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18/05/2010

 

Il trionfo di Yahweh e la disfatta di Baal passano per l’assassinio della regina Jezabel.

di Francesco Lamendola

 

Una vicenda realmente avvenuta: la fine della principessa fenicia che aveva sposato Achab il figlio maggiore di Omri re d’Israele

 

Dal Secondo Libro dei Re (IX, 30-37; traduzione italiana dalla «Bibbia di Gerusalemme», Bologna, Edizioni Dehoniane, 1974, 1982):

 «Ieu arrivò in Izreèl. Appena lo seppe, Gezabele si truccò gli occhi con stibio, si acconciò la capigliatura  e si mise alla finestra. Mentre Ieu entrava per la porta, gli domandò: “Tutto bene, o Zimri, assassino del suo padrone?”. Ieu alzò lo sguardo alla finestra e disse: “Chi è con me? Chi?”. Due o tre eunuchi si affacciarono a guardarlo. Egli disse: “Gettatela giù”. La gettarono giù. Il suo sangue schizzò sul muro e sui cavalli. Ieu passò sul suo corpo, poi entrò, mangiò e bevve; alla fine ordinò: “Andate a vedere quella maledetta e seppellitela, perché erra figlia di re”. Andati per seppellirla, non trovarono altro che il cranio, i piedi e le palme delle mani. Tornati, riferirono il fatto a Ieu, che disse: “Si è avverata così la parola che il Signore aveva detto per mezzo del suo servo Elia il Tisbita: nel campo di Izreèl i cani divoreranno la carne di Gezabele. E il cadavere di Gezabele nella campagna sarà come letame, perché non si possa dire: Questa è Gezabele”.»

 

Questa vicenda truculenta è realmente avvenuta e ha segnato la fine di Jezabel o Gezabele, principessa fenicia, figlia del re di Tiro, Ithobaal, che aveva sposato Achab, figlio maggiore di Omri e re d’Israele dall’875 all’852 avanti Cristo.

Si è trattato di un episodio nel contesto di un quadro molto più ampio: la lotta politica e religiosa scatenatasi nei due regni di Israele e di Giuda, all’indomani della morte di Salomone, tra la fazione che potremmo definire progressista, rappresentante gli interessi dei commercianti e favorevole a un’apertura, anche culturale e religiosa, al mondo dei popoli vicini, primi tra tutti i Fenici; e quella che potremmo definire la corrente conservatrice, le cui basi sociali erano costituite dalla nobiltà guerriera e dal ceto dei contadini, la quale, in nome di un monoteismo intransigente, rifiutava ogni “contaminazione” con le divinità straniere, vista come un cedimento intollerabile nei confronti dell’idolatria.

Tali furono sempre le due anime della società giudaica, fino al tempo della dominazione persiana, dei regni ellenistici dei Tolomei d’Egitto e dei Seleucidi di Siria ed, infine, alla dominazione romana e alla disfatta definitiva del giudaismo, dopo le tre grandi rivolte, tutte fallite, rispettivamente del 66-70, del 115-117 e del 132-135.

Prima che l’indipendenza dei due regni di Israele e di Giuda venisse distrutta, rispettivamente, dagli Assiri e dai Babilonesi, i culti religiosi di origine cananea e fenicia, e specialmente quello di Baal, si erano notevolmente diffusi in Palestina, anche grazie ad alcune principesse provenienti dalla Fenicia che erano andate spose, per ragioni politiche, a sovrani ebrei: indirizzo che già aveva avuto inizio al tempo di Davide e di Salomone, nel cui harem vi erano numerose principesse straniere che avevano fatto costruire a Samaria e a Gerusalemme i templi delle loro divinità e cercato anche di fare proselitismo fra gli stessi Ebrei.

Ma la reazione dei profeti, come Elia ed Eliseo, era stata terribile. Facendo appello alle masse contadine e alla nobiltà guerriera, essi avevano scatenato dei veri massacri a danno dei sacerdoti di Baal ed erano riusciti ad estirpare, l’uno dopo l‘altro, i templi stranieri con i relativi culti dal suolo della Palestina.

Eliseo scannò di sua mano, dice la «Bibbia», ben quattrocentocinquanta sacerdoti di Baal nel torrente Kison, dopo averli vinti in una sfida religiosa sul monte Carmelo, in seguito a una rovinosa siccità abbattutasi su Israele (1 Re, XVIII, 20-40).

Dopo l’assassinio di Jezabel, vi fu un generale massacro dei fedeli di Baal e la distruzione del tempio dedicato a questa divinità in Samaria, per ordine di Ieu. La cosa si svolse in modo particolarmente feroce, perché i seguaci di Baal furono convocati con l’inganno dal re ebreo, con la scusa di svolgere una grande cerimonia in onore del loro dio. In quella notte di San Bartolomeo dell’antico Israele, non uno dei fedeli di Baal sfuggì alla spada dei carnefici; dopo di che il tempio di Baal venne incendiato, distrutto e trasformato in un immondezzaio.

L’ultimo atto della tragedia si svolse intorno ad un’altra donna fenicia, Atalia, figlia di Jezabel e moglie di Joram. Dopo la morte del marito e del figlio, ella fece sterminare l’intera discendenza della casa di Davide e si autoproclamò regina di Gerusalemme. Ma, nell’835, anch’ella fu travolta da una insurrezione popolare e perì trafitta di spada, nella sua reggia.  Il popolo massacrò anche Mattan, sacerdote di Baal, davanti agli altari.

Infine, la valle di Ben-Hinnom, che aveva ospitato un tempio di Baal, venne trasformata, anche nella lingua, con la Geenna, immensa discarica sotto le mura di Gerusalemme e, da ultimo, sinonimo di luogo immondo e infernale per antonomasia.

 

Scrive Gerhard Herm nel suo libro «L’avventura dei Fenici» (titolo originale: «Die Phönizier», Düsseldorf und Wien, Econ Verlag; traduzione italiana di Gianni Pilone Colombo, Milano, Garzanti, 1974, 1981, pp.107-14, passim):

 «I compilatori dei Libri dei Re sono espliciti nel dipingere Jezabel come una dittatrice senza scrupoli, una sperimentata intrigante e una gelida carogna. In più, era anche una puttana, ma a questo essi accennano soltanto.

Quando un cittadino d’Israele ricusò di vendere a suo marito un vigneto, lo fece calunniare da testimoni corrotti e condannare a morte. Quando poi il profeta Elia ordì una rivolta popolare contro i sacerdoti di Baal da lei importati dalla Fenicia, che finirono massacrati, Jezabel minacciò di farlo ammazzare a sua volta e lo cacciò dal pese. E quando finalmente capitò sul’uomo che le aveva ammazzato il figlio, ebbe l’impudenza di chiedergli come si sentisse nei panni dell’assassino: al che questi la fece, naturalmente, eliminare.

Una delle più tremende maledizioni della cronaca - niente affatto povera in merito - del popolo d’Israele, fu appunto scagliata contro di lei, ed ebbe rapido effetto.

“I cani mangeranno Jezabel presso i bastioni di  Jezrael”, tuonava Elia il Tesbite; “e il cadavere di Jezabel giacerà come letame sul campo, sì che non si potrà dire: Questa è Jazabel”. […]

Chi legga i capitoli sull’ascesa, caduta e orrenda fine della Tiria, avverte un odio feroce, ardente, che non si è raffreddato dopo oltre duemilaottocento anni.

Proprio per questo, però, colei che diede il suo nome a tutte le Isabelle, avrebbe almeno meritato un riesame del suo caso in seconda istanza. La denuncia dei cronisti biblici, in effetti, non persuade molto, basata com’è su fatti non propriamente dimostrabili. Il peggior crimine attribuito alla Tiria è la calunnia ai danni del vignaiolo Nabot, non disposto alla vendita del suo vigneto; il resto sono voci. Che sia stata meretrice e maga suona di chiacchiere da servitù; che amasse imbellettarsi e adornarsi è da puritani rimproverarglielo; che minacciasse di morte Elia non era certo cortese, ma non era certo ingiustificato visto che, alla fin fine, l’irato uomo di dio aveva appena scannato quattrocentocinquanta sacerdoti di Baal. Il perno dell’accusa resta dunque l’affare Nabot, che costò la vita al vignaiolo e che avrebbe sì giustificato la pena suprema, ma non la maledizione oltre la morte.

Perché, allora, la condanna? Perché la bava alla bocca dei suoi accusatori?

La risposta è relativamente semplice: Jezabel non venne condannata secondo le regole di un tribunale ordinario ma secondo quelle di un tribunale rivoluzionario; e poiché questa rivoluzione era stata provocata nel nome di dio la Tiria si trovò al cospetto di un tribunale ecclesiastico. Ora, gli inquisitori - si chiamino Torquemada, Robespierre o Wiszinsky - è raro che giudichino secondo paragrafi scritti. Neppure gli ebrei lo fecero a suo tempo, e anzi non ritennero neppure necessario interrogare l’accusata. La condanna era pronta in anticipo. […]

Dietro il predicatore contadino di Tisbe stavano non solo la nobiltà e i contadini, ma anche l’intelligenza critica dello stato d’Israele. Egli [Elia] non fu affatto la marionetta di possenti gruppi d’interesse, bensì una manifestazione di forza personale, un prodotto della storia ebraica.

Il popolo cui Elia apparteneva viveva già del fatto di essere diverso dagli altri.  In contrasto coi vicini, gli ebrei adoravano, al posto di molte divinità specializzate, un unico dio celeste competente per tutto, il quale, per giunta, non possedeva neppure una figura rappresentabile. Persino i nomi  che portava dicevano pochissimo di lui. 

Originariamente s’era chiamato Jahve, vale a dire, secondo Mosè, “io sono”; poi Eloah o Elohim, quindi, semplicemente “dio”; più tardi ancora Jahu o Jehovah; infine, Adonai, il “signore”. Tutti questi nomi servivano piuttosto a tenerlo nascosto che non a illuminarlo. Quanto più ci si avvicinava a lui dall’esterno, tanto più si faceva impalpabile. Pretendeva adoratori che ripudiassero totalmente la forza di rappresentazione sensibile per aggrapparsi a pure astrazioni.

Raffigurato, Jehovah-Jahve lo fu solo, propriamente, nella severa legge imposta ai suoi seguaci. Dai buoni ebrei veniva e viene preteso che rispettino minutamente, ogni giorno e ogni ora, non meno di seicentotredici norme e divieti diversi. Essi non devono credere, bensì agire, e con l’azione esser una cosa ben definita: membri del popolo eletto. La comunità che li comprende, è, a ben considerare, un ordine di taglio fortemente intellettuale, le cui regole fanno apparire i frati trappisti come membri di un club esclusivo.

Come gli ebrei siano arrivati al loro dio tanto severo e speciale è uno dei grandi misteri della storia. Oggi è abbastanza popolare la teoria secondo la quale essi avrebbero conosciuto Jahve nella loro migrazione attraverso il Sinai, dove incontrarono i keniti. Questa tribù nomade, come si suppone da indizi frammentari, avrebbe adorato uno spirito di fuoco senza volto e senza figura, e trasmesso tale fede agli ex schiavi provenienti dall’Egitto.

Più astutamente, Sigmund Freud ribatte che Jahve sarebbe una creazione originaria egiziana. Mosè non era ebreo - egli ritiene -, ma uno degli ultimi seguaci dispersi del monoteista Ekhnaton. Deluso dal suo popolo, si avvicinò ai lavoratori forzati della casa di Giuseppe, promettendo loro la libertà se accettavano la sua dottrina, cosa che, naturalmente, essi fecero. Freud fonda la sua teoria su una serie di tratti confusi dell’immagine del grande legislatore. Già il nome rimanda a un’origine egizia: Mosè significa “il figlio”, a quel modo che Ramsete vale “Ra-mose”, cioè “il figlio di Ra”. Probabilmente la guida dell’esodo per il Mar Rosso non parlava nemmeno, o solo imperfettamente, ebraico, per cui si valse dell’aiuto del fratello Aronne non come aiuto per la formulazione, come suggerisce la Bibbia, bensì come interprete. E infine, contrariamente al’antico uso, si fece circoncidere solo più tardi, il che dimostra ancora una volta come non venisse da un casato ebraico.

Tutte queste considerazioni acutissime contribuiscono ovviamente poco a sgombrare la tenebra che avvolge il dio Jahve, ma anzi lo rendono ben più che mai sorprendente ed enigmatico. Nessun popolo, diciamo così, normale dell’Antico Oriente sarebbe mai pervenuto da solo all0’idea di riconoscere una potenza soprannaturale che prendeva forma solo nel fuoco e come voce interiore, si faceva adorare in templi vuoti, e vegliava gelosamente sull’adempimento di complicati precetti e divieti.

Appunto con questa situazione “anormale” si trovò a confronto la fenicia Jezabel, senza esserne probabilmente del tutto consapevole. La donna veniva da un paese dove gli dei erano come dovunque: o umanizzati al punto da esser concepito come Super-io, o così disumani da poteri temere e rispettare per motivi umanamente fondati. Gli dei dovevano governare come re, con marzapane e frusta, con buone messi e grandinate, con venti favorevoli e tempeste, con sole e tuoni. Dovevano essere un ordine entro cui inserirsi, non una legge che pretendesse per sé tutto l’essere umano.»

 

In effetti, la lotta fra Baal e Yahweh per la supremazia in Israele non fu solo una lotta fra due diverse divinità nazionali, ma fra due diverse e inconciliabili concezioni della divinità stessa, quale non si era mai vista fino ad allora: un evento epocale, che si sarebbe rivelato decisivo per il destino stesso dell’Occidente.

Baal, come tutti gli altri dei del pantheon antico, e non solo mediorientale, rappresentava una forza di tipo antropomorfo,  potentissima, ma non superiore alla natura, che era necessario ingraziarsi - anche con sacrifici umani - per placarne le collere e per propiziare i raccolti e le circostanze della vita materiale. Il suo culto poteva benissimo coesistere non solo con quello delle altre divinità fenice, ma anche con qualsiasi divinità straniera.

Yahwe era un dio esclusivista e geloso, insofferente di qualunque altro culto; un dio puramente spirituale, che esigeva cieca obbedienza in ogni singola azione e in ogni singolo istante della vita, al punto che il suo fedele doveva sottostare a più di seicento norme e divieti, cominciando dalla circoncisione e passando per l’obbligo del riposo assoluto nel giorno di sabato. Per il fedele di Yahwe, ogni altra forma di religione era pura abominazione e perfino il contatto con i seguaci di altri culti era un male da ridurre al minimo indispensabile, e non senza continui lavacri e abluzioni di carattere purificatorio. Entrare nella casa di un pagano era abominio; partecipare ai suoi riti, un delitto meritevole di morte.

Le due fedi non potevano coesistere in alcun modo.

Molti storici sono convinti che un’idea così estranea alla mentalità degli antichi Semiti, come quella di un Dio invisibile che non vuole essere rappresentato in alcun modo, sia giunta agli antichi Ebrei per mezzo dei Keniti (o Qeniti), una tribù nomade del Sinai che discendeva, probabilmente, dai Madianiti, e con la quale gli Ebrei medesimi sarebbero entrati in contatto durante le peregrinazioni nel deserto, dopo l’esodo dalla terra del Nilo.

Qualcuno si è spinto ancora più in là, e, osservando la strana coincidenza cronologica fra la riforma monoteista del faraone Ekhnaton (Amenhofis IV) e gli eventi, di poco posteriori, relativi alla migrazione degli Ebrei dall’Egitto alla Palestina, ha supposto che Mosè non fosse ebreo, ma egiziano (come l’etimologia del suo nome lascia del resto supporre) e che egli sia stato un seguace di tale riforma, all’epoca in cui i sacerdoti di Amon avevano ripreso il controllo dell’Egitto (durante il regno di Tut-ankh-Amon); un seguace che volle far sopravvivere il culto del Dio unico affidandolo, in forma invero assai modificata, agli Ebrei, gli unici che avrebbero potuto abbracciarlo mentre erano alla ricerca di una sede definitiva e di una divinità che li proteggesse nelle loro lunghe e faticose peregrinazioni.

Questo, forse, è troppo. In ogni caso, mancano completamente elementi di fatto che permettano di suffragare una tale, ardita supposizione; sebbene essa non sia, di per sé, inverosimile e, quindi, potrebbe essere considerata come una ipotesi seria, per quanto bisognosa di conferme.

In effetti, perfino l’etimologia del nome Yahweh non è affatto chiara e non mancano gli studiosi che rifiutano sia l’origine kenita, sia quella madianita tanto del nome, quanto del suo culto, sicché la questione rimane tuttora controversa. Si è pensato anche a qualche divinità babilonese o, comunque, a un vocabolo di origine babilonese; ma neppure questo è stato provato e l’intera discussione è tuttora più che mai aperta, vale a dire misteriosa.

Sia come sia, bisogna avere l’umiltà di riconoscere che, riguardo al mondo antico, sono più le cose che non sappiamo che quelle che sappiamo; e, con buona pace di quegli storici, archeologi e scienziati che vorrebbero sempre avere la risposta pronta per tutto, la verità è che, al momento, nessuno può dire con certezza da dove gli Ebrei abbiano attinto l’idea originaria del Dio unico e invisibile, creatore del Cielo e della Terra, adorato in un tempio vuoto e il cui nome non doveva essere pronunciato invano e la cui immagine non doveva essere rappresentata.

È certo, tuttavia, che si trattò di una svolta decisiva per la storia dell’umanità e che Mosè, chiunque egli sia stato, va annoverato tra le più possenti figure di riformatore religioso di tutti i tempi e di tutti i popoli.

Certo, l’adesione sempre più stretta al suo culto segnò, per Israele, la chiusura al mondo esterno, il rifiuto dei commerci con la mediazione dei Fenici, la rottura culturale con tutti i popoli vicini e l’adesione ad un esclusivismo religioso e nazionalista sempre più accentuato, fino ad assumere i contorni di una e propria xenofobia permanente: qualche cosa che il mondo antico non aveva mai visto fino ad allora, né in Medio Oriente, né altrove, e che non avrebbe visto mai più, almeno fino all’avvento del Cristianesimo e dell’Islamismo, suoi diretti continuatori.

Noi, europei moderni, siamo i figli di quella storia, siamo il prodotto - sia pure indiretto - di quell’esclusivismo, di quella intolleranza fanatica: la «bava alla bocca» di cui parla Gerhard Herm e che ancora oggi caratterizza l’atteggiamento di molti intellettuali israeliani, come lo storico delle religioni Shalom Ben-Chorin, non appena qualcuno si azzarda a pronunziare il nome dell’antica regina Jezabel.

Ma l’anomalia, nel panorama del mondo antico, non sono Jezabel e la religione dei Fenici, bensì il culto di Yahweh, coi suoi profeti senza misericordia e con la sua ferrea determinazione a sostenere contro tutto e contro tutti il popolo da lui “eletto”, esigendone però, in cambio, una dedizione cieca e totale e un dispregio assoluto verso ogni altro culto ed ogni altro popolo.

 

 

 

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