Il dio delle piccole cose

di Arundhati Roy

Guanda 2003

Maggio ad Ayemenem è un mese caldo, meditabondo. Le giornate sono lunghe e umide. Il fiume si ritira e corvi neri si rimpinzano di manghi lucidi sugli alberi verdepolvere, immobili. Maturano le banane rosse. Si spaccano i frutti dell'albero del pane. Mosconi viziosi ronzano vacui nell'aria fruttata. Poi si schiantano contro i vetri delle finestre e muoiono, goffamente inermi sotto il sole.

CONSERVE & COMPOSTE PARADISO

Maggio ad Ayemenem è un mese caldo, meditabondo. Le giornate sono lunghe e umide. Il fiume si ritira e corvi neri si rimpinzano di manghi lucidi sugli alberi verdepolvere, immobili. Maturano le banane rosse. Si spaccano i frutti dell'albero del pane. Mosconi viziosi ronzano vacui nell'aria fruttata. Poi si schiantano contro i vetri delle finestre e muoiono, goffamente inermi sotto il sole.

Le notti sono limpide, ma soffuse di un'attesa fosca e pigra.

Con l'inizio di giugno, però, arriva il monsone da sudovest, portando tre mesi di vento e pioggia, con brevi incantesimi di sole aspro e brillante che i bambini elettrizzati rubano per i loro giochi. La campagna diventa di un verde sfrontato. I confini sfumano man mano che i filari di tapioca mettono radici e fioriscono. I muri di mattoni diventano verdemuschio. I viticci del pepe nero serpeggiano su per i pali della luce. I rampicanti selvatici traboccano dagli argini di laterite e si riversano nelle strade allagate. Le barche riforniscono i bazar. E nelle pozzanghere che riempiono le buche lasciate per le strade dal Dipartimento dei Lavori Pubblici compare qualche pesciolino.

Pioveva, quando Rahel tornò ad Ayemenem. Argentee funi frustavano la terra sfatta, arandola a colpi di cannone. La vecchia casa sulla collina portava il ripido tetto a due spioventi calcato sulle orecchie come un cappello. I muri, striati di muschio, si erano ammorbiditi e leggermente gonfiati per l'umidità che filtrava dal terreno. Il giardino incolto e straripante era pieno del sussurro e del trapestio di piccole vite. Nel sottobosco un serpente si strofinava contro una pietra lucente. Gialle ranetoro perlustravano speranzose lo stagno melmoso in cerca di un compagno. Una mangusta fradicia sfrecciò per il viale d'accesso cosparso di foglie.

La casa sembrava vuota. Porte e finestre serrate. La veranda anteriore nuda. Senza mobili. Ma la Plymouth azzurrocielo con gli alettoni cromati era ancora parcheggiata lì fuori e, dentro casa, Baby Kochamma era ancora viva.

Era la baby-prozia di Rahel, la sorella più giovane di suo nonno. Il suo vero nome era Navomi, Navomi Ipe, ma tutti la chiamavano Baby. Diventò Baby Kochamma quando fu grande abbastanza per essere zia. Rahel non era tornata a trovare lei, però. Né la nipote né la prozia si facevano illusioni al riguardo. Rahel era venuta per vedere suo fratello, Estha. Erano gemelli nati da due ovuli diversi. «Dizigotici», dicevano i dottori. Nati da ovuli separati ma fecondati contemporaneamente. Estha - Esthappen - era più vecchio di diciotto minuti.

Non si erano mai assomigliati in modo particolare, Estha e Rahel, e nemmeno quando erano bimbetti dalle braccia magroline, il petto piatto e i ciuffi alla Elvis Presley,... c'erano mai stati i classici «Chi è Rahel?» e «Qual è Estha?» da parte di parenti tutti sorrisi o dei vescovi siriano-ortodossi che visitavano spesso la casa di Ayemenem per le offerte.

La confusione stava in un posto più profondo, più segreto.

In quei primi anni amorfi, in cui la memoria cominciava appena a esistere, in cui la vita era piena di Inizi e non conosceva Fine, e Tutto era Per Sempre, Esthappen e Rahel pensavano a loro due insieme come Io, e separati, individualmente, come Noi. Quasi fossero una rara specie di gemelli siamesi, separati nel corpo ma con identità fuse insieme.

Ancora adesso, dopo tutti questi anni, Rahel ricorda di essersi svegliata una notte ridendo per un sogno buffo fatto da Estha.

Rahel ricorda anche altre cose che non ha il diritto di ricordare.

Per esempio, ricorda (anche se non era presente) che cosa fece a Estha l'Uomo delle Aranciate e delle Limonate, quella volta al Cinema Abilash. Ricorda il sapore dei sandwich al pomodoro - i sandwich di Estha, quelli che Estha stava mangiando - sul postale per Madras.

E queste sono solo le piccole cose. 



Ad ogni modo, lei adesso pensa a Estha e Rahel come Loro, perché separatamente loro due non sono più quello che Loro sono stati o quello che Loro pensavano sarebbero stati.

No.

Le loro vite hanno forma e dimensione, adesso. Estha ha la sua e Rahel pure.

Margini, Bordi, Orli, Confini, Frontiere e Limiti sono comparsi ai loro orizzonti separati come una banda di folletti maligni. Creature piccole dalle lunghe ombre, che pattugliano un Limitare Sfocato. Sotto i loro occhi sono sorte delicate mezzelune e hanno la stessa età di Ammu quando morì. Trentuno.

Non vecchi.

Non giovani.

Ma vitalmente morituri. 



C'era mancato poco che nascessero su una corriera, Estha e Rahel. L'auto con la quale Baba, il loro padre, stava portando Ammu, la loro madre, all'ospedale di Shillong si guastò sulla strada tortuosa fra le piantagioni di tè dell'Assam. Abbandonarono la macchina e fermarono una corriera affollata delle linee statali. Per la bizzarra compassione dei poverissimi per quelli che stanno relativamente meglio, o forse solo perché videro quanto enormemente incinta fosse Ammu, i passeggeri seduti lasciarono il posto alla coppia e per il resto del viaggio il padre di Estha e Rahel si affannò a tener ferma la pancia della madre (con loro dentro) per evitarle i sobbalzi. Questo prima che divorziassero e Ammu tornasse a vivere nel Kerala.

A sentire Estha, se fossero nati sulla corriera avrebbero avuto diritto a viaggiare gratis sulle corriere per tutto il resto della vita. Non era chiaro dove avesse preso una simile informazione, o come facesse a sapere queste cose, ma per anni i gemelli nutrirono un vago risentimento nei confronti dei genitori, colpevoli di averli privati di una vita di viaggi gratis in corriera.

Erano anche convinti che se si moriva investiti sulle strisce pedonali, il Governo avrebbe pagato il funerale. Avevano la precisa convinzione che le strisce pedonali servissero proprio a quello. Ad avere il funerale gratis. Ovviamente non c'erano strisce pedonali per farsi ammazzare, ad Ayemenem, o quanto a questo neppure a Kottayam, la città più vicina, ma loro le avevano viste dal finestrino dell'auto a Cochin, che era a due ore di distanza da Ayemenem.

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Estha era sempre stato un bambino silenzioso, così nessuno fu in grado di stabilire con qualche precisione (l'anno, se non il mese o il giorno) quando esattamente avesse smesso di parlare. Smesso del tutto, cioè. Il fatto è che non c'era un «esattamente quando». Estha aveva chiuso bottega calando a poco a poco la saracinesca. Un acquietarsi quasi inavvertibile. Come se avesse semplicemente esaurito gli argomenti di conversazione e non gli restasse altro da dire. Il suo silenzio non era mai scomodo. Né invadente. Né rumoroso. Non era un silenzio d'accusa o di protesta, quanto piuttosto una specie di estivazione, un letargo, l'equivalente sul piano psicologico di quello che fanno i pesci polmonati, i dipnoi, per sopravvivere alla stagione secca; salvo che nel caso di Estha la stagione secca sembrava destinata a durare per sempre.

Col tempo Estha aveva acquisito la capacità di confondersi con qualsiasi sfondo - librerie, giardini, tende, vani delle porte, strade - di apparire inanimato e quasi invisibile a un occhio poco addestrato. Di solito gli estranei ci mettevano un po' prima di notare la sua presenza, anche quando erano nella stanza assieme a lui. Ci mettevano ancor di più a notare che non parlava mai. Certi non lo notavano affatto.

Estha occupava pochissimo spazio nel mondo.

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Una volta arrivato, il silenzio mise radici in lui e cominciò a diffondersi. Gli uscì dalla testa e lo avvolse tra le sue braccia melmose. Lo cullò al ritmo di un battito antico, fetale. Allungò le ventose dei suoi tentacoli furtivi centimetro dopo centimetro dentro il suo cranio, ripulendo come con un aspirapolvere le vallette e le colline della memoria, sloggiando vecchie frasi, scuotendole via dalla punta della lingua. Spogliò i pensieri delle parole necessarie a descriverli, lasciandoli nudi e spellati. Indicibili. Intorpiditi. E quindi, agli occhi di un osservatore esterno, quasi assenti. Lentamente, col passare degli anni, Estha si ritirò dal mondo. Si abituò alla piovra irrequieta che gli viveva dentro e che schizzava inchiostro anestetizzante sul passato. A poco a poco la ragione del silenzio scomparve, seppellita in qualche punto profondo tra le pieghe consolanti di quella realtà.

Quando Khubchand, il suo amato bastardino di diciassette anni, cieco, spelacchiato e incontinente, decise di mettere in scena la sua miserevole e prolissa morte, Estha lo curò e lo assistette fino al travaglio finale come se ne andasse della propria vita. Negli ultimi mesi di vita Khubchand, dotato delle migliori intenzioni ma della meno affidabile delle vesciche, si trascinava fino alla gattaiola della porta che dava sul giardino sul retro, spingeva la testa fuori e faceva una pipì intermittente e giallobrillante dentro casa. Poi, con la vescica vuota e la coscienza limpida, alzava su Estha gli occhi verde opaco piantati nel cranio grigiastro come due pozzanghere schiumose e ondeggiando tornava al suo cuscino, lasciando impronte bagnate sul pavimento. Mentre Khubchand giaceva morente nella cuccia, Estha vedeva la finestra della camera da letto riflessa nelle sue pupille violacee e lucide. E il cielo dietro. E una volta un uccello che volava. A Estha - immerso nell'odore di rose vecchie, insanguinato dal ricordo di un uomo fatto a pezzi - il fatto che qualcosa di così fragile, di così insopportabilmente tenero fosse sopravvissuto, avesse avuto il permesso di esistere, sembrava un miracolo. Un uccello in volo riflesso nelle pupille di un vecchio cane. La cosa gli strappò un largo sorriso.

Dopo la morte di Khubchand Estha cominciò le sue passeggiate. Camminava per ore e ore. Dapprima non usciva dal quartiere, ma a poco a poco si spinse sempre più lontano.

La gente si abituò a vederlo per strada. Un uomo ben vestito dal passo tranquillo. Il viso gli si scurì e prese l'aspetto di chi vive molto all'aria aperta. Cominciò a sembrare più saggio di quanto in realtà non fosse. Come un pescatore in città. Pieno di segreti marini.

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Da un punto di vista strettamente pratico, si potrebbe forse dire che tutto cominciò con l'arrivo di Sophie Mol ad Ayemenem. Forse è vero che tutto può cambiare in un giorno. Che poche manciate di ore possono condizionare l'esito di vite intere. E quando lo fanno, quelle poche manciate di ore, come i resti tratti in salvo da una casa incendiata - l'orologio annerito, la foto strinata, il mobile bruciacchiato - vanno disseppellite dalle rovine ed esaminate. Conservate. Spiegate.

Cose normali, piccoli fatti, sventrati e ricostruiti. Impregnati di significati nuovi. Tutto a un tratto diventano lo scheletro sbiancato di una storia.

Eppure, dire che tutto cominciò con l'arrivo di Sophie Mol ad Ayemenem è solo uno dei modi di considerare la faccenda.

Si potrebbe sostenere altrettanto giustamente che in realtà tutto ebbe inizio migliaia di anni prima. Molto prima che arrivassero i marxisti. Prima che gli inglesi conquistassero il Malabar, prima della dominazione portoghese, prima dell'arrivo di Vasco de Gama, prima che lo Zamorin conquistasse Calicut. Prima che i cadaveri dei tre vescovi siriano-ortodossi dalle tonache viola uccisi dai portoghesi venissero ripescati in mare, con grovigli di serpenti marini nel petto e ostriche incollate alle barbe aggrovigliate. Si potrebbe sostenere che cominciò prima che il cristianesimo arrivasse dal mare e si diffondesse nel Kerala come il tè da una bustina immersa nell'acqua.

Che tutto cominciò davvero nei giorni in cui furono fissate le Leggi dell'Amore. Le leggi che stabiliscono chi si deve amare, e come.

E quanto.

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QUADERNI «SAGGEZZA»

Nello studio di Pappachi, le falene e le farfalle montate sui supporti si erano disintegrate in mucchietti di polvere iridescente che incipriavano il fondo degli espositori di vetro, lasciando nudi in tutta la loro crudeltà gli spilli che erano serviti per impalarle. La stanza era infestata dalla muffa e dall'abbandono. Un vecchio hula-hop verde fosforescente pendeva da un gancio di legno sul muro, aureola in disuso di un enorme santo. Una colonna di luccicanti formiche nere attraversava il davanzale, con i sederi ritti come una fila di leziose ballerine in un musical di Busby Berkeley. Stagliate contro il sole. Lustre e belle.

Rahel (su uno sgabello sopra un tavolo) frugava in uno scaffale di libri con le ante di vetro opache e sporche. Le impronte dei suoi piedi nudi spiccavano distintamente sulla polvere che copriva il pavimento. Portavano dalla porta al tavolo (trascinato accanto allo scaffale), allo sgabello (trascinato fino al tavolo e poi sollevato su di esso). Stava cercando qualcosa. La sua vita aveva forma e dimensione, adesso. Aveva mezzelune sotto gli occhi e una squadra di folletti maligni al suo orizzonte. Sull'ultimo ripiano, la rilegatura in pelle della raccolta di Pappachi del Patrimonio entomologico dell'India si era staccata dai volumi e si era deformata fino a sembrare amianto ondulato. Il pesciolino d'argento aveva scavato dei tunnel attraverso le pagine, aprendosi indiscriminatamente la strada tra una specie e l'altra e trasformando le informazioni catalogate in un giallo merletto.

Rahel frugò dietro la fila di libri ed estrasse delle cose nascoste.

Una conchiglia liscia e una con le punte.

Un contenitore di plastica per lenti a contatto. Una piccola ventosa arancione.

Un crocifisso d'argento appeso a una collana di perline. Il rosario di Baby Kochamma.

Lo sollevò contro la luce. Ogni grano riuscì golosamente ad acchiappare la sua porzione di sole.

Nel rettangolo di luce sul pavimento dello studio cadde un'ombra. Rahel si girò verso la porta con la sua collana di luce.

«Pensa, è ancora qui. L'ho rubato. Dopo che tu sei stato Restituito.»

La parola scivolò fuori con facilità. Restituito. Come se fosse l'unico motivo per cui esistevano i gemelli. Per essere prestati e restituiti. Come i libri della biblioteca.

Estha non sollevava lo sguardo. Aveva la testa piena di treni. Il suo corpo tagliava la luce che proveniva dalla porta. Un buco a forma di Estha nell'Universo.

Dietro ai libri, le dita incuriosite di Rahel incontrarono qualcosa. Un'altra gazza ladra aveva avuto la sua stessa idea. Lo tirò fuori e tolse la polvere con la manica della camicia. Era un pacchetto piatto avvolto in plastica trasparente e sigillato con il nastro adesivo. Un foglietto di carta infilato all'interno diceva: Esthappen e Rahel. La scrittura di Ammu.

Dentro c'erano quattro quaderni sbrindellati. Sulle copertine era scritto Quaderni per esercizi Saggezza, con uno spazio per Nome, Scuola / College, Classe, Materia. Due portavano il suo nome e due quello di Estha.

Sul retro della copertina di uno dei quaderni c'era scritto qualcosa con una calligrafia infantile. La forma, faticosamente ottenuta, di ciascuna lettera e gli spazi irregolari fra una parola e l'altra testimoniavano la lotta per governare una matita vagabonda e dotata di volontà propria. Il senso, invece, era nettissimo: Odio la signorina Mitten e Penso che Ha le Muttande ROTTE.

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L'uomo delle pulizie la trovò la mattina dopo. Spense il ventilatore.

Ammu aveva una sacca blu scuro sotto un occhio, che era esplosa come una bolla di sapone. Come se l'occhio avesse cercato di portare a termine il lavoro che i polmoni non riuscivano più a fare. Intorno a mezzanotte, l'uomo lontano che abitava dentro di lei aveva smesso di urlare. Una squadra di formiche trasportava uno scarafaggio morto attraverso la porta, con compostezza, dimostrazione evidente di quello che bisognava fare dei cadaveri.

La chiesa rifiutò di seppellire Ammu. Per svariate considerazioni. Così Chacko noleggiò un furgoncino per trasportare il corpo al crematorio elettrico. Gliela consegnarono avvolta in un lenzuolo sporco e stesa su una barella. Rahel pensò che sembrava un Senatore Romano. Et tu, Ammu! pensò, e sorrise al ricordo di Estha.

Era strano percorrere strade affollate e piene di luce con un Senatore Romano morto steso sul fondo del furgoncino. Faceva diventare più azzurro il cielo azzurro. Fuori dai finestrini le persone, come bambole di carta ritagliate, continuavano le loro vite da bambole di carta. La vita vera era dentro il furgoncino. Dove c'era la vera morte. La strada era piena di buche e cunette, e il corpo di Ammu sobbalzò e scivolò giù dalla barella. Il capo urtò un bullone sul pavimento. Ma lei non trasalì e nemmeno si svegliò. C'era un ronzio nella testa di Rahel, e per tutta la giornata Chacko dovette urlare per farsi sentire.

Il crematorio aveva l'aspetto putrido e fatiscente di una stazione ferroviaria, ma era deserto. Niente treni, niente folla. Nessuno veniva cremato lì, tranne i mendicanti, i derelitti e quelli che morivano in carcere. Gente che moriva senza nessuno che le si coricasse contro la schiena e le parlasse. Quando arrivò il turno di Ammu, Chacko strinse forte la mano di Rahel. Lei non voleva che le stringessero la mano. Sfruttò il sudore scivoloso da crematorio per sfuggire alla sua stretta. Nessun altro della famiglia era presente.

Lo sportello d'acciaio dell'inceneritore si sollevò e il borbottio attutito del fuoco eterno diventò un rosso ruggito. Il calore si allungò verso di loro come una bestia tenuta a digiuno. Poi le dettero da mangiare la Ammu di Rahel. I suoi capelli, la sua pelle, il suo sorriso. La sua voce. Il modo in cui usava Kipling per amare i suoi bambini prima di metterli a dormire: Siamo dello stesso sangue, tu e io. Il suo bacio della buonanotte. Il modo in cui afferrava i loro visi con una mano (guance schiacciate, bocca da pesce) mentre con l'altra divideva e pettinava loro i capelli. Il modo in cui teneva i mutandoni di Rahel per farcela arrampicare dentro. Gamba destra, gamba sinistra. Tutto questo diventò cibo per la bestia, e la bestia fu soddisfatta.

Lei era la loro Ammu e il loro Baba, e li aveva amati il doppio.

Lo sportello del forno si richiuse sbattendo. Non ci furono lacrime.

L'incaricato del crematorio era andato giù lungo la strada a prendere un tè e non sarebbe tornato prima di venti minuti. Tanto a lungo Chacko e Rahel dovettero aspettare per avere la ricevuta rosa che li autorizzava a ritirare i resti di Ammu. Le sue ceneri. La polvere delle sue ossa. I denti del suo sorriso. La sua intera persona pigiata dentro un piccolo vaso d'argilla. Ricevuta n. Q498673.

Rahel domandò a Chacko come faceva la direzione del crematorio a sapere di chi erano le ceneri. Chacko disse che un sistema dovevano averlo.

Se Estha fosse stato con loro, sarebbe toccato a lui tenere la ricevuta. Lui era il Custode dei Documenti. Il conservatore di biglietti d'autobus, ricevute bancarie, scontrini, matrici di assegni. Piccolo Uomo. Che vive in un cara-van. Tu-tu.

Ma Estha non era con loro. Tutti avevano deciso che era meglio così. Gli avevano scritto, invece. Mammachi aveva detto a Rahel che poteva scrivergli qualcosa anche lei. Ma cosa? Caro Estha, come stai? Io sto bene. Ammu è morta ieri.

Rahel non gli scrisse mai. Ci sono cose che non si possono fare... come scrivere una lettera a una parte di se stessi. Ai propri piedi, o ai capelli. O al cuore.

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Poco lontano di lì, Velutha camminava per la scorciatoia fra gli alberi della gomma. A torso nudo. Un rotolo di filo elettrico gettato su una spalla. Portava il suo mundu a disegni neri e blu rimboccato all'altezza delle ginocchia. Sulla schiena, la foglia fortunata dell'albero delle voglie (quella che faceva sì che il monsone arrivasse in tempo). La sua foglia autunnale di notte.

Rahel lo vide prima che emergesse dagli alberi e imboccasse il vialetto d'accesso, e sgattaiolò via dalla Commedia per andare da lui.

Ammu la vide andar via.

Fuori dal palcoscenico, li vide recitare il loro elaborato Saluto Ufficiale. Velutha si inchinò come gli era stato insegnato, tenendo aperto il mundu a mo' di gonna, come una lattaia in The King's Breakfast: Rahel si inchinò (e disse «Inchino»). Poi si agganciarono per il dito mignolo e si scambiarono una solenne stretta di mano, con l'aria di due banchieri a una convention.

Nella luce che filtrava a chiazze attraverso il verde scuro degli alberi, Ammu guardò Velutha sollevare sua figlia senza il minimo sforzo, come se fosse una bambina gonfiabile, fatta d'aria. Mentre lui la lanciava in alto e la faceva ricadere fra le sue braccia, Ammu vide sul viso di Rahel la suprema delizia del bambino che viene fatto volare.

Vide i rilievi della muscolatura dello stomaco di Velutha indurirsi e sollevarsi sotto la pelle come le tavolette di un pezzo di cioccolata. Si stupì di come il suo corpo si fosse trasformato, senza dare nell'occhio, da quello senza muscoli evidenti di un ragazzo in quello di un uomo. Duro e sagomato. Il corpo di un nuotatore. Il corpo di un nuotatore-falegname. Lucidato con una speciale cera lucidacorpo.

Aveva zigomi alti e un sorriso bianco, subitaneo.

Fu il sorriso a ricordarle Velutha da bambino. Mentre aiutava Vellya Paapen a contare le noci di cocco. Mentre le porgeva i piccoli regali che aveva fabbricato per lei, tenendoli sul palmo della mano ben aperto, in modo che lei potesse prenderli senza toccare lui. Barche, scatolette, piccoli mulini a vento. E la chiamava Ammukutty. Piccola Ammu. Sebbene lei fosse meno piccola di lui. Guardandolo adesso, non poté fare a meno di pensare che l'uomo che Velutha era diventato presentava una scarsissima somiglianza col ragazzo di una volta. Il sorriso era l'unico bagaglio che si era portato dietro dall'infanzia all'età adulta.

All'improvviso Ammu si ritrovò a sperare che fosse davvero lui che Rahel aveva visto alla marcia. A sperare che fosse stato lui a sollevare rabbiosamente la bandiera e il braccio nodoso. A sperare che sotto il velo di cauta allegria lui nascondesse una rabbia viva, pulsante contro quel mondo ordinato e compiaciuto di sé che la faceva tanto infuriare.

Sperò che fosse lui.

Fu stupita di constatare fino a che punto sua figlia si trovasse a suo agio con Velutha. Stupita che sua figlia avesse un suo mondo sotterraneo che, a quanto pareva, la escludeva del tutto. Un mondo tattile di sorrisi e risate di cui lei, sua madre, non faceva parte. Ammu si rendeva vagamente conto che i suoi pensieri erano venati di una delicata, purpurea sfumatura d'invidia. Non volle però stabilire chi fosse l'oggetto della sua invidia. L'uomo o sua figlia. O semplicemente il loro mondo di mignoli agganciati e subitanei sorrisi.

L'uomo che stava nell'ombra degli alberi della gomma, tenendo in braccio sua figlia, con monete di sole che gli danzavano sul corpo, alzò gli occhi e colse lo sguardo di Ammu. Secoli compressi in un solo attimo evanescente. La storia sbagliò il passo, fu sorpresa con la guardia abbassata. Fu abbandonata come una vecchia pelle di serpente. I suoi segni, le sue cicatrici, le ferite risalenti ad antiche guerre e i giorni del camminare all'indietro, tutto si staccò e cadde. Al suo posto rimase un'aura, un luccichio palpabile che era facile da vedere come l'acqua in un fiume o il sole lassù nel cielo. Facile da avvertire come il calore in una giornata torrida, come lo strattone dato da un pesce a una lenza tesa. Così ovvio che nessuno lo notò.

In quel breve istante, Velutha alzò gli occhi e vide cose che prima non aveva visto. Cose che fino a quel momento erano state fuori portata, occultate dai paraocchi della storia.

Cose semplici.

Per esempio, vide che la madre di Rahel era una donna.

Vide che quando sorrideva aveva profonde fossette, che indugiavano a lungo anche dopo che il sorriso aveva abbandonato i suoi occhi. Vide che le sue braccia brune erano rotonde e sode, perfette. Che le sue spalle risplendevano, ma che i suoi occhi erano da qualche altra parte. Vide che, nel porgerle dei regali, non ci sarebbe stato più bisogno di tenerli sul palmo aperto in modo che lei non lo toccasse. Le barche e le scatole. I piccoli mulini a vento. Vide anche che lui non era necessariamente l'unico ad avere delle cose da regalare. Che anche lei aveva regali da fargli.

Questa consapevolezza gli scivolò dentro con facilità, come la lama affilata di un coltello. Fredda e calda insieme. Ci volle solo un istante.

Ammu vide che lui aveva visto, e distolse lo sguardo. Lui pure lo distolse. I demoni della storia tornarono a reclamarli. A riavvolgerli nella vecchia pelle sfregiata della storia e a ricacciarli nelle loro vere vite. Dove le Leggi dell'Amore stabiliscono chi deve essere amato. E come. E quanto.

Ammu risalì nella veranda per rientrare nella Commedia. Tremando.

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IL FIUME NELLA BARCA

Mentre nella veranda anteriore andava in scena la Commedia Benvenuta a casa, cara Sophie Mal, e Kochu Maria distribuiva fette di torta a un Esercito Blu nel caloreverde, l'Ambasciatore E. Pelvis/P. Rossa (con ciuffo) dalle scarpe beige a punta apriva le porte di rete metallica che immettevano negli umidi locali odorosi di salamoia delle Conserve Paradiso. Si aggirò fra le tinozze giganti di cemento delle salamoie in cerca di un posto per Pensare. Ousa, il Bar-bagianni, che viveva su una trave annerita vicino al lucernario (e di tanto in tanto aggiungeva qualcosa all'aroma di certi prodotti Paradiso), lo guardava avanzare.

Oltre i gialli lime galleggianti nella soluzione salina, che ogni tanto andavano smossi (altrimenti si formavano delle isole di muffa nera simili a funghi dagli orli increspati in una zuppa leggera).

Oltre i manghi acerbi, tagliati e riempiti di curcuma e peperoncino e poi legati insieme con una corda. (Per un po' non avrebbero avuto bisogno di cure.)

Oltre le damigiane di aceto col tappo di sughero.

Oltre gli scaffali della pectina e dei conservanti.

Oltre i ripiani della zucca amara, con i coltelli e i salvadita colorati.

Oltre le borse di iuta straripanti di aglio e cipolline.

Oltre i monticelli di grani di pepe verde fresco.

Oltre un mucchio di bucce di banana gettate sul pavimento (conservate per il pasto dei maiali).

Oltre lo scaffale delle etichette pieno di etichette.

Oltre la colla.

Oltre il pennello per la colla.

Oltre un mastello d'acciaio con delle bottiglie vuote che galleggiavano nell'acqua bollesaponosa.

Oltre il succo di limone.

La spremuta d'uva.

E ritorno.

Era buio là dentro, un buio illuminato solo dalla luce che filtrava attraverso le porte di rete metallica coperte di fango, e da un raggio di luce polverosa (che a Ousa non serviva), proveniente dal lucernario. L'odore dell'aceto e dell'assafetida colpì le narici di Estha, ma lui c'era abituato, anzi lo amava. Il posto che trovò per Pensare era fra il muro e il calderone nero d'acciaio dove una partita di marmellata di banane (illegale) appena bollita si raffreddava pian piano.

La marmellata scottava ancora, e sull'appiccicosa superficie rossa morivano lentamente dense bolle rosa. Piccole bolle di banana che annegavano nella marmellata, e nessuno che andasse in loro aiuto.

L'Uomo delle Aranciate e delle Limonate poteva entrare da un momento all'altro. Prendere la corriera Cochin-Kottayam e arrivare fin lì. E Ammu gli avrebbe offerto una tazza di tè. O forse del succo d'ananas. Con ghiaccio. Giallo, in un bicchiere.

Estha mescolò la marmellata fresca e spessa con il lungo mestolo metallico.

Le bolle morenti disegnavano morenti forme bollose.

Una cornacchia con l'ala spezzata.

Artigli di pollo contratti.

Un Bar-bagianni (non Ousa) impantanato in un'insalubre palude di marmellata.

Un mesto mulinello.

E nessuno che corresse in aiuto.

Pagina 316

Era un po' fredda. Un po' bagnata. Un po' silenziosa. L'Aria.

Ma cosa c'era da dire?

Da dove era seduto, sul fondo del letto, Estha riusciva a vederla senza girare il capo. Vedeva i suoi contorni indistinti. La linea netta della mascella. Le clavicole come ali che si allargavano dalla base della gola fino all'estremità delle spalle. Un uccello tenuto giù dalla pelle.

Lei voltò la testa e lo guardò. Sedeva molto dritto. Aspettando l'ispezione. Aveva stirato tutto.

Lei era bella, secondo lui. I suoi capelli. Le sue guance. Le piccole mani intelligenti.

Sua sorella.

In testa gli crebbe un rumore fastidioso. Il rumore di treni che passano. La luce e l'ombra, luce e ombra, che ti cadono addosso quando stai seduto vicino al finestrino.

Si raddrizzò ancora di più. Ma riusciva ancora a vederla. Lei, cresciuta nella pelle di sua madre. Il riflesso liquido dei suoi occhi nel buio. Il piccolo naso dritto. La bocca dalle labbra piene. Con qualcosa che la faceva sembrare ferita. Come se si ritraesse. Come se molto tempo prima qualcuno - un uomo con degli anelli - l'avesse percossa. Una bella bocca ferita.

La bocca della loro bella madre, pensò Estha. La bocca di Ammu.

Che gli aveva baciato la mano attraverso il finestrino a sbarre del treno. Prima classe, Postale di Madras per Madras.

Ciao Estha, dio ti benedica, aveva detto la bocca di Ammu.

La bocca di Ammu-che-cerca-di-non-piangere.

L'ultima volta che l'aveva vista.

Era in piedi sul marciapiede della Stazione di Cochin, il viso alzato verso il finestrino. La pelle grigia, esangue, derubata del suo luminoso splendore dal neon della stazione. I treni bloccavano le entrate, lasciando fuori la luce del giorno, da tutt'e due le parti. Lunghi turaccioli che tenevano l'oscurità imbottigliata. Il Postale per Madras. La Regina Volante.

Rahel stringeva la mano di Ammu. Una zanzara al guinzaglio. Un Insetto Stecco Profugo coi sandali Bata. Una Fatina dell'Aeroporto alla stazione dei treni. Batteva i piedi sul marciapiede, sollevando nuvole di tenace sporcizia di stazione. Finché Ammu non le disse di Piantarla, e lei Lapiantò. Attorno a loro lo spingispingi della folla.

Corri fa' in fretta compra vendi bagaglio ruzzola paga facchino bambini cagano gente sputa va' vieni mendica contratta controlla prenotazioni.

Rumori echeggianti da stazione.

Venditori ambulanti di caffè. Tè.

Bambini macilenti, chiari per la malnutrizione, che vendevano riviste porno e cibo che loro non potevano permettersi di mangiare.

Cioccolata sciolta. Sigarette di cioccolata.

Aranciate.

Limonate.

CocaColaFantagelatorosemilk.

Bambole pellerosate. Sonagli. Love-in-Tokyo.

Pappagalli di plastica trasparente con la testa svitabile pieni di caramelle.

Occhiali da sole rossi con la montatura gialla.

Orologi giocattolo con l'ora dipinta sopra.

Una carrettata di spazzolini da denti difettosi.

La stazione di Cochin.

Grigia nella luce da stazione. Gente vuota. Senza casa. Affamata. Ancora colpita dalla carestia dell'anno prima. La rivoluzione rimandata a Data da Destinarsi dal Compagno E.M.S. Nambudiripad (Lacché dei Sovietici, Fantoccio). L'ex fiore all'occhiello di Pechino.

L'aria era densa di mosche.

Un cieco senza palpebre e gli occhi di un azzurro jeans scoloriti, la pelle butterata dal vaiolo, chiacchierava con un lebbroso senza dita, che con destrezza riusciva a tirare delle boccate dai mozziconi di sigaretta ammucchiati accanto a lui.

«E tu? Quand'è che ti sei trasferito qui?»

Come se avessero avuto altra scelta. Come se avessero eletto la stazione a loro dimora scegliendo tra una vasta gamma di proprietà di lusso su un dépliant patinato.

Un uomo, seduto su una bilancia rossa, slacciò le cinghie della sua gamba artificiale (dal ginocchio in giù), che aveva dipinti sopra uno stivale nero e un grazioso calzino bianco. Il polpaccio cavo e pieno di protuberanze era rosa, come dovrebbero essere i veri polpacci. (Dovendo ricreare l'immagine dell'uomo, perché ripetere gli errori di Dio?) Dentro il polpaccio aveva messo il biglietto. L'asciugamano. Il bicchiere d'acciaio. I suoi odori. I suoi segreti. Il suo amore. La sua follia. La sua speranza. La sua gioia impinnita. Il piede vero era nudo.

Comprò del tè da mettere nel bicchiere.

Una vecchia signora vomitò. Una pozza grumosa. E poi continuò per la sua strada.

Il Mondo della Stazione. Un circo. Dove, con il trambusto del commercio, la disperazione tornava al pollaio per la notte e si induriva lentamente nella rassegnazione.

Ma questa volta, per Ammu e i due gemelli dizigoti, non c'era nessun finestrino di Plymouth attraverso cui guardare. Nessuna rete a proteggerli mentre volteggiavano in aria nel Circo.

Fai le valigie e vattene, aveva detto Chacko. Calpestando una porta abbattuta. Con una maniglia in mano. E Ammu, sebbene le mani le tremassero, aveva continuato la sua superflua orlatura. Una scatola di nastri aperta in grembo.

Ma Rahel sì, che aveva guardato su. E aveva visto che Chacko era svanito, e al suo posto era apparso un mostro.

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Potrei perdere tutto. Il lavoro. La famiglia. I mezzi di sussistenza. Tutto.

Lei sentiva il martellare selvaggio del suo cuore.

Lo tenne stretto finché non si calmò. O quasi.

Si sbottonò la camicia. Restarono così. Pelle contro pelle. Il bruno di lei contro il nero di lui. La morbidezza di lei contro la durezza di lui. I suoi seni nocciola (che non tenevano su uno spazzolino) contro il liscio petto d'ebano. Lei annusò il fiume su di lui. Quel suo Odore Particolare di Paravan che disgustava tanto Baby Kochamma. Ammu tirò fuori la lingua e lo assaggiò, nella cavità della gola. Sul lobo dell'orecchio. Attirò la testa di lui verso il basso, vicino alla sua, e lo baciò sulla bocca. Un bacio oscuro. Un bacio che chiedeva di essere ricambiato. E lui lo ricambiò. Prima con cautela. Poi con urgenza. Lentamente le sue braccia si sollevarono dietro di lei. Le accarezzarono la schiena. Con molta delicatezza. Lei sentiva la propria pelle sui suoi palmi. Ruvida. Callosa. Carta vetrata. Stava attento a non farle male. Lei riusciva a sentire la sensazione di morbidezza che gli trasmetteva. La sua pelle. Il modo in cui il suo corpo esisteva solo dove lui la toccava. Il resto di lei era fumo. Lo sentì rabbrividire contro di lei. Le sue mani erano sui suoi glutei (che avrebbero potuto sostenere un'intera partita di spazzolini), e attirava i suoi fianchi contro i propri, per farle capire quanto la desiderava.

La legge del corpo stabiliva i passi della danza. Il terrore scandiva il tempo. Dettava il ritmo col quale i loro corpi rispondevano l'un l'altro. Come se sapessero già che per ogni tremito di piacere avrebbero pagato con un'uguale quantità di dolore. Come se sapessero che più in là si spingevano peggiore sarebbe stata la punizione, quando li avessero colti. Così si tiravano indietro. Si tormentavano l'un l'altro. Si davano a poco a poco. Ma questo non faceva che peggiorare le cose. Non faceva che alzare la posta in gioco e il prezzo da pagare. Perché in quel modo si spianavano le asperità, il brancolamento e la fretta dell'amore tra estranei, e la febbre arrivava al culmine.

Alle loro spalle, il fiume pulsava nell'oscurità, lucido come seta grezza. I bambù gialli gemevano.

I gomiti della notte poggiavano sull'acqua e la notte li stava a guardare.

Erano stesi sotto il mangostano, dove da poco un vecchio e grigio barcalbero con barcafiori e barcafrutti era stato sradicato da una Repubblica Ambulante. Una vespa. Una bandiera. Un ciuffo sbigottito. Una Fontana in un Love-in-Tokyo.

Lo sfuggente e zampettante barcamondo si era già disperso.

Le termiti bianche che andavano al lavoro.

Le coccinelle bianche che tornavano a casa.

Gli scarafaggi bianchi che scavavano per sfuggire alla luce.

Le cavallette bianche con bianchi violini di legno.

La triste musica bianca.

Tutti andati. Lasciandosi dietro una chiazza di terreno nudo e asciutto, ripulito e pronto per l'amore. Come se Esthappen e Rahel avessero preparato il luogo per loro. Come se avessero voluto che questo accadesse. Le levatrici gemelle del sogno di Ammu.

Ammu, ormai nuda, si rannicchiò sopra Velutha, la bocca sulla sua. Avvolse i capelli attorno a loro come una tenda. Come facevano i suoi bambini quando volevano escludere il mondo esterno. Scivolò più giù, per fare conoscenza col resto del corpo di lui. Il suo collo. I suoi capezzoli. Lo stomaco a tavolette di cioccolato. Succhiò quel che era rimasto del fiume nel buco del suo ombelico. Si premette il calore della sua erezione contro le palpebre. Assaggiò il suo sapore salato. Lui si alzò di nuovo a sedere e l'attrasse a sé. Ammu sentì il suo ventre tendersi sotto di lei, duro come un'asse. Sentì la sua umidità che scivolava sulla pelle di lui. Lui le prese un capezzolo fra le labbra e cullò l'altro seno nel palmo calloso della mano. Un palmo di carta vetrata, guantato di velluto.

Quando lo guidò dentro di lei, Ammu si accorse, in un bagliore fuggevole, della sua giovinezza, di quanto fosse giovane, della meraviglia nei suoi occhi per il segreto che aveva disseppellito, e allora gli sorrise come se fosse suo figlio.

Una volta dentro di lei, la paura fu allontanata e la legge del corpo prese il sopravvento. Il costo della vita salì a livelli insostenibili; anche se, più tardi, Baby Kochamma avrebbe detto che era un Piccolo Prezzo da Pagare.

Lo erà davvero?

Due vite. L'infanzia di due bambini.

E una lezione di storia per futuri trasgressori.

Occhi offuscati fissarono altri occhi offuscati con sguardo sicuro, e una donna luminosa si aprì a un uomo luminoso. Era ampia e profonda come un fiume in piena. Lui navigò le sue acque. Lo sentiva spingersi sempre più a fondo dentro di lei. Smanioso. Frenetico. Chiedeva che lei lo facesse andare più in là. Più dentro. Era impedito solo dalla forma di lei. E dalla sua. E quando venne respinto, quando ebbe toccato le profondità più estreme di lei, con un sospiro tremante e singhiozzante, annegò.

Ammu rimase su di lui. I loro corpi erano viscidi di sudore. Sentì il corpo di Velutha uscire dal suo. Il respiro farsi più regolare. Vide rischiararsi i suoi occhi. Lui le accarezzò i capelli, sentendo che il nodo che in lui si era allentato, in lei era ancora stretto e vibrante. Con dolcezza la fece girare sulla schiena. La ripulì dal sudore e dal terriccio col suo panno umido. Si stese su di lei, attento a non pesarle addosso. Dei sassolini gli premevano la pelle degli avambracci. Le baciò gli occhi. Le orecchie. I seni. Il ventre. Le sette smagliature argentee provocate dai suoi gemelli. La linea di peluria che dall'ombelico conduceva al triangolo scuro, che gli indicava dove lei voleva che lui andasse. L'interno delle gambe, dove la pelle era più morbida. Poi le sue mani da falegname le sollevarono i fianchi e la sua lingua intoccabile toccò la parte più intima di lei. Bevve avidamente e a lungo dalla sua coppa.

Lei danzava per lui. Su quel pezzo di terreno a forma di barca. Lei viveva.

Velutha la attirò a sé, appoggiando la schiena al mangostano, mentre lei piangeva e rideva allo stesso tempo. Poi, per quella che sembrò un'eternità, ma che non durò più di cinque minuti, Ammu dormì appoggiata a lui, la schiena contro il suo petto. Sette anni di oblio le scivolarono via di dosso, e volarono nell'ombra con ali appesantite e tremanti. Come un pesante pavone d'acciaio. E sulla Strada di Ammu (che portava alla Vecchiaia e alla Morte) comparve un piccolo prato pieno di sole. Erba di rame ornata di farfalle azzurre. E dopo, un abisso.

Lentamente, il terrore filtrò di nuovo in lui. Per quello che aveva fatto. Per quello che sapeva avrebbe fatto ancora. E ancora.

Ammu si svegliò al rumore del cuore di lui che batteva contro il petto. Come se stesse cercando un modo per uscire. Una costola mobile. Un pannello segreto a soffietto. Le sue braccia la circondavano ancora, sentiva i suoi muscoli muoversi mentre le mani giocherellavano con un ramo secco di palma. Ammu sorrise tra sé nel buio, pensando a quanto amava le sue braccia, la loro forma e la loro forza, e a quanto si sentisse al sicuro nella loro stretta, mentre invece era il posto più pericoloso in cui potesse trovarsi.

Velutha avvolse la sua paura dentro una rosa dalla forma perfetta. La sollevò nel palmo della mano. Lei la prese e se la mise nei capelli.

Lei si fece più vicina, desiderando di essere dentro di lui, di toccarlo di più. Lui la raccolse nella cavità del suo corpo. Dal fiume si alzò una brezza che rinfrescò i loro corpi accaldati.

Era un po' fredda. Un po' umida. Un po' tranquilla. L'Aria.

Ma cosa c'era da dire?

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