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20 Ottobre 2016

 

Vogliono imporre la religione dell’Olocausto sulle ceneri di tutte le altre

di Francesco Lamendola  

 

Negazionismo: casi Irving, Williamson e l'indicatore di Charlie Hebdo. La lotta occulta per instaurare sul trono del mondo l’Anticristo?

 

Si faccia caso a quali sono gli obiettivi delle vignette oscene e degli sberleffi sacrileghi di un giornaletto squallidissimo come Charlie Hebdo, che solo l’azione terroristica del 2 novembre 2011 ha fatto conoscere al resto del mondo, fuori della Francia, e che, nel medesimo tempo, ha rivestito di un alone di martirio, mobilitando a suo sostegno le pubbliche autorità, la stampa e l’opinione pubblica di tutto l’Occidente: l’islam e Maometto; il cristianesimo e Gesù, la Madonna e il papa; indi occasionali bersagli laici, scelti sempre con ottimo tempismo e perfetto buon gusto, come le vittime del terremoto avvenuto nell’Italia centrale, il 24 agosto del 2016. La sua linea di battaglia è la difesa dei “diritti dell’uomo e del cittadino”, nella più pura tradizione illuminista, giacobina e massonico-radicale; i suoi avversari sono sempre, o spesso, i fondamentalismi religiosi, percepiti e denunciati come estremamente pericolosi per l’assetto laico, pluralista e democratico della società, però con una clamorosa assenza. Charlie Hebdo, anche se si atteggia a politicamente scomodo, impertinente, irriverente, è, in effetti, estremamente 

politically correct: non se la prende mai con certi poteri intoccabili, con certi dogmi indiscutibili, con certi argomenti che sono divenuti realmente tabù, come l’Olocausto, il Giudaismo, la finanza ebraica mondiale. Ama scherzare su tutto, deridere tutti, spernacchiare tutti, ma non lo fa quasi mai su questi argomenti, verso questi obiettivi. La sua polemica finisce là dove è veramente proibito scherzare: non teme di offendere a sangue islamici e cristiani, né di  essere sacrilego nei confronti di Allah o della Santissima Trinità; però non si permette di estendere la sua satira, le sue vignette iconoclaste e le sue sghignazzate a tutto ciò che riguarda, direttamente o indirettamente, Israele, se non in modo assai blando. E abbiamo citato il caso di Charlie Hebdo, perché si tratta di un caso estremo: la linea offensiva di quel settimanale, proprio per la sua natura provocatoria e aggressiva, rappresenta un vero e proprio indicatore su fino a dove possono spingersi le critiche, le barzellette e le prese in giro sugli argomenti seri, e dove, invece, nettamente, irremovibilmente, si fermano, perché devono fermarsi.

Questa è una prima cosa che fa riflettere, o che dovrebbe indurre a farlo. Adesso prendiamo in considerazione la vicenda dello storico David Irving e quella del vescovo lefebvriano Richard Williamson. Irving, classe 1938, fu arrestato in Austria, l’11 novembre 2005, mentre si recava a una conferenza, sotto l’imputazione di negazionismo, ma ufficialmente per aver glorificato ed essersi identificato con il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori tedeschi, cioè con un partito politico che non esisteva più da 60 anni, e condannato a tre anni di prigione: ne scontò più di uno (400 giorni, per l’esattezza) e fu poi scarcerato, il 21 dicembre 2006, in seguito a una sentenza della Corte d’appello, indi frettolosamente espulso dal Paese come persona non grata (cfr. il nostro precedente articolo: Il rogo dei libri di David Irving è un sinistro segnale per la libertà di ricerca, pubblicato sul sito di Arianna Editrice l’11/02/2010). Oltre ad alcune cause penali per le sue idee storico-politiche, ha subito varie forme di boicottaggio, ad esempio in occasione della Fiera del libro di Varsavia, nel 2007, è stato interrotto nel corso di incontri pubblici, è stato multato, è stato espulso o gli è stato proibito l’accesso in vari Paesi del mondo, fra i quali la Germania e la Nuova Zelanda, che gli ha proibito di salire a bordo di qualsiasi aero diretto verso di essa; in Norvegia, nel 2008, l’invito a partecipare ad un incontro letterario ha scatenato un fiume di aspre polemiche. Quasi tutti gli altri storici lo hanno condannato, isolato e ricoperto di disprezzo. Ma il colpo più duro gli è venuto dalla sconfitta in una causa legale con la giornalista Deborah Lipstadt, che lo aveva accusato di negazionismo e di falsificazione storica, nel 2002, perché la sentenza di condanna della corte, che riconobbe la giustezza delle accuse, si accompagnò a un vero e proprio tracollo finanziario, a causa delle spese sostenute nel corso del processo. Peraltro, le opinioni di Irving sull’Olocausto hanno conosciuto una altalena di negazioni e di revisioni e smentite delle precedenti affermazioni; va rilevato, inoltre, che, prima di portare la sua attenzione su questo tema, egli era decisamente apprezzato, specialmente come storico militare della Seconda guerra mondiale, e che nessuno, prima del processo Lipstadt e delle vicende successive, tra cui la carcerazione in Austria, aveva messo in dubbio la sua serietà di studioso e la sua scrupolosità di ricercatore, anzi; per esempio, a proposito del bombardamento alleato su Dresda, nel 1945, molti gli avevano riconosciuto il coraggio di aver aperto una riflessione partendo da un punto di vista fino ad allora inedito, o, comunque, assolutamente minoritario.

Il caso di monsignor Williamson, benché meno drammatico (niente galera, per adesso), è, per certi aspetti, ancor più significativo. Williamson, classe 1940, non è uno storico e non ha particolari interessi storici, ma è un vescovo cattolico, ordinato il 30 giugno 1988 da monsignor Lefebvre, che, per quel gesto (aveva ordinato, nello stesso giorno, anche altri tre vescovi), venne scomunicato latae sententiae, scomunica che si estese automaticamente ai nuovi quattro vescovi. Fu a partire da quel momento che finirono nel mirino alcune opinioni espresse da monsignor Williamson sulla vicenda dell’Olocausto: da quando, nel 1989, la famosa Royal Canadian Mounted Police, la Polizia a cavallo canadese, aveva aperto una inchiesta su di lui, a causa di una conferenza tenuta dal prelato a Sherbrooke, nel Québec, nella quale aveva negato l’esistenza delle camere a gas, così come riferito dal giornale The Boston Globe; ma la cosa, per il momento, era finita con una archiviazione. Rettore del seminario San Tommaso d’Aquino a Winona, nel Minnesota (Stati Uniti), Williamson, nel 2003, si è trasferito in Argentina, essendo stato nominato rettore del seminario La Reja, della Fraternità sacerdotale san Pio X, nella provincia di Buenos Aires. Il 21 gennaio 2009 la scomunica a Williamson e agli altri vescovi venne revocata dal pontefice, pur restando la sospensione a divinis; ne seguì una feroce polemica che incrinò l’autorevolezza del pontificato di Benedetto XVI, in quanto, il giorno stesso della remissione della scomunica (il 21 gennaio), vennero diffuse dai media alcune dichiarazioni del vescovo di segno negazionista. In realtà, si trattava di una intervista registrata da tempo della televisione di Stato svedese, che giaceva in un cassetto e che, guarda caso, venne mandata in onda a poche ore di distanza dalla remissione della scomunica (ma due giorni dopo che il tedesco Der Spiegel l’aveva anticipata ai suoi lettori), costringendo il Vaticano a fornire affannose spiegazioni per un gesto che pareva quasi di approvazione alle tesi negazioniste.

Il 4 febbraio, la Segreteria di Stato vaticana diffondeva una nota trasudante d’imbarazzo, in cui, fra l’altro, si affermava: Il vescovo Williamson, per una ammissione a funzioni episcopali nella Chiesa, dovrà anche prendere in modo assolutamente inequivocabile e pubblico le distanze dalle sue posizioni riguardanti la Shoah, non conosciute dal Santo Padre nel momento della remissione della sua scomunica. Ma il processo a Williamson, i bravi cattolici progressisti lo avevano già fatto per direttissima (non c’è niente di più spietato della cattiveria dei “buoni”), gareggiando con la stampa laica, a cominciare dalla solita Repubblica, che puntava il dito contro l’antigiudaismo e l’antisemitismo persistente, a suo dire, nelle file dei lefebvriani. Il portavoce del papa, padre Federico Lombardi, dichiarò alla Radio Vaticana che chi nega il fatto della Shoah non sa nulla del mistero di Dio né della croce di Cristo; il cardinale Camillo Ruini, Vicario emerito del papa per la diocesi di Roma, disse lapidariamente, in una intervista alla televisione di Stato italiana, e precisamente al TG1, che chi nega la Shoah non può essere un vescovo cattolico. Il Centro Simon Wiesenthal, da parte sua, esortò pubblicamente Benedetto XVI a rimangiarsi la remissione della scomunica. La stessa cancelliera tedesca, Angela Merkel, volle dire la sua ed espresse stupore e indignazione per l’intervista di Williamson, insinuando che la Chiesa avrebbe fatto bene a chiarire al più presto la propria posizione ufficiale; disse testualmente: Io auspico un chiarimento pieno della questione da parte del papa e del  Vaticano. Due testate internazionali del peso del Financial Times e del Sunday Times spararono a zero contro Benedetto XVI (a proposito di poteri forti…). In Italia, dal canto loro, i cattoprogressisti non si lasciarono sfuggire la ghiotta occasione e il settimanale Famiglia Cristiana si espresse in termini assai critici sulla remissione della scomunica, sostenendo che quel gesto di Benedetto XVI rischiava di “appannare l’immagine della Chiesa”. Anche in questo caso, bisogna precisare che monsignor Williamson non nega che vi sia stato l’Olocausto, ma afferma di dubitare che in esso siano periti sei milioni di ebrei, e, inoltre, sostiene che non vi sono prove storiche dell’esistenza delle camere a gas.

È comunque significativo seguire la vicenda di questo vescovo dopo che l’intervista venne mandata in onda e fece subito il giro del mondo. Anche se l’obiettivo vero era, probabilmente, Benedetto XVI, Williamson pagò un prezzo piuttosto alto, venendo cacciato sia dall’Argentina, sia dalla stessa Fraternità san Pio X, e nel 2014 ha fondato, con altri, un’altra organizzazione d’ispirazione tradizionalista, l’Unione sacerdotale Marcel Lefevre, a Nova Friburgo, in Brasile, opponendosi direttamente al vescovo lefebvriano Bernard Fellay, desideroso di ricomporre la spaccatura con Roma. Inoltre, avendo consacrato un altro vescovo, Jean-Michel Faure, è incorso nuovamente nella scomunica della Chiesa cattolica, nel marzo 2015. La Germania, da parte sua, compresa la Chiesa cattolica tedesca - in particolare la diocesi di Ratisbona, che gli negò l’accesso ai luoghi di culto di quella città -, fece del suo meglio per rendergli dura la vita: il 16 aprile 2010 il tribunale di Ratisbona lo condannò a pagare una multa di 2.000 euro per le sue affermazioni negazioniste ed un supposto “incitamento all’odio razziale” (anche se, l’anno dopo, la Corte d’appello di Norimberga annullò la sentenza e condannò la Baviera a pagare le spese processuali addebitate a Williamson), Vale la pena di riportare le motivazioni addotte dal Ministro degli interni argentino, Florencio Randazzi, a nome del governo del suo Paese, il 19 febbraio 2009, al momento della espulsione di Williamson, la quale avvenne, in realtà, dietro pressione del rabbino di Buenos Aires, Daniel Goldman: Episodi come questi [cioè la famosa intervista alla tv di Stato svedese, ma forse anche la remissione della scomunica da parte del papa, nonché la stessa presenza di Willianson in territorio argentino] nocciono profondamente alla società argentina, al popolo ebreo e a tutta l’umanità, pretendendo di negare una comprovata verità storica. Da parte sua, la presidente Cristina Kirchner aveva dichiarato il vescovo persona a motivo delle sue spregevoli dichiarazioni antisemite.

A proposito di rispetto della religione altrui, delle opinioni altrui e della sensibilità altrui, vale la pena di ricordare che il 18 febbraio 2009, alla vigilia di uno storico accordo fra il Vaticano e lo Stato d’Israele per regolare lo status giuridico della Chiesa cattolica in quel Paese, la televisione israeliana mandò in onda, sul Canale 10, un programma intitolato Like a Virgin, nel quale, prendendo lo spunto dalla polemica sul caso Williamson, si ridicolizzavano sia la figura di Gesù Cristo, che quella della Vergine Maria. Arriviamo così ad una conclusione difficilmente smentibile: si può offendere impunemente qualsiasi religione, filosofia o credenza, ma non si può toccare in alcun modo la sensibilità del giudaismo e dei suoi esponenti. Da parte nostra, siamo dell’opinione che la vera colpa di Williamson, agli occhi di quanti si sono stracciati le vesti per l’indignazione, come Caifa nel Sinedrio, non sia tanto legata al suo cosiddetto negazionismo (ma se negare le dimensioni e le modalità del genocidio è sufficiente per essere considerati dei “negazionisti”, allora andiamo davvero verso un fosco futuro per la libertà, non solo degli studiosi di storia, ma anche dei comuni cittadini), e nemmeno al fatto che egli ha dichiarato di credere alla autenticità dei Protocolli dei Savi anziani di Sion, quanto alla sua posizione, in generale, nei confronti del giudaismo come religione, e alle sue dichiarazioni relative all’ebraismo internazionale come protagonista occulto della politica mondiale. Per quanto riguarda il primo aspetto, Williamson ha dichiarato, in una intervista al Catholic Herald, che se gli ebrei sono nemici di Nostro Signore Gesù Cristo,- naturalmente non tutti gli ebrei, ma quelli che lo sono – allora non mi piacciono. Una affermazione che può scandalizzare solo chi sia piovuto sulla Terra dal pianeta Marte, o chi abbia la memoria assai corta, perché essa riflette fedelmente la posizione ufficiale della Chiesa cattolica, e il sentire comune dei cattolici, almeno fino all’epoca del Concilio Vaticano II, ma in realtà anche dopo, diciamo fino al pontificato di Giovanni Paolo II e alla sua storica visita alla sinagoga di Roma, nel 1986. Quanto al secondo aspetto, il vescovo ha dichiarato (come riferito dal Telegraph del 4 febbraio 2009; consultabile su Internet) che gli Ebrei stanno lottando per il dominio mondiale ed instaurare il trono dell’Anticristo. E questo, la nuova religione dell’Olocausto non lo può tollerare...

 

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