17 dicembre 2015

 

Licio Gelli e l’unica eredità che il furbo aretino ci lascia

di Rita Di Giovacchino

 

Licio Gelli è morto, ma non è morta l’Italia delle trame, del doppiogiochismo, dell’acquiescenza ai poteri occulti che nel Venerabile ha trovato il più immaginifico cultore. Non è scomparsa l’Italia della P2 destinata a sopravvivere dietro altre sigle e altri uomini, ed è questa l’unica eredità che il furbo aretino ci ha lasciato mentre noi, improvvisamente orfani dei suoi sibillini messaggi, fino alla fine abbiamo cercato di decriptarli, quasi fossero un oracolo cui era affidato il nostro incerto futuro.

 

Il Gran Burattinaio, di cui nessun burattino ha rivendicato la paternità spesso rinnegandola a dispetto dei fatti, è morto all’improvviso, a 96 anni, quando ormai tutti ci eravamo abituati a considerarlo eterno, immutabile perfino nell’aspetto fisico, che come si conviene a ogni illusionista era il più anonimo possibile. Quel che sappiamo è che negli anni della guerra fredda i più alti gradi delle forze armate, dei servizi segreti e della polizia di Stato giurarono fedeltà sulla spada a uno con il naso a becco, le braccia troppo lunghe e che esibiva cravatte ministeriali. Uno che aveva l’aspetto inconfondibile dell’impiegato al Catasto.

 

Ma come faremo senza il Venerabile, ci chiediamo in coro, come faremo senza quest’inesauribile miniera di segreti inconfessabili su stragi rimaste senza mandanti e golpe che non ebbero la luce: bastava una sua telefonata per far tornare tutti a casa. Torneremo nel giardino di Villa Wanda, la sontuosa magione da trenta stanze strappata ai Lebole per un pugno di spiccioli, dove nel 1981 furono trovate le famigerate liste dei 962. Il doppio Stato, si disse, ed è questo il passaggio più battuto nelle pluviali biografie che in queste ore inondano il web e le pagine dei giornali, mentre vengono dimenticati altri fatti non meno gravi di questa longeva vita criminale, vissuta in nome della finalità superiore o rincorrendo il Gioco Grande.

 

Fatti come la condanna a dieci anni, mai scontata, per il depistaggio sulla strage di Bologna, o quei lingotti d’oro nascosti nel parco della storica residenza di Arezzo, 165 chili, due milioni di dollari, di cui nessuno conosce la provenienza. L’oro di Dongo si disse, mentre Gelli mellifluo smentiva: “Ma no, ero troppo giovane per trafugare il tesoro di Mussolini“. Chissà se in giardino, o in uno degli anfratti segreti di Villa Wanda, stavolta troveremo le liste segrete della P2, o il Patto Stato mafia del ’45 o chi ordinò che Moro doveva morire. Magari dovremo accontentarci di rimirare l’antica statua della Madonna della Consolazione (1512) rubata dal Santuario di Rotonda in provincia di Potenza.

Nel 1981 qualcuno mise in dubbio che il vero capo della P2 potesse essere quell’omino in Lebole. “Gelli? Ma no, è soltanto il segretario generale”, disse Craxi con l’aria di chi la sapeva lunga. Ma il nome del vero Burrattinaio della Piramide superiore, per dirla con Tina Anselmi, non vide mai la luce, si dubitò sì di Andreotti che con la P2 intrattenne lunghi e proficui rapporti, poi spuntò il nome di Francesco Cosentino, il grand commis, che certamente elaborò buona parte del Piano di Rinascita Nazionale. Fu il buon Licio, ormai latitante, a farlo ritrovare nel sottofondo di una valigia sequestrata all’aeroporto di Fiumicino alla figlia Maria Grazia. La figlia più amata, morta pochi anni dopo in un incidente stradale, quando Gelli in ospedale finalmente pianse come un qualunque padre e fu forse questo l’unico momento di commozione che in tutta la sua vita lasciò trasparire. 

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Dicono che il Capo della P2 sia morto ricco come Creso, un anno e mezzo fa la Finanza entrò nuovamente a Villa Wanda per trovare tracce di questa immensa ricchezza, film visto più volte, ma anche questo è un segreto che il furbo aretino ha portato con sé. A metterlo nei guai, si fa per dire, fu al solito una donna: la fedele segretaria e amante Nara Lazzerini che, quando nell’81 Licio fu costretto a lasciare l’Italia, si sentì abbandonata e decise di vendicarsi dando vita all’affresco inedito della suite numero 127 dell’hotel Excelsior di Roma: l’appartamento nel quale Gelli iniziava i nuovi fratelli, riceveva personaggi illustri, dirigeva i suoi traffici e, nelle pause, ogni tanto si dedicava a lei.

 

La mattina del 16 marzo 1978 Nara da dietro una porta lo sentì dire a qualcuno che era di spalle: “Il più è fatto”. Sindona era nei guai e Gelli si mostrò infastidito dall’attivismo di Giorgio Ambrosoli: “Se continua a indagare avrà vita breve”. Nella suite 127 incontrava Andreotti, Pazienza ma anche il nero Delle Chaie che si affrettò a negare. Ma nulla poté, povera Nara, perché in tanti anni non aveva raccolto neppure una foto o una registrazione.

“Sono stato fascista e morirò fascista”, ha ripetuto spesso. Ma chissà se almeno questo risponde a verità. Sì a 18 anni partì volontario per partecipare alla guerra civile spagnola, ma Mino Pecorelli con uno dei suoi infallibili scoop gli appioppò la qualifica di “doppio partigiano”, rivelando il passato doppiogiochista del Venerabile durante la Resistenza: un’operazione spericolata, l’assalto a villa Sbertoli, che le Ss avevano adibito a prigione per una quarantina di partigiani. Licio si presentò in divisa di ufficiale tedesco e, forte della conoscenza della lingua, si fece consegnare i reclusi che grazie a lui raggiunsero le rispettive formazioni.

 

Poi Pecorelli, anche lui iscritto alla P2 da dove se ne andò sbattendo la porta, fu ucciso proprio la sera che doveva incontrarsi con lui. A indirizzare i sospetti fu una telefonata anonima: “Per scoprire chi ha ucciso Pecorelli indagate su tal Licio Gelli e sull’omicidio Occorsio”. Un’altra trama dai fili sottili: il giudice Occorsio fu ucciso da Concutelli proprio mentre indagava sugli oscuri finziamenti alla Loggia Ompam, organizzazione mondiale della massoneria, dietro cui si nascondeva la nascente P2.

 

A conti fatti, resta da chiedersi se al suo ritorno in Italia, nel 1988, dopo la fuga in Svizzera e la prigionia, Gelli abbia rinunciato alla sua P2 o non abbia cercato di ricostruirla, magari regionalizzandola, a partire dalla Sicilia, territorio privilegiato delle sue strategie. Una traccia emerge a Trapani, pochi mesi prima dell’omicidio Rostagno. Alcuni giurano di averlo avvistato a una riunione che si teneva al Circolo Scontrino, un’officina segreta che riuniva uomini delle isituzioni, imprenditori, e boss, una ricetta vincente. Nel 1992-93 ci furono altre stragi e forse questa volta si trattò davvero di un golpe.

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