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Aprile 15, 2016

 

Quiapo, il quartiere diviso

di Fabio Polese

 

Il tassista, nei pochi chilometri che percorriamo per arrivare a destinazione, mi ripete più volte di stare attento ai borseggiatori. Lo avrà detto almeno dieci volte. Sto andando a Quiapo, uno dei quartieri più grandi e difficili di Manila. Quando arrivo sono da poco passate le otto di mattina. La basilica di San Giovanni Battista è già piena di gente. Qui le messe si ripetono incessantemente, ce n’è una ogni ora, fino a tarda sera.

La chiesa della capitale è famosa perché ospita il Nazareno Nero, una statua che rappresenta a grandezza naturale la figura del Cristo piegato sotto il peso della croce, a cui si attribuiscono numerosi miracoli.

 

Secondo la leggenda, infatti, sarebbe arrivata a Manila nel 1607, viaggiando a bordo di un’imbarcazione partita dal Messico che prese fuoco in prossimità delle coste filippine. L’incendio danneggiò l’imbarcazione, ma non la statua, che si sarebbe solo annerita con il calore delle fiamme. Successivamente sarebbe scampata anche ad altri incendi divampati nella basilica: uno nel 1791 e l’altro nel 1929. Ma non solo. Il Nazareno Nero avrebbe resistito anche ai terremoti del 1645 e 1863, oltre che al bombardamento della capitale del Paese del 1945. L’aura miracolosa che si è creata intorno a quest’immagine del Cristo è tale che, col trascorrere dei secoli, il Nazareno Nero è diventato il simbolo del popolo filippino, l’unico nell’Asia a maggioranza cristiana.

Sono milioni i fedeli che, ad inizio gennaio, ogni anno arrivano a Manila da ogni parte del mondo per partecipare alle celebrazioni in suo onore.

 

“Quest’anno ci sono state dieci milioni di persone”, mi dice Ali Klawi quando lo incontro negli uffici laterali alla chiesa di San Giovanni Battista. Viene dal Mindanao, è cattolico e il suo compito qua è quello di dialogare con la numerosa comunità musulmana che ormai da anni è andata via dal sud delle Filippine.

“A Manila ci sono circa un milione di musulmani, arrivati quasi tutti dal Mindanao e la maggior parte risiede proprio a Quiapo”, mi spiega Klawi. “Arrivano qua per cercare un futuro migliore ma, spesso, non riescono a integrarsi e si danno alla criminalità”. Ed, infatti, a Quiapo è facile trovare di tutto. Dalla droga alle armi. E la criminalità è quasi esclusivamente controllata da persone provenienti dal Mindanao.

 

Quiapo è un quartiere diviso in due.

Basta uscire dalla chiesa e infilarsi nelle piccole vie laterali per arrivare, in pochi minuti, nel cuore della comunità musulmana. Man mano che cammino, tra il rumoroso e colorato bazar, l’immondizia lasciata ai bordi della strada e l’odore che ne deriva, le insegne dei piccoli negozietti diventano scritte in arabo.

Sono diretto alla Golden Mosque, la più grande moschea della regione, costruita nel 1976 per la visita di Muammar Gheddafi – successivamente annullata – nel Paese.

E proprio davanti al luogo di culto musulmano che incontro Hajji Moh’d Ersad Malli, il responsabile della moschea e del centro culturale islamico del quartiere. Anche lui arriva dal sud e quando gli dico che sono appena tornato da là ci tiene a prendere subito le distanze da quello che l’estremismo religioso ha prodotto: “Noi non vogliamo la guerra, siamo per la pace ma – ci tiene a precisare – l’Islam è radicato da tantissimo tempo nel Mindanao. Due secoli prima che gli spagnoli sono arrivati a colonizzare le isole e molto prima della cristianizzazione dei sui abitanti”.

Prima di salutarmi, quando esco dal suo ufficio che affaccia nella via che arriva alla moschea d’oro, anche lui mi raccomanda di stare attento: “É pieno di criminalità. Stiamo cercando di sistemare le cose, ma molte persone non ci seguono più come una volta”.

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