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26 novembre 2012

 

La Pace perpetua

di Enrico Franceschini

 

Sembra assurdo parlare di pace mondiale, anzi di pace totale, all'indomani della nuova fiammata di guerra che ha incendiato Gaza e Israele. Eppure, per uno degli studiosi che scrutano il futuro, le guerre stanno diminuendo e verso la metà del ventunesimo secolo potrebbero scomparire quasi del tutto.

Havard Hegre, docente di Scienze Politiche all'università di Oslo, sostiene che intorno al 2050 la pace non sarà più un'utopia.

Autore di un modello matematico con cui afferma di poter prevedere gli sviluppi politici, in modo simile a quanto economisti e investitori fanno con la finanza, il professore cita una serie di fattori a causa dei quali i conflitti avranno sempre meno ragione d'essere, con il risultato di un pianeta finalmente non più belligerante, o quasi, nel giro di un paio di generazioni.

 

Oggi il 15 per cento dell'umanità è in guerra, afferma dati alla mano il professor Hegre. Nel 2050 la percentuale sarà scesa al 7 per cento, ossia si sarà più che dimezzata, promette, e calerà ulteriormente nei decenni successivi, fino quasi a estinguersi. Perché? Per una combinazione di più alta istruzione, minore mortalità infantile, più basso tasso delle nascite, minore proporzione di giovani tra la popolazione mondiale e un misto di altre tendenze socio-economiche.

Tutti insieme, questi sviluppi faranno sostanzialmente "passare di moda" la guerra come metodo per risolvere contenziosi, ritiene lo studioso. "Già oggi la guerra è diventata moralmente meno accettabile di quanto fosse un tempo, è una forma di violenza che la maggior parte della gente rifiuta per principio, come è avvenuto in precedenza per i duelli all'arma bianca, la tortura e la pena di morte", ragiona Hegre.

 

Prima di arrivarci, premette, conosceremo altri conflitti, in India, Etiopia, nelle Filippine, in Uganda e in Birmania nei prossimi cinque anni; in Cina, in Mozambico e in Tanzania, tra una quarantina d'anni. Ma poi arriverà la pace totale e mondiale, o quasi. In parte è uno scenario rispecchiato anche dalle analisi delle Nazioni Unite. In parte è un giudizio che altri esperti considerano eccessivamente ottimistico.

Il politologo Mike Davis, in "Planet of slums" (Pianeta di baraccopoli), un libro uscito recentemente, non contesta che le guerre vere proprie diminuiranno, ma crede che saranno rimpiazzate da conflitti intestini sempre più aspri provocati da una crescente diseguaglianza sociale tra ricchi e poveri e da guerre civili causate da tensioni religiose e tribali: nella sua sfera di cristallo c'è soprattutto il cosiddetto "bottom billion", l'ultimo miliardo, la parte più sofferente, miserabile e dimenticata dei sette (e presto nove) miliardi di esseri che popolano la terra.

 

E dunque, ottimismo o pessimismo per il nostro futuro? Tutto è relativo, risponde un terzo studioso, Steve Pinker, autore di "The better angels of our nature", un bestseller uscito quest'anno in cui, citando una moltitudine di cifre, l'autore afferma che per quanto il mondo di oggi possa apparirci violento, disperato e brutale, lo è incredibilmente di meno rispetto al mondo del passato, alla vita di uno, due o cinque secoli fa, quando gli uomini si ammazzavano l'un l'altro come mosche.

Per cui se è lecito essere pessimisti o almeno prudenti sul nostro futuro, si può essere lo stesso ottimisti sul presente, se paragonato al tenebroso passato dell'umanità.

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