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12 Feb 2014

Alcune osservazioni sul sionismo nella sua pratica
di Wasim Dahmash

Quando parliamo di sionismo siamo tutti d'accordo almeno su un punto: il movimento che si basa sull’ideologia sionista è l'ul­timo anello del fenomeno coloniale. Il sionismo è la rielabora­zione del più generale pensiero coloniale con elementi di speci­ficità rispetto all'espansionismo delle nazioni europee, di questo costituisce la sintesi finale e per molti aspetti fin dalla sua nasci­ta è legato in modo particolare al colonialismo della fase otto­centesca. Pensiero coloniale e messianismo religioso si amalga­mano nell’ideologia sionista determinando una miscela che se per la Palestina è stata funesta, lo è anche per vasti ambiti spa­ziali e temporali non facilmente delimitabili.

La realizzazione pratica del sionismo, ossia l’occupazione di un territorio, la creazione di uno Stato nazionale su quel territorio, la pulizia et­nica degli abitanti autoctoni, segue esperienze già sperimentate in diverse parti del mondo, nelle Americhe, in Australia o in Su­dafrica. Il sionismo è anche una potenza il cui centro geografi­co, per quanto ristretto, ha interessi e influenze in tutto il mon­do, in quello industrializzato soprattutto, e nell’attualità è da estendere anche al “mondo arabo”, una dicitura con cui indi­chiamo quella vaga entità costituita dai paesi dove la lingua ara­ba è la più diffusa, nella loro complessità.

Se dopo gli accordi di Camp David stipulati da Sadat e Beghin, ovvero dopo la capitolazione dell'Egitto, le porte del mondo arabo hanno cominciato a cedere, è stato in seguito agli accordi di Oslo sulla Palestina che per molti versi è avvenuto il loro crollo. Il mondo arabo, nonostante il suo peso finanziario ed economico, oggi conta poco sullo scenario politico e nei rappor­ti internazionali. Al contrario, il contrappeso di questo mondo, che ha il suo centro in Israele, si rafforza, si espande e diventa sempre più influente soprattutto in Europa, nel Nord America e nei paesi produttori di petrolio, ossia in quei paesi che a partire dal secondo dopoguerra sono i maggiori produttori di ricchezza dovuta alle materi prime.

Ma da quell'affermazione iniziale, il carattere coloniale del sio­nismo, su cui non restano dubbi, discendono alcune osservazio­ni.

Una prima osservazione oggetto della nostra riflessione è relati­va al fatto che, se per un verso nuovi fenomeni continuano a modificare i contorni che assume oggi l’ideologia sionista, per altro verso non tutti i sintomi rivelano che questa si stia realiz­zando secondo le linee previste. Un esempio: se si esaminano i cambiamenti sopravvenuti da quando Nathan Weinstock scrisse nel 1969 la sua famosa Storia del sionismo, non si può fare a meno di notare che con i cambiamenti dello scenario internazio­nale, sono cambiati anche gli obiettivi del sionismo.  Negli ulti­mi decenni questi sono andati oltre il proposito originario della creazione dello Judenstaat, lo ‘Stato degli ebrei’1, per estendersi in un ambito più vasto, definibile con i contorni di un “sub-im­pero” potente e influente, con interessi diffusi su scala mondia­le. Questa espansione, economica, ma soprattutto politica e cul­turale, va al di là dello Stato d’Israele. E perciò, se sono le orga­nizzazioni sioniste a disciplinare le attività politiche occidentali e a indirizzarle in modo da rafforzare lo ‘Stato degli ebrei’, lo Stato sionista, in quanto tale, ha fallito lo scopo primario enun­ciato dai suoi promotori, ossia la creazione di una società ebrai­ca pura dal punto di vista etnico in un terra ripulita della presen­za ed esistenza degli indigeni.

Secondo l’ufficio centrale di statistica israeliano2, sul territorio che va dal Mediterraneo al Giordano (ossia nel territorio della Palestina mandataria, oggi sotto il controllo dello Stato di Israe­le, in modo diretto nei territori occupati nel 1948 e indiretto in parte dei territori occupati nel 1967; indiretto perché controllati per mezzo dell'Anp, la cosiddetta Autorità nazionale palestine­se), vivono oltre dodici milioni di abitanti (12.118.510, dei quali 6.042,000 ebrei israeliani e 6,076,510 palestinesi)3. Ciò vuol dire che nonostante le ricorrenti pulizie etniche, quella degli anni 1947-49, quella del 1967 e quella silenziosa, lenta, stri­sciante e sistematica portata avanti da oltre 65 anni, ovvero fin dalla fondazione dello Stato, l’obiettivo sionista di fondare tale Stato su base ‘razziale’, e quindi escludendo gli abitanti autoc­toni, in buona parte è fallito.

Una seconda riflessione è relativa al fatto che la capacità di espansione territoriale dello Stato d’Israele si è esaurita, nono­stante che sia esponenziale la sua crescita come potenza militare dovuta, tra le altre ragioni, allo sviluppo dell'industria bellica e alla sperimentazione di nuove armi. Ma per molti versi è forse proprio questo a farne ‘un gigante dai piedi d'argilla’, armato fino ai denti con armi sofisticate di cui solo dispone, oltre a Israele,  l’esercito degli Stati Uniti. Americani e israeliani sono infatti in prima fila nello sperimentare armi nuove: ne sono esempio la micro bomba nucleare senza massa critica – senza il fungo – sperimentata nel sud del Libano nel 2006, oppure le armi contro le persone, sperimentate a Gaza nel 2008-09, quelle armi che mirano non solo  a uccidere un alto numero di civili, ma anche a causare danni permanenti (amputazione di arti, bruciature interne e così via), con l'obiettivo di creare enormi problemi sociali duraturi.

Queste nuove armi sono pensate per essere utilizzate contro la popolazione civile, non contro gli eserciti. Il sionismo ha ormai una lunga esperienza nell’affrontare il problema su come con­vincere l’opinione pubblica ad accettare i ripetuti massacri di ci­vili inermi. Una prova in grande stile è stata quella dei bombar­damenti su Gaza nel corso dell'operazione “Piombo fuso” rea­lizzati nel 2008-09 con il beneplacito dell'Occidente. La reazio­ne tiepida dei governi dimostra non solo l’accresciuta capacità persuasiva delle organizzazioni sioniste in Europa e in Nord America, ma anche il loro potere di occultamento mediatico. I crimini contro l’umanità che il sionismo continua a perpetrare godono anche delle complicità dei governi arabi,  di quello egi­ziano in particolare,  e persino dell’Anp palestinese, in prima fila  nel  giustificare l’operazione ‘Piombo fuso’. Ed è bene sot­tolineare che quella fu una prova di forza il cui primo obiettivo era quello di ottenere il silenzio consenziente dei governi sia oc­cidentali, sia arabi.

Deve essere letto in questo senso l’invito di Tzipi Livini rivolto ai capi di governo europei, invito accolto da tutti, di festeggiare a cena  la fine delle operazioni a Gaza. E questo è il senso della sceneggiata di Sharm Sheikh a cui parte­ciparono i capi di governo europei e arabi promettendo finanzia­menti per la ‘ricostruzione’ di Gaza4. Finanziamenti che, ovvia­mente, nella realtà non sono mai esistiti. L’accresciuta capacità sionista di mobilitare i politici occidentali, e in parte quelli ara­bi, al fianco dello Stato d’Israele, è in contrasto con una palese incapacità di affrontare il problema di fondo del sionismo e cioè l’eliminazione degli indigeni, o almeno domarli. Nonostante che abbia provocato divisioni profonde nel campo palestinese, l’invenzione dell’Anp, che tra l’altro avrebbe dovuto controllare il ribellismo palestinese, ha fallito la sua missione. Lo dimostra la rivolta del 2002 – che qualcuno associa all’intifada – scoppiata in seguito alla provocatoria passeggiata di Sharon sulla spianata delle moschee a Gerusalemme, e lo dimostrano le continue manifestazioni e gli atti di disobbedienza civile contro la confisca delle terre e contro il muro dell’apartheid. Ha poche probabilità di successo anche il disegno israeliano di eliminare la presenza degli autoctoni dai territori occupati nel 1948 attraverso la richiesta del riconoscimento dell’ebraicità dello Stato d’Israele e dello scambio di territori e di popolazione dietro la promessa e in vista di un effimero Stato palestinese. Effimero in quanto Israele potrebbe spazzarlo via in qualsiasi momento, in modo indolore persino, con i bombardamenti dall’alto, così come ha fatto a Gaza.

È vero che sono passati molti anni dall’intifada, la grande solle­vazione popolare del 1987 ed è vero che la società palestinese è profondamente cambiata per mezzo e a causa dell'Anp – mano lunga dei governi israeliano e americano, artefice di un inter­vento dall’interno in modo tale da modificare i rapporti sociali –, ma le possibilità di un nuovo moto popolare contro l’apar­theid israeliano è possibile in qualsiasi momento. Ogni manife­stazione di resistenza palestinese palesa tutti i limiti del ‘sioni­smo realizzato’ mettendo in crisi non solo l’idea che sta al fon­do dell'esistenza stessa di uno “Stato ebraico”,  ma mettendo in crisi anche quanto continuano ad affermare i governi di questo Stato, ossia il fatto che sia ‘necessario’ l’uso della forza militare contro i palestinesi. 

Una terza e ultima osservazione tra le tante che è possibile fare a proposito del sionismo, è quella relativa proprio all’uso della guerra Ogni qual volta che la popolazione palestinese resiste e si ribella, il sistema sionista scatena una guerra, ne è esempio quella contro il Libano nel 2006 o quella contro Gaza nel 2008-09. E la prepara, la guerra, innanzitutto col preparare e manipo­lare l’opinione pubblica internazionale ad accettare l’uso, mira­to e/o indiscriminato che sia, delle armi di sterminio contro la popolazione civile. Per ottenere il consenso si serve di ogni mezzo tra cui campagne mediatiche che demonizzino il mondo arabo e islamico.

Ma lo Stato d’Israele “è ” comunque e sempre in guerra, “guer­ra giusta” chiamano lo stato di guerra continua richiesto dall’i­deologia sionista, sua base e fondamento, che costringe questo Stato a pensare ossessivamente alla guerra, a prepararla e a sca­tenarla. La pericolosità dell’ideologia sionista risiede nel fatto che non si limita a coinvolgere solo la società israeliana, ma in­veste tutte le sfere dove gli israeliani hanno interessi, ovunque nel mondo: ne è esempio, ormai divenuto luogo comune, l’am­ministrazione statunitense che si muove sulla base delle condi­zioni poste dall’organizzazione sionista americana.

Ed è con tutto ciò che hanno a che fare i palestinesi. Non con una semplice potenza coloniale, ma con una sorta di federazione di forze su più scenari, forze che comprendono, oltre allo Stato d’Israele, anche le potenti organizzazioni sioniste dislocate in tutto il mondo e che continuano ad alimentare lo Stato israelia­no con mezzi di ogni sorta, da quelli diplomatici a quelli finan­ziari. Fra tali forze sono da includere anche gli alleati più o meno convinti della bontà del sionismo, quelli che agiscono at­tivamente nella disgregazione del mondo arabo inteso come re­troterra dei palestinesi, e quelli che non intervengono diretta­mente limitandosi a sostenere la politica sionista israeliana con aiuti e accordi economici. Se per molti versi è difficile includere alcuni governi arabi tra gli alleati della politica sionista, e tra loro si trova la parte parassitaria della società palestinese rap­presentata dall’Anp, per altri versi non si può fare a meno di ri­cordare che la loro è una politica sottomessa alla potente volon­tà israeliana.

Nel caso palestinese in particolare bisogna ricorda­re che la classe dirigente è sottomessa perché è incapace di ri­pensare i modelli di organizzazione e non è in grado di elabora­re un pensiero politico adeguato ad affrontare le molteplici pos­sibilità d’intervento del ‘sionismo pratico’.

Una via d’uscita possibile, forse solo una speranza, si trova nelle potenzialità della società civile, non solo di quella che rimane in Palestina, ma anche di quella della diaspora, per le sue maggiori possibili­tà di avere scambi di idee e di compiere atti concreti volti a ri­pensare i modelli organizzativi e la resistenza.

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