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Luglio 20, 2016

 

Schiavi perché cristiani

di Daniele Bellocchio

 

È l’ora del tramonto, il verde dei campi e l’ocra della terra sono illuminati da una luce abbagliante, il paesaggio si sussegue infinito e immutabile nelle campagne pachistane del Punjab, a pochi chilometri dalla frontiera indiana. La lingua d’argento della strada che conduce sino ad Amritsar, in India, fugge allo sguardo e il cielo è puntellato da nuvole bianche, macchiate di rosa.

 

Improvvisa, però, una legione di fumo nero assalta l’orizzonte della campagna di Lahore. Colonne di nube escono da decine di camini. Sono alti, invadono il cielo e sono tedofori di una memoria che li eleva a iconografie del male. Furono loro i simboli forieri del grande Orrore del ‘900 e sono sempre loro, ancor oggi, ad annunciare odio religioso e discriminazione nel Pakistan contemporaneo.

 

Dove c’è una ciminiera, c’è un fabbrica di laterizi e ci sono decine di famiglie cristiane che vi vivono e lavorano. La discriminazione nei confronti della minoranza religiosa e la legge sulla blasfemia, che in modo arbitrario dal 1986 punisce chi nomina Maometto e il Corano, ha relegato gran parte della minoranza cristiana, il 2% della popolazione, a una situazione di miseria e subordinazione. E così parte dei fedeli cattolici sono costretti a dover accettare, per sopravvivere, le mansioni più umili e annichilenti. Sono oltre 6mila le fabbriche di mattoni nel Punjab e quasi 24mila bambini vi lavorano, stando a quanto dichiarato dal Punjab’s Labour Department. E in una fabbrica di mattoni erano impegnati anche Shahzad Masih e Shama Bibi, coniugi cristiani, che a novembre 2014, a Kasur, vicino a Lahore, vennero sequestrati per due giorni da una folla trepidante d’odio e poi arsi vivi nella fornace dell’impresa, perchè accusati di aver bruciato alcune pagine del Corano.

 

Una deviazione a destra dalla strada principale che conduce ad Amritsar, alcune case di terra anticipano l’ingresso nell’industria di Manaawalla e, ancor prima di arrivare nello stabilimento, si scorgono ombre accovacciate le une accanto alle altre. Sono indistinte e si incominciano a intravedere da lontano. Ma più ci si avvicina, più quelle ombre si metamorfizzano: in sagome di uomini e donne che prosciugano istante dopo istante la vita, radicate nella terra del loro dolore. Come in un quadro di Millet, un paesaggio di assoluto realismo dalle tinte apocalittiche annuncia l’ingresso nella fabbrica. Tutto è color della creta: la ciminiera che si staglia sovrana, i mattoni che con geometrica precisione puntellano il suolo come fondamenta di un fortilizio della vessazione e pure i volti delle centinaia di operai.

Donne e uomini avvolti in salwar kamiz da ore calpestano il fango, trasportano chili di mattoni e li caricano sui camion; altri ancora accovacciati assistono all’incedere del tempo, continuando a girare i parallelepipedi; poi c’è chi li cuoce, provvedendo a inserirli nella fornace e c’è chi, con i volti coperti da sciarpe per salvare naso e bocca da fuliggine e terra, continua a buttare carbone nel fuoco. Nessuno smette un istante di lavorare. Fronti madide di sudore, mani di pietra, schiene piegate e rughe, che disegnano mappe di supplizio sui volti, sono l’istantanea di vite consumate in sacrificio alla fatica. Cinquantacinque famiglie cristiane vivono nelle piccole case costruite nel perimetro della fabbrica di Manaawala. Da quando il sole sorge, a quando il buio avvolge completamente lo stabilimento, gli operai non cessano nemmeno un istante di produrre.

 

Iqbal Bashir è il proprietario musulmano dell’azienda, sorveglia la manodopera e senza esitazioni e con l’alterigia di un potere incondizionato e indotto dal privilegio racconta senza mezzi termini la vita nella sua fabbrica: ”Gli operai mediamente lavorano dalle 10 alle 12 ore al giorno. A volte anche di più. Vengono pagati a cottimo e ogni mille mattoni ricevono 890 rupie ( 9€ circa ndr)”. Iqbal cammina a passo lento e scruta ogni volto che incontra e poi, interrogato se non ritiene vergognoso che nel 2016 le persone vivono in una condizione di sfruttamento, sorridendo risponde: ”Vergognoso? Dar da mangiare e di che vivere alle persone tu lo definisci vergognoso? Loro non hanno alternative se non fare questo: è molto semplice!”. Prosegue raccontando che i dipendenti sono contenti, che sono felici di lavorare per lui e che non vogliono andare via; ma le parole del titolare, poco a poco, sembrano divenire sempre più prive di suono: un balbettio senza forza e potere, vacuo di ogni significato difronte all’assordante rumore del dramma circostante.

 

Un’immagine di Gesù al collo di un ragazzino, un uomo che fa un segno della croce prima di stringere la mano, una foto della Madonna. Gli operai vivono aggrappati a una fede non accettata dai più, ma intimo e solo appiglio per sopravvivere a una pena che non conosce misericordia. E così è anche per Nargas Munawar, 35 anni e un figlio di 7 che lavora già al suo fianco. ”Io ho sempre fatto questo mestiere. Lo facevo da bambina e lo faccio ancor oggi. Ho lavorato in diverse fabbriche e ora sono qua. Non conosco il mondo, non sono mai stata in città, so che questa è la mia vita e che devo lavorare. Ma so che non voglio che mio figlio abbia la mia stessa sorte e prego perchè un giorno lui possa andarsene”.

 

Ma il destino non sembra per ora incontrare vie di fuga e il presente anche dei bambini e degli adolescenti marcia su binari prestabiliti. Lavorano e faticano senza sosta: c’è chi porta gerle cariche di erba, chi scava nel fango e c’è Safina, che ha poco più di 12 anni e trascorre le sue giornate spostando file sempre uguali di mattoni. Li gira su un lato e sull’altro, in modo tale che prendano la forma migliore e trascorre le ora chinata e con lo sguardo sempre rivolto ai laterizi e alle mani rapide e insensibili che li continuano a spostare. È sola e il sole ormai è basso, solo una piccola fascia di luce è rimasta a illuminare la giovane e il suo sforzo senza sosta. Poi, improvvisa, Safina si interrompe, alza il volto e la mano plasmata da una dolcezza ossimorica rispetto ad ogni dettaglio che la circonda, sposta il velo che le copre i capelli e lascia vedere gli occhi. Sono occhi di Gorgone, di un verde che sembra azzurro, che impietriscono e fanno paura. È un’iride caravaggesca che spaventa, perchè quegli occhi sono assoluti, rapitori e allo stesso tempo privi di qualsiasi sguardo: pura luce, senza vita. Sono occhi che non portano con sé una fuga, neanche come unico e solo sogno. Sono occhi senza passato, senza futuro, senza conoscenza, sono occhi consumati dai mattoni che hanno osservato per un’intera, seppur breve, esistenza: ne portano il peso nelle pupille e non conoscono altro. Non c’è mondo al di fuori di parallelepipedi identici e ossessivi in quegli occhi figli del sublime, che spaventano: ecco lo sguardo della schiavitù nel Pakistan di oggi.

 

 

guarda il video: https://youtu.be/UQ5LqpI9FKA

 

Per approfondire:

Incontro con l’arcivescovo di Karachi e Fausto Biloslavo

 

Dove si muore per Dio

 

Foto di Marco Gualazzini 

www.marcogualazzini.com

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