatsu nipponici, del capitalismo castale e di rapina del Sol Levante. La Cina di Mao, lottando contro i fascisti e i fantocci dell’imperialismo, mostrerà ai popoli asiatici la giusta via per la liberazione, additandogli una vera, reale “sfera di coprosperità” eguale per tutti e foriera di vero sviluppo per tutti: quella di un socialismo in cui modernità e tradizione si fondevano nel crogiolo della storia millenaria di un popolo. Gli ordigni di Hiroshima e Nagasaki colpiranno vigliaccamente un Paese, il Giappone, quando esso già si era di fatto arreso, il tutto per dimostrare all’URSS chi era che comandava nel mondo e chi doveva tenere strette in pugno le redini del comando. Quegli ordigni, però, non potranno frenare né l’avanzata dell’URSS né il movimento mondiale delle masse oppresse dall’imperialismo nei quattro continenti, fatto che diventerà evidente con la decolonizzazione dell’Africa, l’ingresso della Cina e dell’India sulla scena internazionale, la vittoria del Vietnam, una vittoria in cui patriottismo e socialismo si sono fusi nella bandiera rossa. Se oggi il mondo è diverso, se la Cina si affaccia sullo scenario internazionale e lo condiziona in misura determinante, facendo saltare con la Russia il paradigma dell’unipolarismo USA, nonché rimettendo in moto la stessa parte sana e progressista del nazionalismo giapponese, il merito è di chi, un tempo, ha saputo sconfiggere l’imperialismo occidentale e quello nipponico assieme, facendo saltare i fronti che a Pearl Harbor, con la provocazione e l’inganno, qualcuno aveva immaginato irreversibili e imperituri.

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