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04 Gennaio 2018

 

Ebrei e cristiani: dalla stessa radice
o no?

di Francesco Lamendola  

 

Il cristianesimo è realmente una nuova religione oppure è solo una “costola” del giudaismo? è uno dei nodi sui quali si gioca la partita da parte della neochiesa gnostica e massonica.

 

Il cristianesimo è realmente una nuova religione, oppure è solo una “costola” del giudaismo? La domanda, fino a pochi anni fa, sarebbe parsa a dir poco bizzarra, per non dire assurda, almeno ad un cattolico; oggi tale assurdità sembra essere sparita, e sono in parecchi, ormai, specie fra i nuovi teologi, ma anche nel clero progressista e neomodernista, a formularla apertamente, quando non rispondono addirittura, con molta sicurezza, in senso pienamente affermativo. Vale pertanto la pena di soffermarsi a considerare la questione con tutta la serietà che merita, visto che ne va della stessa identità del cattolicesimo.

Ce ne siamo già occupati in diversi precedenti lavori (cfr. Gesù ebreo?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il  20/09/2010; Augias e Pesce: se li conosci, li eviti, sul sito Accademia Nuova Italia il 17/02/22016; Ma quante contorsioni per attenuare il ruolo dei “fratelli maggiori” nella morte di Gesù, su Libera Opinione del 06/11/2016; e L’irrazionale senso di colpa dei cattolici li ha portati ad arrendersi al giudaismo, su Accademia Nuova Italia il 31/12/2017), ma l’argomento è sempre di attualità, anzi scottante. Vorremmo dire perfino “bollente”, visto che è uno dei nodi sui quali si gioca la partita, da parte della neochiesa gnostica e massonica, per scalzare definitivamente la vera Chiesa, fondata da Gesù Cristo, e per sostituirla, in accordo con B’Nai B’rith, con una perversa imitazione, che prende ordini dal giudaismo talmudico e non più dalla propria gerarchia, in accordo e in piena fedeltà alla propria Tradizione e alla sacra Scrittura, secondo il Magistero infallibile  di sempre (cfr. Shoah, Concilio, Williamson: scacco in tre mosse, sul sito di Accademia Nuova Italia il 25/12/2017). Ed è su quel punto che non cessano di rinnovarsi le offensive di quanti vorrebbero snaturare il cattolicesimo e farne una sorta di appendice, più o meno estemporanea, quasi una variante del giudaismo, il quale resterebbe sempre la fondamentale religione di salvezza, dato che Dio non avrebbe mai ritirato la propria promessa al popolo d’Israele.

Nel suo libro Dalla stessa radice. Ebrei e cristiani, un dialogo intrareligioso (Torino, Lindau, 2016) il giornalista Giuseppe Altamore, a un certo punto afferma:

 

Noi cristiani facciamo parte della stessa alleanza eterna (“Berìt olam”) dei nostri fratelli ebrei e come tali abbiamo assunto col battesimo l’impegno a servire la Chiesa di Cristo e il Dio di Israele. (…) La figura di Gesù che ci separa dai fratelli ebrei è anche colui che ci unisce indissolubilmente al popolo eletto, fino all’abbraccio finale. La fede di Gesù nel Dio di Israele ci unisce, la fede in Gesù ci divide, come alcuni hanno, sia da parte ebraica sia da parte cristiana, sintetizzato. (…)

In verità esiste una continuità che si manifesta anzitutto a livello di linguaggio: gli stessi termini “Chiesa” e “popolo di Dio” hanno origini veterotestamentarie. La comunità di Israele è ricordata con due termini quasi equivalenti “edah” e “qahal”: la prima parola designa una comunità radunata, la seconda la convocazione. Nella famosa traduzione dei Settanta, fatta da ebrei praticanti, i termini saranno tradotti con “synagoge” ed “ekklesìa”. Quest’ultimo sarà poi adottato dal [sic] cristianesimo per definire il momento in cui si raduna il popolo di Dio. Già questa terminologia, ci invita a riflettere sulla continuità tra ebraismo e cristianesimo e la nuova alleanza può rappresentare il rinnovamento di un patto antico presente nelle Sacre Scritture. Del resto, se come ha affermato solennemente Giovanni Paolo II, in Germania, nel 1980, l’alleanza tra Dio e il popolo d’Israele non è mai stata revocata, il cristianesimo per molti teologi rappresenta l’allargamento della primigenia alleanza tra Dio e Israele a tutta l’umanità tramite il Corpo di Gesù Cristo morto e resuscitato. In altre parole, l’”alleanza di Cristo”, fondata nel sangue del Messia, realizza la sua pienezza di salvezza universale: l’alleanza eterna  aperta a tutti grazie alla fede cristiana. “Questa alleanza di Cristo non abolisce l’alleanza di Dio con Israele che è irrevocabile, ma è un ulteriore patto di Dio, che rende partecipi coloro che credono in Cristo della definitiva pienezza della salvezza escatologica” (Hofmann, Sievers, Mototlese (a cura di), Chiesa ed ebraismo oggi, Pontificia Università Gregoriana, 2005).

 

Avevamo già avuto occasione d’imbatterci in Giuseppe Altamore, in occasione di una sua intervista al teologo Paolo De Benedetti, apparsa sul mensile Vita pastorale meno di due anni fa, classico esempio di intervista pilotata al fine di orientare le opinioni del lettore e cloroformizzare il suo senso critico (cfr. il nostro articolo: Dialogo fra cristiani e giudei: come non si fa un’intervista, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 25/04/2016): questo, beninteso, se si crede, forse un po’ ingenuamente, che un’intervista, specialmente su questioni culturali e spirituali, dovrebbe porre l’argomento trattato in maniera il più possibile imparziale, in modo che sia il lettore a farsi una propria opinione, sulla base di dati di fatto e non di una ideologia precostituita. Dobbiamo tuttavia tener presente che siamo in Italia, dove perfino l’informazione delle televisioni di Stato è soggetta a un procedimento sistematico di veline, e che tutta la stampa ha sempre avuto il vizio incorreggibile di anticipare il giudizio sui fatti alla narrazione dei fatti medesimi: vizio che non si nota, o si nota assai meno, in altre aree culturali, specialmente in quella anglosassone, ove un tal modo di far “informazione” non sarebbe tollerato e i sedicenti giornalisti verrebbero buttati fuori a pedate nel sedere, se non altro per preservare un minimo di dignità e di decoro ai loro colleghi e alla professione di giornalista in quanto tale. Ma da noi, si sa, quando un giornalista deve intervistare un politico, manca poco che si metta in ginocchio e gli sottoponga le domande in anticipo, per sapere quali gli viene concesso di fare, e quali no; e le cose vanno suppergiù alla stessa maniera anche quando l’oggetto di una intervista riguarda questioni di scienza, di urbanistica, di arte, di musica, di cinema o di letteratura, per non parlare di filosofia o di religione, specialmente se l’intervistato è un eminente personaggio del clero. Con tutto ciò, perfino in Italia esiste un limite oltre il quale si finisce per superare il livello di sopportazione del pubblico.

Adesso ci risiamo, perché il libro Dalla stessa radice. Ebrei e cristiani, un dialogo intrareligioso, fazioso già nel titolo (se il dialogo è intrareligioso, la tesi viene data per acquista prima ancora d’essere argomentata: prendere o lasciare) mostra lo stesso modo di procedere che già avevamo notato nell’intervista sopra ricordata. Il metodo dell’Autore consiste nel gonfiare al massimo tutti gli elementi che portano acqua alla tesi che vuol sostenere, e nel passare sotto silenzio o nel minimizzare fino quasi a farli sparire, tutti quelli che potrebbero rappresentare delle serie obiezioni a ciò che egli si propone di “dimostrare” (ed è il caso delle poche righe, frettolose ed evasive, dedicate al giudizio su Cristo presente nel Talmud). E cioè che non solo non esistono sostanziali differenze di fondo fra cristiani e giudei, ma che i cristiani sono solo dei giudei che si sono scordati d’essere tali: il tutto, ovviamente, citando il celebre aforisma di sant’Agostino: Siamo tutti ebrei, ma guardandosi bene dallo spiegarne il reale significato, che non è affatto quello che viene sottinteso dal Nostro. Basti dire che sant’Agostino giustifica l’antigiudaismo (si badi: l’antigiudaismo, ossia un fatto religioso, non l’antisemitismo, che è un fatto razziale) perché i giudei che uccisero Cristo sono paragonabili a Caino che uccise Abele; e come Dio non punì Caino con la morte, ma lo lasciò vivere, quasi per portare su di sé il peso del rimorso, così non si deve procedere contro i giudei, ma li si deve lasciare in pace, perché possano vivere e portare su di sé la colpa e la vergogna per il crimine indicibile che i loro antenati hanno commesso. Non solo: sant’Agostino paragona i giudei ad Esaù, che ha perduto la primogenitura in favore di Giacobbe; e vede nella loro dispersione il castigo della loro colpa, cioè il rifiuto del Messia: tutte cose che andavano dette, invece di riferire quella frase di sant’Agostino, senza ulteriore commento, perché in quel modo si fa credere al lettore una cosa non vera, ossia che sant’Agostino fosse talmente favorevole ai giudei, da al punto di vedere in essi, quasi anticipando Giovanni Paolo II, i nostri fratelli maggiori: un pensiero che lo avrebbe fatto semplicemente inorridire.

Poi, evocando gli attentati dei terroristi islamici a Parigi, contro Charlie Hebdo e al Bataclan, per esortare alla solidarietà attiva con lo Stato d’Israele (?), Altamore arriva alla conclusione che Israele siamo noi, e ciò dopo aver messo in dubbio che il cristianesimo sia davvero una nuova religione, e non, semplicemente, una sorta di ampliamento del giudaismo, insomma che il cristianesimo sia anche, quanto meno – come aveva osservato Hans Küng – anche ebraismo. Non senza lanciare sprezzanti anatemi contro il fondo melmoso di un persistente antigiudaismo in seno al mondo cattolico, l’Autore vuol farci credere che quella giudaica e quella cristiana non sono due alleanze distinte, ma la stessa alleanza (sono parole sue), e che ricevendo il Battesimo i cattolici contraggono un doppio impegno: quello di servire la Chiesa di Cristo e il Dio d’Israele. Assurdo; e non solo assurdo, ma blasfemo: come se essere cattolici comportasse l’essere giudei. Se fossimo in tempi normali, simili eresie verrebbero immediatamente riconosciute e denunciate come tali; di questi tempi, i tempi di Bergoglio, passano tranquillamente, anzi, vengono lodate e apprezzate, come se fossero cose intelligenti, profonde, veritiere. E che vuol dire l’espressione un dialogo intrareligioso, se non che le due religioni sono, a ben guardare, una sola? Grazie tante, se le cose fossero così, se Gesù fosse “solo” un ebreo che è venuto ad ampliare l’antica alleanza, lasciandola sostanzialmente intatta e sempre valida, ciò vorrebbe dire che avevamo sempre creduto di essere cattolici e invece eravamo, e siamo, anzitutto dei giudei. Ma ciò è falso. Con buona pace del cardinale olandese Johannes Gerardus Maria Willebrands, già presidente della Commissione per i rapporti con l’ebraismo – ovviamente citato da Altamore -  il quale ha sentenziato, in tono apodittico, che Gesù è ebreo e lo è per sempre. Che vuol dire “per sempre”? Che la ebraicità biologica di Gesù si prolunga nella dimensione divina di Gesù? Dio, a questo punto, è ebreo? Certo, per un Bergoglio il quale afferma che Dio non è cattolico, possiamo bene immaginare che, per certi prelati modernisti e giudaizzanti, Dio sia ebreo. Ma, in tal caso, non sarebbe più onesto dire, più o meno, ai fedeli cattolici: Ragazzi, contrordine: è stata tutta una mascherata, o, se preferite, un grosso equivoco, un malinteso; non è vero niente che Gesù è il Figlio di Dio, venuto a salvare gli uomini, senza distinzione di razza e di cultura: Gesù era un ebreo, resterà sempre un ebreo, e quindi, se volete davvero la salvezza eterna, è bene che vi facciate ebrei tutti quanti; scusate se per duemila anni la Chiesa cattolica non è stata abbastanza chiara sui questi punto, ma adesso vogliamo rimediare, in fondo è meglio fare le cose tardi, che non farle mai.

E pur di portare i cattolici ignari (ed ingenui) sulle loro inverosimili ed eretiche posizioni, gabellando il cristianesimo per una forma derivata di giudaismo e facendo finta che il nostro Signore Gesù Cristo sia morto di raffreddore, o che sia stato messo sulla croce per volontà e responsabilità esclusiva dei romani (contraddicendo frontalmente i precisi racconti evangelici, onde scagionare i nostri fratelli maggiori persino dall’ombra di un sospetto), i cattolici progressisti e neomodernisti non si risparmiano a fare il tifo per l’eretico Lutero, tralasciando bellamente la virulenta avversione di Lutero per gli ebrei, avversione che, nel suo caso, era davvero qualcosa di molto simile all’antisemitismo, oltre che una espressione del suo radicale antigiudaismo religioso (cfr. il nostro articolo: Lutero e gli Ebrei, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 26/03/2008). Curioso, vero? Padre Léon Gustave Dehon, che doveva essere proclamato santo il 24 aprile 2005, lui no : è stato congelato in frigorifero a tempo indeterminato, proprio per l’antigiudaismo – che non è mai stato antisemitismo – di alcuni suoi scritti; Lutero, che odiava gli ebrei e che aveva esortato i principi tedeschi a perseguitarli in ogni modo, a spogliarli di tutti i loro beni, a cacciarli dalle loro case e a deportarli, insomma a sottoporli a ogni genere di persecuzione, tranne la morte, lui sì: Lutero va bene, Lutero addirittura – sono parole di monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della C.E.I. - è stato mandato alla Chiesa per opera dello Spirito Santo. Di fronte a tanta disonestà intellettuale, a tanta doppiezza, a tanta studiata e deliberata perfidia, verrebbe quasi da ridere, se non ci fosse soprattutto da piangere. E, tornando al libro di Giuseppe Altamore, qual è la proposta finale che vien fuori da tutti questi discorsi sulla unicità dell’alleanza con Dio, giudaica e cristiana, e sul fatto che abbiamo lo stesso Dio, e siamo assai più fratelli di quel che non si creda? Eccola, implicita, ma chiarissima: dal momento che la fede di Gesù nel Dio di Israele ci unisce, mentre la fede in Gesù ci divide; e dal momento che, come dice ogni giorno il (falso) papa Bergoglio, bisogna sempre gettare ponti e mai alzare muri, ai cattolici non resta che una cosa da fare: sbarazzarsi di questa seccante, e politicamente scorretta, fede in Gesù, che ci divide dai fratelli maggiori, e concentrarsi sulla fede di Gesù, che, a suo dire, è la stessa dei giudei. Di nuovo: si vede che Gesù Cristo è venuto per niente: poteva lasciar le cose com’erano; in fondo, andava tutto bene...

 

 

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20/09/2010

 

Gesù ebreo?

di Francesco Lamendola

 

È in atto un tentativo di rigiudaizzare Gesù Cristo: la sua figura, il suo messaggio, soprattutto il suo significato complessivo nella storia umana.
È un tentativo subdolo, perché prende le mosse da una giusta esigenza storiografica: quella di inserire Gesù nel contesto culturale che gli è proprio, il Giudaismo, dopo che duemila anni di Cristianesimo avevano finito per distaccarlo da esso in maniera impropria.
La verità che Gesù era Ebreo sarebbe perfino ovvia, se in tale affermazione non si celasse una insidia ancor più pericolosa della sua decontestualizzazione dalla religione, dalla cultura e dalla storia ebraiche: quella di insistere così tanto sulla sua ebraicità, da annacquare e, alla fine dei conti, da rimuovere e cancellare l’universalità del suo messaggio, la gigantesca grandezza della sua figura e il suo ripudio di ogni esclusivismo, ivi compresi quelli di tipo religioso.
Ha cominciato, vent’anni or sono, Riccardo Calimani, col suo «Gesù ebreo» (Rusconi, 1990); proseguono, ora, Corrado Augias e Mauro Pesce, con «Inchiesta su Gesù» e «Inchiesta sul Cristianesimo» (quest’ultimo col significativo sottotitolo: «Come si costruisce una religione»; entrambi editi da Mondadori, rispettivamente nel 2006 e nel 2008). 
Calimani è ebreo ed Augias si premura di informarci, anche se non c’entra nulla col suo discorso, che la sua famiglia è di lontane ascendenze giudaiche (a pag. 46 di «Inchiesta su Gesù»), così come sono moltissimi gli autori ebrei che si sono occupati, nel corso degli ultimi decenni, della figura di Gesù, col particolare intento di “storicizzarla”: valga per tutti l’esempio di quell’Hugh J. Schonfield che nel suo controverso libro «Gesù non voleva morire» (Tindalo, 1968; ma il titolo originale è «The Passover Plot», 1965) spinge la “storicizzazione” fino a sostenere che Gesù finse di morire sulla croce, ma venne deposto e salvato prima che le sue funzioni vitali venissero irrimediabilmente compromesse. Scenario che sembra anticipare, nella sua assoluta mancanza di serietà storica, quello delineato dallo scrittore Dan Brown con il suo ormai famigerato (e letterariamente illeggibile) «Il Codice Da Vinci».
E, a proposito di Dan Brown, sembra proprio che i due libri della coppia Augias-Pesce vadano nella stessa direzione, e sia pure ad un livello culturalmente molto più sofisticato: il nocciolo della loro tesi, infatti, è che il Gesù storico, benché non si sappia molto di lui (concetto che Pesce ribadisce quasi ad ogni pagina), fu certamente tutt’altra cosa dal Cristo della fede; che quest’ultimo è stato una completa re-invenzione di San Paolo; che egli fu uno dei tantissimi “rabbi” che pullulavano in Palestina a quel tempo, anche se, indubbiamente, non fu un personaggio ordinario ma fuori dell’ordinario.
Il suo stesso messaggio finisce per essere stravolto, mediante tecniche di manipolazione molto sottili e che possono benissimo sfuggire al lettore un po’ frettoloso e privo di un adeguato retroterra culturale. Così, ad esempio, avviene quando si dà a credere che la frase contenuta in Luca, 19, 27, abbia per soggetto Gesù e non invece il protagonista della parabola da lui narrata; o come quando si afferma che il Vangelo di Giovanni non conosce le parabole dei tre Sinottici, senza distinguere fra “non conoscenza” e “conoscenza che vuole evitare ripetizioni”; oppure ancora quando, tirando le date un po’ per i capelli, Pesce si sforza di spostare in avanti la presunta data di composizione dei Vangeli canonici di qualche anno o di qualche decennio, per convalidare la tesi che essi vennero composti molto dopo la morte di Gesù e da persone che non avevano alcuna esperienza diretta dei fatti narrati: tesi che viene data per scontata, mentre è tutta da dimostrare.
Gesù “ebreo”, dunque.
Ma, tanto per cominciare: “ebreo”, in che senso?
La parola ha due distinti significati: nazionale e religioso. Nel linguaggio comune essi finiscono per coincidere; ma, evidentemente, non sono sinonimi: una cosa è appartenere al popolo ebreo, una cosa aderire alla religione giudaica. 
Al tempo di Gesù i due concetti coincidevano? La cosa è oltremodo dubbia: tutto l’Antico Testamento è pieno delle lotte (non solo spirituali) sostenute dai patriarchi, dai profeti e da alcuni re di Giuda e d’Israele per ristabilire la religione mosaica, contro le tentazioni sempre risorgenti del politeismo praticato dai popoli vicini; e, al tempo di Gesù, la situazione non era certo cambiata, stante la profonda ellenizzazione della Palestina e la presenza dell’occupante romano. Dunque, si poteva essere Ebrei ma non seguaci della religione giudaica; e, viceversa, ci si poteva convertire al Giudaismo pur senza essere Ebrei.
Tuttavia, ammettiamo che Gesù, anzi, che Jeshu (abbreviazione di Yehoushua) si potesse ritenere un perfetto ebreo sia riguardo alla stirpe, sia riguardo alla religione: peraltro, sono veramente un po’ troppe le cose che non sappiamo, a cominciare dalla lingua che lui ed i suoi contemporanei parlavano, in Galilea e in Giudea: l’ebraico o l’aramaico? Sia come sia, Gesù era ebreo; e, dal punto di vista religioso, un ebreo estremamente osservante: su questo non c’è dubbio.
Tale, tuttavia, è il dato di partenza. Gesù non “era” ebreo; “partiva” dalla condizione di ebreo. Tutto sta a vedere se egli condivideva il feroce, implacabile esclusivismo, al tempo stesso nazionale e religioso, dei suoi compatrioti; tutto sta a vedere se il suo messaggio si possa, o meno, considerare rivoluzionario nei confronti della cultura del suo tempo e della religione professata dalle autorità rabbiniche, prime fra tutte quella dei Farisei e del gruppo facente capo al Sommo Sacerdote del Tempio di Gerusalemme.
Ed è qui che bisogna mettere le cose in chiaro. Se si insiste oltre misura sulla ebraicità di Gesù; se, per esempio, si dice e si ripete continuamente che il suo zelo religioso era, in tutto e per tutto, quello di un pio ebreo del suo tempo, allora si perde di vista l’essenziale: che il suo messaggio fu di carattere rivoluzionario (non in senso politico, ma religioso); che fu diretto, con estrema coerenza e decisione, contro i Farisei e contro la tradizione legalistica del Tempio; che sia con le sue parole, sia con le azioni, non fece altro che sfidare e, quasi, provocare, Farisei e sacerdoti: che, insomma, la sua visione dell’uomo e del suo riscatto non ebbe nulla a che fare con la religione istituzionalizzata del suo tempo, ma anzi si pose come nettamente eversiva rispetto ad essa. 
E si perde di vista il fatto, che oggi può non piacere ad alcuni e si capisce anche il perché, che la sua morte fu voluta, deliberata, perseguita ed ottenuta essenzialmente dalle autorità religiose del Tempio; e che i Romani non ne furono altro che lo strumento. Tale è, senza possibili ambiguità, la versione del racconto evangelico («e che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli», fu la formula adottata testualmente dalla folla che, davanti al Pretorio di Pilato, pretendeva l’immediata messa a morte di Gesù).
Per cui, o si ha il coraggio intellettuale di dichiarare che i Vangeli canonici sono totalmente inattendibili, oppure la si smette di dire che la sua morte fu voluta dai Romani per motivi politici e si riconosce che la responsabilità di essa ricade sui suoi correligionari, che spinsero un assai riluttante Pilato, il procuratore romano, ad emettere una sentenza capitale, minacciando, se egli non lo avesse fatto, di denunciare il suo scarso zelo all’imperatore romano.
Entrando nelle case dei pubblicani e facendo di essi dei propri discepoli; frequentando ogni sorta di peccatori e prostitute; predicando di non essere venuto per i sani, ma per i malati, vale a dire per quelli che l’Ebraismo rigettava con ribrezzo e riservava alle fiamme della Geenna; scacciando i venditori dal tempio; sostenendo apertamente che non l’uomo è fatto per il Sabato, ma il Sabato per l’uomo; mettendo in ridicolo i sacerdoti e i leviti, ad esempio nella parabola del buon Samaritano, ed esaltando la pietà dei non Ebrei, come appunto gli aborriti Samaritani, Gesù proclamava qualche cosa di nuovo e di diverso dalla tradizione mosaica: per cui il Cristianesimo non è stata affatto una “invenzione” dei suoi seguaci, ma una realtà da lui fondata.
Giusto, dunque, storicizzare la figura di Gesù ed inserirla nel suo contesto giudaico; inaccettabile, invece, fare di lui SOLTANTO un ebreo, un predicatore ebreo che si rivolgeva esclusivamente agli Ebrei: perché, in questo modo, si stempera la sua figura tra le tante che agirono e predicarono in quell’epoca; mentre egli fu ANCHE un ebreo, che però introdusse un tale spirito di novità nel Giudaismo, da distaccarsi irrimediabilmente dal solco della tradizione mosaica.
Né si può obiettare che il Sinedrio volle la morte di Gesù proprio per timore di una possibile repressione romana, causata dalla sua predicazione: innanzitutto perché Gesù fu molto attento nel non permettere che la sua dottrina venisse interpretata in senso grettamente nazionalistico («date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio»); e poi perché, appunto, la Palestina del tempo era percorsa in  lungo e in largo da predicatori religiosi, sul tipo di Giovanni il Battista: ma per nessuno di essi il Sinedrio chiese l’incriminazione; eppure, quanti di essi predicavano, loro sì, in senso favorevole al partito antiromano degli Zeloti!
Quando, vent’anni or sono, apparve il «Gesù ebreo», la reazione degli studiosi, dei biblisti e dei teologi cattolici fu di segno largamente positivo: si era in pieno spirito post-conciliare, di dialogo interreligioso; e, inoltre, in pieno pontificato di Giovanni Paolo II, che così profondamente si era scusato con gli Ebrei (nonché con molti altri interlocutori passati e presenti, dai Musulmani a Galileo Galilei) per le “colpe” dei Cristiani. Beata ingenuità, essi non si accorsero dell’insidia; non videro che, dietro il pretesto di storicizzare maggiormente la figura di Gesù, la posta in gioco era la negazione che Gesù avesse fondato una nuova religione e il suo ritorno in un ambito esclusivamente giudaico. Come dire: «Gesù è cosa nostra; è stato un rabbi giudeo, tutt’al più un eretico della nostra religione: voi Cristiani ne avete fatto un personaggio avulso dalla storia, un Cristo della fede che non ha alcun rapporto con l’uomo nato da Maria e da Giuseppe, vissuto in Palestina al tempo di Augusto e morto sulla croce durante il regno di Nerone».
Ora, è ben vero che si discute tuttora, e la cosa è perfettamente lecita, se Gesù, durante la sua vita pubblica, si sia realmente proclamato il Messia, l’Unto del Signore, in un senso più profondo e radicale di quello che avrebbe potuto rivendicare un comune mortale; ed è altrettanto vero che si discute tuttora che peso abbia avuto, nel contesto della teologia cristiana degli esordi, il fatto che San Paolo abbia spostato la prospettiva escatologica dall’insegnamento di Gesù alla fede in Gesù, e precisamente in Gesù crocifisso e poi risorto. 
Certo, il Vangelo di Giovanni, più dei Sinottici, non lascia molti margini di dubbio in proposito: basti dire che inizia con l’affermazione che Cristo, in quanto Verbo, era presso Dio prima ancora che il mondo venisse creato; e che, pertanto, l’incarnazione del Gesù storico non segna la sua “comparsa”, ma piuttosto il momento della sua missione terrena, conclusa la quale egli è tornato a Dio, non senza aver lasciato presso gli uomini lo Spirito divino, quale sostegno vivo e operante all’interno delle loro anime.
Del resto, quale storico delle religioni troverebbe normale insistere oltremodo sul fatto che Buddha era indiano o che Mohammed era arabo; oppure, se vogliamo guardare alla religione e non alla stirpe, che Buddha veniva dall’alveo dell’Induismo e Mohammed da quello del Giudaismo e dello stesso Cristianesimo? Quel che conta, è sapere se essi operarono, oppure no, una rottura radicale con la tradizione del loro tempo. 
Dopo di che si può anche ammettere che i seguaci del Buddha, per esempio, abbiano forzato  il suo messaggio, e di molto, trasformandolo in un Dio; ma resta il fatto che Buddha, con il suo insegnamento, è andato consapevolmente e deliberatamente oltre l’ambito della religione del suo tempo; tanto è vero che il sistema filosofico-religioso da lui fondato non prende posizione riguardo al problema di Dio, ma si concentra interamente sulla liberazione dell’uomo dalla morsa del dolore e dell’illusione. Qualcosa di simile si può dire per Mohammed, che, partendo dal Giudaismo e dal Cristianesimo, elabora una nuova forma di monoteismo ancora più radicale, ancora - se possibile - più intransigente di quelli.
Che senso avrebbe, dunque, parlare di un “Mohammed ebreo” o di un “Mohammed cristiano”? Certo, aiuterebbe a non trascurare il fatto che egli prese largamente spunto da quelle due religioni, per elaborare il proprio insegnamento; ma nulla di più. Analogamente, ricordare che Gesù era ebreo serve a meglio comprendere il suo modo di pensare e di agire; ma anche a misurare in tutta la sua portata la rivoluzione che egli ha compiuto rispetto alla religione giudaica.
Come già aveva visto Marcione, non vi è molto in comune fra il Dio “giusto”, e perciò terribile, dell’Antico Testamento e quello infinitamente misericordioso del Nuovo. 
Il fatto che, ancor oggi, il Cristianesimo abbia in comune con il Giudaismo una buona parte del proprio testo sacro, è suscettibile di creare una situazione paradossale: anche se proprio il confronto fra lo spirito del Vecchio Testamento, in cui prevale un tono di gelosa, corrucciata intolleranza da parte di Yahvé e il ritratto fiducioso e benevolo che Gesù fa del Padre celeste, testimonia nel modo più eloquente l’abisso che separa le due concezioni.
Gesù “ebreo”, dunque?
No, grazie.
Almeno se, con questa formula, si intende che egli sia stato solo e unicamente un rabbi, un maestro fra i tanti, nell’ambito esclusivo del Giudaismo.

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