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20 Ottobre 2012

 

La natura della bestia.

Aaron Leonard intervista Leo Panitch e Sam Gindin sul loro nuovo libro

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Leo Panitch e Sam Gindin hanno appena pubblicato il loro ultimo libro, ‘The Making of Global Capitalism[La costruzione del capitalismo globale]. Gindin è l’ex direttore delle ricerche del Sindacato Canadese dei Lavoratori dell’Automobile e detiene la cattedra Packer per la Giustizia Sociale all’Università di York; Panitch è docente di ricerche di economia politica comparativa e professore universitario di ricerche in scienze politiche presso l’Università di York. I due hanno collaborato a molti libri e pubblicazioni. Aaron Leonard si è recentemente unito a loro a New York City per discutere del loro lavoro. L’intervista sarà presentata qui in tre parti nei prossimi giorni.

Parte I: “Una proposta americana”

Aaron Leonard: Cominciamo riandando al passato, a prima che esistesse l’attuale capitalismo globale. Il vostro libro racconta qualcosa chiamata “Una proposta americana”, una dichiarazione congiunta dei direttori di Fortune, Time e Life  pubblicata nel mezzo della seconda guerra mondiale (1942). In essa espongono gli scopi di un mondo successivo alla seconda guerra mondiale, “organizzare le risorse economiche del mondo in modo da rendere possibile un ritorno al sistema della libera impresa in ogni paese”. E’ qualcosa di piuttosto impressionante nella sua sfacciata coscienza di classe capitalista. Cosa preannunziava?

Sam Gindin: Si deve capire che nel contesto di una consapevolezza in sviluppo negli Stati Uniti, e dello sviluppo delle relative capacità, per mantenere e rafforzare il capitale statunitense era essenziale tenere il mondo, più in generale, più aperto al capitalismo. Se ciò non si fosse stato realizzato, la minaccia consisteva nel riaccendere il tipo di problemi affrontati con la Germania nel periodo tra le due guerra; paesi che non possono avere accesso alle risorse e ai mercati si rifugiano nell’autarchia, con profonde implicazioni per gli stessi Stati Uniti.

Leo Panitch: Penso che sia importante anche il contesto storico. Il secondo New Deal di Roosevelt finì nel 1937-38 e ci fu una tregua con le imprese, nella quale fu chiarito che sarebbe stato adottato un keynesismo molto morbido e remissivo e che non ci sarebbero state altre grandi riforme a favore dei sindacati e dei lavoratori. In realtà parte di quelli che sembravano gli elementi più radicali della legge Wagner erano già stati limitati dalla Corte Suprema e dal Comitato per i Rapporti di Lavoro. Con il capitale fu raggiunto un accordo. Poi, con l’approssimarsi della guerra, il Dipartimento di Stato incoraggiò il Comitato per le Relazioni con l’Estero e uomini d’affari di Wall Street a creare una tavola rotonda, cosa che fecero nel 1939 sotto gli auspici di Fortune. Lavoravano a contatto molto stretto e anche se può sembrare che si trattasse di capitalisti che si riunivano per dire allo stato USA cosa doveva fare, fu più un’interazione tra legali e dirigenti delle industrie nell’ambito dello stato statunitense, che approfondivano insieme queste riflessioni.

Dean Acheson, che in seguito divenne Segretario di Stato e scrisse il grande libro ‘Present at the Creation’ [Presente alla creazione], nel 1939 tiene un discorso al Sindacato Internazionale dei Lavoratori dell’Abbigliamento Femminile che dice più o meno la stessa cosa: che starà agli Stati Uniti, se la guerra sarà vinta, ricostruire il mondo postbellico utilizzando le capacità sviluppate con il New Deal – in un certo senso internazionalizzando quelle capacità – in modo da costruire un mondo che sia aperto alla libera impresa. Fanno quello che non era stato fatto dopo la prima guerra mondiale,  tra cui cancellare debiti, il rifiuto di tale comportamento fu una delle cose che generarono la crisi economica degli anni ’30.

AL: Mentre procedeva la costruzione statunitense di questo impero glovale, c’erano due grandi stati, l’Unione Sovietica e la Repubblica Popolare Cinese che restavano fuori da questo paradigma. Che impatto ebbe sul capitalismo globale l’assenza di una tale quantità importante di forze produttive (persone, tecnologia, macchine, materie prime , ecc.)?

LP: A un certo livello si può dire che queste furono arene chiuse all’accumulazione capitalista. Lo stato statunitense era estremamente preoccupato al riguardo per quel che riguardava l’Unione Sovietica e [gli USA] furono molto sorpresi di aver perso la Cina nel 1949. Ma il problema non era semplicemente che quelli erano spazi in cui il capitale statunitense non poteva entrare, anche se, naturalmente, è sempre stato importante per lo stato USA essere in grado di aprire mercati alle multinazionali e alle banche statunitensi. E, sì, importanti segmenti delle risorse mondiali, specialmente nel caso dell’Unione Sovietica, non erano disponibili per il capitale statunitense.

Ma, oltre a ciò, quelle risorse erano cruciali per l’Europa e il Giappone mentre quelle aree venivano ricostruite come società capitaliste. Gli Stati Uniti garantiscono l’accesso, specialmente in Medio Oriente, al petrolio, come parte della ricostruzione di Giappone, Germania, Gran Bretagna e Francia. Molti tendono a pensare che gli interventi militari statunitensi, o quelli della CIA, siano spiegabili in termini di: “Quello che stanno cercando di fare è assicurare il petrolio agli Stati Uniti.” No. Al contrario essi svolgono il ruolo di stato globale in assenza di uno stato globale internazionale. Stanno garantendo a quei paesi che stanno ricostruendo come stati capitalisti, l’accesso a risorse che altrimenti dovremmo ottenere dall’Europa dell’Est e da quella parte dell’Asia sovietica che ora è loro interdetta.

SG: L’altra dimensione è che l’Unione Sovietica e la Cina erano esempi di astensione dal capitalismo che stimolavano movimenti di liberazione all’estero. Erano anche di supporto al nazionalismo economico da parte degli stati del Terzo Mondo, che alla fine degli anni ’60 attuarono un numero crescente di espropri di capitale straniero, ma quel numero svanì nei successivi anni ’70 con la sconfitta dei movimenti di liberazione e con i paesi del Terzo Mondo sempre più integrati nel capitalismo.

LP: Ciò che attraeva molti paesi del Terzo Mondo era quell’aspetto dell’Unione Sovietica che era motivato dal “socialismo di un solo paese” che era essenzialmente nazionalista russo. Ovviamente le borghesie nazionali dei paesi del Terzo Mondo erano molto aggrappate alla proprietà privata, ma ciò nonostante esse, in qualche misura, emularono lo spazio che i governi comunisti avevano apparentemente ricavato per sé stessi.

AL: Il periodo successivo alla sconfitta USA in Vietnam fu travagliato e critico. La profondità della crisi era tale che, come voi osservate, ci fu nel 1975 una copertina della rivista TIME che chiedeva: “Il capitalismo può sopravvivere?”. Riguardo a tutto questo complesso insieme di cose in corso la vostra conclusione è che era indicativo “non di declino, né di moderazione, bensì di ristrutturazione”. Cosa intendete con questo?

LP: Penso realmente che il contesto di ciò non sia stato tanto il Vietnam. Si trattò piuttosto di queste crescenti espropriazioni da parte di regimi nazionalisti. Nel 1974 l’Assemblea Generale dell’ONU votò a maggioranza schiacciante per una carte dei diritti economici degli stati, che comprendeva la previsione che essi potessero espropriare il capitale straniero, anche senza risarcimento. In una certa misura Wall Street minimizzò la cosa come retorica, perché sapeva che, anche se i sauditi si erano impossessati delle compagnie petrolifere straniere, le avevano pagate e stavano investendo i loro profitti a Wall Street. Ma la formulazione della carta dell’ONU sui diritti economici suonava comunque molto sconvolgente. E questo nazionalismo economico di tipo militante era tanto più preoccupante in quanto coincideva con una grande militanza sindacale in patria.

L’inflazione degli anni ’70 ebbe origine dall’incapacità di domare quella militanza nei paesi capitalisti avanzati. A metterci il carico da undici, la fine di Bretton Woods, essa stessa un prodotto di tali tendenze inflazionistiche, aveva creato una conseguente incertezza riguardo all’impatto sugli scambi, proprio mentre il Giappone e la Germania erano diventati principali esportatori verso gli Stati Uniti e mentre gli Stati Uniti, a quel punto, cominciavano anche  a importare una quantità di capitali da quei paesi.  In altre parole un insieme numeroso di cose che arrivavano tutte insieme all’epoca in cui la rivista Time si chiese se il capitalismo potesse sopravvivere. Le cose apparivano parecchio inquietanti, ma se gli Stati Uniti inizialmente reagirono con sconvolgimente e orrore, presto assunsero quelle iniziative più pratiche che Sam chiama ristrutturazione.  

SG: La ristrutturazione riguardò principalmente il far fronte alla stretta sui profitti degli anni ’70 che fu prodotta da molti dei fattori citati. Gli economisti convenzionali, descrivendo il periodo dagli anni ’80 a quelli ’90 si riferiscono ad esso come a un periodo di moderazione.  Fondamentalmente, quello dopo il 1983, a parte la breve recessione al volgere degli anni ’90, fu il periodo più lungo di crescita statunitense ininterrota del dopoguerra. Tuttavia all’epoca sia la sinistra sia la destra vedevano quello come un periodo di declino statunitense, sostenendo prima che il Giappone e poi l’Europa avrebbero sostituito gli Stati Uniti come forza capitalista dominante di fronte di uno “svuotamento” della forza economica statunitense. Abbiamo sostenuto che non si trattò di  uno svuotamento, bensì di una ristrutturazione.  

In realtà il capitale statunitense attraversò tale periodo con grande successo. Ciò non significa che i lavoratori se la passarono bene. Fu ovviamente un periodo di grande disuguaglianza e insicurezza, con paghe stagnanti, ecc. Ma per le imprese, il periodo comprese una grande ristrutturazione dei luoghi di lavoro, nuove tecnologie, cambiamenti nell’importanza relativa di industrie specifiche, e spettacolari svolte dalla produzione e dai servizi, servizi ai consumatori come il dettaglio, a servizi industriali, come l’ingegneria, la consulenza, la contabilità, i servizi legali, che divennero molto importanti in patria e internazionalmente. Ci furono svolte regionali nelle attività economiche (Detroit contro il sud statunitense) e grandi svolte geografiche, come l’integrazione dell’Europa dell’Est e poi della Cina. Questo deve essere considerato un periodo importante in cui il capitale statunitense, avendo sconfitto il mondo del lavoro, era rimasto con maggiore autonomia per fare quello che sentiva doveva essere fatto per resuscitare il capitale e ristrutturare, creando la base materiale per la rinascita dell’impero statunitense.

AL: Come si inserisce in tutto ciò il collasso dell’Unione Sovietica?

LP: Anche prima di esso, sembrò negli anni ’70, mentre la crisi stava accelerando, che stesse emergendo una sinistra politica, all’interno dei maggiori partiti politici cui era affiliata la classe lavoratrice, che avesse una possibilità di essere eletta e quando il TIME disse “il capitalismo può sopravvivere?” stavano anche pensando al gorgogliare del radicalismo all’interno di quei partiti di governo. Quello che si sosteneva nella sinistra di quei partiti era che le riforme dello stato sociale che erano state conquistate in precedenza stavano finendo sotto un’enorme pressione e che sarebbero andate perdute se i lavoratori non fossero andati oltre esse ad assumere decisioni su cosa investire e dove investire indipendentemente dal capitale. Si ascoltavano queste cose dalle forze che stavano dietro Tony Benn in Gran Bretagna, Rudolph Meidner in Sveiza, dai sindacati tedeschi che sollecitavano la pianificazione degli investimenti, da quelle forze della sinistra francese che alla fine fecero eleggere il Partito Socialista di Mitterand in Francia insieme ai comunisti nel programma più di sinistra del periodo postbellico. E persino negli USA, la sinistra del Partito Democratico fu molto forte a metà degli anni ’70.

Tuttavia tutto questo fu fatto invertire. Alla fine degli anni ’70 i Democratici, con Carter, svuotarono la sinistra del Partito Democratico. La legge Humphrey-Hawkins sulla piena occupazione, che sollecitava la pianificazione economica per garantire di nuovo la piena occupazione, fu trasformata in una legge vuota. I sindacati, arrivati alla fine degli anni settanta, o cedevano a concessioni alle compagnie automobilistiche come la Chrysler in cambio di un salvataggio, oppure si stavano più esplicitamente allineando con una necessità di competitività. La militanza sindacale fu spezzata in Gran Bretagna, ancor prima che dalla Thatcher, dal governo laburista, e i socialdemocratici tedeschi svuotarono la sinistra dei sindacati, come fecero i loro omologhi svedesi. E una volta che Mitterand dovette scegliere tra imporre controlli sui capitali e interrompere il processo capitalista dell’integrazione europea o rinunciare al suo programma radicale, gli fece la famosa inversione a U.

Inoltre, se si considera ciò che succedeva al nazionalismo economico del Terzo Mondo, Wall Street aveva ragione; la retorica di tali borghesie nazionaliste andava ridimensionata molto pesantemente.  Persino di fronte alla crisi del debito degli anni ’80 si imbarcarono con il FMI e il Tesoro statunitense nell’introdurre il tipo di programmi di aggiustamento strutturale che avrebbero rinvigorito i loro mercati, li avrebbero avrebbero resi competitivi, avrebbero contenuto il rapporto interno delle forze di classe. Come disse Larry Summers, il principale effetto del NAFTA fu di garantire che il Messico avrebbe seguito molto esplicitamente politiche orientate al mercato e sarebbe stato favorevole agli Stati Uniti anziché seguire le politiche socialiste ed essere sfavorevole agli Stati Uniti. Quello fu un processo iniziato negli anni ’80 e portato avanti in tutti gli anni ’90.

Ciò fu molto più importante del collasso dell’Unione Sovietica. Con questo non si vuol dire che il collasso dell’Unione Sovietica non abbia avuto effetti in termini di una sfera che si apriva all’accumulo capitalista e che demoralizzava quei segmenti della sinistra che pensavano che un mondo diverso fosse legato a questo esempio molto deludente di autoritario antidemocratico. Penso che in realtà si tenda a gonfiare eccessivamente in modo enorme il significato di quel collasso, considerato che le cose importanti nel mondo capitalista all’epoca avevano già avuto luogo.  

SG: La principale divisione in periodi non è tra prima e dopo il crollo del muro di Berlino. Anche tornando indietro al 1948 e all’idea comune che il Piano Marshall fosse incentrato sulla minaccia esterna sovietica, sosteniamo piuttosto che si debba interpretarlo più in termini di ciò che accadeva all’interno dei paesi europei e della minaccia interna della sinistra e della preoccupazione statunitense, a parte l’Unione Sovietica, di come tenere il mondo aperto alla costruzione del capitalismo globale. Una delle cose che effettivamente sono accadute con il collasso dell’Unione Sovietica è che i paesi del Terzo Mondo che cercavano di trovare quale spazio opponendosi agli Stati Uniti hanno perso la leva che derivava loro dal tipo di sostegno che avrebbero ricevuto dall’Unione Sovietica. Ma molto di ciò era già andato a pezzi.

AL: Pone l’intera idea del contenimento in una luce completamente diversa …

SG: Sì, in una luce diversa. E’ molto più una spiegazione politico economica che una basate sulla guerra fredda.

 


Aaron Leonard è uno scrittore e giornalista indipendente. Collabora con truthour.org, History News Network, rabble.ca e altre pubblicazioni. Vive a New York City. I suoi scritti si possono trovare qui.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

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Fonte: http://www.zcommunications.org/the-nature-of-the-beast-leo-panitch-and-sam-gindin-on-the-making-of-global-capitalism-by-leo-panitch

Originale: rabble.ca

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