Maannews

21 settembre 2015

 

A Gerusalemme, la guerra di religione viene usata per mascherare il colonialismo

di Nur Arafeh

Traduzione di Cristiana Cavagna

 

I crescenti scontri tra coloni israeliani e palestinesi di Gerusalemme sono i prodromi di una grave esplosione con conseguenze incalcolabili. Immediatamente bollati come “guerra di religione” dai media e dai partiti di destra israeliani, sono di fatto il risultato dei piani israeliani di lunga durata per giudeizzare la città  e svuotarla dei suoi abitanti palestinesi.

 

Nur Arafeh analizza i principali cambiamenti che Israele ha illegalmente imposto a Gerusalemme ed accusa l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di aver nei fatti abbandonato a sé stessa la popolazione. Conclude con dei suggerimenti politici all’OLP/AP, agli accademici palestinesi e al movimento di solidarietà internazionale.

 

Il mito della Guerra di religione

Gerusalemme è finita sotto i riflettori a causa dei recenti scontri tra coloni israeliani e palestinesi alla moschea di Al-Aqsa. Il sito, chiamato anche Al-Haram al-Sharif, o Nobile Santuario (detto anche Spianata delle Moschee, ndt.), comprende la stessa Al-Aqsa, il terzo luogo sacro dell’Islam, e la Cupola della Roccia, dove si dice che il Profeta Muhammad sia asceso al cielo. Gli ebrei venerano il sito nella convinzione che un tempo fosse il luogo di due antichi templi ebrei.

 

Molti ebrei ultra-ortodossi hanno ripetutamente violato lo status quo stabilito fin dal 1967, facendo incursioni dentro il sito di Al-Aqsa e chiedendo ad Israele di costruire un terzo tempio su quello che loro chiamano il Monte del Tempio. Un video postato recentemente su YouTube dall’Istituto del Tempio, che fa parte del cosiddetto "Movimento dei fedeli del Monte del Tempio e della Terra di Israele", raffigura un terzo tempio al posto della Moschea di Al-Aqsa e della Cupola della Roccia.

 

I recenti scontri tra palestinesi, coloni israeliani e polizia a Gerusalemme sono stati caratterizzati da terribili attacchi come il rapimento e l’uccisione del giovane palestinese Mohammed Abu-Khdeir nel luglio 2014. Dopo che Yehuda Glick, figura chiave dell’"Istituto del Tempio" e strenuo difensore della sua impostazione messianica, è stato colpito, presumibilmente da un palestinese, alcuni membri del Movimento del Monte del Tempio hanno fatto  ulteriori incursioni dentro Al-Aqsa e il 30 ottobre 2014 Israele ha impedito l’ingresso dei fedeli al sito per la prima volta dal 1967. Le tensioni a Gerusalemme hanno raggiunto il culmine dopo un attacco di due palestinesi ad una sinagoga ultra-ortodossa il 18 novembre 2014, che ha causato la morte di quattro ebrei e di un ufficiale di polizia druso. Il nuovo anno è iniziato con l’allarme del Mufti di Gerusalemme riguardo ai piani di un’organizzazione israeliana per inserire la moschea di Al-Aqsa tra le proprietà di Israele.

 

Ma si può realmente descrivere tutto questo come l’inizio di una guerra di religione? Davvero il conflitto politico si è trasformato in una guerra tra fedi religiose? Secondo il Guardian “ è così che appare una guerra di religione”. Un giornalista palestinese di Al-Hiwar (canale tv arabo che trasmette da Londra, ndt.) è d’accordo. Il deputato della Knesset (parlamento israeliano, ndt.) Moshe Feiglin si è spinto anche oltre, descrivendola come una lotta globale “contro le forze diaboliche dell' Islam più estremista.” Ancor peggio, il "Movimento del Monte del Tempio" rovescia la realtà proclamando che uno dei suoi obiettivi strategici è di “liberare il Monte del Tempio dall’occupazione araba (islamica)”, dipingendo così i colonizzatori come colonizzati.

 

La descrizione di questi eventi come guerra di religione non solo ignora la realtà della disparità di potere tra il colonizzatore e il colonizzato, ma non tiene neppure conto della storia e del contesto in cui i recenti avvenimenti sono inseriti.

 

La moschea di Al-Aqsa da lungo tempo obiettivo di Israele

La legge religiosa ebraica proibisce agli ebrei di pregare nel sito di Al-Aqsa; gli ebrei devono limitarsi a venerarlo, ma non possono visitarlo o possederlo, per timore di profanare  la sacralità intrinseca del presunto Tempio, e devono andare a pregare al muro Al-Buraq (rinominato Muro Occidentale) (o Muro del Pianto, n.d.t.). Tuttavia, alcuni estremisti  hanno presto preso di mira la moschea di Al-Aqsa con lo scopo di ricostruire il Tempio. Nel 1982 Meir Kahane, leader del partito Kach di estrema destra, marciò sul sito brandendo dei progetti per la ricostruzione del Tempio sulle rovine di Al-Aqsa. Nel 1990 ventuno palestinesi furono uccisi e 150 feriti in scontri con membri del "Movimento del Monte del Tempio" che cercavano di entrare in Al-Aqsa e porvi la prima pietra del Tempio. Nel 1996 scavi israeliani e la realizzazione di tunnel vicino ad Al-Aqsa scatenarono violenze che portarono all’uccisione di 70 palestinesi e 15 soldati israeliani.

 

Il governo israeliano ha anche sostenuto gli sforzi per garantire il controllo degli ebrei sul sito. Circa la metà dei membri del Likud (partito israeliano di centro-destra, n.d.t.) sostiene il "Movimento del Monte del Tempio", che ha recentemente ottenuto finanziamenti dal governo. Tra il 2008 e il 2011 l’Istituto del Tempio ha ricevuto una donazione annuale di 107.000 dollari dal Ministero dell’Educazione e dal Ministero della Cultura, Scienza e Sport. Nel 2012 ad un’unità educativa dell’"Istituto del Tempio" è stata offerta dal Ministero dell’Educazione una somma aggiuntiva di 50.000 dollari.

 

Comunque, le azioni di gruppi specifici per prendere il controllo di Al-Aqsa non devono essere viste come incidenti isolati, ma piuttosto come parte di un più ampio progetto sionista di giudaizzare Gerusalemme e garantire la supremazia ebrea sulla città.

 

Creazione di una nuova realtà a Gerusalemme

Fin dall’inizio dell’occupazione nel 1967, Israele si è impegnata a trasformare una città multi religiosa e multiculturale in una città ebrea “riunificata” sotto il controllo e la sovranità esclusivi di Israele. Ha accelerato la giudaizzazione della città con politiche che hanno influito sullo spazio geografico e fisico e sono finalizzate a limitare la “minaccia demografica” costituita dai palestinesi.

Dall’inizio nel 1967, Israele ha annesso illegalmente 70 km2 del territorio della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est (6,5 km2), in modo tale da massimizzare l’area di terra espropriata minimizzando il numero di palestinesi. Ha inoltre raso al suolo i quartieri arabi di Bab al-Magharbeh e Harat al-Sharaf per costruire il quartiere ebraico, la piazza del muro di Al-Buraq, case per i coloni e sinagoghe ebraiche. Israele ha anche modificato il panorama fisico di Gerusalemme costruendo un anello di insediamenti intorno alla città, collegati a strade di circonvallazione per assicurare la continuità geografica con gli altri insediamenti israeliani in Cisgiordania.

 

La conseguente frammentazione fisica e politica di Gerusalemme è andata di pari passo con il suo isolamento economico, molto prima che Israele iniziasse la costruzione del muro dell’apartheid nel 2002, che ha ridisegnato i confini fuori dalla linea di armistizio precedente al 1967. La costruzione del muro è stata deliberatamente finalizzata a tagliare in mezzo la città ed escludere le aree popolate dai palestinesi, come mezzo per garantire una maggioranza di ebrei.

 

Per affrontare la “minaccia demografica” posta dai palestinesi, Israele ha definito i palestinesi abitanti a Gerusalemme “residenti permanenti” – uno status civile normalmente riservato ai cittadini stranieri, che non garantisce i diritti di residenza. In base a ciò, spesso le carte di identità (ID) di residente vengono revocate. Tra il 1967 e il 2013, Israele ha revocato le carte di identità di più di 14.309 palestinesi residenti. In base all’Emendamento Temporaneo del 2003 della Legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele ( modificata nel 2005 e nel 2007), i palestinesi della Cisgiordania sposati con residenti a Gerusalemme non sono qualificati per avere lo status di residenti e possono avere solo permessi temporanei in circostanze eccezionali. Al contrario, gli ebrei immigrati per vivere a Gerusalemme ottengono immediatamente la cittadinanza, il che dimostra la natura di apartheid del regime israeliano.

 

Oltre a rafforzare la presenza ebraica a Gerusalemme, Israele ha cercato di contenere l’espansione urbana e demografica palestinese tramite politiche urbanistiche e di zonizzazione che si configurano come pulizia etnica. Più di un terzo della terra nei quartieri palestinesi è stata classificata come “aree paesaggistiche aperte”, dove è vietato edificare, costringendo i palestinesi a costruire solo sul 14% della terra di Gerusalemme est e provocando così una grave crisi abitativa. Inoltre, a partire dal 1967, Israele ha distrutto 1.673 unità abitative, colpendo circa 8.000 persone tra il 1967 e il 2013. Applicando queste politiche, Israele ha l’obiettivo di raggiungere un rapporto del 30% di arabi e 70% di ebrei all’interno del comune di Gerusalemme.

 

Le politiche discriminatorie di Israele si manifestano anche con la discrepanza nell’offerta dei servizi tra i quartieri palestinesi ed ebrei. Meno del 10% del budget municipale è destinato ai distretti palestinesi, nonostante che i palestinesi paghino lo stesso importo di tassa sulla proprietà (arnona) dei cittadini ebrei.

 

La giudaizzazione è stata accompagnata dalla “de-palestinizzazione”, per sradicare l’identità palestinese a Gerusalemme. Per esempio, la via Sultan Suleiman al-Qanuni (un sultano dell’impero ottomano) è stata rinominata via Re Salomone, e il distretto di Wadi Hilweh di Silwan è stato cambiato in “la città di Davide”. Inoltre delle vie senza nome nelle aree palestinesi sono state recentemente chiamate con nomi arabi privi di connotazioni nazionali e politiche. Questo processo di sostituzione dei nomi è collegato  alla riscrittura della storia in linea con i dettami sionisti, un processo in cui l’archeologia e gli scavi vengono strumentalizzati per creare una storia ebraica fittizia della città, mentre viene ignorato il retaggio di altre epoche.

 

Il controllo israeliano sulla narrazione storica si estende al sistema educativo. Dal marzo 2011 Israele ha cercato di imporre alle scuole palestinesi che ricevono finanziamenti dalle autorità israeliane di utilizzare dei libri di testo predisposti dall’Amministrazione dell’Educazione di Gerusalemme (fino ad ora lo hanno fatto in cinque). Questi testi forniscono agli studenti palestinesi una storia vista da una sola parte e censurano ogni argomento relativo all’identità e al patrimonio palestinese.

 

Sono anche state prese di mira le istituzioni palestinesi a Gerusalemme, per indebolire l’attivismo palestinese in città. Dal 2001 Israele ha chiuso 31 istituzioni palestinesi, compresa la Orient House, l’ex quartier generale dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, n.d.t.), e la Camera di Commercio e Industria. Questo clima repressivo ha condotto molte istituzioni a lasciare Gerusalemme ed ha provocato un grave vuoto istituzionale, accompagnato dall’assenza di leadership.

 

Altri elementi di de-palestinizzazione di Gerusalemme comprendono l’ultimo piano quinquennale di “sviluppo” socio economico per le aree palestinesi, approvato nel giugno 2014 dal governo israeliano. Questo piano si incentra sulla disparità di risorse nelle infrastrutture, nell’educazione, nell’assistenza sociale e nell’occupazione tra quartieri palestinesi ed ebraici, nell’evidente tentativo di incoraggiare l’integrazione dei palestinesi in Israele e rafforzare la sicurezza contrastando “la violenza” e “il lancio di pietre”.

 

In altri termini, lo sviluppo è uno strumento per rafforzare il controllo israeliano su Gerusalemme ed eliminare la risoluta resistenza palestinese all’occupazione israeliana. Perciò il piano non può essere visto come un’iniziativa per affrontare le deteriorate condizioni economiche dei palestinesi a Gerusalemme, in termini di altissimo tasso di povertà (il 75% dei palestinesi residenti vive al di sotto della definizione israeliana di soglia di povertà), di crollo dei settori del commercio e del turismo, di carenza di investimenti, di riduzione dei servizi educativi e sanitari, di alti tassi di disoccupazione (16,7% nel 2014) e di alto costo della vita.

 

In questo contesto, gli scontri tra palestinesi ed ebrei israeliani dovrebbero essere visti come atti di resistenza e disperazione, all’interno della più ampia lotta storica dei palestinesi contro l’occupazione, l’apartheid, la pulizia etnica, il furto della terra, gli espropri, il trasferimento forzato e la marginalizzazione economica. La recente intensificazione delle incursioni nella moschea di Al-Aqsa e gli inviti a costruire un terzo tempio hanno semplicemente innescato la miccia di questi sentimenti soffocati. Focalizzare l’attenzione sugli aspetti religiosi dei recenti disordini trascurando le cause alla loro radice potrebbe solo condurre ad ulteriori violenti scontri e violenze di dimensioni senza precedenti. La religione viene utilizzata al servizio degli obbiettivi politici e nazionali di Israele, in quanto ne maschera le politiche di apartheid coloniale. 

 

L’assenza di leadership lascia impotenti i palestinesi

I recenti disordini a Gerusalemme, in cui i palestinesi sono ricorsi a nuove forme di resistenza come l’uso di veicoli e petardi (si riferisce ad attacchi con automobili e petardi contro israeliani avvenuti dall'ottobre 2014, ndtr.), andrebbero considerati nell’ambito del più ampio contesto di una città a cui manca una leadership politica. L’ANP ha mostrato scarsa volontà di reale investimento a Gerusalemme fin dalla firma della Dichiarazione di Principi di Oslo del 1993, di cui la stessa ANP è una creatura. Questo era già evidente quando l’OLP ha accettato di rinviare la questione di Gerusalemme ai negoziati sullo status finale dei Territori Palestinesi Occupati (TPO). Mentre l’OLP /AP continua ad aggrapparsi alla farsa del processo di pace, Israele ha consolidato la sua occupazione e il suo controllo su Gerusalemme.

 

In netto contrasto con la retorica del sostegno, l’Autorità Nazionale Palestinese destina una trascurabile  quota di budget alla città. Il budget totale assegnato al Ministero per gli Affari di Gerusalemme e al Governatorato di Gerusalemme si aggirava intorno ai 15 milioni di dollari nel 2014, che rappresentavano lo  0,4% del budget totale di spesa della ANP per quell’anno. Confrontate questo vergognoso ed insignificante stanziamento per la presunta capitale dello Stato palestinese con il 27% del budget destinato al settore della sicurezza nello stesso anno. Inoltre, la maggior parte del budget è allocata nelle zone di Gerusalemme sotto amministrazione palestinese e al di là del muro. Luoghi come Shu’fat e Beit Hanina, che si trovano entro i confini municipali di Gerusalemme definiti da Israele, raramente ricevono dei fondi.

 

Questo miserabile budget è la principale ragione che ha spinto Hatem Abdel-Qader a dimettersi 40 giorni dopo la sua nomina a ministro per gli Affari di Gerusalemme nel 2009. Egli ha sottolineato che “il governo palestinese non mantiene gli impegni nei confronti della città, che sta vivendo un periodo difficile.” Un altro intellettuale palestinese, che era rappresentante dell' ANP a Gerusalemme, ha anche affermato che “il comportamento dell’ANP non è mai stato coerente con gli obiettivi dichiarati. Ha costantemente omesso di applicare i numerosi studi e programmi preparati per la città.”

 

Mentre Israele sta trasformando in realtà il suo progetto per Gerusalemme attraverso varie politiche e piani urbanistici (2020, 2030 e 2050), continua a mancare una coerente strategia per il futuro della città da parte della leadership palestinese. Questo risulta evidente dall’assenza di un piano di sviluppo per Gerusalemme all’interno del Piano Nazionale di Sviluppo 2014-2016. Benché sia vero che il documento si riferisce retroattivamente al Piano di Sviluppo Strategico Multisettoriale per Gerusalemme est (SMDP) 2011-2013, emesso dall’ ente per Gerusalemme presso l’Ufficio di Presidenza, il SMDP è stato pubblicato nel 2010 e deve essere aggiornato. Inoltre l’ente per Gerusalemme, a cui era stata precedentemente attribuita la maggior parte dei fondi per Gerusalemme, è stato chiuso nel 2010.

 

Ancor più significativamente, l’approccio allo sviluppo utilizzato nel SMDP tiene separato lo sviluppo dalla realtà politica e coloniale; riduce la lotta palestinese a lotta  per la “sopravvivenza” piuttosto che per la libertà e dà per scontata l’occupazione israeliana invece di sforzarsi di porle fine. Come scritto nella parte introduttiva del SMDP: “Come può l’OLP aiutare gli abitanti di Gerusalemme a sopravvivere e prosperare all’interno del contesto esistente in modo da avere una solida base per la capitale del futuro Stato di Palestina?”

 

L’assenza di un vero interesse ufficiale per la città, l’imporsi di Ramallah come capitale de facto e la mancanza di una leadership politica a Gerusalemme lascia i palestinesi in uno stato di abbandono e di risentimento verso l’OLP/ANP. Il Presidente dell' ANP Mahmoud Abbas sta ancora pagando le vuote promesse ai palestinesi di Gerusalemme, mentre rifiuta di interrompere la collaborazione per la sicurezza con Israele o di sostenere i metodi non violenti di resistenza, come il boicottaggio di tutte le merci israeliane.

 

Intanto Israele ha risposto alle proteste ed alla resistenza palestinese priva di una giuda con la usuale forza, che include confisca della terra, demolizione di case e punizioni collettive come i raid contro le case, spruzzando acqua puzzolente nei quartieri ed arresti in massa. Per esempio, secondo l’associazione per i diritti umani Al-Dameer tra giugno e settembre 2014 circa 700 palestinesi, la maggioranza dei quali erano minori, sono stati arrestati a Gerusalemme. Sei coloni israeliani che hanno commesso crimini brutali contro i palestinesi non hanno subito la stessa punizione. Di fatto, il governo di Israele ha ammorbidito le restrizioni sulle armi ed aumentato i fondi per proteggere i coloni a Gerusalemme – un’ulteriore evidenza della discriminazione istituzionale a cui sono soggetti i palestinesi.

 

Proteggere Gerusalemme ed i suoi palestinesi

L’attuale disordine a Gerusalemme è il risultato del giogo coloniale, della discriminazione istituzionalizzata, degli espropri e della politica israeliana del fatto compiuto per assicurarsi il mantenimento della supremazia ebrea sulla città. I piani di Israele dovrebbero essere contrastati a livello locale ed internazionale, soprattutto rendendoli maggiormente onerosi per Israele. Il sistema di apartheid in Sudafrica ha incominciato a sfaldarsi quando i costi per preservare la supremazia bianca sono diventati troppo alti da sostenere. Anzitutto e soprattutto, i palestinesi hanno bisogno di una leadership attiva che metta lo status di Gerusalemme in cima all’agenda degli impegni del governo e al centro della lotta nazionale come questione urgente. E’ di vitale importanza che i palestinesi impostino un chiaro progetto per Gerusalemme, per opporlo alla prevalente impostazione israeliana. L’informazione e la comunicazione sono gli strumenti chiave per contrastare la riscrittura della storia da parte israeliana e la messa a tacere della narrazione palestinese.

 

In particolare, la leadership palestinese dovrebbe opporsi ai tentativi israeliani di presentare le loro politiche coloniali in termini religiosi e dovrebbe ricordare al mondo che le questioni fondamentali sono quelle dell’occupazione, degli espropri e del furto di terra. E’ doveroso sfidare il potere del discorso israeliano rivelando il suo vergognoso primato di oppressione a Gerusalemme e nel resto dei territori occupati. L’OLP/AP dovrebbe anche capitalizzare ulteriormente lo status faticosamente conquistato nelle organizzazioni internazionali come l’Unesco, per compiere dei passi legali per la protezione di Al-Aqsa e della città vecchia di Gerusalemme.

 

In secondo luogo, gli accademici e gli analisti politici possono svolgere un ruolo cruciale nel mettere in primo piano Gerusalemme. Finora gli intellettuali palestinesi si sono orientati all’analisi dello sviluppo socio-economico in Cisgiordania e, in parte, nella Striscia di Gaza, a svantaggio della discussione su Gerusalemme. I palestinesi devono porre l’accento su Gerusalemme nei loro discorsi e andare oltre la mera diagnosi dei problemi, ipotizzando delle soluzioni. Il concetto di sviluppo sotto occupazione necessita anch’esso di essere rivisto e ridefinito come forma di resistenza economica, politica e sociale inserita nella più ampia lotta storica dei palestinesi per l’autodeterminazione, la libertà e la giustizia. 

 

Infine, il boicottaggio locale delle merci e dei servizi israeliani è un fondamentale strumento di resistenza all’occupazione israeliana. Non solo è un dovere morale per ogni palestinese, ma inoltre il boicottaggio dei prodotti israeliani aumenta il costo del sistema di apartheid e rafforza la capacità produttiva dell’economia palestinese. Parallelamente, un pensiero va rivolto ai modi per sviluppare un’economia palestinese in grado di resistere all’integrazione e alla dipendenza dall’economia israeliana e che possa porre le basi per una solida piattaforma politica da cui possa emergere una società emancipata e autodeterminata.

 

A livello internazionale, il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) e la pressione che esso esercita su Israele in tutto il mondo dovrebbe essere mantenuto ed intensificato. I paesi arabi devono impegnarsi in un percorso significativo per isolare Israele a causa dei suoi piani su Gerusalemme e delle sue molteplici violazioni dei diritti umani.

 

Senza gli sforzi coordinati dei palestinesi con il supporto arabo ed internazionale per ottenere i diritti dei palestinesi a Gerusalemme, gli attuali piccoli fuochi in città potrebbero trasformarsi in una conflagrazione che causerebbe danni permanenti al patrimonio arabo e palestinese nella città e alla presenza dei palestinesi di Gerusalemme nella città dei loro antenati.

 


Nur Arafeh è commentatore politico di Al-Shabaka, Rete Palestinese di Politica, ed è consulente presso l’Istituto Ibrahim Abu-Lughod di Studi Internazionali all’Università di Birzeit. Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no-profit la cui missione è formare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro del diritto internazionale.

 

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