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Ottobre 7, 2013

Non solo Al Qaeda. Ecco tutti gli estremisti islamici che combattono per il califfato universale
di Rodolfo Casadei

Da Al Qaeda ad al Shabaab, passando per Jabhat al Nusra fino ai Talebani. L’obiettivo delle più importanti bande è ricreare lo Stato islamico. E intraprendere una guerra di conquista contro gli “infedeli”

Che cos’hanno in comune, a parte la dichiarata fede islamica, il successore di Osama Bin Laden latitante fra le montagne del Pakistan e dell’Afghanistan, un 70enne ingegnere civile palestinese a capo di un partito transnazionale, il già riverito capo supremo dei Fratelli Musulmani ora finito dietro le sbarre di un carcere egiziano, lo psicopatico mandante degli attentatori somali che hanno seminato morte e terrore in un grande centro commerciale di Nairobi e un tizio qualunque come Haisam Sakhanh detto Abu Omar, il jihadista siriano partito da Cologno Monzese e ritratto mentre spara alla nuca di soldati presi prigionieri?
Vogliono tutti il ritorno al califfato universale. Cioè al sistema politico-religioso inaugurato ai tempi di Maometto e formalmente estinto nel 1924, quando Kemal Atatürk, il laicissimo presidente della neonata Turchia, abolì la funzione. Il califfo è una specie di papa re, che esercita poteri sia politici sia religiosi su tutti i musulmani del mondo, poiché l’Umma (comunità) da loro formata ha significato politico e religioso.

Quei poteri erano diventati in realtà nominali sin dal XIII secolo, e il califfo era diventato una marionetta nelle mani degli Ottomani. Ma oggi c’è chi vorrebbe resuscitare la figura e i suoi poteri, affermando che tale è il desiderio della grande maggioranza dei musulmani che vivono in tutto il mondo e che i tempi sono maturi per la creazione di una grande entità statuale definita anche politicamente dall’islam. Con mezzi pacifici o con mezzi militari? Le opinioni sono variegate e sfumate. Mohammed Badie, capo dei Fratelli Musulmani rimessi fuorilegge dalle autorità egiziane dopo la breve parentesi seguita alla rivoluzione di piazza Tahrir, auspicava che al califfato si arrivasse attraverso il buon esempio dei governi islamisti, a cominciare da quello egiziano sotto il presidente Morsi. Si sa come è andata a finire.

Il partito Hizb ut-Tahrir, fondato a Gerusalemme nel 1953, oggi capeggiato da un settantenne palestinese e attivo in 40 paesi del mondo con un milione di simpatizzanti, respinge le accuse di contiguità coi violenti. E spiega che al califfato universale si arriverà con la persuasione, ovvero convincendo le élite politiche e militari dei paesi islamici. Per adesso però i golpe delle forze armate non sembrano andare in quella direzione: il generale egiziano Abd al Fattah al Sisi è certamente un musulmano praticante, ma ha appena sciolto l’organizzazione creata da Hassan al Banna nel 1928 per restaurare il califfato abolito quattro anni prima da Atatürk.

Che il califfato universale debba essere ricostituito attraverso il jihad, cominciando con la creazione di califfati regionali che diventerebbero poli di attrazione per i paesi confinanti, ne è convinta una lunga lista di formazioni combattenti. Che cominciano con al Qaeda, la quale mutuò l’idea dall’ideologo Abdullah Azzam e nacque proprio a questo fine fra il 1988 e il 1989 per iniziativa di Osama Bin Laden, e finiscono con al Murabitun, nata nell’agosto scorso dalla fusione fra il Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa occidentale (Mujao) e il Battaglione Mascherato di Mokhtar Belmokhtar, scissionista (o espulso per indisciplina, secondo un’altra versione) di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi).

Noto come Mr. Marlboro per aver imposto un monopolio del contrabbando di sigarette attraverso il Sahara, autore di innumerevoli sequestri di cittadini stranieri nelle regioni sahariane e del Sahel, mandante del commando che compì la strage presso l’impianto per l’estrazione del gas naturale a In Aménas nel deserto algerino nella quale morirono 39 ostaggi all’inizio di quest’anno, Belmokhtar ha infine deciso la fusione col Mujao. Il senso dell’operazione è detto in un comunicato: «I vostri fratelli annunciano la loro unione e fusione in un movimento chiamato al Murabitun al fine di unificare i ranghi dei musulmani attorno allo stesso obiettivo, dal Nilo all’Atlantico». L’Egitto dei militari è avvertito. Lo stesso Mujao era nato a metà del 2011 staccandosi da Aqmi, considerata “troppo algerina”, per estendere il jihad a un maggior numero di paesi dell’Africa occidentale.

Scissioni e scontro armato


Oggi questa è diventata una delle tre aree del mondo dove l’azione di al Qaeda e dei suoi affiliati o alleati appare più intensa. Le altre due sono l’area a cavallo fra Yemen e Arabia Saudita e quella che si estende dalla provincia di al Anbar in Iraq fino alle porte di Aleppo in Siria. In tutte e tre le aree riprende vita l’idea che portò Osama Bin Laden e Ayman al Zawahiri a insediare la loro creatura in Afghanistan: governare islamicamente un territorio conquistato col jihad per offrire ai musulmani di tutto il mondo l’esempio di cosa il nuovo califfato potrebbe essere, disporre di una base per attaccare i nemici “interni” (i regimi musulmani giudicati apostati) ed “esterni” (gli Stati Uniti, i sionisti e gli altri poteri dell’Occidente).

Non senza controversie che arrivano fino alle scissioni o allo scontro armato all’interno dei gruppi. Un caso esemplare è quello che ha coinvolto Jabhat al Nusra e Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Il più combattivo ed efficace dei gruppi armati ribelli che combattono il governo siriano è andato in crisi dopo quindici mesi di successi militari e di crimini di guerra contro i civili a causa della pretesa di Abu Bakr al Baghdadi, il leader di Stato islamico dell’Iraq, di dichiarare la fusione delle due organizzazioni in forza del comune riferimento ad al Qaeda e al suo capo al Zawahiri, sotto il nome di Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Abu Mohammad al Golani, capo di Jabhat al Nusra, ha smentito la fusione pur ribadendo l’allineamento dell’organizzazione con gli obiettivi di al Qaeda centrale. Da quel momento è iniziato un braccio di ferro fra le due entità che nemmeno l’intervento di al Zawahiri, tramite lettere e messaggi, è riuscito a interrompere.

Ad oggi una parte dei combattenti di al Nusra, principalmente quelli stranieri, ha accettato di vestire i panni di Stato islamico dell’Iraq e del Levante, mentre il grosso dei militanti siriani continua a denominarsi al Nusra e a prendere ordini da al Golani. Va ricordato che il gruppo terrorista è stato creato da volontari jihadisti siriani che avevano combattuto con al Qaeda in Iraq (l’attuale Stato islamico dell’Iraq e del Levante) nei primi anni dopo l’occupazione anglo-americana. Le due organizzazioni vogliono entrambe creare un califfato, ma la prima lo vuole limitare alla Siria, la seconda lo vuole come somma di Siria e Iraq.
Ancora più forti i dissidi in al Shabaab, la milizia integralista somala responsabile dell’attacco al Westgate di Nairobi. Quanto sia feroce Moktar Ali Zubeyr detto Godane, il capo dell’organizzazione mandante dell’assalto, lo si intuisce da un particolare raggelante. Fu lui che promosse l’alleanza con al Qaeda subito dopo essere asceso al vertice nel 2009. E tuttavia nel 2010 fu niente meno che Osama Bin Laden a indirizzargli una lettera per persuaderlo a darsi una calmata sia in materia di applicazione della sharia sul suolo somalo, un po’ troppo rigida persino per i gusti del saudita, sia nella progettazione degli attentati, che stavano causando troppe vittime fra i civili.

Un mito per i musulmani


Quando nel febbraio dell’anno scorso Godane ha annunciato la completa fusione con al Qaeda e l’adozione del suo programma di jihad globale e di califfato universale, molti pesi massimi del movimento si sono ribellati, e hanno convocato una conferenza per mettere a punto una decisa “somalizzazione” di al Shabaab. La repressione è stata implacabile. Persino il fraterno amico Ibrahim al Afghani, già vicecapo di al Shabaab, è stato passato per le armi. Molti combattenti hanno lasciato l’organizzazione o si sono trasferito nello Yemen (al servizio di al Qaeda nella Penisola Arabica) a causa della crisi interna.

Dulcis in fundo, il califfato è l’obiettivo massimo di un’altra affiliata indiretta di al Qaeda: Jemaah Islamiyah, il gruppo responsabile delle bombe di Bali del 2002. L’intento del gruppo è la creazione di un califfato regionale nel Sud-Est asiatico che comprenderebbe parti di Indonesia, Malaysia e Filippine. Al Qaeda, Fratelli Musulmani, Izb-ut-Tahrir confidano nella grande popolarità del mito del califfato universale presso l’opinione pubblica musulmana: nel 2007 un’indagine condotta dell’istituto americano World Public Opinion appurò che in quattro paesi a grande maggioranza islamica come Egitto, Marocco, Pakistan e Indonesia il totale dei favorevoli alla reintroduzione del califfato universale raggiungeva il 65,2 per cento. Le cose saranno cambiate in sei anni? In quello stesso sondaggio gli egiziani si dichiararono fortemente favorevoli per il 50 per cento e abbastanza favorevoli per il 24 per cento all’applicazione intransigente della sharia. Non si direbbe che oggi la pensino allo stesso modo.

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