Fonte : Maurizio Bono
La Repubblica
01 Ottobre 2011

L'intellettuale sociale

Arundhati roy "Nessun romanzo cambia il mondo" .  "Nel prossimo libro descrivo i giorni e le notti in marcia con i maoisti nella giungla". Intervista all´autrice indiana che ha lasciato la fiction per gli scritti di denuncia.

Arundhati Roy è l´autrice de Il dio delle piccole cose, bestseller internazionale. Ed è la stessa che dopo aver vinto un Booker Prize a 35 anni, grazie a quel libro, ha poi impiegato i successivi quindici a fare da coscienza critica di fronte ai disastri dell´imperialismo globale in India (Bhopal, le grandi dighe, la maledizione per i poveri che è l´altra faccia delle Silicon Valley d´Oriente). Così dal 1996 si sente ripetere sempre la stessa domanda: perché scegliere di abbandonare i romanzi per dedicarsi all´impegno? Perché, di nuovo nel libro più recente, Broken Republic, appena uscito in inglese accolto da interesse e feroci polemiche e in via di pubblicazione in italiano da Guanda, raccontare al mondo con dolente partecipazione l´assalto al giacimento di bauxite di una montagna che costa vita e libertà a una tribù, un delitto politico in Andhra Pradesh, la guerriglia bizzarra e feroce dei maoisti "naxaliti" con cui per una settimana è andata a vivere e marciare nella giungla? In quindici anni Roy deve in ogni caso aver imparato la pazienza, perché mostra ancora l´incantevole sorriso di quando spiegò la prima volta che no, non aveva intenzione di diventare solo "una graziosa signora che scrive romanzi". E mantenne la parola.

Perché, insomma, scrivere solo saggi di denuncia e di polemica?

«La risposta migliore è che non ho avuto, non ho, scelta. Come gli scrittori non scelgono le loro storie ma sono, me compresa, scelti da loro, così la realtà, in un Paese dove la democrazia è un teatro dietro al quale divampa la brutalità, ti mette davanti situazioni e ingiustizie che chiedono una voce per essere raccontate. Scrivo, come ho fatto per molti libri e molti anni, quando mi è impossibile tacere. E per farlo uso tutte le capacità a mia disposizione, quella del narratore di storie e quella dell´intellettuale che ha bisogno di capire come stanno davvero le cose. Per raccontarle senza semplificare troppo ciò che semplice non è».

Le è capitato di dire che fare narrativa è come danzare, la saggistica è come camminare…

«L´ho detto, riguardo al ritmo. Ma in effetti "In cammino con i compagni", il capitolo centrale del nuovo libro, dove racconto giorni e notti in marcia con i maoisti nella giungla, è stato un po´ danzare. C´è anche la paura, l´emozione, la speranza, e naturalmente la violenza della guerriglia».

Di fronte alla quale esprime questa volta più interrogativi che condanne, come le è stato rimproverato. Scrive fra l´altro: "a uno che muore di fame non puoi proporre uno sciopero della fame per protesta".

«È impossibile solidarizzare in tutto con certi gruppi come i maoisti e loro metodi. Ma è vero anche che dopo una lunga e spettacolare affermazione del movimento non violento, da noi molte cose sono peggiorate. Sempre più polizia, sempre più violenze e distruzioni, un´opposizione sempre più radicale tra gli interessi di pochi e la vita di molti. Tutto questo mi ha cambiata? Forse. Ma credo che le cose da noi siano cambiate più di me».

In Europa e in America l´impegno, al tramonto delle ideologie tradizionali, ha un carattere prevalentemente umanitario. In Italia c´è un caso particolare di impegno, anche a caro prezzo, contro la Mafia e il malaffare.

«Conosco e comprendo il caso Saviano. Ma in Occidente la gente ha un rapporto "civilizzato" con la democrazia, non la pone radicalmente in discussione per i suoi limiti. Una delle ragioni, vorrei ricordare, più della fine delle ideologie, è che il prezzo del libero mercato è pagato soprattutto nelle altre parti del mondo».

Cosa pensa della vocazione all´impegno di tanti intellettuali e personalità occidentali?

«Distinguo. Domani a Ferrara all´incontro del Festival di Internazionale parlerò di impegno e scrittura con John Berger, che é per me un amico e un esempio di ricerca della verità nel linguaggio della narrazione. E poi ci sono anche le celebrità che si schierano per il "lavoro sociale". Ma è diverso quando ti schieri "per una causa" come se lo facessi per un prodotto. E per distinguere c´è un sistema infallibile, basta vedere se per il sistema il tuo "endorsement" è confortevole, o crea disagio. In India c´è un´acciaieria che sventra le montagne e distrugge intere popolazioni, ma promuove un programma per la protezione dell´artigianato tribale…».

Sembra che la globalizzazione, anziché unire, possa allontanare…

«Globalizzazione è una parola ambigua. Contiene anche l´11 settembre che ha lasciato gli Stati Uniti indeboliti, il collasso economico internazionale che rende più instabile il mondo Occidentale. C´è materia di riflessione; invece di fronte a tutto questo le élite indiane sono sempre più ciecamente devote al libero mercato».

Sarà che anche a noi sembra che lì la crescita sia inarrestabile…

«Non dimentichi di aggiungere "ma solo per le élite". Molta della distanza dipende dal fatto che per me è impossibile non vederlo e non gridarlo».

Dirlo con l´empatia della narrativa, anche nel caso del suo romanzo d´esordio, sembrava una scorciatoia formidabile tra culture e continenti. L´impegno diretto nella denuncia non rischia di essere una via più lunga per comunicare?

«Può sembrare così, se l´obiettivo è convincere qualcuno o anche molti. Ma l´urgenza di intervenire dove e quando drammi e tragedia stanno accadendo è completamente diversa, non ha il tempo della creazione e della circolazione letteraria che cambia l´opinione pubblica. Per me è troppo difficile essere lì e non intervenire subito. Tacere, in questi casi, è tradire se stessi. Forse tornerà anche il tempo di scegliere come dire le cose».

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