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19 dicembre 2013

Usa, il presidente ateo è l’ultimo tabù

Gli Stati Uniti, paese tradizionalmente “under God”, si fanno sempre più secolarizzati. Cresce al 23% la percentuale di “non religiosi”, soprattutto tra i giovani, e l’insofferenza per le ingerenze confessionali nella vita pubblica. Resistono però ancora diffusi pregiudizi verso i non credenti, mentre i politici ci tengono a dare un’immagine pro-religione e hanno remore a dichiararsi atei.

Se fino a qualche tempo fa secondo i sondaggi i non credenti ispiravano ben poca fiducia, addirittura peggio degli stupratori, la situazione sta cambiando, specialmente tra i cosiddetti millennials. Ormai la maggioranza sarebbe disposta a dare il proprio voto a un presidente dichiaratamente ateo, ma rimangono le resistenze per una piena accettazione dei non credenti nella società.

Quello del presidente ateo rimane tuttora “ultimo tabù”, scrive Jennifer Michael Hecht su Politico. È più difficile fare coming out negli Usa come atei che come omosessuali, sostiene. Il “la” per affrontare la questione viene dall’ex deputato al Congresso Barney Frank, ospite dello show del noto comico ateo Bill Maher. Frank, di famiglia ebraica che ha svolto 16 mandati e che si è dichiarato omosessuale nel 1987, lascia intendere che anche lui non è credente. E Hecht si chiede perché non abbia voluto rivelare prima la sua posizione esistenziale, mentre ricopriva incarichi politici.

Attualmente, non c’è nessun membro del congresso che sia dichiaratamente non credente. Solo nel 2007 il primo a dirsi tale fu Pete Stark, democratico della California, sebbene formalmente fosse un “unitariano che non crede in un essere supremo”. Rieletto due volte, ha dovuto cedere il passo nel 2012 a Eric Swalwell, egli stesso democratico e che lo ha attaccato proprio per la sua irreligiosità, citando anche il voto contrario di Stark al motto “In God We Trust”.

La Secular Coalition of America, organizzazione attiva per la promozione della laicità negli Usa, aveva individuato solo 5 non credenti dichiarati che avevano incarichi pubblici in tutto il paese. Secondo una recente indagine Gallup, ben due terzi voterebbero un presidente gay o lesbica, mentre poco più della metà un presidente ateo. In sette stati sono ancora in vigore leggi che formalmente vietano ai non credenti di ricorpire incarichi pubblici: tra di essi il Maryland, dove i non credenti possono essere esclusi dalla giuria o come testimoni.

Frank, interpellato da Hecht, ha detto che dichiarare il suo ateismo non era “rilevante per la politica” e che si è comunque impegnato per la laicità, ma ha ammesso che evita il termine ‘ateo’ “perché alla gente non piace”, “è una parola dura”, “suona alla gente come un disconoscimento, è aggressiva”. È vero che molti preferiscono usare termini più soft, ma la scrittrice fa notare che “dovremmo imparare la lezione del movimento per i diritti gay, che ha rivendicato una parola usata come offesa (‘queer‘) e ne ha fatta un grido per chiamare a raccolta”.

Negli ultimi anni le associazioni che rappresentano i non credenti si sono attivate molto, stimolando il coming out e proponendo un’immagine positiva di atei e agnostici, anche con campagne tramite manifesti. Ma la miscredenza anche negli Usa ha una lunga tradizione, anche tra padri fondatori come Thomas Jefferson e John Adams, filosofi come l’agnostico Robert Ingersoll; anche presidenti come Abraham Lincoln e James Monroe non avevano affiliazione religiosa. La situazione cambia con la guerra fredda e il maccartismo, quando la lotta contro il comunismo si fa accanita. Negli anni Cinquanta il presidente Dwight D. Eisenhower inserisce il riferimento a Dio nella Pledge of Allegiance e il motto “In God We Trust” nelle banconote.

Secondo il Center for Inquiry, in Congresso ci sono attualmente alcuni atei, mentre una decina di eletti si sono rifiutati di specificare la propria affiliazione religiosa. Hecht, autrice di Dubbio. Una storia, inizialmente aveva remore a definirsi atea. Poi ci ha riflettuto e ha deciso, per onestà intellettuale, di dichiararsi: e invita i politici a fare lo stesso, anche se può costare.

Isaac Chotiner, su New Republic, è più ottimista, perché l’opinione pubblica americana ormai è più tollerante rispetto al passato su tanti temi. Non si può dire se un presidente ateo sarà eletto nel 2016 o nel 2020 ma, conclude, “penso che quando il momento arriverà, il popolo americano si mostrerà sorprendentemente largo di vedute”.

Passando dagli Usa all’Italia, anche da noi è concreto il problema dei politici atei che preferiscono non fare coming out. Spesso, i pochi che osano farlo non lesinano rassicurazioni sul fatto che rispettano la religione cattolica e si prodigano in gesti ossequiosi verso la Chiesa: il caso del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, già membro del Partito comunista e non credente ma con atteggiamenti confessionali, da questo punto di vista è lampante. Tra gli altri, si sprecano le dichiarazioni come “non sono un bravo cristiano ma…” (vedi Ignazio La Russa e Mario Borgherzio), o espressioni di sudditanza tra i laici quali “credo di non credere” (Walter Veltroni) o “i credenti hanno una marcia in più” (Giuliano Amato).

A volte, proprio come per gli omosessuali, atei e agnostici sono accusati di “ostentare” la propria miscredenza. Ma un paese pienamente libero e laico è solo quello dove si può dire liberamente come la si pensa. Anzi, dove nessuno viene stigmatizzato perché si dichiara non credente e dove la gente non valuta come fondamentale il fatto che un politico ostenti un’appartenenza religiosa (o non). Se dirsi non credenti può costare qualcosa, in Italia, è solo perché non si è del tutto liberi di esprimere le proprie convinzioni. In questo modo, volenti o nolenti, si finisce però per trasmettere un segnale a tutta la popolazione e a chi sta intorno, contribuendo a quel circolo vizioso che fa nascondere atei e agnostici. Farlo funzionare al contrario è dunque una necessità impellente.

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