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Maggio 07, 2016

 

Le rivoluzioni colorate sono un’aggressione estera con mezzi non militari

di Rostislav Ishenko

ex-analista politico e diplomatico ucraino, nonchè editorialista dell’Agenzia di Informazioni Internazionale Rossija Segodnja

 

Il Ministero della Difesa della Russia ha tenuto una conferenza sulla sicurezza internazionale il 27-28 aprile 2016. Ho partecipato a un comitato sulle ‘rivoluzioni colorate’. Qui le mie opinioni.

 

Primo punto è che il problema ha iniziato ad interessare i militari (rappresentanti dei ministeri della Difesa di decine di Stati hanno preso parte alle discussioni) dimostrando come le ‘rivoluzioni colorate’ sono ormai considerate non una minaccia interna che interessa i servizi speciali e la polizia, ma come aggressione militare estera.

 

Secondo punto è che le rivoluzioni colorate sono un elemento della moderna guerra ibrida, di attualità dato che lo scontro tra superpotenze nucleari è impossibile a causa della distruzione reciproca assicurata. Tuttavia, sono ancora considerati scenari da guerra nucleare limitata o da confronto militare senza armi nucleari. Le rivoluzioni colorate sono la risposta allo stallo politico derivante dal principio che la guerra è uno strumento inammissibile per risolvere i problemi politici. Le spese politiche e morali di uno Stato che avvia l’azione militare si sono rivelate superiori ai benefici materiali e politici nel controllare il territorio nemico, anche se la preponderanza dei mezzi permette di vincere nel più breve tempo possibile e quasi senza perdite. La Blitzkrieg è inutile, per non parlare delle campagne prolungate.

 

Terzo punto, un cambio di regime colorato non avviene dove c’è una situazione rivoluzionaria classica, ma dove una potenza estera è interessata a controllare uno Stato, impossibile senza interferenze estere. Se il cambio di regime colorato viene attivato, significa che il Paese è oggetto di un’aggressione. Identificare l’aggressore di solito non è un problema, tuttavia è impossibile dimostrarne l’intenzione aggressiva (non importa quanto evidente) nel quadro del diritto internazionale. L’aggressore spiega il suo intervento palese negli affari interni dello Stato vittima come gesto umanitario per proteggere i diritti umani. Secondo gli accordi di Helsinki (nel quadro della CSCE diventati norma per OSCE e ONU) la protezione dei diritti umani non è esclusivamente un affare interno.

 

Quarto punto, l’aggressore deve legittimare le sue azioni di fronte la comunità internazionale. Perciò di solito cerca di avere un mandato per l’intervento occulto da Nazioni Unite e OSCE, o almeno crea una coalizione internazionale con alcuni Paesi per mascherare l’aggressione come rimozione di un ‘regime impopolare’.

 

Quinto punto, ciò impone vincoli su quale Stato possa utilizzare le rivoluzioni colorate. Lo Stato aggressore dovrebbe avere la superiorità militare non solo assoluta sullo Stato-vittima, ma dovrebbe avere la capacità politica e diplomatica per garantirsi una base giuridica internazionale per l’intervento.

 

Sesto punto, come ogni operazione militare, una rivoluzione colorata va attentamente pianificata e preparata. Vi sono diverse opzioni, a seconda del livello di resistenza dello Stato vittima. Capitolazione o tradimento della élite sono ideali. Sono meno costosi e le risorse dello Stato-vittima, tra cui sistema politico e gerarchia amministrativa, possono essere utilizzate immediatamente dall’aggressore a proprio vantaggio geopolitico. Quando le élite nazionali non si arrendono senza condizioni, vengono utilizzate le “proteste pacifiche”. Le élite ostinate sono costrette a cedere il potere ai colleghi più accomodanti quando ‘le pressioni della piazza’ creano un dilemma: lasciare volontariamente o cercare di reprimere le proteste a rischio di vittime innocenti ‘che fanno apparire il regime sanguinoso e dittatoriale’, con accuse di ‘brutalità della polizia’ inducendo la ‘perdita di legittimità’.

Se la pressione pacifica non funziona, la strategia passa dopo poche settimane o mesi (a seconda della situazione e della resistenza del regime) al cambio di regime armato. Il regime verrà costretto a scegliere tra capitolazione e decine e anche centinaia di morti inevitabili. Insieme alla possibilità di “proteste pacifiche” e assalto armato, lo Stato aggressore organizza l’isolamento politico e diplomatico dello Stato-vittima. Se l’occupazione armata della capitale non riesce, si passa alla guerra civile dichiarando il regime illegittimo, sostenendo i ‘ribelli’ fornendogli aiuti politici, diplomatici e militari. Infine, se la guerra civile raggiunge lo stallo o i ribelli iniziano a perdere, si passa all’aggressione palese (sotto forma di aiuti umanitari). L’opzione morbida si limita a stabilire no-fly zone e fornire armi ai ribelli (anche pesanti). L’opzione più aggressiva coinvolge le forze segrete estere sul terreno, con ‘volontari’ o forze speciali.

 

Settimo punto, nonostante il carattere ufficialmente pacifico della rivoluzione colorata, il successo è garantito dalla presenza di forze armate dietro diplomatici e giornalisti, che se necessario possono sopprimere la resistenza delle élite nazionali decise a combattere fino alla fine. Questa opzione è stata attuata in Iraq, Serbia, Libia, fallendo solo in Siria, dove le risorse, anche militari, della seconda superpotenza sostengono il governo legittimo del Paese. La situazione passa da rivoluzione colorata a palese scontro politico e militare tra superpotenze, come nelle guerre di Corea e Vietnam.

Ciò implica l’eliminazione della preponderanza politica, diplomatica, economica, finanziaria e militare dell’aggressore sullo Stato vittima, con il conseguente:

 

Ottavo punto, le rivoluzioni colorate non possono essere fermate consolidando l’élite dello Stato vittima o con la disponibilità della struttura di potere a fare il proprio dovere (prima o poi finisce), o dall’opera dei media nazionali (soffocata dalle maggiori capacità tecnologiche dell’aggressore). La disponibilità dello Stato vittima a resistere all’aggressione è condizione necessaria ma non sufficiente a bloccare la rivoluzione colorata. Ciò avviene solo con il sostegno all’élite dello Stato vittima di una seconda superpotenza in grado di affrontare l’aggressore a parità di condizioni in tutti gli aspetti e campi e con ogni mezzo.

Quindi, il conclusivo nono punto, le moderne rivoluzioni colorate sono operazioni distinte nel confronto globale tra superpotenze. Corea, Vietnam e altre guerre coinvolsero gli stessi elementi del confronto tra URSS e USA in territori esteri. Le moderne rivoluzioni colorate sono un tipo di guerra ibrida che rientra nel confronto tra Russia e Stati Uniti. Non si tratta della guerra come estensione della politica con altri mezzi (secondo Clausewitz), ma del sistema colorato estensione della guerra con altri mezzi. Tale guerra è iniziata molto prima che la riconoscessimo tale, con le sconfitte degli anni ’90. Ma abbiamo risposto con successo negli ultimi due anni.

 

 

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