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08 Dicembre 2015

 

Lo Sciame Digitale, i Big Data e la Psicopolitica

di Domenico Talia

 

La nuova folla senza animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e sugli effetti delle nuove tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è l’ultimo suo breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei media digitali e che lui ha definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri e azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per esprimere le loro energie collettive.

Una caratteristica della manifestazione dello stato di eccitazione dello sciame digitale è rappresentata dalle forme di scrittura più emotiva e informale che la comunicazione digitale favorisce: “La comunicazione digitale rende possibile un istantaneo manifestarsi dello stato di eccitazione.” Sono comunicazioni rapide e imperfette, vicine al parlato anche se sono scritte. Quella digitale, a differenza di quella del potere (La comunicazione del potere non è dialogica;) e di gran parte dei mezzi di comunicazione tradizionali (stampa, radio, televisione), è una comunicazione dialogica. Eppure la simmetria comunicativa potenziale non implica necessariamente una simmetria fattuale. Infatti, la comunicazione digitale può modificare i rapporti tra persone, gruppi e organizzazioni, renderli diretti e bypassare i ruoli e le gerarchie, ma spesso questa disintermediazione si realizza soltanto in apparenza, perché i rapporti di potere e di relazione consolidati non si fanno cortocircuitare facilmente dall’informalità e dalla velocità della comunicazione digitale. Anzi, i possessori di poteri (comunicativi) usano con attenzione la comunicazione per trasmettere il proprio messaggio usando le modalità pervasive facilitate dal mezzo digitale.

“Le ondate di indignazione sono molto efficaci nel mobilitare e mantenere desta l’attenzione. … tuttavia, non sono in grado di strutturare il discorso … montano all’improvviso e si disfano altrettanto velocemente.” Osservazione condivisibile perché la protesta digitale è molto spesso effimera, contingente, molte volte sterile e ormai sempre più sostituisce la protesta storica, per come si era definita e sviluppata negli ultimi due secoli. In questa sua sostituzione, di fatto annulla le forme tradizionali e più efficaci di protesta. In primo luogo, perché sorge molto più rapidamente di quelle che richiedono un’espressione e una presenza fisica e quindi sembra renderle obsolete e di scarsa efficacia pratica. In secondo luogo, perché si spegne altrettanto rapidamente come un fuoco di scarsa consistenza, effimero, mancandole i luoghi e i tempi delle proteste tradizionali nella cui fisicità siamo cresciuti. Luoghi che permettono una persistenza che difficilmente viene cancellata dal prossimo argomento del quale indignarsi, come frequentemente accade con rapida periodicità nella rete che è l’ossatura della macchina digitale globale. In questo contesto, il pubblico più giovane viene coinvolto maggiormente nel senzazionalismo digitale con i suoi picchi che si spengono regolarmente nella calma piatta o vengono neutralizzati da nuovi picchi.

Secondo il filosofo coreano: “La massa indignata di oggi è oltremodo superficiale e distratta.” Paradossalmente, la massa digitale, a differenza della massa di individui nel senso classico del termine, non rispetta né la definizione di Isaac Newton che richiede la presenza di una quantità di materia che alla massa digitale sembra mancare e questa assenza non le permette di acquisire un peso da usare sul piano sociale, civile e politico, né quella di Karl Marx che unisce in quel termine una collettività emergente di individui con significativi elementi condivisi e che intendono agire solidalmente per un obiettivo comune. Insomma, una massa evanescente che appare e scompare come un corpo gassoso a bassa densità e con un peso trascurabile, spesso effimero.

Gli sciami digitali esprimono un potere labile e apparente che vive, troppe volte, la vita di una farfalla. È un rumore di protesta rispetto ai poteri reali, primo fra tutti il potere finanziario e la denuncia, anche quando riesce ad avere visibilità globale, non incide con effetti persistenti. La moltitudine digitale conferma la scomparsa delle classi sociali come soggetti politici, anzi è ortogonale alle classi sociali. Le attraversa in maniera indistinta e non riesce ad essere caratterizzata dalle istanze di una o più classi affini. Per queste ragioni la folla digitale non può assumere la forma di un contropotere. Su questo versante Han è critico verso le posizioni ottimistiche di Michael Hardt e Toni Negri che credono nel potere della moltitudine in opposizione al potere del capitalismo (l’Impero).

Han riprende il concetto di Vilém Flusser (La cultura dei media, Bruno Mondadori, 2014), che vede gli essere umani come “computazioni digitali” connesse tra loro, per sottolineare che non basta la disponibilità delle reti telematiche per superare il narcisismo di tanti “io” che egoisticamente interagiscono senza diventare un “Noi”. L’ottimismo di Flusser secondo cui “la società dell’informazione realizza una strategia per abolire l’ideologia del Sé isolato” non è condiviso dal filosofo coreano e le sue perplessità hanno ragion d’essere se si guarda ai social network che spesso non eliminano il Sé, ma lo amplificano realizzando una interazione “di un attimo che rende felici (kairos), facendo sparire per incanto la distanza spazio-temporale”, ma che è soltanto temporanea, effimera e fatua e soltanto in casi molto particolari permette il sorgere di aggreg(azioni) efficaci e persistenti.

L’altro grande tema che nella parte finale del suo saggio Han affronta è quello dell’accumulo informativo che le macchine e le reti digitali determinano: “Un aumento d’informazioni non porta necessariamente a decisioni migliori. … Da un certo punto in poi, l’informazione non è più informativa, ma deformativa.” I problemi della raccolta dei dati e delle informazioni sono oggi centrali per la nostra società e coinvolgono aspetti relativi al controllo sociale, alla manipolazione informativa, alla concentrazione in mani improprie dei dati dei cittadini, al loro uso da parte di privati, delle agenzie governative e dei grandi network commerciali. La ricerca informatica ha semplificato tutto questo con il termine Big Data che, forse non del tutto causalmente somiglia al ben noto Big Brother. Le macchine informatiche che state pensate e realizzate nella metà del secolo scorso per calcolare automaticamente, oggi sono lo strumento più formidabile di generazione di dati e informazioni nelle forme più varie. Il grande mare di dati digitali è difficile da navigare ed ormai è quasi impossibile trovare in esso le perle di conoscenza che ci servono per comprendere le cose realmente importanti e per prendere le giuste decisioni. Non è per caso che chi, come Google, è stato capace prima e meglio di altri di cercare nei Big Data della rete, ha assunto un ruolo e un potere enorme, molto più ampio e discrezionale di quello dei governi. L’enorme macchina informatica permette di accedere facilmente a patrimoni di informazione ricchi e preziosi, ma allo stesso tempo permette di immettere con facilità e velocità qualsiasi informazione manipolata, contraffatta e quindi non informativa ma deformativa. Lo possono fare i singoli e meglio di loro lo possono fare le organizzazioni, le lobby, i poteri politici e finanziari, i terroristi. Tutto questo costituisce un rischio enorme e una difficoltà sempre maggiore per chi usa l’informazione digitale globale per capire, per formarsi un’opinione o per fare delle scelte.

Il settore del data mining è nato come risposta tecnologica al problema della bulimia informativa e per identificare le parti utili e significative nel mare magnum dei dati digitali. Chi sarà capace di padroneggiare questa tecnologia avrà vantaggi enormi sugli altri che nuotano tra i dati senza trovare la giusta direzione, avrà un potere conoscitivo che gli permetterà di spostare l’asse dei rapporti sociali ed economici usando la leggerezza di una tecnologia di analisi molto sofisticata che fa vedere chiaro dove gli altri scorgono soltanto opacità. È capace di trovare elementi di conoscenza, tendenze e associazioni nei big data che per molti sono soltanto enorme rumore e confusione informativa. Siamo in presenza di una tecnologia che “calcola” i fatti di ordine superiore, le vite dei singoli e prevede i trend sociali e politici, una modalità molto raffinata di “calcolare” la società presente e quella futura.

Anche il consenso nella società del nuovo millennio è sempre più condizionato dai media digitali. Dal punto di vista della partecipazione politica, in questo tempo in cui i partiti si sono rinchiusi in uno stretto recinto di casta e hanno ridotto la loro capacità di rappresentanza democratica, la democrazia digitale non riesce a definire strutture ben formate di discussione, confronto e sintesi. Nella rete “ogni singolo è esso stesso un partito”, le opinioni e i commenti si rincorrono senza una qualsiasi forma di coordinamento o di sbocco fattuale. Tutti gli avvenimenti, in un flusso ininterrotto, passano per gli strumenti digitali e i commenti, le approvazioni e le critiche tanto sono immediate nell’apparire quanto nello svanire nell’infinito streaming di email, post, blog e tweet. Siamo nella democrazia dei like o dei favorite la cui efficacia temporale è quasi nulla. Sono espressioni contingenti che non riescono a costruire una reale dialettica politica che possa giungere a sintesi effettiva e soprattutto ad un vero processo dialettico di costruzione del consenso (o del dissenso); ad una prassi che determini scelte reali.

Tutte le azioni che compiamo nella rete sono memorizzate, da noi, dagli altri, dai singoli dispositivi, dalla rete stessa: Scrive Han: “Ogni click che faccio viene registrato; ogni passo che compio diventa ricostruibile.” Siamo in una prossimità digitale che ci appare simile alla prossimità fisica e in parte lo è, ma non completamente. Nel sistema sociale digitale siamo tutti più vicini, sappiamo degli altri e ognuno di noi è potenzialmente in diretto contatto con tutti gli altri. Riceviamo direttamente le informazioni, le posizioni, le azioni che le persone compiono in tempo reale, come se vivessimo vicini a tutti quelli di cui veniamo a sapere o di quelli ai quali siamo interessati. La macchina digitale diventa un piccolo mondo dove tutti ci possiamo sentire attigui; come in un piccolo paese, in una piccola comunità, possiamo controllare quello che gli altri dicono, dove vanno, cosa fanno. Le altre persone possono fare lo stesso nei nostri confronti in una specie di universo trasparente dove tutti possono controllare tutti. Nasce così un controllo sociale digitale che ci dà un senso di vicinanza senza che mai i nostri corpi si incrocino, senza correre il rischio di inciampare sulla stessa via e con la possibilità di allontanarci se veramente lo desideriamo, sparendo, almeno momentaneamente. Le nostre vite diventano “calcolabili”. Sulla base delle tracce digitali che lasciamo nella rete, possiamo essere studiati, analizzati, la nostra vita può essere prevista con una certa accuratezza. Quando questo avviene su grande scala, è la società in cui viviamo a diventare “calcolabile” per prevederne gli sviluppi, i comportamenti singoli e collettivi, per calcolare il nostro futuro sulla base del protocollo digitale che registra il nostro passato e il nostro presente.

I nostri comportamenti digitali sono osservati, memorizzati e messi insieme per costruire profili di vita. “Il vedere coincide con il sorvegliare. Ciascuno sorveglia ogni altro.” È una sorveglianza digitale fatta di post, tweet, mail, foto, filmati, preferenze, brani vocali registrati o spediti, geolocalizzazioni. Tutti elementi informativi che costituiscono contenuti osservazionali che un tempo poteva acquisire soltanto che viveva in prossimità fisica con noi. Le webcam, le telecamere degli smartphone, i sensori, i Google Glass, oggi svolgono lo stesso ruolo degli occhi dei nostri vicini, dei condomini, dei pettegoli che sorvegliano, registrano e controllano tutto quello che facciamo durante le nostre giornate. In un’altra affermazione di Han, in questo caso per nulla originale: “L’analisi dei big data permette di conoscere modelli di comportamento che rendono possibili anche delle previsioni.” c’è un altro richiamo al desiderio di calcolare i comportamenti dei singoli e della collettività e tramite la calcolabilità delle vite arrivare alla calcolabilità del futuro, desiderio sempre vivo negli uomini. Oggi molti fenomeni complessi del reale vengono modellati e risolti tramite un insieme di algoritmi che eseguiti sui calcolatori ci mostrano soluzioni a problemi che neanche le equazioni della matematica e della fisica ci sanno spiegare. Gli algoritmi di analisi dei big data sono un chiaro esempio di questa trasformazione dei modelli di spiegazione del reale. Non esiste una formula matematica che ci possa descrivere il comportamento dei consumatori di un prodotto o dei pazienti di un ospedale, ma esistono oramai algoritmi di data mining che, a partire dai dati degli acquisti o degli esami sanitari, costruiscono con precisione molto accurata i profili dei consumatori o dei pazienti. Quello che i tecnici chiamano profiling è, a tutti gli effetti, una conoscenza dall’interno dei meccanismi di pensiero e di azione delle persone. Una sorta di analisi psicologica a loro insaputa che fornisce a chi la svolge un vantaggio conoscitivo enorme. Oggi, e domani ancora di più, le teorie comportamentali e le teorie sociali vengono costruite da chi raccoglie i dati sulla vita dei singoli senza che loro lo sappiano, soltanto prelevandoli dall’ecosistema digitale, dove gli stessi soggetti o i loro “contatti” li hanno inseriti, a volte a loro insaputa. La costruzione di una teoria non trae più origine dal definire un insieme di regole che spiegano un fenomeno o un comportamento, ma dall’analisi di grandi quantità di piccoli brandelli di dati (una foto, un tweet, un’email, un record, una pagina web). Tramite l’ingestione e la digestione di tanti di questi dati, il software di analisi costruisce e propone una teoria comportamentale che nessuna equazione prima ha mai saputo definire. Per dirla con Han, “la possibilità di ricavare modelli comportamentali dai big data annuncia l’inizio di una psicopolitica digitale”, scenario inquietante in cui tutti stiamo entrando senza esserne consapevoli.

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