Nel nostro colloquio con il giurista e filosofo del diritto Danilo Zolo, continuiamo le nostre indagini sulle idee per la Transizione, piccoli avviamenti a pensieri capaci di immaginare il futuro, particolarmente suggestivi nel momento in cui vogliamo uscire dalla gabbia delle idee troppo legate al XX secolo: la solita destra-sinistra, le isole culturali incomunicanti, gli scontri di civiltà, il mercato delle idee funzionale alle ideologie dell'accumulazione, sullo sfondo delle possibilità autodistruttive della nostra specie. Questo colloquio è parte dello sforzo di conoscere menti creative, libri davvero originali, pensieri diversi in vista di un cambiamento difficile.

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Sabato 03 Dicembre 2011 10:26

Guerra e paura
intervista a Danilo Zolo

 

1. Nel suo ultimo libro (Sulla paura. Fragilità, aggressività, potere) lei sostiene che vi sia un intimo rapporto fra potere globale (essenzialmente anglo-americano) e reazioni terroristiche di matrice islamica. Senza giustificare mai la violenza lei fa comunque intendere che il terrorismo internazionale è l’esito, drammatico e prevedibile, della paura diffusa fra le popolazioni soggette da decenni all’occupazione militare delle potenze occidentali. Potrebbe spiegarci questo legame fra la paura e il terrore?

In Occidente si è diffusa l’idea che il terrorismo islamico esprima la volontà di annientare la civiltà occidentale assieme ai suoi valori fondamentali: la libertà, la democrazia, lo Stato di diritto, l’economia di mercato. La figura del terrorista suicida, affermatasi soprattutto in Palestina, sarebbe l’espressione emblematica dell’irrazionalità, del fanatismo e del nichilismo terrorista. Al fondo del terrorismo islamico ci sarebbe esclusivamente l’odio teologico dei mujahidin contro l’Occidente, diffuso dalle scuole coraniche. A mio parere si tratta di tesi molto dubbie, come risulta da analisi rigorose della tradizione coranica e in generale della cultura arabo-islamica. Come hanno accertato le ricerche empiriche di Robert Pape, la ragione determinante nella genesi del terrorismo non è il fondamentalismo religioso: si tratta in realtà, nella grande maggioranza dei casi, di una risposta collettiva a ciò che viene percepito come uno stato di occupazione militare del proprio paese.

E per “occupazione militare” si intende non solo e non tanto la conquista del territorio da parte di truppe nemiche, quanto la presenza invasiva e la pressione ideologica di una potenza straniera che si propone di trasformare in radice le strutture sociali, economiche e politiche del paese occupato con la forza.

2. Mentre l’Europa è sotto l’attacco della speculazione finanziaria e la nostra attenzione è catturata dalla crisi dei debiti sovrani, arrivano notizie circa un prossimo conflitto armato tra Israele e Iran. Pensa che ci siano ancora i margini di manovra per evitare questa tremenda collisione? Come si può mobilitare l’opinione pubblica prima di uno scoppio delle ostilità?

La mia opinione, per quello che può valere, è che la politica estera dello Stato di Israele dipende solo in minima parte dalla volontà dei governi europei. Il potere di decidere è nelle mani degli Stati Uniti, che ormai da tempo non sono soltanto custodi dell’integrità dello Stato di Israele e suoi lauti finanziatori, ma sono anche i suoi alleati nell’etnocidio sanguinario del popolo palestinese, come ha provato da ultimo la strage di Gaza. Quanto all’attuale rapporto degli Stati Uniti – e quindi di Israele – con lo Stato iraniano, le opinioni sono disparate e non è agevole analizzare le varie possibilità che negli ultimi mesi si sono profilate. Una cosa però mi sembra certa: l’attuale presidente Barack Obama non pare orientato in questo momento a coinvolgere gli Stati Uniti in una ennesima guerra di aggressione, mentre sono già aperti e sanguinanti due fronti: l’Afghanistan e, nonostante le attuali, confuse apparenze, la Libia. Per di più Obama aspira ad essere riconfermato alla presidenza. Si può dunque ritenere certo che per ora Benjamin Netanyahu e i suoi collaboratori si guardano bene dall’usare le armi contro l’Iran.

3. Oggi, in piena coerenza con lo smantellamento del Welfare State avviato dalle politiche neoliberiste negli ultimi vent’anni, registriamo un ulteriore attacco alle condizioni di vita dei ceti medi e popolari. Le manovre di austerità richieste dalla Commissione Europea e dalla Banca Centrale Europea si abbattono soprattutto sui più deboli, facendo carta straccia delle conquiste raggiunte nel secolo scorso dal movimento dei lavoratori. Se questo è lo scenario che si profila, lei ritiene che abbia senso difendere a tutti costi l’euro e l’attuale conformazione dell’Unione Europea?

L’euro è sicuramente in pericolo. Il «New York Times» ha diffuso una notizia che, se confermata, non può che allarmare: le cento banche più potenti del mondo stanno preparando piani di emergenza in previsione del “crollo” dell’euro. È chiaro che un’eventuale “rottura” dell’area euro comporterebbe gravi difficoltà per l’Unione europea e un suo possibile sfaldamento. E le conseguenze più gravi sarebbero a carico non della classe capitalistica ma dei ceti medi e popolari. Quale atteggiamento possiamo assumere di fronte a questa eventualità? La sola cosa che mi sento di affermare è che l’Europa si troverebbe di fronte al rischio non solo di disintegrarsi sul terreno economico-finanziario, ma anche di compromettere definitivamente la sua identità politico-culturale. Già oggi l’Europa si trova in una condizione di estrema frammentazione in quanto “società civile”: manca una lingua comune, mancano emittenti radiofoniche e televisive europee, mancano movimenti, associazioni civili, sindacati, partiti politici su scala europea. In poche parole, l’Europa senza euro perderebbe totalmente il profilo di soggetto politico internazionale per assumere definitivamente quello di appendice dell’impero atlantico, alle dipendenze degli Stati Uniti e della NATO.

4. Ciò che sta accadendo al sistema democratico italiano, sotto la pressione dei grandi gruppi di interesse europei e internazionali, non si configura come una vera e propria violazione della Costituzione Italiana? Quali possibilità abbiamo, sul piano giuridico, per far valere la sovranità italiana?

Se per democrazia intendiamo un regime nel quale la maggioranza dei cittadini è in grado di controllare i meccanismi della decisione politica e di condizionare i processi decisionali, allora non ci possono essere dubbi che non solo in Italia ma nell’Occidente intero oggi la democrazia è in grave crisi. E la crisi si è fatta sempre più grave con l’affermarsi del processo di globalizzazione che ha impedito lo sviluppo e la diffusione dei diritti umani fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita. Come Leslie Sklair ha sostenuto e Luciano Gallino ha documentato, le democrazie operano ormai come dei regimi dominati dalla cosiddetta “nuova classe capitalistica transnazionale”. L’esercizio del potere è concentrato nelle mani di pochi esperti senza scrupoli e il potere esecutivo – il parlamento è ormai privo di funzioni autonome – si sostituisce a quella che un tempo era la volontà del “popolo sovrano”. In questo contesto, purtroppo, il riferimento alla Costituzione italiana è privo di qualsiasi rilievo politico e giuridico. Basterebbe segnalare la costante, spregiudicata violazione dell’articolo 11 da parte delle autorità politiche italiane, a cominciare dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha recentemente giustificato apertis verbis la guerra di aggressione decisa dal governo italiano contro la Libia.

5. Infine, per molti il concetto di Nuovo Ordine Mondiale è diventato il sinonimo di una sovversione su scala planetaria perseguita dalle élite legate a Washington e a Londra con l’intento di assoggettare il mondo intero. Esiste secondo lei la possibilità di un ordine planetario democratico che trovi un equilibrio istituzionale non imperiale e salvaguardi le differenze?

Il mio punto di vista è molto semplice. Oggi non esiste la minima possibilità che si affermi un Nuovo Ordine Mondiale in un contesto di pace universale e di rispetto del diritto e delle istituzioni internazionali. Nell’ambito del processo di globalizzazione la guerra di aggressione è stata legalizzata e “normalizzata” come una “guerra giusta”. Le grandi potenze occidentali – anzitutto gli Stati Uniti -- hanno dichiarato di voler usare la guerra come uno strumento essenziale per diffondere i diritti umani e la democrazia in tutto il mondo. In realtà la produzione, il traffico e l’uso delle armi da guerra oggi è del tutto fuori dal controllo della cosiddetta “comunità internazionale” e delle sue istituzioni. E l’uso delle armi dipende dalla “decisione di uccidere” che viene presa da autorità statali e non statali secondo le loro convenienze strategiche, di carattere non solo politico ma anche e soprattutto di carattere economico. Sentenze di morte collettiva sono state emesse al di fuori di qualsiasi procedura giudiziaria contro migliaia di persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale: si pensi alle guerre contro l’Iraq, la Serbia, l’Afghanistan, il Libano, la Libia. E nel solco della globalizzazione il tramonto dei diritti umani e della democrazia coincide ormai con il tramonto della solidarietà e del dialogo con le altre civiltà, con poveri e i “diversi”. È un tramonto globale che oscura il nobile sogno di Norberto Bobbio: il sogno di un mondo unificato, pacificato e governato da una autorità sovranazionale, garante di un “ordine planetario democratico”. 

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