Ettore Masina

 

 

 

IL FERRO E IL MIELE

 

romanzo

                Rusconi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parte I

 

IL LAZZARETTO GALLEGGIANTE

 

 

 

Il numero di tanti legni cos piccioli come grossi posti intorno a Lazzaretto aveva sembianza darmata che assediasse una citt di mare Sul far della sera si sentiva una armonia mirabile di diverse voci di coloro che al suono dellAve Maria lodavano Dio

 

(Francesco Sansovino, Venetia citt mobilissima et singolar, descritta in XIII libri, Venetia, 1580, libro V)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1

 

Mi scoprii appestato, a Venezia, la notte fra 1'11 e il 12 maggio 1576. Non piansi, non mi disperai: io stavo gi morendo, d'amore. Che a finirmi fosse un dardo di Dio, offeso - come dicevano - dai peccati di una citt proterva anzich le tante frecce con cui Cupido mi aveva crudelmen­te trafitto, mi sembr cosa di poco conto: come, mi vergo­gno a ripensarlo, di poco conto mi era sembrato, sino a quel momento, l'orribile morbo che faceva strage intorno a me. Qualcuno, del resto, per intercessione della Vergine e dei santi, dalla peste guarisce; dall'amore infelice, invece, non si guarisce mai: se non muori diventi un altro, non sei pi lo stesso, irreparabilmente. E cominci a sentirti morire su­bito perch la tua infelicit ti chiude la vista e il cuore, come un altissimo muro, cosicch i tuoi simili non esistono pi, per te, o soltanto come esistono gli animali pi piccoli, di cui talvolta intendi i suoni ma senza curarti di sapere se sono espressioni di allegria o di lutto. Forse il passero che si posa per un attimo sul tuo davanzale pieno di dolo­re, ma che te ne importa?

Quella notte, avevo sognato Fransisca. L'avevo vista su una gondola che fendeva le acque d'un canale, senza rematore, come per prodigio. Tutte le luci delle case e delle strade erano spente, le acque sembravano di nera pietra, di quando in quando imbiancata dalla luna. Da chiss quan­to tempo, inseguendo la gondola, io correvo sull'orlo la­stricato del canale. Sentivo soltanto il rumore dei miei piedi sul selciato e il mio ansimare, sempre pi affannoso. Fransisca teneva una mano nell'acqua, quasi in cerca di refrigerio; con l'altra stringeva al petto un uccello me­raviglioso dal lungo collo e dalle lunghe zampe, morto. Le sembianze erano d'airone ma i colori assai diversi: rosso (o tinto di sangue) il piumaggio del petto, nere le ali e le penne della coda. Fransisca sorrideva estatica, la testa un po' riversa all'indietro. Vedevo i suoi occhi risplendere alla luce della luna e la sua destra carezzare le ali della bestia, raccogliere le gocce di sangue che uscivano dal bec­co, portarle alle guance come un belletto.

Improvvisamente Fransisca si levava in piedi con un movimento aggraziato e sicuro e cominciava a danzare sulla gondola, che s'era fermata. Contemplavo il suo corpo esile, nudo, il corpo che amavo con dolorosa passione e mi sem­brava quello di Salom; e sapevo che anche Fransisca, co­me la fanciulla del vangelo, danzava un trionfo. Ora che qualche re sanguinario o qualche grande cacciatore le aveva donato quella stupenda preda, non per lui ella danzava ma per ci che aveva ricevuto, spento nel sangue.

Facendo tremare lievemente la gondola, Fransisca si curv a raccogliere l'uccello, lo strinse ancora una volta al proprio petto, poi lo lev in alto, come per un rito sa­crificale.

Infine, lo lasci cadere nella laguna. Acque nere, li­macciose, fetide mi inghiottirono, lentamente affondai senza riuscire a morire...

M'ero svegliato di soprassalto, madido di sudore ben­ch la notte fosse fredda e la sera innanzi mi fossi lasciato cadere quasi nudo sul mio giaciglio. Ancora una volta, un­cinato dalla mia follia amorosa, mi ero ritrovato a ricor­dare quel giorno di ottobre dell'anno prima in cui, per mia terribile disgrazia, avevo conosciuto Fransisca Barbarano.

Quel giorno m'ero recato da suo padre, notaio, per la stipula di un contratto. Avevo portato a Venezia, da Breno di Valcamonica, un grande carico di legname e un altro di utensili di ferro, in un viaggio avventuroso, durato tre mesi, fra pericoli di ogni genere: banditi e strade franose e paludi malariche. Era il primo importante negozio della mia vita, a ventiquattro anni appena compiuti; e vi avevo inve­stito, con il riluttante assenso di mio padre e dei miei fra­telli, buona parte dei beni della famiglia.

Mentre ci accostavamo all'uscio del notaio, in una piazzetta di Cannaregio, il veneziano che avrebbe acquistato il mio legname mi aveva detto sorridendo: Guardate, sul laig... . Sul che cosa? avevo domandato, sorridendo a mia volta per l'incomprensibilit di quella parola. Sul laig: il belvedere aveva spiegato. E l, su un terrazzo schermato da una ringhiera di ferro battuto cui si avvi­luppavano fiori e foglie, avevo visto per la prima volta Franssca.

Attirata forse dal rumore dei nostri passi che riecheg­giavano sul selciato, si era sporta verso di noi. Nel volto pallido gli occhi aprivano due spazi di luce che mi sembra­rono raccogliere tutta la luce del cielo. Un manto di capelli neri, lisci, con riflessi cangianti, ricadeva sulle sue spalle aggraziate. Quando i nostri sguardi si incrociarono, si ritir in fretta, dopo aver fatto un cenno di saluto e un sorriso al mio accompagnatore. Poi la sentii correre per il terrazzo, chiamando un nome di donna.

M'ero arrestato di colpo, quasi impietrito da un inter­no tremore. Pi d'uno dei vecchi del paese mi aveva detto scherzando, quando ero partito: Gurdati dalle venezia­ne. Avevo riso con aria da uomo vissuto, come fanno i giovani se qualcosa li imbarazza. Ma da quando, sette giorni prima, ero arrivato a Venezia, la citt che avevo tanto spes­so sognata, m'era sembrato davvero di essere approdato alla patria dell'amore. C'era in me, mentre mi aggiravo per la laguna e non finivo di contemplare l'incanto del Canal Grande e di piazza San Marco, un presagio dolcissimo e sconcertante. Con tutto il vigore della mia giovinezza sen­tivo che quella citt era la magica regione in cui la mia viri­lit avrebbe trovato il suo premio, dopo le dure prove del viaggio. Io che, al mio paese, non avrei mai osato farlo, qui guardavo sfrontatamente ogni giovane donna; e molte ne avevo notate di desiderabili. Nessuna, tuttavia, mi aveva toccato l'anima come quella che avevo appena intravista e m'era sembrata una gemma incastonata nel verde del giar­dino pensile e nell'azzurro del cielo. Non dico che me ne innamorai subito: al contrario, mi sembr irraggiungibile. Sentii per che qualcosa di misterioso e di definitivo mi era accaduto.

Anni prima, al mio paese, un mercante giudeo, pres­sato dall'odio del popolino, dagli inciampi che le autorit ponevano al suo misero commercio e dalle lusinghe del­l'Arciprete (o, forse, dico male: folgorato, invece, dalla Grazia), aveva deciso di convertirsi alla nostra santa reli­gione. Il giorno del suo battesimo, le campane di tutta la Valle avevano suonato a festa. Il Vescovo di Brescia aveva inviato, per l'occasione, un suo legato, scelto fra i canonici di maggior lustro; i nobili erano usciti con le loro scorte dai ruderi fastosi degli antichi castelli o dai nuovi palazzi cui il grigio del granito e il cilestrino della pietra simona conferivano forza e grazia; e uno di essi, il conte Federici, si era degnato di offrirsi come padrino del nuovo cristiano. La chiesa di San Maurizio era inondata di luce come solo avviene per il Triduo dei Morti. Su quell'ometto esile e calvo, dal grande naso adunco e dagli zigomi sporgenti, vedevamo perpetuarsi il trionfo del Cristo, come sugli an­tichi barbari nostri progenitori, sui re feroci trascinati in ginocchio, sulle altezzose regine trasformate in piissime an­celle della Santa Chiesa.

Avevano guidato l'Ebreo, pallido e tremante, su verso 1'altar maggiore. L'enorme mano del conte Federici era posata fermamente sulla spalla sinistra di lui, sopra la veste candida, in segno di protezione e di possesso. Il coro aveva intonato 1' Exultet ; e l'Arciprete aveva parlato a lungo della straordinariet dell'avvenimento cui eravamo chiamati ad assistere, di questa isola di Antico Testamento che, sino allora ribelle, era stata espugnata dal vero Messia. Mentre, attorniato da uno stuolo di sacerdoti, il Giu­deo riceveva sul capo l'acqua lustrale, per un istante ero rimasto affascinato dalla irreparabilit dell'evento. Quella conversione mi sembrava segnare la sconfitta definitiva di un vecchio Dio e l'avvento di un Dio nuovo; non soltanto qualcosa che mutava la condizione sociale di un individuo o il destino della sua anima, ma qualcosa che aveva riper­cussioni nei Cieli, una bufera che sconvolgeva le nubi del­l'Olimpo, ne scuoteva i crinali, ne mutava i confini, gli echi, i misteri.

Cos fu per me l'apparizione di Fransisca Barbarano. Pensai: io sono perduto.

 

 

 

 

 

 

 

 

2

 

Le donne di Venezia appaiono ben diverse da quelle della mia Valle, che sono forti e coraggiose e non hanno timore a misurarsi con gli uomini nel lavoro dei campi e nei mercati, ma se un estraneo entra nelle loro case per visitare il padre o il marito se ne stanno in disparte, quasi sdegnose. Qui, in questa citt al cui porto approdano ogni giorno cento navi straniere e in cui senti parlare cento di­verse lingue (capaci, tuttavia, di confluire in una sola quan­do si tratta di mercanteggiare), le donne sono morbide e altere, sfrontate e misteriose, impudche e distanti; e gli uomini non hanno ritegno a coinvolgerle nei loro affari; anzi, se belle, invece di custodirle gelosamente, sembrano esibirle come segno della propria fortuna.

Cos, concluso il contratto, evidentemente lieto per il suo lauto onorario e reso benigno nei miei confronti dalle lusinghiere lettere di presentazione che alcuni suoi con­cittadini residenti in Valcamonica mi avevano fornito, il notaio aveva chiamato la figlia a servirci non so quale rinfresco.

La necessit di seguire attentamente la stesura del documento mi aveva costretto ad uscire dalla condizione stuporosa in cui mi aveva gettato la contemplazione di Fransisca. Fu dunque un giovane mercante, vigoroso e non brutto (debbo ammetterlo!), vestito dei suoi abiti migliori e trattato con rispettosa affabilit da suo padre, quello che la giovane vide entrando nello studio che subito a me parve trasformato in un giardino.

Mentre il padre me la presentava con tenerezza ( La mia sola ragione di vita dacch mia moglie morta, dieci anni fa), Fransisca mi guardava, con sorridente interesse. Serv le bevande con grazia, scambiando qualche cordiale parola con il mio cliente, che era di casa. Io contemplavo in estasi l'ovale perfetto del suo volto, la bocca piccina e carnosa, il seno fiorente sulla vita sottile; e mi dicevo: non ho mai visto una donna cos bella.

Invitata dal genitore, sedette tranquilla e silenziosa in un angolo mentre il notaio mi interrogava bonariamente sul mio viaggio, la mia famiglia, il mio paese. Cercai di ri­spondere come meglio potevo, senza guardare Fransisca, per non balbettare; sentivo tuttavia il suo sguardo posato su di me, come una mano che cercasse, nel buio, la mia.

La conversazione dur pochi minuti: ma un tempo sufficiente per farmi sentire saggio e importante, un povero bambino sperduto, un uomo ormai avviato al successo, un paesano rozzo ed incolto...; per introdurmi in aspettative dolcissime, per abbattermi in una cupa impotenza. Ma, a mia delizia, sentito che mi sarei trattenuto in Venezia per alcune settimane (dovevo acquistare lana per le tessiture di panno della mia Valle), benevolmente il notaio mi esort a tornare nella sua casa. Trovai allora il coraggio di guarda­re Fransisca, con aria supplice. Lei accenn col capo che s, l'invito era anche suo. Sorrideva; ed io naufragai in quel sorriso.

Tornai, difatti, pi volte. Era una casa ospitale, sem­pre affollata di persone interessanti. C'erano ricchi signori tedeschi e ungheresi, diplomatici spagnoli e vaticani, capi­tani di navi dalmate, mercanti della citt; e pisani e geno­vesi... E fu un genovese, una sera, a raccontarci una terri­bile storia che la sua famiglia si tramandava da due secoli.

Due secoli prima, un antenato di chi ora narrava abi­tava a Kaffa, una colonia della Superba, in Crimea. Guidati dal Khan Gianisbergo, i Tartari avevano, a lungo e inutil­mente, assediato la citt. Risultata vana la forza delle armi, per vincere a qualunque costo avevano fatto ricorso a uno stratagemma diabolico. C'erano fra loro alcuni appestati; i cadaveri furono posti sulle catapulte e lanciati nel campo genovese. Chi si avvicin per indagare, per rimuovere gli orribili proiettili umani e dar loro se non cristiana almeno caritatevole sepoltura, subito rimase contagiato.

All'apparire del morbo, i genovesi decisero di fuggire. Salirono sulle loro galee e salparono, abbandonando la citt nelle mani dei barbari infedeli. Ma la peste si imbarc con loro.

Durante il viaggio si pales fra le ciurme e le decim. Le navi fecero scalo a Costantinopoli, poi a Messina, a Reg­gio Calabria, a Pisa. Ad ogni attracco la morte scese dalle navi, come un marinaio in franchigia, lasci negli angiporti le sue velenose monete, torn ad imbarcarsi. Quando le galee approdarono a Genova, la peste devastava ormai le coste italiane. Non si arrest nella Citt Superba, ricomin­ci il suo viaggio, questa volta per via di terra.

Cos si era diffusa la Peste Nera, la terribile epidemia che per due anni aveva flagellato l'intera cristianit. Tutti ne avevamo sentito parlare dai nostri vecchi: sette genera­zioni se n'erano trasmesse l'orribile ricordo, perch la peste era poi tornata pi volte, anche se, grazie a Dio, con assai minore virulenza. Qualcuno ne aveva letto antiche crona­che e quella sera ne rievoc gli orrori: la Peste Nera aveva falcidiato la popolazione di molte citt, altre citt le aveva completamente svuotate di vita. I primi a morire erano i bambini: per mesi, in intere regioni, non si era pi sentito il vagito di un neonato, per anni lo strepito di giochi infan­tili. Nessun medico sapeva curare la terribile malattia. Per limitare il contagio, i governanti avevano ammassato e rin­chiuso gli ammalati in recinti chiamati lazzaretti, circon­dati di guardie, talvolta da un fossato come le fortezze. Era meglio morire subito che finire in quei macabri magazzini d'agone in cui la morte era preceduta da orrendi spettacoli. Ma anche i superstiti, dopo la tragedia, sembravano aver

perso l'anima: erano come alberi devastati dalla siccit, senza pi foglie, nude le radici, fuor della terra tramutata in arida sabbia.

Rievocammo queste tristissime storie, quella sera, per­ch a Venezia si erano scoperti, come gi dieci anni prima, alcuni casi di peste. Ne avevo avuto notizia anch'io ma, tutto preso dal mio amore, m'era sembrata cosa di poco conto, una sciagura che toccasse soltanto, come spesso av­viene, i pi poveri. Cos, mentre il genovese parlava, ero attento pi alla terribile grandiosit del racconto che alle sue possibili similitudini con un nostro personale futuro.

Quella sera eravamo saliti sul laig perch la prima­vera si annunziava con improvviso tepore. Alle inferriate erano appesi palloncini di carta colorata entro cui ardevano lumini; ma gli angoli del terrazzo rimanevano in penombra e in un angolo io stavo con Fransisca che mi teneva per mano e con un dito sfiorava la mia destra callosa, le cicatrici dei tagli, sospirando con sorridente desolazione: Guarda com' conciato questo mio tagliaboschi! .

Mentre parlavamo, il gioco di Fransisca si interruppe, la sua mano strinse sempre pi fortemente la mia, divent gelida. Infine, Fransisca si lev impetuosamente, disse bru­sca: Mi vorrete scusare e corse via, senza che io riuscissi a trattenerla.

Lasci tutti costernati per la sua scortesia. Ma io sor­ridevo. La mia Fransisca poteva parere agli altri una bam­bina capricciosa: ma io sapevo bene che dietro quel compor­tamento infantile si celava una donna appassionata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3

 

Gi quel giorno, infatti, in cui per la prima volta ero entrato nella sua casa, mentre, congedatomi dal notaio, di­scendevo la scala e mi avviavo alla porta, una piccola mor­bida mano si era impossessata della mia e mi aveva attirato nel buio mentre la voce di Fransisca sussurrava imperiosa: Baciami, subito, senza parlare! . Attonito, mi ero ritro­vato fra le braccia quel corpo esile e sodo. Indossavo una casacca leggera e, avvertendo i seni di lei contro il mio to­race, mi ero di colpo infiammato. Ma Fransisca si era sot­tratta all'abbraccio, aveva spalancato la porta, diceva sorri­dendo: Adesso vattene, vattene . Torner! avevo det­to, temendo di nuovo il divieto di farlo. Oh s che torne­rai! aveva riso, chiudendo il battente alle mie spalle.

Da quella sera, infatti, ero tornato pi volte, quasi una falena sulla fiamma che le brucia lentamente le ali. La volont di Fransisca e la tolleranza del padre mi ave­vano spalancato le porte di un tormentoso paradiso. Ave­vo dimenticato i miei affari, l'inquietudine dei miei ge­nitori, lasciati senza notizie. Avrei dovuto proseguire il mio viaggio per il Friuli e la Carinzia per vendere le zappe e i badili portati con noi, prodotti dai fabbri di Bienno, fa­mosi dovunque. Anche quel viaggio l'avevo sognato, che mi avrebbe spinto in lontane regioni, per montagne pi alte delle mie, fra genti straniere. Adesso convinsi i miei com­pagni ad andare da soli. Il mondo per me si chiamava Fran­sisca, e io stesso mi chiamavo Fransisca perch senza di lei non esistevo pi.

Anche se mi imponevo di non rendere troppo frequenti le mie visite (temevo che il notaio potesse trovare ecces­sivo il mio attaccamento alla sua casa e mettermi alla porta) ogni mio cammino mi riportava inevitabilmente sotto il laig. Quando la ragione vinceva sugli istinti, tornavo sui miei passi; ma mi aggiravo intorno alla casa, per ore. Fran­sisca stessa, una volta, esclam: Ali dicono che sei sempre qui in giro, Bresciano, come uno di quegli uccelli cui hanno scortato le ali e non riescono pi ad andare lontano dalla gabbia. La definizione era crudele ma non mi fer perch niente che fosse detto da Fransisca mi sembrava meno che amabile.

Ero ormai stregato. I giochi d'amore di Fransisca mi inebriavano e mi sfinivano. Il suo corpo non mi era con­cesso, alle mie iniziative era imposto un rigido galateo, quasi un noviziato. Solo lei poteva fare ci che il suo ca­priccio le suggeriva. Il mio grosso corpo si torceva sotto le sue carezze, talvolta una rabbia feroce mi spingeva a desi­derare di mordere quelle dita sapienti, crudeli e soavi. Lei lo capiva e rideva: Buono, Bresciano, buono! Avrai tanto tempo, dopo... . In quel dopo io mi perdevo, arrenden­domi, facendomi schiavo.

Dopo l'avrei portata via con me, fra i miei monti. Avremmo conosciuto l'amore, quello vero, in cui l'uno e l'altra si donano e si possiedono. Avrei fatto di lei una re­gina valligiana: avrei chiesto a mio padre di darmi subito ci che mi spettava in eredit; e avrei costruito una casa di granito e pietra simona, come quelle dei nobili. Fransi­sca non avrebbe pi avuto intorno a s l'incanto di Venezia ma avrebbe imparato a conoscere quello dei castagneti e delle abetaie, la maestosit dell'Oglio che trascina con s, in primavera, enormi massi, la solenne malinconia del lago d'Iseo, il rumoreggiare dei torrenti che corrono fra profon­dissime gole rocciose e all'improvviso si inarcano in rom­banti cascate. Le avrei insegnato a tirare con la balestra corta, a cacciare con il falcone, l'avrei portata con me ad ammirare le pernici di monte mutate dall'inverno in can­ dide colombe, i colori iridati del gallo cedrone, pi splen­denti, ai miei occhi, di quelli dei pavoni. Le avrei additato gli arcobaleni che da noi sembrano scaturire da un monte ed aggrapparsi a un altro per offrire una passerella al vagare delle fate, ai balzi giocosi degli elfi. Le avrei insegnato a cavalcare e saremmo saliti al Passo del Tonale a contem­plare le nevi perenni dell'Adamello: senza fermarci, la notte, perch di notte il Tonale luogo di raduno delle streghe...

Dai miei viaggi (avrei lavorato pi duramente, do­po , e con sempre maggiore successo) le avrei portato i tessuti pi belli, gli ornamenti pi preziosi, i profumi che lei amava. Le avrei riempito la casa di serventi e avrei dato in suo onore grandi feste: certamente anche le mogli dei nobili sarebbero venute a imparare da lei grazia di porta­mento, eleganza.

Fransisca mi ascoltava, talvolta con interesse; talvolta, invece, rideva dei miei sogni: Ma tu mi vedi tra i taglia­boschi, tra i pecorai? . Alle mie indignate proteste che nella Valle non mancavano persone civilissime, tornava a ridere e ridere, poi mi diceva impaziente: Adesso basta, vieni qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4

 

Non solo il corpo di Fransisca m'era negato ma anche l'intimit del suo cuore.

I nostri discorsi erano poco pi che; parole tenere e giocose. Fransisca non rispondeva mai se non con sorrisi alle mie domande sulla sua vita. Sem­brava non avere passato. Pensavo: Non vuole parlare di sua madre, del dolore per la morte di lei.

Senza vergognarmene, avevo pagato le sue serventi per sapere se avesse avuto altri amori, quali giovani fre­quentasse, quali amiche. Le risposte erano state nette e tutte eguali: Fransisca non vedeva che gli amici del padre, usciva raramente e sempre con lui. No, non aveva mai par­lato di matrimonio n confidato simpatie per qualche gio­vane: ne incontrava pochissimi, del resto, e, pi che a Ve­nezia, nella villa sul Brenta che il notaio possedeva e in cui padre e figlia si recavano, come molti ricchi veneziani, ogni estate. Fransisca mi aveva parlato spesso di quella casa: un paradiso. Vedrai, Bresciano, vedrai che prati, che alberi; e la corrente del fiume che ha i colori delle foglie appena sbocciate... .

Ma neanche futuro sembrava avere, Fransisca, poich neppure di questo voleva parlare. Viveva il presente come in una bolla di sapone che la isolasse dal mondo: solo pi tardi compresi quanto temesse che la sfera iridescente in cui abitava potesse, d'un tratto, infrangersi, e lei ritrovarsi indifesa in una realt che le faceva paura.

Aveva diciassette anni, sapeva leggere e scrivere; ma leggeva? Scriveva? E pregava? Quando i campanili delle cento chiese di Venezia suonavano l'Angelus e tutti devotamente ci segnavamo, le sue mani rimanevano inerti e lei evitava il nostro sguardo, come imbarazzata. Anche oggi, dopo tanti anni, mi domando se ci. fosse un dio, e quale, nella sua anima; in che cosa credesse; chi e che cosa vera­mente amasse.

L'avevo vista pi volte sgridare una domestica con tale asprezza e parole cos crudeli da farla singhiozzare; e lei stessa, allora, sembrava singhiozzare per l'ira. Poi cor­reva ad abbracciare l'infelice, la baciava, le faceva mille moine come fanno i bambini pi piccoli ai genitori dopo essere stati cattivi, per evitare il castigo. Talvolta il suo sguardo si perdeva in lontananza; che cosa vedeva? Avevo imparato che, in quei momenti, ogni parola le era sgradita e, pi ancora, ogni tentativo di tenerezza. Si ritraeva di scatto, mi guardava con cattiveria, diceva: Non sei capace di lasciarmi stare un po'? ; e se ne fuggiva nelle sue stanze.

Un giorno le domandai cosa facesse nelle ore che tra­scorreva da sola. Rispose sorridendo che una padrona di casa ha mille incombenze, non lo sapevo? E poi aggiun­se suono il liuto, ricamo, gioco con le bambole.

Non la sentii mai suonare il liuto, nonostante mille insistenze, non la vidi mai ricamare; avevo invece contem­plato (una sola volta; poi lo straordinario spettacolo mi fu per sempre vietato) la moltitudine delle sue bambole. Era avvenuto la seconda volta che ero entrato nella sua casa. Ritrovandoci a due giorni dal nostro furtivo ab­braccio, eravamo (o, almeno, io ero) in preda all'imbaraz­zo. Non ero abituato ad avventure amorose n avevo mai conosciuto ragazze cos ricche e cos libere. Sentivo di non poter essere giudice: ci che in una giovane del mio paese avrei ritenuto impudicizia o follia, in Fransisca m'era sem­brato espressione di un mondo diversissimo dal mio: un mondo nel quale

desideravo disperatamente entrare ma che ora, nel momento in cui mi ammetteva nella sua regione di confine, mi faceva tremare, sentire tutta la mia inadegua­tezza. La mia timidezza e la mia goffaggine di paesano mi sembravano pari alla smaniante voglia di far mia quella donna stupenda, cos diversa da me.

Ma anche Fransisca, quel giorno, era pallida, nervosa: mi sembr, anzi, che avesse pianto. Mi aveva accolto quasi freddamente, tuttavia mi aveva fatto sedere accanto a s, mi aveva preso le mani fra le mani. Tacevamo. D'un tratto, lei s'era alzata, mi aveva domandato gravemente, quasi si trattasse di affare di grande importanza: Vuoi vedere le mie bambine?. Sorpreso, avevo risposto di s. Allora mi aveva guidato in una grande sala, illuminata, come una cap­pella, da decine e decine di candele; e l, sparsa su divani o allineata su lunghe scanse, vidi una folla di bambole, i cui occhi sembravano vivi nel tremolo delle fiammelle.

Orgogliosamente Fransisca me le aveva mostrate una dopo l'altra. A ognuna aveva dato un nome, indecifrabile, come tratto da una lingua misteriosa. Erano di tutte le di­mensioni: alte un dito o grandi come bambini; di legno, di creta, di gesso, di stoppa, di osso, di altre materie che non conoscevo; alcune rozze, quasi scolpite da contadini per i giochi di piccole cenciose; altre con volti incantevoli che parevano di marmo o di alabastro. Ce n'erano di ignude e di sfarzosamente vestite: adorne di fili d'oro, di piccole gemme, di straordinarie piume di uccelli mai visti. Erano, in prevalenza, bambole italiane e tedesche; ma non

giungevano da lontanissimi paesi dell'Oriente e persino dalle Americhe; e alcune custodivano in cavit nel petto ampolle di preziosi profumi; e altre avevano arti flessibili sicch Fransisca poteva metterle in ginocchio davanti a me o fingere che volessero abbracciarmi. C'era una grande bam­bola di Norimberga con un meccanismo a orologeria che le faceva muovere una mano sulle corde d'un'arpa da cui sem­brava trarre per prodigio le note d'una musica da ballo; e c'erano infine due piccoli Mori che Fransisca mi addit di­cendo: Ecco Abdull e Berimel, i miei schiavi ; e mi mostr che aveva fatto applicare ai loro polsi e alle caviglie delle catene: Ma d'oro... disse, quasi per scusarsi.

Tutti i mercanti veneziani mi spieg sanno di questa mia passione; e sanno che il signor notaio Barbarano disposto a pagare qualunque somma per la gioia della sua bambina matta.

Adesso sorrideva felice. Mi aveva baciato. Per un at­timo, prima di abbandonarmi al mio sangue, m'ero sentito turbato dalla presenza di tutti quei minuscoli volti intorno

a noi; soprattutto dalla bambola dai grandi occhi e dai ca­pelli neri che se ne stava sola in un angolo, su una piccola sedia. Poco prima, mostrandomela, Fransisca le aveva alza­to le braccine in modo che le mani le coprissero il viso e mi aveva detto: Questa la piccola Fransisca che piange perch ha paura di morire.


5

 

 

Nei giorni che seguirono la conversazione sulla Peste Nera, Fransisca rifiut di vedere qualunque estraneo, e me pure. Il padre e le domestiche rispondevano che stava poco bene, non era propriamente malata ma triste, molto triste; e mi chiedeva di pazientare.

Per sei giorni le mandai grandi mazzi di fiori. Il sesto giorno erano rose di serra, tuttavia piene di spine: Le ho scelte scrissi in un biglietto perch tu ti renda conto di quanto bisogna soffrire per cogliere un fiore bello come te. Alla fine, mi lasciarono entrare. Fransisca sedeva, pal­lidissima, quasi irrigidita dall'emozione, nello studio del padre, accanto a lui. Questa accoglienza dapprima mi scon­cert, poi mi fece nascere in cuore una meravigliosa spe­ranza: che Fransisca avesse ritenuto giunto il momento di mettere il padre al corrente dei nostri progetti, di decidere il giorno delle nozze. Perci sorrisi, intento a preparare dentro di me, da buon mercante, gli argomenti per convin­cere il notaio.

Parl lui per primo: Messer Guerino, mia figlia ha voluto che fossi io ad affrontare una delicata questione. Fransisca dice che voi siete persona di nobile sentire e che la amate. Del primo fatto sono convinto anch'io, dopo aver­vi conosciuto a sufficienza; il secondo e accenn a un sor­riso lo avevo ormai intuito dalla vostra frequenza in que­sta casa. Cercai di interromperlo ma mi ferm con un gesto pacato della mano.

Continu: Fransisca dice anche che voi siete impul­sivo e pensa che, addirittura, possiate diventare violento

L'accusa mi inchiod alla sedia, muto, stupefatto pi che offeso. Che Fransisca potesse descrivermi a questo modo mi sembr impossibile: quante volte, accanto a lei, mi ero sentito senza pi forze, ormai soltanto una delle sue bam­bole...

Perci riprese il vecchio mia figlia mi ha chiesto di parlarvi a suo nome. Ed io lo faccio con grande pena, appellandomi alla vostra maturit.

Vedete, messer Guerino, nonostante il governo tenti di tenerlo nascosto, ormai la peste dilaga in tutta Venezia, i morti sono centinaia e centinaia, diventeranno migliaia.

Fransisca sconvolta dal terrore del contagio. Si pu ca­pirla: giovane, bella, non vuole morire. Perci domat­tina partiremo per la nostra villa di Stra.

Osai dire: Verr con voi... .

La mano del notaio mi ferm di nuovo: No, messer Guerino. La necessit di questa brusca partenza ha dato modo a mia figlia di ripensare ai vostri rapporti. Vi ringra­zia della vostra devozione ma ha concluso che non siete fatti l'una per l'altro.

Questa volta nessun gesto riusc a fermarmi. Balzai in piedi e mi rivolsi a Fransisca, con voce strozzata: Non possibile, perch? .

Sedeva eretta, bella come sempre: ma diventata una statua. Due piccole rughe agli angoli delle labbra le tira­vano la bocca in una smorfia dura, impietosa. Mi guard, disse soltanto: cos.

Le lacrime che mancavano nei suoi occhi colmarono i miei. Mi ritrovai in ginocchio, tendendo le mani, supplican­do di nuovo: Ma perch? Dimmi perch! .

Lei si ritrasse, appoggiandosi all'alto schienale. Rigida come una regina sul trono, parl con voce aspra: Alzati, Bresciano. Un uomo in ginocchio mi fa orrore se non sta pregando il suo Dio.

Fu come uno schiaffo, anzi pi che uno schiaffo; mi calm di colpo. Ritrovai un po' di dignit, dissi: Devi spiegarmelo, il perch. Ne ho il diritto. Sino all'altro giorno tu mi amavi... .

Il colore torn sulle sue guance mentre mi rispondeva quasi gridando: No, Bresciano, no, io non amavo te. Io amo la vita. Se un uomo parte della vita, se mi d pi vita, se difende la mia vita, allora posso anche accettarlo; godere con lui, persino volergli bene. Quando ti ho visto la prima volta, cos grande e grosso, all'apparenza cos si­curo, ho pensato: "Ecco quello che fa per me! ". Ma in questi giorni e notti di terrore ho capito tante cose. C' la peste intorno a noi, Guerino, e tu hai mostrato di non ac­corgertene neppure. Sei soltanto un ragazzo. C' la peste e, per salvarsi, bisogna fuggire; e per fuggire bisogna essere ricchi, avere una villa, lontano da Venezia. Dov' la tua villa, Bresciano? . Singhiozzava disperatamente, adesso.

Promisi: Ne avremo una, un giorno, te lo giuro, amore mio... .

Un giorno? La morte oggi, Guerino, non "un giorno"! Io non voglio aspettare, non posso aspettare. Io ho bisogno di vita subito...

Potresti venire con me a Breno...

Dal pianto pass al riso, uno stridulo riso che pareva di strega: Non hai ancora capito, Bresciano? Io non ho mai pensato veramente di venire nella tua Valle di man­driani e di fabbri, a diventare un po' alla volta nera come il carbone, a vivere senza musica, senza mare, a far figli uno dopo l'altro, tra beghine che mi controllerebbero minu­to per minuto. Se qualche volta, stupida come sono, ho concluso di poterti sposare, ho sempre pensato che ti avrei tenuto con me a Venezia, a Venezia, a Venezia. Sbianc in viso, torn a singhiozzare: Vattene, Guerino! Vattene che sei povero! .

Il notaio fece tintinnare un campanello, entrarono due giovani serve che si precipitarono su Fransisca, coprendola di baci e di carezze. Il vecchio mi pose un braccio intorno alle spalle, dolcemente ma con fermezza mi spinse verso la porta: Hai sentito, figlio mio? Devi andartene. Dove andrai? . Non lo sapevo, non riuscivo neppure a pensare. Mormorai: Torner in Valcamonica disse lui tristemente Ǐ arrivata la peste.

Il portoncino si chiuse dietro di me, senza rumore.


6

 

 

Da quella sera andai allo sbando. Cento volte decisi di inseguire Fransisca, cento volte l'istinto mi ripet che quello di mendicare il suo amore era il modo pi certo per perderla definitivamente. Decisi di restare a Venezia: la peste sarebbe passata, la mia donna sarebbe tornata ed io avrei saputo ridestare in lei la passione che ci aveva legati. Bisognava saper attendere...

Ma attendere non sapevo. Passavo da un'osteria al­l'altra, mi accompagnai a innumerevoli prostitute. Le pos­sedevo con brutalit quasi volessi reagire alla passivit cui mi aveva ridotto Fransisca. Qualcuna parve lusingata dalla mia furia, che le sembr apprezzamento; qualcuna se ne impaur (allora si affacciava alla stanzuccia un uomo che mi guardava con occhi gelidi tenendo un coltello fra le ma­ni) ; ma la pi parte ebbe compassione di me. Consumato l'amplesso, ricevuto il compenso pattuito, l'amante senza domani si trasformava per qualche minuto in madre, mi raccomandava di mangiare, di ripulirmi, di darmi pace del tormento che visibilmente mi divorava.

Vagavo per la citt senza guardarmi intorno, senza parlare con alcuno. Mi accorgevo appena che il volto della citt era mutato, che nonostante il cielo andasse facendosi pi luminoso e il sole pi caldo, le calli erano quasi deserte e spento il chiacchiericcio delle donne che tante volte mi era sembrato fluire come il getto delle fontanelle.

Camminando ora quasi furiosamente, ora lentamente come un malato, finivo per ritrovarmi dinanzi alla casa di Fransisca che aveva porte e finestre sbarrate. Allora mi sfuggiva dalla gola un suono sordo - singhiozzo o ruggito; imprecavo contro me stesso, giuravo che avrei scelto un altro sestiere per il mio vagabondare. Ma, come una folaga che, colpita a un'ala da un balestriere inesperto e caduta al suolo, cercando di riprendere il volo con l'ala indenne, rema penosamente la terra e compie un cerchio senza fine, cos scoprivo poco dopo di essere tornato sotto il laig delle mie delizie da cui mi pareva che adesso un'invisibile scolta ro­vesciasse olio bollente sulle mie spalle d'inerme assediante.

Alla fine, ogni forza mi abbandon. Sedevo lunghe ore davanti alla casa che avevo affittato. Neppure pi la rabbia: il tradimento di Fransisca sembrava avermi annac­quato il sangue, e velato gli occhi, e tappato le orecchie: un giorno la padrona di casa mi parl a lungo, piangendo; io le mormorai qualche parola che voleva essere di consola­zione ma pi tardi mi accorsi che non avevo capito nulla di ci che mi aveva detto; e lei non torn pi, neppure per riscuotere l'affitto. Senza darmene ragione, senza nemmeno cercarla, una ragione, mi avvedevo che erano sparite perso­ne con cui avevo preso dimestichezza da che abitavo nel rione. Di tratto in tratto mi rendevo conto che nessuno pi mi sorrideva, che, anzi, nelle botteghe in cui mi recavo a comprare un po' di cibo mi guardavano con ostilit. Nean­che di ci mi importava. In mezzo a una immane tragedia, come dovevo scoprire pi tardi, il mio dolore s'era trasfor­mato in un egoismo gretto e feroce.

Poi vennero a salutarmi i compagni che avevano fatto con me il viaggio dalla Valcamonica e che, tutto preso dal mio amore, avevo disertato. Di ritorno dalla loro missione in Friuli e in Carinzia, tentarono invano di parlarmi dei buoni affari, delle molte avventure. Ma io non li ascoltavo n loro si ostinarono nei racconti: anche in Friuli avevano trovato la peste; ed ora avevano fretta di tornare a casa per rivedere i propri cari: le notizie giunte a Venezia e che io non m'ero curato di raccogliere, parlavano dell' avanzata della peste verso il lago d'Iseo, dunque verso i nostri paesi.

Tentarono inutilmente di convincermi a partire con loro. Mi guardavano con piet mentre io inventavo malde­stramente affari mirabolanti che mi obbligavano a restare ancora per qualche tempo.

Mi domandarono se non ero malato. Pi ruvidamente, il pi anziano, Bartolomo da Cemmo, al quale consegnai i soldi della vendita del legname perch li riportasse a mio padre, mi ricord che io avevo ben altri doveri nei con­fronti della mia famiglia: i soldi, dopo tutto, sono sterco del diavolo, non sentivo la necessit di tornare per cono­scere la sorte dei miei cari? Mentii stancamente: Torner, torner; ma nel mio cuore piangevo: Non torner mai. Aspetter Fransisca, la riprender con il mio affetto, con la forza la riprender e vivr con lei, dove lei vorr... .

In qualche modo, tuttavia, l'affetto dei miei amici, la loro stessa partenza che mi riduceva alla pietosa solitudine di un uccello di stormo incapace di riprendere il volo quan­do i suoi compagni, incalzati dal presagio dell'inverno, si alzano verso le invisibili rotte fissate dall'istinto, riuscirono a scuotermi per qualche ora.

Vedevo che anche nei miei amici, come in me, non c'era pi allegria, svanito ogni spirito d'avventura. Dov'era­no le canzoni che avevano animato il nostro viaggio mentre spingevamo i buoi con i grandi carri gi per sentieri pen­colanti su orridi abissi, mentre ci arrestavamo esasperati in mezzo a strade di paese troppo anguste per il nostro ca­rico, mentre faticavamo in terre paludose, bestemmiando per le punture avvelenate di feroci zanzare? I miei com­pagni sapevano che il viaggio che stavano per iniziare sareb­be stato un lungo viaggio attraverso il dolore; e dolore, probabilmente, sarebbe stata la loro meta. Non tornavano a casa per salvarsi, lo facevano per affrontare il pericolo fra gente cara, per aiutare e ricevere aiuto, per morire, se biso­gnava morire, accanto alle madri e alle spose.

Io, invece, sarei morto da solo: perch la morte, or­mai, era vicina a tutti noi. Me ne resi conto solo allora, dai discorsi dei miei compagni, per la prima volta da che il morbo aveva preso a uccidere migliaia di persone, e anche il mio segreto amore.

Ascoltai terribili descrizioni dell'abisso morale nel quale non soltanto Venezia ma tutta la cristianit andava sprofondando. Coraggiosi reggitori della cosa pubblica de­liberavano saggiamente; eroici frati si contagiavano portan­do ai morenti gli estremi conforti della fede; medici intre­pidi, rischiando la vita, si chinavano sui malati, cercando affannosamente di scoprire le cause della pestilenza e i pos­sibili rimedi mentre la loro antichissima scienza sembrava diventata una bambina cieca. Ma la maggior parte dei no­bili, anche quelli investiti di pubbliche responsabilit, fug­giva lontano, come aveva fatto Fransisca; e la maggior par­te degli scienziati li seguiva quasi fosse delegata alla cura soltanto di chi - per le sue stesse condizioni di vita - era meno esposto al contagio. I monaci rimanevano chiusi nei loro conventi. Si sussurrava che persone maledette sparges­sero il contagio, su istruzioni di Satana, ungendo con veleni le maniglie e i battenti delle porte. Superstizioni e simonia dilagavano.

Per ammassare nei lazzaretti i poveri appestati, in mancanza di pubblici dipendenti si era dovuto far ricorso a gente di malaffare, di quella che tiene la vita come un'av­ventura da affrontare giorno per giorno, senza problemi e senza altri sentimenti che l'orgoglio della propria forza fi­sica; a "tristi" venuti sin dal Friuli e dall'Austria; e addi­rittura a banditi e galeotti, liberati dalle catene per una condanna che sembrava a tutti, ma non a loro, pi terribile. Erano essi - i picegamorti o pizzicamorti, come li chiama­vano- che aggiungevano orrore ad orrore. Allegramente, quasi per un carnevale fuori calendario, dilagavano per i sestieri, facendo tinnire i campanelli di bronzo che porta­vano alle caviglie: imponevano ad osti e trattori di servirli gratuitamente, saccheggiavano le case degli ammorbati, si mescolavano alle centinaia di prostitute che le autorit an­davano rastrellando nei bordelli per rinchiuderle nei lazza­retti a servire come donne di fatica. Erano essi che porta­vano via dalle case veneziani e veneziane, talvolta urlanti povere proteste e minacce, pi spesso vaneggianti o senza voce; essi, fuori e dentro gli ospedali, a decidere chi fosse gi morto e chi ancor vivo, chi da gettare su un letto, chi in una fossa, chi da bruciare. E di loro, i picegamorti, si diceva che nessuna donna o ragazza avvenente, moribonda o gi morta, finisse sepolta o abbruciata senza che essi vi avessero impresso il sozzo sigillo della loro animalit.

Mi colpirono anche, terribilmente, i racconti che i miei amici andavano facendo sui lazzaretti. Erano inferni in cui migliaia di persone si trascinavano come larve o giacevano in tre o in quattro in uno stesso letto, dal quale i morenti venivano gettati dai meno deboli, che pure non ignoravano che anche a loro, e fra poco, sarebbe toccato quest'ultimo spregio.

Un orrendo fetore si levava da quei recinti. Cibo e medicamenti venivano distribuiti alla turba dei dannati da pochi volonterosi, autentici santi. Ma i santi erano pochi e moltissimi i dannati: e perci v'era chi moriva di fame o di sete prima ancora che di peste. E se i giorni erano orri­bili, le notti erano anche peggiori: l'oscurit o l'immensit del cielo stellato, che sembrava a taluno una coltre soffo­cante gettata sul suo torace, o l'enorme cerchio della luna su cui altri credevano - nell'improvvisa follia - di leggere i tratti di un teschio sogghignante, favorivano lo scatena­mento degli incubi; e v'erano malati che, con subitanea energia, balzavano dai loro giacigli e urlando selvaggiamen­te si gettavano nella laguna, quasi cercando di sfuggire alla, morte, o, almeno, a quel modo di morire; oppure tentavano di evadere attraverso gli orti che circondavano i lazzaretti e rimanevano trafitti dalle siepi di rovi innalzate per re­cinzione.

Giurai a me stesso che mai sarei diventato preda dei picegamorti, che mai sarei giunto vivo in uno di quegli orrendi luoghi in cui la Creazione sembrava definitivamente sfigurata.

Se poi ricaddi nella mia tetra abula, nonpertanto questi sentimenti rimasero vivi in me, in qualche recesso della mia mente ottenebrata.

 

 

 

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7

 

 

Dopo il sogno in cui Fransisca m'era apparsa mentre danzava sulla gondola e dopo il penoso risveglio, ero ri­piombato in un sonno greve e agitato. Ancora una volta mi ero ritrovato davanti alla mia donna e ancora una volta lei era tanto diversa da come l'avevo conosciuta. Nel sogno, un mantello d'oro foderato d'azzurro le ricopriva il capo, scendeva in grandi drappeggi su tutto il corpo, a celarne le forme. Fransisca stava eretta, immobile su un altare ligneo dalle grandi volute. Guardava lontano, con un lieve sor­riso, e fra le braccia stringeva un bambino biondo, immo­bile, dagli occhi spalancati. L'ambiente era buio, illuminato soltanto da qualche candela. Io avanzavo verso di lei, tra­scinando le gambe che mi parevano diventate di pietra, invase le orecchie dal battito convulso del mio cuore.

Non osavo neppure pronunziare il suo nome; e men­tre me ne stavo immobile, davanti a quella immagine straor­dinaria, il silenzio che sino a quel momento aveva dominato il sogno veniva frantumato da turpi grida. Due diavoli, dall'orrendo grugno di cinghiale, si precipitavano su di me, urlando: la Madonna, non vedi? In ginocchio, sacrile­go, tu sei dannato! . Uno di essi mi uncinava le ascelle con i suoi artigli; l'altro, con le sue zampe di capro, con gli zoccoli biforcuti, mi tempestava l'inguine di calci.

Questa volta mi risvegliai gemendo, con la sensazione di avere sfiorato un abisso mortale. Andai a cercare un po' d'acqua, bevvi avidamente. Poi mi accorsi che il dolore alle ascelle e all'inguine continuava. Alla luce di un lume le une e l'altro mi apparvero tumefatti. Non potevo dubitar­ne: ero appestato.

L'ho gi detto: non piansi, non mi disperai. Mi pareva di non voler pi vivere. Una sola cosa mi sembr impor­tante, il modo di morire.

La prima idea fu questa: raggiungere la Terraferma, comprare (o, se necessario, rubare) un cavallo e poi, sin che il morbo me lo consentisse, galoppare verso la villa di Fransisca. Mi sarei lasciato cadere dinanzi ai cancelli: perch lei sapesse che, anche morendo, le ero stato fedele... Ma, all'improvviso, mi parve che un velo mi cadesse dagli occhi. Proprio ora che ero finito e che avrei dovuto cercare di rendere santa la mia morte perdonando ai miei nemici, sentii che la mia passione si trasformava in odio profondo, in furioso rancore. Pensai che non soltanto Fran­sisca mi aveva negato il suo amore, ma anche mi aveva ne­gato salvezza: se, per lei, Venezia era la morte e la sua villa l'unica speranza, ebbene mi aveva sbarrato le porte della speranza.

Dio abbia misericordia di me, per quest'odio; e di Fransisca che, mentre in quell'alba la maledicevo, era gi morta, raggiunta dal contagio l dove sperava d'essere sal­va: portata via dalla peste come dal Brenta che fluisce lento con i suoi colori di foglia appena sbocciata.

Il morbo non mi aveva ancora indebolito, o forse traevo energie dal mio furore. Capivo che se mi avesse col­to la spossatezza non avrei potuto evitare i picegamorti;

e capivo che in una citt in cui ormai ognuno diffidava del suo vicino sarebbe stato impossibile trovare un rifugio in cui morire fuor dall'inferno dei lazzaretti. Bisognava fuggi­re da Venezia, subito. Mi vestii, raccolsi il mio danaro, misi in una bisaccia un po' di cibo e uscii nella notte che gi si incrinava.

Non sapevo dove andare; ma, raggiunta una calle, vidi nell'oscurit una decina di barche all'ormeggio e una di esse aveva sul fondo il suo lungo remo. Salii, sciolsi la fune che la legava a un palo, misi il remo nello scalmo e cominciai a vogare. Ogni volta che il remo scendeva nelle acque, ne accompagnavo il fendente con un'imprecazione contro la donna che ora mi appariva soltanto una creatura perversa, crudele come un gatto selvatico, ingannatrice come la neve che nasconde un crepaccio.

Non mi curai di scegliere una direzione: l'importante era andare lontano, raggiungere la costa, e poi la Terrafer­ma. E poi, sinch le forze me l'avrebbero concesso, marciare verso Nord-Ovest, verso i miei monti, fra i quali, adesso, mi sembrava che la morte sarebbe stata meno dolorosa. Remai a lungo. S'era fatto mattino ma una nebbia fit­ta era scesa sulla laguna. Urtai contro gli spigoli di palazzi e di imbarcaderi, intravidi archi di ponti, mi giunse sempre pi frequentemente il tonfo soffocato di altri remi e, di quando in quando, il grido di avvertimento di invisibili vogatori.

Poi, mentre il sole si impigliava nella nebbia e la tra­mutava in un pulviscolo di luce, udii un canto dolcissimo e solenne, cantato da cento e cento voci. Era il canto del­l'Ora di Prima, quello che dice:

Jam lucis orto sidere,

Deum precemur supplices...(1)

A quel canto, che mi ricordava irresistibilmente le li­turgie del mio paese, mia madre e le mie sorelle raccolte in preghiera, e che giungeva sino a me da un paradiso cui sembrava facile arrivare, mi lasciai cadere sul fondo della barca e piansi come un bambino...

Poi la nebbia si lev e mi trovai a contemplare uno spettacolo grandioso e incomprensibile. Alla mia destra ve devo l'inferno di un lazzaretto con le macabre fumate dei roghi mortuari. Alla mia sinistra, invece, cio da dove pro­veniva il canto, la laguna era fitta di barche e barconi, quasi un'immensa flotta di pescatori avesse deciso di porre asse­dio alla Serenissima; e nel mezzo di quella flotta, come pa­stori in mezzo a un gregge di pecore, erano alla fonda tre galee. Dico galee , ma l'incastellatura era diversissima da quella delle navi che avevo imparato a conoscere nel mio soggiorno veneziano: al di l delle murate erano state erette grandi baracche, a due e persino tre piani; ed altre pi pic­cole

 

(1) Ormai sorta la stella della luce, Ci rivolgiamo supplicanti a Dio...

 

vi erano state aggiunte, quasi per proliferazione, al di sopra e ai lati, cosicch ciascuna di quelle navi somigliava adesso a certe raffigurazioni affrescate delle antiche citt: in cui, dentro la cerchia delle mura, le case sembrano co­struite l'una sull'altra, facendo insieme da basamento alle torri e alle roccheforti.

Sulle barche e alle finestre delle baracche vedevo una moltitudine di persone. Erano gli uomini e le donne e i bambini che avevano appena finito di cantare l'inno; ed ora i maschi chiacchieravano allegramente mentre le mogli si affaccendavano ai fornelli delle cambuse.

Contemplavo attonito quello spettacolo di serena leti­zia, cos? incredibile sullo sfondo sulfureo del lazzaretto, quando la mia barca, lasciata alla deriva, and a scontrarsi con il fianco di una maona. Alzai gli occhi e inorridii: sull'imbarcazione sventolava una grande bandiera gialla e si ergeva una forca; dalla forca pendeva un uomo, nero in volto, la lingua oscenamente penzoloni; nudo il torso, le gambe divaricate. Portai le mani al viso, per non vedere, ma in quel mentre sentii una risata. Poi qualcuno dalla maona mi apostrof allegramente: Non ti piacciono gli impiccati, neh? . Trovai il coraggio per rialzare lo sguardo. Un vecchio calvo, dal viso arguto, gli occhi celesti e una barba bianca a collare, mi sorrideva cordialmente, spenzo­landosi dalla murata.

Benvenuto nel Paese di Cuccagna! mi disse. Qua si mangia e si beve senza pagare e si lavora poco. Muoiono impiccati soltanto quelli che non vogliono morire tranquil­lamente o si provano ad essere pi furbi delle guardie. Sali, sali, non te ne pentirai!

 

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8

 

Ero ancora ragazzo quando avevo assistito all'impicca­gione di un assassino sugli spalti del castello di Breno; e giovanissimo quando, milite di una cernida (i corpi ar­mati della Valcamonica), avevo dovuto fare la guardia al corpo sfracellato del bandito Sbaruft, trafitto da cento colpi di lancia, di bastone e di picca. Avevo visto, pi tardi, la testa mozza del delinquente ricoperta di sale e di foglie di lauro, spedita poi a Venezia perch il Consiglio dei Dieci, su questa prova irrefutabile, pagasse la taglia promessa...

Voglio dire che avevo gi contemplato - e non rara­mente: com' proprio, del resto, dei duri tempi in cui vi­viamo - lo spettacolo della morte data per legge. Ma adesso che la morte falciava interi popoli come i contadini falciano l'erbe dei campi e sembrava avere preso sottobraccio anche me, mi pareva intollerabile che gli uomini si mettessero ad aiutarla. Perci il cadavere di quell'impiccato mi faceva or­rore; e per niente al mondo sarei salito a bordo di quel galleggiante palco dei supplizi.

Il vecchio non insistette. Scese, anzi, con l'agilit di un giovane, per la scaletta di corda che pendeva dalla fian­cata e venne a sedersi nella barca accanto a me. Portava una pagnotta e una fiasca di vino. Aveva subito riconosciuto il mio accento: sei anni prima, raccont, era stato nei no­stri paesi quando, in occasione della guerra di Cipro, la Valcamonica aveva donato a Venezia una grande quantit di ferro, poi convertita in bombe nella fonderia di piazza del Duomo, a Brescia. Lui, Zuanmaria Padoan, aveva fatto

parte della truppa inviata a prelevare il metallo, controllare la fusione dei proiettili, scortarli infine agli arsenali vene­ziani. Brava gente, voi Camuni! diceva, passandomi la fiasca. E mi dispiace di vederne uno da queste parti. Ma va l che ce la farai, com' successo a me. Bevi, bevi ch ti fa bene.

Seppi da Zuanmaria dove la Provvidenza e il terrore mi avevano sospinto. Divenuti ormai insufficienti i due laz­zaretti (l'uno costruito all'epoca della grande pestilenza di due secoli prima, l'altro approntato in gran fretta non ap­pena il contagio s'era rivelato tanto vasto), il Consiglio dei Dieci aveva deciso di allestirne un terzo, utilizzando vecchie galee e altri vascelli in disarmo. Vi si recavano, spontanea­mente o forzatamente, centinaia di veneziani sospetti di aver potuto contrarre il morbo e tuttavia immuni, per il momento, dalle sue stimmate. Vi rimanevano tre settima­ne: se il male si manifestava, venivano condotti ai due altri lazzaretti, altrimenti, muniti di una fede di sanit, pote­vano tornare alle loro case.

Era una vera e propria citt galleggiante, di migliaia di abitanti, con guardie armate e medici e preti e scorte di viveri, vesti e medicine. Al tramonto, la laguna circostante formicolava di imbarcazioni di parenti venuti dalla Domi­nante o dalla Terraferma a chiedere e portare notizie. Il chiasso che ne risultava era dominato piuttosto da grida allegre, scherzose, che da lamenti: il pianto ha spesso voce pi fioca della letizia; chi sano, poi, crede di sollevare i malati se mostra, con la sua rozza allegria, che, dopo tutto, la vita continua...

Una schiera di maone che inalberavano bandiera gialla segnava il limite che nessuno poteva oltrepassare se non per darsi nelle mani dei medici; e alla forca sotto la quale ora mi trovavo venivano sbrigativamente appesi coloro che violassero la disciplina dell'ospedale o che, scoperti malati, avessero tentato di evadere per non essere trasportati ai lazzaretti.

Cerchiamo di passare il tempo nel migliore dei mo­di , diceva Zuanmaria, trincando, sia noi guardie sia i sospetti. Qui non ci sono picegamorti, si fa tutto con grazia.

I malati li portiamo via gentilmente e quasi tutti sembrano gi preparati alla loro sorte. Gli altri pregano per chi se ne va e, sotto sotto, sono convinti che la scamperanno. Quan­to ai medici e ai preti, sono brava gente e non rompono le scatole.

Chiacchieravamo placidamente (io stesso, ormai, qua­si dimentico della mia situazione) quando accanto a noi comparve silenziosamente una scialuppa. Portava un signo­re con elmo e corazza, quattro soldati e due rematori. Parl il signore, chiedendomi perentoriamente che cosa facessi in quelle acque vietate...

Avevo dunque sbagliato a fermarmi a discorrere col vecchio. Ma ora non avevo neppure pi voglia di fuggire. Se dovevo morire entro pochi giorni, tanto valeva trascor­rere serenamente le mie ultime ore in questo ambiente che mi pareva cos tranquillo. Poi, al momento in cui la mia malattia fosse stata scoperta, prima d'essere trasportato al lazzaretto avrei trovato il modo di gettarmi in acqua. Non sapevo nuotare e la mia morte sarebbe stata quasi istantanea.

Con questi sentimenti di rassegnazione mi preparai a rispondere all'ufficiale.

Doveva essere abituato alla confusione di chi giungeva all'ospedale galleggiante perch, non appena io ebbi mor­morato confusamente che abitavo presso una famiglia col­pita dal contagio, mi risparmi lo sforzo di inventare altre notizie. Disse: Va bene, va bene, il resto lo vedranno i medici, adesso seguitemi. Feci un cenno di saluto a Zuan­maria, poi vogai dietro la scialuppa sino alla fiancata d'una galea.

Accanto ad essa, su una grande zattera, erano ammas­sate una cinquantina di persone. Salite! intim l'uffcia le. La vostra barca dtela per persa. Se finirete al lazza­retto, difficilmente vi servir ancora. Se vi salverete, non farete fatica a trovarne un'altra in qualche rio. C' tanta roba senza padrone, ormai, a Venezia!

Montai sulla zattera, guardato appena dalla gente che gi vi si trovava. C'erano intere famiglie, con vecchi e bam­bini; coppie giovani, o anziane che nel pericolo avevano ritrovato l'antica tenerezza; e persone sole, che sembravano le pi tristi e inquiete: teme di pi per la propria vita chi pensa che nessuno lo pianger...

Ben presto ricevemmo l'ordine di salire a bordo. Ave­vamo appena cominciato ad avviarci silenziosamente su per la scaletta appesa al fianco della galea quando improvvisa­mente le murate della nave si ricoprirono di una folla fe­stosa che applaudiva al nostro arrivo e ci lanciava incita­menti e grida di benvenuti sulla nave dei matti. Poi, attoniti, sentimmo che un'orchestrina aveva cominciato a suonare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

9

 

Misi piede su un assito solido ancorch ondeggiante, che faceva una specie di strada dinanzi alle baracche co­struite su tutta la nave. Venimmo ammassati in uno slargo, in attesa, pensai, di essere alloggiati. Sui visi smorti dei miei compagni era tornato il colore mentre riconoscevano nella folla chiassosa parenti, amici o semplici conoscenti che per, in quel momento, sembravano loro, evidente­mente, fratelli ritrovati all'improvviso.

Dietro il cordone delle guardie, i veterani dell'ospe­dale galleggiante reiteravano le loro grida di incoraggia­mento: Qui si sta bene, qui ci si diverte, qui non si muore! . Intanto, da un palco appoggiato alla maggiore fra le baracche, i musicanti - uomini e donne - vestiti a festa, continuavano il loro allegro concerto.

Pareva una sagra paesana. E scoprii che anch'io stavo sorridendo, senza che ne avessi voglia n, tanto meno, ragione.

Poi la festa, subitamente, cess. La folla ammutol, i musicanti interruppero nel bel mezzo una lieta marcetta e rientrarono a testa bassa nella baracca, quasi vergognosi della propria esuberanza. Sembr che il cielo stesso si fosse rannuvolato mentre, circondata da gendarmi, si approssi­mava al nostro gruppo una spaventosa figura.

Mi parve dapprima un mostruoso uccello grande come un uomo: aveva occhi di vetro, un lungo becco ricurvo, il portamento rigido dei fenicotteri quando zampettano negli stagni. Ma come si avvicin, nel silenzio improvvisamente disceso sulla folla, potei vedere che si trattava di un uomo mascherato. Il collo, le braccia, il corpo intero, sino ai pie­di, erano rivestiti di grossa tela cerata. Sulle mani portava guanti, pure di tela; e nella destra teneva un bastoncino bianco, lungo una trentina di centimetri.

Tra i miei compagni corse un mormorio eccitato: Il medico, il medico... . Mi sentii gelare: non avevo supposto che la visita sanitaria sarebbe stata immediata, avevo spe­rato in qualche giorno di serenit. Adesso scoprivo che ero fuggito inutilmente, che da me solo m'ero, contro ogni mia volont, consegnato agli orrori del lazzaretto.

Tramortito dalla paura, udii a stento qualcuno spie­gare che quella strana mascheratura era un costume adot­tato da alcuni dottori per evitare il contagio. Il lungo naso ricurvo era imbottito di sostanze aromatiche per filtrare l'aria infetta; gli occhiali proteggevano le congiuntive del medico, guanti ed abito completavano l'apparato difensivo. Il bastoncino bianco, infine, serviva per scostare le vesti o le coltri dei malati senza toccarle.

Era, dunque, l'armatura di un combattente contro la peste, di un difensore della sanit pubblica; e in quella co­razza il dottore certamente sudava orribilmente, soffrendo nello svolgimento della propria soccorrevole missione; ma mi domandai quanti, gi indeboliti dal male, non morissero per lo spavento, vedendo a pi del letto una figura tanto mostruosa.

A me, poi, in quel momento, il medico non poteva apparire un samaritano: piuttosto un terribile giudice che, con un suo gesto inappellabile, apriva le porte della spe­ranza o dannava all'inferno del lazzaretto.

Il dottore cominci a esaminarci l, in pubblico. Uo­mini e donne, arrivando davanti a lui, dovevano spogliarsi e lo facevano senza guardarsi intorno, pi impauriti che ver­gognosi. Avvicinando la sua orribile maschera al corpo del paziente, il dottore ne esaminava le ascelle e il collo, con la bacchetta scostava braghe e gonne per ispezionare gli inguini e le cosce.

Diede via libera a una ventina di persone che subito, sorridendo, andarono a raggiungere gli ospiti della citt galleggiante; con un ordine soffocato dalla maschera scart, invece, una coppia di anziani sposi: inebetiti dalla paura, incapaci di farsi forza a vicenda, si lasciarono guidare dai gendarmi gi per il barcarizzo, verso il loro destino.

Tremavo. Non avvertivo pi alcun dolore alle ascelle n all'inguine ma i segni che vi avevo visto nella notte non mi lasciavano dubbi: sarebbe stato impossibile che il medi­co non li notasse. L'antico proposito di suicidio torn vivo in me; convinto di essere giunto al punto estremo della mia vita, mi feci il segno della croce. Subito dopo, dall'alto, una voce aspra e acuta grid: Ehi, quel giovane! .

Levai lo sguardo e mi trovai di fronte a un altro straor­dinario spettacolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10

 

Tutt'intorno agli alberi della galea erano state costrui­te, come ho gi detto, baracche grandi e piccole, le une sulle altre. Ponteggi, passerelle, scalette di legno o di corda le univano fra loro. Vi si movevano, chi disinvoltamente chi con estremo impaccio, centinaia di persone.

L'albero maestro della nave, tuttavia, si alzava nudo in mezzo a quel termitaio umano. Alla sua estremit supe­riore c'era una grande cesta di vimini su cui era posta una tettoia di frasche. Sopra la tettoia, un grande disco solare di rame con il monogramma di Ges protendeva nel cielo punte e raggi serpentiniformi; il sole, quello vero, vi si riverberava traendone vividi barbagli.

Guardai meglio, parandomi gli occhi con la mano; e l nel cesto vidi una tozza figura d'uomo che indossava un saio nero e un nero cappuccio. Nelle mani teneva un lungo bastone sormontato da una croce; ed ora bastone e croce erano puntati verso di me, quasi un giavellotto pronto a trafiggermi.

La voce risuon nuovamente, imperiosa: Vieni su, ti dico! . A gesti, poich non osavo gridare n, del resto, terrorizzato com'ero, vi sarei riuscito, feci cenno al Monaco Nero che mi era impossibile lasciare la fila in cui mi tro­vavo, il tribunale a cielo aperto che mi avrebbe, di l a poco, condannato. Ma proprio quello che pareva il pi autorevole fra i gendarmi mi disse: Ubbidisci e mi indic come sa­lire per il sartiame.

Il medico si volt di scatto verso il militare, mugo­lando dietro la sua maschera; a quelle che sicuramente era­no proteste, il gendarme rispose con la rassegnata umilt dei poveri invischiati nei giochi dei potenti: Voi sapete, signor dottore, che non bene irritare il santo padre Util­perzio . Allora il medico alz il pugno guantato verso la coffa, grugnendo furiosamente. Poi scroll le spalle e ri­prese le visite, disinteressandosi di me.

Sottratto, almeno per il momento, al mio giudice, co­minciai a inerpicarmi per corde e scalette. Mi sentivo agile e forte come un ragazzo; ora che il pericolo del lazzaretto sembrava stornato, anche l'idea del contagio si era dissolta come un incubo alle luci di un nuovo giorno.

Mentre salivo, udii levarsi sopra di me un canto solen­ne che presto divenne ossessivo poich le parole erano sem­pre eguali:

Alto Re della gloria,

cazz via 'sta moria,

vi chiediamo perdono,

soffrendo in agona.

A ogni ripetizione della strofetta seguiva un rumore soffocato di colpi e di sferzate. A cantare erano una ventina di uomini vestiti di lunghe tuniche bianche, con un cappuc­cio che ricopriva interamente il loro viso. Erano appesi con cinghie sotto le ascelle alle rande cui un tempo erano fis­sate le vele; e negli intervalli del canto si frustavano crudel­mente con corregge di cuoio. Poich i loro convulsi movi­menti facevano s che i corpi girassero su se stessi, vidi che il dorso delle tuniche era striato di sangue...

Questi sono i veri cristiani, i penitenti che salveran­no Venezia e l'universo mondo disse ai miei orecchi la voce aspra di padre Utilperzio. Mi accorsi cos che, senza avvedermene, frastornato com'ero dallo spettacolo dei fla­gellanti, ero giunto sino alla coffa: nella quale il Monaco mi fece segno d'entrare.

M'inerpicai a fatica e mi trovai talmente vicino a lui che i nostri corpi quasi si toccavano.

Padre Utilperzio doveva avere una cinquantina d'anni, era di bassa statura, e corpulento; aveva un volto pallidis­simo e grassoccio, con grandi lividure sotto occhi tanto neri da parere invasi dalle pupille. Due rughe profondis­sime incidevano le sue guance come morse di una tenaglia che comprimesse le tumide labbra. Il viso era lucido di su­dore; e umidicce le mani paffute.

Torn a parlare: Io vivo quass da sei mesi, in preghiera e in digiuno, sotto il sole, la pioggia, la neve, dormendo in piedi, in piedi defecando, incessantemente istruendo i miei discepoli sulla santa penitenza che ci varr il perdono dell'Altissimo. Ogni giorno noi offriamo a Dio sangue e dolore perch la sua ira si plachi e Venezia e la cristianit intera siano salve. Noi ci sforziamo di raggiun­gere nelle nostre carni quel prezzo di sofferenze che il Crea­tore ha imposto all'umanit come ammenda per i peccati: gli anticipiamo per amore ci che egli si prenderebbe per giustizia .

Babilonia, disse con odio, additandomi la citt che si profilava incerta nella foschia del caldo mezzod quella meretrice proterva formicola di peccatori come una cagna di pulci e crede di poter fermare la collera dell'Eterno con i lazzaretti, i medici, le medicine. Si rifiuta al dolore, insen­satamente, quando tutta la storia dell'uomo, a causa del peccato, non pu essere che dolore. Ben pochi veneziani si offrono volontariamente alla sete di vendetta del Signore. Preferiscono morire nell'ignominia; ma i fuochi dei lazza­retti non sono che un'anticipazione di quelli dell'inferno.

Ti ho visto salire su questa nave. Io vedo tutto e so tutto. Da sei mesi osservo queste turbe di bifolchi arrivare qui con speranza e disperazione. Talvolta, da questa altezza, stendo la mano e dico: "Tu e tu". Indico una donna, un uomo, e sento con certezza che sono gi dannati e che inutile pregare per loro. Li vedo passeggiare per qualche giorno fra le baracche, riempirsi il ventre, dare sfogo alla loro immonda libidine, persino cantare e ballare: cantare e ballare - pensa! - mentre Dio numera i loro minuti. Poi, un giorno, il medico gli trova la peste e li spedisce ai laz­zaretti. Piangono, si ribellano, o se ne vanno inebetiti: camminano ancora ma sono gi morti, morti per l'eternit.

Mi pose le braccia intorno al collo, la sua bocca sfior la mia: Ma tu, tu non sei come loro. Ti ho visto segnarti devotamente con il segno della santa croce. Ho visto la tua bellezza e mi sono detto: quel giovane conosce la Legge della sofferenza. Egli vorr unirsi a noi.

Guardai gli uomini vestiti di bianco che ruotavano su loro stessi e nella gran luce del sole mi parvero gabbiani raminghi appollaiati sulla nave. Per non so quale contrasto mi ricordai che i preti della mia Valle usavano raccontare che il funerale di Martin Lutero era stato seguito da turbe di dannati in veste di corvi...

Rimarrai con me, bambino? sussurr il Monaco Nero.


11

 

Durante il viaggio dalla Valcamonica a Venezia, uno dei nostri, Samuele Rizzoni, mentre guidavamo i carri in una zona paludosa, era caduto in una pozza di sabbie mo­bili. Samuele era un giovane vigoroso e noi avevamo riso del suo disappunto, prima, e poi del suo spavento, pensan­do che sarebbe uscito da solo da quello che a noi pareva un innocuo acquitrino.

Ben presto, invece, fu manifesta la terribile insidia: se Samuele rimaneva immobile, il fango lo inghiottiva lenta­mente; se, invece, tentava di sottrarsi alla voracit di quella bocca mostruosa, lo sprofondamento si faceva rapidissimo. Solo a stento riuscimmo a salvarlo.

Adesso, in quella mefitica cesta sospesa nel cielo, anch'io mi sentivo come Samuele. Se rimanevo, per cos dire, immobile, cio se accettavo di farmi schiavo di padre Utilperzio, mi sarei salvato dall'internamento nel lazzaretto. Ma per quanto, se ero malato? L'idea, poi, di dover rima­nere appeso a cardarmi la carne per placare un dio irato che non era il mio Dio (oh, dolce Cristo che perdonavi alle adultere e ai ladroni, insegnavi l'amore e piangevi sulla fine di Gerusalemme! ), questa prospettiva mi faceva orrore. Ma non accettare l'imposizione del Monaco che mi strin­geva a s avrebbe certamente significato provocare la sua collera, essere rimandato laggi dove il medico continuava, come l'Eterno Giudice nella valle di Giosafat, a separare i dannati dagli eletti.

Ma le preghiere di mia madre mi seguivano. Prima ancora che io fossi costretto a prendere una decisione, qual­ cuno da sotto grid a gran voce: La Dogaressa, padre! Arriva la signora Dogaressa! .

A quel grido, il Monaco mi lasci con un piccolo urlo di esultanza e si sporse a guardare in basso, verso la laguna.

Una grande scialuppa avanzava velocemente verso la nostra galea, sospinta da sei rematori. A prua sventolava, in un trionfo di rosso e di oro, lo stendardo con il Leone di san Marco. Drappi arabescati ricoprivano la cabina, a pop­pa, e scendevano dalle fiancate sino a lambire le acque. Ora le guance di padre Utilperzio erano arrossate per l'eccitazione: Ecco la mia candida colomba diceva pi a se stesso che a me. Ecco la prediletta fra le mie figlie spi­rituali che viene a purificare il suo cuore! Poi con voce imperiosa grid alla ciurma della nave-ospedale: Cala­temi! .

Soltanto allora mi accorsi che la cesta in cui il Monaco viveva era assicurata a una grande carrucola. Prestamente, con le sue mani grassocce, padre Utilperzio ne aveva sbloc­cato il meccanismo ed ora un gruppo di marinai prese a far scendere, con grande attenzione, l'abitacolo in cui ci trova­vamo. Passando accanto ai flagellanti, le cui voci erano or­mai fioche, il frate disse loro ruvidamente, e quasi, mi par­ve, con disprezzo: Potete scendere anche voi, per oggi basta . Contorcendosi con penosi gemiti, essi si sganciaro­no l'un l'altro le cinghie da cui pendevano e, dopo aver liberato i loro volti dai cappucci, cominciarono lentamente a calarsi gi per il sartiame.

La grande cesta fu fermata a circa un metro e mezzo dall'impiantito che reggeva le baracche, di modo che ora Utilperzio dominava la folla come da un pulpito. Con impa­zienza il Monaco si rivolse verso di me: Vattene, adesso. Ti cercher pi tardi. Mi guardai intorno e vidi che il medico e il gruppetto di persone che ancora rimanevano da esaminare s'erano spostati altrove. Saltai dalla cesta ma la curiosit mi trattenne un attimo a contemplare l'incontro fra Utilperzio e la moglie di Alvise Mocenigo, il condot­tiero della guerra di Cipro.

Dall'estremit del barcarizzo che dava accesso alla na­ve sino alla tribuna del Monaco, i gendarmi avevano aperto un varco tra la folla. In quel varco avanzarono solennemen­te, come in una cerimonia, ma con lo sguardo umilmente chino, due giovani gentildonne; dietro di loro venne la Dogaressa, avvolta in un velo nero che nascondeva, a delu­sione della folla plaudente, i suoi lineamenti notoriamente soavi. Loredana Mocenigo Marcello era alta, slanciata; e aveva fama di donna coltissima, particolarmente esperta in botanica talch qualcuno osava sostenere che si dilettasse nel produrre portentosi elisir d'amore.

Un piccolo moro in turbante, zimarra e babbucce dalle punte rialzate la seguiva, reggendo sussiegoso il lungo stra­scico del meraviglioso abito nero che doveva essere costato mesi di lavoro alle merlettaie di Burano. E intanto padre Utilperzio si profondeva in sorrisi, inchini, cenni di saluto e di benedizione. Ma quando la nobildonna gli fu davanti, il Monaco si drizz in tutta la sua statura e con aria mae­stosa le porse la mano. La Dogaressa baci devotamente quelle dita morbide e lerce, poi si inginocchi. A quel gesto, che confermava la santit e lo straordinario potere di padre Utilperzio, la folla torn ad applaudire. Poi, mentre le due dame di compagnia arretravano, si fece un grande silenzio. Cominciava il rito della Penitenza: la Dogaressa bisbigliava i suoi peccati, il Monaco era chino su di lei, a braccia con­serte, il cappuccio calato sugli occhi, in modo che il suo volto rimanesse nell'ombra.

Mi aprii lentamente un varco tra la folla, raggiunsi una botola che avevo gi notato sull'impiantito, la aprii; inosservato discesi nelle profondit della nave.

 

 


12

Non cercavo soltanto un nascondiglio per la mia li­bert. Cercavo anche un luogo che mi custodisse mentre tentavo di ritrovare me stesso dopo i terribili avvenimenti di quei mesi e le emozioni delle ultime ore.

Mi guardai intorno. Alla poca luce che filtrava da qual­che fessura nel fasciame, compresi dove mi trovavo e ne ebbi orrore e piet. Ero nei recessi in cui, in un passato sicuramente prossimo, centinaia di uomini disperati, fru­stati a sangue da spietati aguzzini, avevano, con la forza dei propri muscoli, sospinto la galea per mari lontani. Sotto lo stendardo con il Leone che regge il libro del­l'Evangelo, sotto i piedi di audaci marinai, intrepidi soldati, avventurosi mercanti, una povera umanit aveva sofferto, giorno dopo giorno, per anni. Incatenati ai loro remi, i ga­leotti non avevano mai conosciuto l'incanto del mare tran­quillo n l'emozione quasi afrodisiaca dell'approdo a porti sconosciuti n la gloria delle prue irte di alabarde. Per loro, il mare era una sterminata prateria da falciare incessante­mente, con sudore e sfinimento. Avevano patito le agone di tempeste e di battaglie, senza neppure forse averne sgo­mento, solo una sofferenza fisica in pi. Ogni otto ore s'era­no abbattuti nei cunicoli laterali per dormire o riposare co­me bestie da soma mentre altri compagni prendevano il loro posto. Che cosa avevano sognato su quei miseri giaci­gli? Il delitto o la sventura che li aveva dannati? O qualche immagine della vita perduta che poi, al risveglio, al con­fronto con la terribile realt, doveva essergli sembrata non un ricordo ma puro vaneggiamento?

Qua e l, sul legno delle pareti erano incise lettere esitanti, parole volgari, nomi di donna. Ciascuno di quegli stenti segni doveva essere intriso di lacrime di nostalgia o di rabbia; e anche nel mio cuore si accavallavano ora eguali sentimenti. Nel buio del ventre della nave, come Giona nel ventre del grande pesce, tesi le braccia verso il mio pas­sato. Rividi la piazza in cui avevo giocato nella mia infan­zia: vi si affacciava la mia casa, che aveva sopra l'architrave del portone una grande meridiana, quasi a simbolo dell'im­portanza della famiglia. Quando le campane della parroc­chia suonavano il mezzogiorno, mio padre usciva dal ma­gazzino a controllarla. Invariabilmente scopriva che il cam­panaro aveva anticipato il corso del sole e rideva della fretta di lui. Mio padre non aveva mai dubitato che l'errore po­tesse essere della meridiana, dell'inclinazione dell'asta, dei segni incisi sul quadrante. Ciascuno di noi ama sentirsi cer­to delle verit che possiede...

Ma di che cosa ero certo io, adesso? Figlio disperso, paesano sradicato, amante infelice, mercante senza pi mer­canzia n voglia di vendere, colpito da un morbo terribile, potevo ancora chiamarmi con il nome che mi avevano dato il giorno del battesimo? O, senza saperlo, ne portavo ormai un altro, incomprensibile e fatale, come quelli che Fransi­sca imponeva alle sue bambole?

Fui travolto da un senso di profonda piet per la mia sorte. Mi sembrava di essere un bambino vittima di un'or­ribile congiura, tutto il mondo e Dio stesso in armi contro di me. Forse anch'io, come pensava padre Utilperzio, avevo commesso, senza saperlo, un orribile peccato e dovevo espiarlo? Mi risposi: s, hai tradito tuo padre e tua madre, abbandonandoli, facendoli soffrire.

Nel buio fantasticai ad occhi aperti. Ero tornato al paese, ma il paese era deserto. Avevo salito le scale della mia casa, di corsa ma senza rumore. Avevo sospinto l'uscio della grande cucina. Mia madre era l, sola. Nessun suono veniva dalle altre stanze. Lei non aveva acceso il lume ed era spento anche il grande camino dal bel frontale di pietra simona. Con le mani in grembo, quasi le fossero ormai inu­tili, mia madre fissava il vuoto. A quale dei suoi figli pen­sava? A un ballo della sua giovinezza o a un vecchio che aveva pietosamente composto sul letto di morte? Non c'era sorriso sulle sue labbra n lacrime nei suoi occhi. Come di pietra, era, o di povero legno tarlato.

Restavo sulla soglia, incapace di chiamarla. Quella sua solitudine mi straziava. Avevo sempre saputo che, un gior­no, l'avrei abbandonata, almeno per sposarmi; e anche lei lo aveva saputo. scritto nella Bibbia: Perci l'uomo lascer suo padre e sua madre e si unir a sua moglie e i due saranno una carne sola. Ma adesso ero capace di pensare soltanto: Con lei sono gi stato una carne sola. Io la conoscevo prima di nascere, prima che io nascessi lei mi amava .

E tuttavia non potevo rientrare nel suo seno per es­sere nuovamente suo, perch lei fosse nuovamente mia. Lei era soltanto, ormai, una povera vecchia e il suo futuro era come l'ombra che entrava dalla finestra, sempre pi cupa, portando il freddo della sera.

Mi feci coraggio e la chiamai, piano: Mamma! . Lei non si volt. La sensazione di averla perduta per sempre fu cos amara che scoppiai in singhiozzi. Mentre piangevo, mi addormentai e sognai.

Quando io ero bambino, mio padre, orgoglioso del proprio successo economico, aveva chiesto a un pittore bre­sciano venuto ad affrescare la chiesa di Sant'Antonio di far­gli il ritratto e di farlo a mia madre. In pochi giorni il pit­tore aveva eseguito il primo quadro, permettendo a noi ra­gazzi di affacciarci silenziosamente alla porta del fondaco trasformato in studio, per contemplare il suo lavoro. Con sbigottimento, quasi con paura, avevamo visto comparire sulla tela, un po' alla volta, nostro padre, vivo: con il suo volto severo, i chiari occhi sottili vicinissimi alla radice del grande naso, il corpo reso pi massiccio dal pesante man­tello orlato di pelliccia, una mano posata sull'elsa della spada, l'altra piegata intorno a una lettera su cui si leggeva il suo nome.

Avevo odiato quel quadro e l'odiavo tuttora. A vedere mio padre in carne ed ossa, soprattutto quando, in certe sere, si addormentava con la testa sulle braccia, subito dopo cena, riuscivo a credere che, come assicurava la nonna, an­che lui era stato bambino. Ma l'uomo emerso dalla tela, stagliato fra tenebre notturne come l'Orco di certi sogni, definitivo nella sua immutabilit, quello era un personaggio che mi faceva paura, che mi ricordava busse e punizioni, una maschera su cui non si potevano supporre n sorriso n tenerezza. Il dipinto era fatto per questo, dopo tutto: per ricordare a chi guardava (e dunque anche a noi figli) che Bernardino Ronchi era un uomo da prendere sul serio...

Mia madre, lei si era rifiutata di posare. Sapeva di non essere bella e alle nostre proteste aveva replicato: Voi mi volete bene come sono, non vi accorgete neppure se sono brutta o no. Ma se il pittore mi facesse il ritratto, il quadro rimarrebbe in questa casa, per sempre. Vedrebbero il mio volto i figli dei vostri figli, bambini che non avrei tenuto in braccio, che non avrei fatto giocare, che forse non sapreb­bero neppure il mio nome. Lo vedrebbero le loro spose, lo guarderebbero sorridendo con piet e dicendo: "Ma che brutta nonna! ". Forse le donne incinte torcerebbero lo sguardo, timorose che nei figli potessero riemergere i miei lineamenti .

Mio padre s'era infuriato, mia madre aveva pianto, il pittore aveva lamentato l'offesa al proprio onore. Alla fine la donna e l'artista avevano trovato un accordo. Adesso, nella nostra casa, mia madre sorride lievemente da una grande tela. Del suo volto, il pittore ha riprodotto soltanto quel sorriso, gli occhi, la fronte. Il resto nascosto da un ramo di melograno che mia madre sembra porgere a chi guarda...

E l, nel baratro dei galeotti, mentre sopra di me la citt galleggiante era ormai avvolta dal tramonto, io sognai di vedere mia madre com'era in quel ritratto, con il volto notissimo a met coperto dal ramo di melograno che ora ella levava non come dono ma a difesa della propria segreta intimit. Sorridente e lontana, mi guardava gentilmente, quasi fossi un estraneo. Fu un sogno breve come un'appari­zione. Svegliandomi, rimasi immobile, quasi per trattenere quell'immagine e ripensarla.

Era la madre di cui avevo conosciuto l'utero e le mam­melle, che mi aveva dato il suo sangue e la sua carne: ma era anche lei persona, voglio dire che esisteva a prescindere da me, non mia madre soltanto ma Annetta Celeri, stata bambina e poi amante, con suoi sogni segreti e baci non miei e non per me, che s'era persa in altri occhi che quelli dei suoi figli, e aveva cantato altre canzoni che le ninna­nanne.

Non erano pensieri nuovi. Ricordavo di averli oscu­ramente nutriti di desolazione, bambino piccolissimo, quan­do mio padre, con quella che a me sembrava prepotenza da punire con la morte, esigeva di spartire mia madre con me o addirittura di portarmela via, nel segreto terribile del­la camera matrimoniale; e li avevo pensati con selvaggio dolore quando erano nati altri figli, pi piccoli e quindi pi amabili di me, tanto cattivo. Ma avevo sentito cos an­che da adolescente quando - malato o malinconico o scon­fitto nelle prime battaglie della vita - avrei voluto che mia madre fosse ancora onnipotente come mi era sembrata al­l'epoca della mia infanzia, allorch una sua carezza metteva in fuga - o rendeva dolcissima - ogni malattia, ogni paura; ma avevo dovuto scoprire che il suo affetto non mi basta­va pi.

Questa volta, invece, pensai questi pensieri con dol­cezza e quasi con solennit, come in un estremo congedo. Pensai che anche le nostre solitudini, la sua e la mia, erano vita; che un bambino non pu restare per sempre nel ven­tre della madre n la madre tenervelo, a meno di morire entrambi.

 

13

Fu una scoperta terribile perch definitiva: la spada di fuoco dell'evidenza mi cacciava per sempre dall'Eden di un'infanzia troppo a lungo protratta, mi spingeva verso una terra ostile, a guadagnarmi con fatica e dolore il rispet­to di me stesso e una pi autentica libert. Non era la con­danna per un peccato: la vita, non Satana, a costringere ciascuno di noi a crescere, a diventare simile a quegli dei di carne dal cui seme e dal cui utero siamo nati.

Compresi allora che sino a quel momento avevo do­mandato a tutti di amarmi come se fossi ancora un bambi­no. Anche l'insulto di Fransisca, quella sua accusa di esser­mi comportato da ragazzo chiudendo gli occhi davanti al dramma di folle innumerevoli, di essere fuggito dalla realt per saziarmi di carezze, non mi parve pi soltanto cattiveria. Conteneva una dura verit: invece di amare sin­ceramente Fransisca, di farmi responsabile della sua pena, di cercare di crescere insieme con lei, avevo preferito rin­chiudermi anch'io nella sua bolla di sapone. Anche a Fran­sisca, in fondo, avevo chiesto di farmi da madre, di addor­mentarmi nel piacere; e forse per questo, quella sera sul laig, mentre la sua piccola mano andava raggelandosi per il terrore, non ero stato capace d'intendere l'invocazione di aiuto che mi veniva dal suo presagio di morte.

S, era cos: e quando lei mi aveva lasciato non avevo pianto la perdita di una donna di cui avevo bisogno perch l'amavo, ma di una donna che amavo perch ne avevo biso­gno: come di una madre, appunto. E il vino ch'ero andato bevendo d'osteria in osteria era stato ricerca di latte matemo, e i letti delle prostitute nostalgia d'un utero che mi riparasse da ogni sofferenza; e la desolazione finale il lutto di un bambino che, abbandonato dalla madre, non vuole pi vivere in un mondo diventato improvvisamente senza tepore e senza luce.

Mi sembrava, adesso, di vedermi nitidamente, come in uno specchio. Mi domandai se persino l'orrore per il lazza­retto nascesse davvero soltanto dalla paura di morirvi nel­l'abiezione: o non anche, e forse soprattutto, dal sapere oscuramente che una parte di me era gi morta da tempo e il lazzaretto sarebbe stato l'occasione per far prevalere quella morte sulla parte viva di me, come in certe incisioni in cui si vede lo scheletro con la falce che trascina via, in catene, re e vescovi e soldati e contadini e donne.

Scoprii, insomma, che prima che il morbo assediasse Venezia e si iscrivesse nella mia carne, c'era gi una peste dentro di me: prima che mi si tumefacessero ascelle ed in­guine, era tumefatto il mio modo di amare (o di non ama­re) e di voler essere amato come se fossi il centro dell'uni­verso mondo. E compresi che solo a Dio potevo chiedere di amarmi cos, a lui che aveva mandato suo figlio per salvare ciascuno di noi; ma senza pretenderlo neppure da lui. Bi­sognava che imparassi ad accettare la solitudine, i miei li­miti, il dolore; che accettassi di perdermi; sta scritto anche nel vangelo: Solo chi perde la propria vita la salva.

Dopo queste riflessioni, non mi sentii meno sofferen­te; ma decisi che avrei affrontato con maggiore serenit le prove che mi attendevano. Forse la peste fisica, la paura, l'esperienza del dolore andavano guarendomi dall'altra pe­ste in cui vivendo morivo.

Ritrovai la botola che portava sul plancito e uscii nel freddo della sera.

E tu chi sei? Un bambino di circa dieci anni pone­va la domanda, guardandomi con sorridente curiosit. Lo teneva per mano un uomo giovane, dal volto affaticato ed energico: suo padre, non potevo dubitarlo a causa della somiglianza.

Chi sei? torn a domandare il bambino. Ma fu il padre a rispondere, e guardando me invece che il figlio: Questo disse quel figlio di puttana che mi sfuggito stamani con l'aiuto di quel grandissimo figlio di puttana che la Bestia Utilperzio.

Che voleva dire? Poi, di colpo, compresi: quell'uomo era il medico che, la mattina, avevo visto chiuso nel suo scafandro e cui ero riuscito a sottrarmi. Tutto avevo pen­sato, allora, tranne che sotto l'orribile maschera potesse ce­larsi un uomo giovane e, tanto meno, una persona capace di nutrire affetti e sentimenti...

Il dottore se ne stava col suo bambino sulla soglia di una baracca che era evidentemente il suo laboratorio e il cui interno era vividamente illuminato. Adesso mi av­vert puoi scegliere: o farti visitare buono buono o aspet­tare che io chiami i gendarmi ; e me ne indic due che stavano nei pressi chiacchierando placidamente, come tante altre persone fra baracca e baracca.

Al suo cenno, lo seguii nella stanza, mi denudai, at­tesi con rassegnazione la mia inevitabile condanna. Non venne. Quando il medico mi disse che potevo rivestirmi, rimasi a lungo come inebetito, poi esaminai incredulo il mio corpo: le tumefazioni che vi avevo visto la notte preceden­te erano scomparse...

Credo che impallidii e poi arrossii violentemente per­ch il medico mi disse subito: Credevi di essere malato, non vero? . Assentii mentre il cuore mi batteva forte. Beh, per il momento ti sei sbagliato. Va' pure. Dove? domandai umilmente. Lui guard in alto: lass sulla coffa, il Monaco, come un enorme calabrone, si moveva intorno a una lanterna. Non vuoi raggiungere il tuo protettore? domand il medico. Meglio la peste risposi. Gi disse lui rabbiosamente. Meglio la peste. Perch la peste, un giorno, si riuscir a vincerla, mentre la superstizione vivr sino alla fine del mondo. Solo Cristo, tornando, la stron­cher: quanti altari, allora, saranno rovesciati e quanti ere­tici saliranno in cielo!

Sembrava parlare a se stesso. Poi torn a guardarmi, questa volta con simpatia: Dunque, per te, niente angeli con la frusta. E invece, magari, hai fame. Siedi, siedi: ben­venuto nella nostra casa.

 

 

14

Quella notte vegliai a lungo con Zeno Sartirana, il medico. Non so quale impulso lo spinse a confidarsi con me: forse il mio risoluto diniego a seguire padre Utilperzio o forse il dolore di cui mi sentiva carico. Egli stesso soffriva, lo intuivo. Era un uomo solo, reso tale - mi pareva - non da personale inclinazione ma dalla propria professione che, in quel periodo, aveva assunto cos sinistra impronta.

La presenza accanto a lui di un figlio bambino, ma non di una moglie, mi faceva pensare a qualche dramma fami­liare sul quale non mi sembr lecito avanzare domande.

Mentre ogni brusio si spegneva nella citt galleggian­te, e il piccolo, Veniero, dormiva accanto a noi, il medico volle che io gli raccontassi la mia storia. La ascolt con ri­spetto, ma rise quando gli dichiarai che pensavo di avere ricevuto un miracolo: Niente miracolo >> disse. C' chi, per sopravvivere, ha bisogno di credere di essere malato, un po' come il mendicante che si finge zoppo o cieco per impietosire la gente. Naturalmente il finto malato di cui parlo non un truffatore, un uomo dabbene e magari un santo: solo che, senza accorgersene, spera che, inscenando una bella malattia, otterr che la gente gli voglia pi bene. E cos ecco uno con l'asma e l'altro con l'eczema e il terzo, riverito signor mio, con una peste che non peste. Al mo­mento del dunque, poi, quando si tratta di soffrire davvero, qualcuno improvvisamente ci ripensa, come hai fatto tu, e consente alla propria natura di togliersi la maschera; qual­cun altro, invece, non ci riesce perch il tristissimo gioco durato troppo a lungo e sotto la maschera non c' pi un volto; o la gamba mantenuta rigida si anchilosata. Laggi nel lazzaretto, io penso, devono essere entrate decine e de­cine di persone che della peste avevano soltanto un si­mulacro...

Tacque a lungo, movendo fra le mani, pian piano, il bicchiere di vino al quale non aveva ancora posto le labbra. Poi riprese, senza pi sorriso: Anche la superstizione fa tante vittime. $ per questo che odio il frataccio che sta lass. Convincendo la gente che il Signore vuole punirci tutti, Utilperzio e i suoi simili finiscono per convincerla che peste eguale a volere di Dio, e dunque sanit e medicina sono ribellioni al Sommo Giudice, bisogna pentirsi e non curarsi, e quasi cercare il contagio...

Maledetti cialtroni! Hai mai visto, su qualche spiag­gia, uno di quegli insetti chiamati coleotteri stercorar ? So­no una specie di scarabei che non appena trovano un escre­mento lo trasformano in piccole sfere che poi sospingono golosamente nelle proprie tane. Ecco: Utilperzio e tutti i frati e i preti come lui tesaurizzano lo sterco morale del mondo, si ingrassano delle paure, del bisogno di magia, dell'ignoranza della povera gente. Qualcuno di loro lo fa per soldi, come quelli che vendono formule e medaglie mi­racolose; qualcuno lo fa perch egli stesso schiavo della superstizione: lo sai che a Venezia stanno distribuendo in questi giorni, con l'assenso dell'eminentissimo Patriarca, l'acqua risanatrice di una fonte benedetta nientepopodime­no che da san Sebastiano? Ma i pi, come Utilperzio, lo fanno per smania di potere. Se essi possono davvero ferma­re, incanalare o distribuire l'ira del Cristo, allora essi stes­si sono dei piccoli cristi: e la gente, un po' per terrore della peste, un po' per credulit e un po' perch non si sa mai, gli bacia le mani e si piega al loro volere.

I nobili li proteggono. Oh no, gli eccellentissimi non credono in altro che nel proprio privilegio, ma chi proclama che la Terra una valle di lacrime abitua il popolo a non ribellarsi alla propria sorte e quindi un loro naturale al­ leato. E le pie mogli degli eccellentissimi (hai visto la Do­garessa?) hanno bisogno dell'aiuto di sacerdoti di quella specie per conciliare il diavolo e l'acqua santa: il lusso e l'adorazione della croce, la schiavit e la legge dell'amore, la pigrizia mentale, il lassismo dei costumi e la speranza che la loro ricchezza si prolunghi al di l della morte. In cambio di una "fede di sanit" spirituale da esibire a san Pietro, rinforzano il prestigio di quelle bestie tonsurate...

Ma neppure la Scienza pi nobile continu amara­mente. Prendi per esempio un grande studioso veronese, Alessandro Canobbio, al quale molti domandano reverente­mente consiglio. Fuggendo nelle loro ville sul Brenta, senza tollerare di sottoporsi ad alcun controllo, i nobili veneziani hanno portato la peste in tutta la marca padovana. Le au­torit della zona, e pi ancora i popolani, hanno protestato vivacemente. Che ha detto, allora, e scritto, l'esimio Ca­nobbio? Che quelle accuse erano infami e sciocche. E sai perch? Perch, dice, i nobili sono i padri dei poveri: e quando mai s' visto un padre fare del male ai propri figli?

E leggi, leggi quest'altro gran dottore! No, aspetta, lasciami divertire. Ascolta: "I salassi della peste sono opera della natura la quale, a guisa del buon medico che apre le vene a quei che sono troppo sanguigni, opera una bene­fica purgatione in una citt dove ormai il popolo sopra­modo cresciuto. La volont divina ha permesso una simile moria affinch si liberi il mondo di scellerati e se pure nella generale mortalit scompaiono anco de' buoni, questi la bont d'Iddio leva dalle miserie del mondo per condurli a vita santa". Dunque: viva la peste che depura la Domi­nante dall'eccesso di sangue plebeo! E i poveri se ne stiano cheti nella loro miseria: qui hanno la Serenissima che li salva dalla fame, quel tanto che basta perch lavorino; e di l hanno il buon Dio!

Cos ragionano, o fingono di ragionare, i nobili e i dotti! Puttane, amico mio, puttane. E bestie. E vili. Pi della met dei miei colleghi sono fuggiti da Venezia; e, co­ munque, a Venezia o in Terraferma, cercano la risposta al morbo sui vecchi libri piuttosto che sull'osservazione del malato e dei modi con cui il contagio si diffonde. Eppure dovrebbe essere chiaro che non nei libri dei maestri del­l'Antica Grecia che troveremo aiuti contro ci che i maestri dell'Antica Grecia non hanno conosciuto; tanto meno ci serviranno le ricette elaborate da chi, invece di guardare la realt, ci filosofeggia sopra...

Forse perch il padre aveva alzato un po' la voce, il bambino si agit inquieto sul suo giaciglio, lamentandosi come in preda a un incubo. Il dottore corse presso di lui, lo carezz sulla fronte, gli parl con dolcezza. Quando Ve­niero si riaddorment, Zeno Sartirana mi guard con occhi stanchi e disse: Povero bambino, sua madre al laz­zaretto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

15

La moglie del dottor Sartirana era stata portata via dalla propria casa una mattina, mentre egli visitava i ma­lati del sestiere. Da tre giorni il medico temeva che ella fosse contagiata e le aveva chiesto di rimanere isolata nella sua stanza: Non so che cosa avrei fatto mi confess quando mi fossi accorto che era veramente appestata. Ma qualcuno ha deciso per me, deponendo una lettera ano­rima in una di quelle "bocche delle denunce contro la sanit" che il Consiglio dei Dieci ha fatto collocare un po' dovunque. I reggitori di Venezia conoscono bene l'animo umano: la paura, l'invidia, la garanzia del segreto fanno s che ormai la citt formicoli di probi cittadini che aiutano il governo a sequestrare i malati. Saggezza e ignominia si confondono: si salvano i corpi e si dannano le anime, inse­gnando l'ipocrisia e favorendo, anzi aizzando, la malvagit... D'altronde vero che mia moglie era ammalata; ed anche il segreto ha un senso: se la denunzia non fosse stata ano­nima, io avrei ucciso la spia. Forse non per me: ma per la scena terribile che ogni notte Veniero torna a vivere.

I picegamorti avevano bussato alla casa del medico. Appena giunti da Vicenza, lui ancora agli inizi della profes­sione, i Sartirana non avevano domestiche. Veniero, fidu­ciosamente, aveva aperto: quattro o cinque uomini erano entrati, gli avevano chiesto brutalmente dove fosse sua ma­dre. Terrorizzato da quelli che aveva scambiato per banditi (non commettendo, del resto, un grande errore), il bambi­no era stato incapace di rispondere. Lo avevano scosso vio­lentemente, malmenato. Poi la signora Sartirana era com­parsa sulla soglia della sua stanza: pallida, sommariamente vestita, ma con un sorriso sulle labbra. Senza avvicinarsi al bambino, gli aveva detto: Questi bravi signori sono ve­nuti per portarmi in un'isola bellissima dove guarir dalla mia malattia. Torner presto. Adesso, da bravo, va' in cer­ca di tuo padre. Ma Veniero era svenuto; e cos il padre lo aveva trovato rincasando poco dopo.

Mentre il dottore parlava, io guardavo suo figlio, che ora dormiva serenamente e, nella penombra della stanzetta, mi sembrava del tutto eguale a tanti altri bambini che ave­vo visti straziati dal dolore: a quello che, un anno prima, lavorando a lungo con rabbia e con delicatezza, avevamo estratto da una frana che aveva inghiottito tre case di Astrio: biondo, col visino rigato di sangue, abbracciato a una sorellina, morta anche lei; al mio coetaneo Stefano Bale­strini che, quando avevamo otto anni, avevo visto arrossato da una terribile febbre, smaniante: e adesso, povero schele­tro vestito di nero, siede nel brolo della sua casa, scosso da un tremito senza fine, muto, demente; ai piccoli orfani che negli anni delle carestie o negli inverni pi gelidi ci accade talvolta di trovare morti in qualche fienile; ai bambini tra­volti dalle guerre, atterriti, mutilati, massacrati... E mi do­mandavo, ancora una volta: perch gli innocenti debbono soffrire? E' una domanda alla quale, credo, nessuno pu dare risposta su questa Terra: ma nell'aldil Ges Cristo dovr pure fornircela, se vorr che siamo pienamente fe­lici nel suo paradiso; e se dovesse limitarsi a mostrarci le piaghe della sua crocifissione, noi gli grideremo: Ma tu, almeno, eri un uomo ma tu, almeno, sapevi il perch! ...

Dopo la crisi di furore e di desolazione per l'interna­mento della moglie, per poterle stare vicino il dottor Sarti­rana aveva pensato di offrire i propri servigi al lazzaretto; ma, non sapendo a chi affidare Veniero, specie nella situa­ zione di terribile turbamento del bambino, aveva poi chie­sto, e subito ottenuto, poich rari erano i medici disposti a mettersi al servizio delle autorit, di venire sull'ospedale galleggiante: qui il rischio per lui e per il bambino non era, tutto sommato, maggiore che nella loro casa, gi visitata dalla malattia; e, inoltre, come dipendente dello Stato, il dottore poteva recarsi al lazzaretto in visita alla moglie. Disse che c'era stato anche pochi giorni prima e che, grazie al Cielo, ella sembrava ormai sulla via della guarigione. Ma chi ci guarir da tanto dolore sofferto? domandava amaramente il medico. Chi canceller i ricordi di Veniero? Vi sono notti in cui, dopo aver visto il mio bambino con­torcersi nell'incubo, non riesco ad addormentarmi perch l'odio mi rode il cuore. Poi mi dico: forse chi ha deposto la denunzia credeva di fare del bene, ed effettivamente pro­teggeva se stesso e gli altri dal contagio; forse era un po­vero infelice che viveva accanto a noi e che, chiss perch, era invidioso della nostra piccola felicit. L'invidia, amico mio, un veleno terribile, una specie di camicia di Nesso che divora le carni come un fuoco rabbioso e inestingui­bile: nasce, io credo, pi che da cattiveria, da una avidit d'amore che nessuno ha saziato: la collera del bambino affamato che vede la madre allattare il fratello pi piccolo e gli pare che non si curi di lui. O forse chi ci ha fatto del male una persona alla quale io, a causa della mia profes­sione, ho provocato un dolore simile al mio, dichiarando contagiata qualche persona che gli era cara... Allora mi con­fondo, e anche il mio odio sbiadisce. Vedi, Guerino, se si comincia a riflettere, difficile non soltanto trovare qual­cuno veramente colpevole ma addirittura giudicare qual la ragione e quale il torto. Forse per questo che Nostro Signore non rispose a Ponzio Pilato che gli domandava che cosa fosse la verit...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

16

 

Mi risvegliai con la curiosa sensazione di essere in una chiesa, in mezzo a una folla che pregava. Aperti gli occhi, subito compresi che sull'ospedale galleggiante era comincia­ta la liturgia del mattino. Zeno e Veniero Sartirana dormi­vano ancora, io mi levai silenziosamente e uscii all'aperto. Tutti gli spazi fra le baracche erano gremiti di gente. Nello stesso slargo in cui il giorno prima avevamo atteso la visita del medico, adesso era stato portato un altare sul quale un giovane prete, biondo, dalla fisionomia quasi an­gelica, stava celebrando la messa. L'altare era di legno, ma splendido per dorature ed intagli. Mi colp profondamente il contrasto fra la provvisoriet e la precariet dei nostri alloggiamenti (e della nostra stessa sorte) e la perfezione di quell'opera in cui l'arte appariva figlia devota della fede. Quando, terminata la messa, l'altare fu spogliato della can­dida tovaglia, potei vedere che, bench sembrasse massic­cio, esso era in realt scomponibile in pi parti, in modo da poter essere rimosso e riposto in piccolo spazio. Seppi pi tardi che lo aveva costruito un celebre artigiano di Rio Terr, Arnaldo Bottegal, durante mesi di lavoro. Lo aveva portato con s sulla galea, quando vi era stato internato; e quando poi il morbo si era manifestato, aveva chiesto e ottenuto di poter rimanere ancora qualche ora per ultimare le dorature. Alla fine, si era lasciato cadere quasi esanime; ed era morto poco dopo essere stato trasportato al laz­zaretto.

Celebrata la messa, il prete, che aveva una voce forte e profonda, chiese alla folla di non disperdersi. Diede alcune notizie sulla distribuzione dei viveri e dell'acqua che, come ogni mattina, sarebbero giunti da Venezia; poi ag­giunse che poco prima aveva ricevuto un rapporto assai triste dal Consiglio dei Dieci: non solo il numero dei malati e dei morti andava crescendo sia nella Dominante che in Terraferma ma le autorit si erano viste costrette a isolare l'intero sestiere di Cannaregio perch il morbo vi infuriava con particolare virulenza. Concluse il sacerdote: Su questa nave che trasformata non solo in ospedale ma anche in una specie di convento, poich tutti vi stiamo in clausura, noi non possiamo che pregare. Facciamolo con ardore: per le nostre famiglie lontane, per i poveri appestati, per chi li assiste, per i medici che cercano di trovare rimedio alla malattia . E inton con voce commossa il De profundis . Dalla sua cesta padre Utilperzio grid qualcosa che io inter­pretai come Per i medici no, per i medici non si deve pregare! ; ma il salmo, ormai, era stato ripreso da cento e cento voci, passava dalla nostra alle altre galee:

Dagli abissi ti bo chiamato, Signore. Signore, ascolta la mia supplica.

Mentre l'inno si spandeva sopra di noi come il volo d'uno stormo di uccelli sfiniti da un lungo viaggio, la fo­schia nascondeva la riva e la citt, e le galee dondolavano. Era facile immaginare che le navi, anzich alla fonda, si trovassero in mare aperto, flotta dispersa da una burrasca o devastata da una battaglia. Ancora una volta ripensai a mia madre, alle sue orazioni serali in cui non mancava, pur se lei non aveva mai visto il mare, un'invocazione di aiuto per i naviganti.

Dopo la preghiera, il dottor Sartirana mi present al prete, don Battista Fiore, che sulla galea non aveva soltanto incarichi di cappellano ma anche di Priore, e cio di sovrin­tendente. Fui immatricolato sui registri dell'ospedale e ap­presi che sarei stato sottoposto a visita di controllo ogni tre giorni. Con una cortesia che mi commosse, il medico avvis che avrei alloggiato nella sua stanza. Poi, mentre rivestiva il suo tormentoso scafandro per cominciare le visite, il dot­tore mi affid a Veniero perch mi guidasse in una visita alla nave: Non mostrarti troppo sul ponte mi consigli il medico. Ricordati che la Bestia, lass, attende ancora una tua risposta. Sorrisi, ma rabbrividendo, poi, preso per mano da Veniero, mi inoltrai per' i meandri di quella singo­lare citt: Per prima cosa disse allegramente il bambino andremo a trovare il pittore delle Madonne .

La gente era divisa nelle baracche per sesso o per gruppi familiari. Solo i preti e, come avevo visto, il medico, avevano diritto a una propria abitazione, se cos si poteva chiamare una cella di assi inchiodate. L'unica altra persona cui fosse concesso analogo privilegio era Zoanin delle Ma­donne , il pittore di cui nessuno conosceva, n si curava di conoscere, il cognome.

La sua stanza era piena di tele accatastate, di barattoli di colore, di pennelli, di stracci. Alcuni dipinti stavano ad asciugare, appesi alla porta della baracca. Zoanin era un nano: aveva una grande testa, la fronte convessa, il naso schiacciato, una barba ispida a chiazze grigie e nere, mac­chiata qua e l di colore. Le braccia erano cortissime, come le gambe: il torace ampio e muscoloso. Sedeva su un piccolo sgabello, dal quale si alzava ogni momento per controllare, alla distanza, l'effetto delle sue pennellate. Quel continuo sali-e-scendi lo faceva assomigliare a uno di quei grotteschi giocattoli automatici che certi suonatori ambulanti esibisco­no ai passanti; e il modo di dipingere velocemente, quasi freneticamente accentuava questa somiglianza.

Come potei facilmente constatare, i suoi quadri erano tutti eguali. Nella parte superiore sinistra della tela, un Ges dal volto corrucciato scagliava una manciata di frecce sulla citt di Venezia. Un poco in basso, a destra, una Ma­donna dal volto fiorente di contadina stendeva fra i dardi e la citt un lembo della propria veste. Nei dipinti mutava soltanto il colore degli abiti della Vergine: quello che Zoa­nin andava ultimando era di un tenero rosa gremito di fiorellini.

Splendido lavoro! disse al mio orecchio una voce profonda. Mi voltai. Un uomo sulla cinquantina, alto, ma­gro, vestito di nero, un gran naso aquilino, mi guardava con occhi penetranti: Permettetemi di presentarmi. Sono don Cesare Fanelli, ex prete per insensato errore del nostro buon Patriarca, comunque sempre dottore utroque jure. Attualmente, confinato dalla sorte su questa nave, mi onoro di essere socio dell'artista. Voi avete un ottimo aspetto, signore, la peste vi ha dunque risparmiato: non vorreste acquistare un quadro da donare come ex voto alla vostra parrocchia? .

Mormorai, un po' imbarazzato, che ero appena arriva­to sulla nave, cominciavo appena adesso la mia quarantena e, oltre a ci, temevo di non avere il danaro necessario per l'acquisto di un dipinto. Non mi direte che non avete tre ducati per far vostra un'opera d'arte che ne vale dieci volte tanto! esclam don Cesare con profonda meraviglia. Ep­pure i vostri modi vi qualificano per gentiluomo! Mentii tranquillamente, da buon mercante che sa riconoscere gli imbroglioni: Ahim, sono del tutto squattrinato! . Brut­ta cosa, la povert! sentenzi l'ex prete. Lo so bene aggiunse per tristissima esperienza. Ma consoliamoci, fra­tello: dei poveri il Regno dei Cieli.

Mentre cos parlavamo, fummo raggiunti da una pic­cola folla: uomini, donne e bambini. Gli uomini, che erano cinque e avevano volti che splendevano di felicit, vennero verso di noi: Abbiamo appena ricevuto dal medico le "fedi di sanit per noi e per i nostri familiari disse il pi anziano a don Cesare e stiamo per tornare a Venezia. Vorremmo comprare un quadro da Zoanin. Potete aiu­tarci? .

Don Fanelli si mise un dito sulle labbra, a implorare silenzio: Voi non sapete quanto sia irascibile un artista se lo si disturba mentre lavora. Fortunatamente io so come trattare Zoanin. Attendetemi un po' in disparte, vedr di convincerlo .

Mentre i cinque uomini si ritiravano intimiditi, l'ex prete si avvicin al nano e gli parl a lungo, senza ottenere, mi parve, altra risposta che qualche grugnito. Alla fine, tor­n dicendo: Come prevedevo, Zoanin ha gi venduto tut­te le sue tele a un gruppo di sacerdoti e di mercanti che torneranno a Venezia domattina. Tuttavia, per mia inter­cessione, acconsente a dipingerne un'altra quest'oggi e cos voi potete prendere uno dei quadri gi asciutti. Sono otto ducati per lui e due per la mia mediazione.

Un'ombra di sospettosa avarizia (o di buonsenso) ve­l per un istante la felicit dei cinque. Tuttavia, dopo aver parlottato fra loro, ognuno offri qualche moneta e il gruz­zolo fu consegnato a don Cesare. Egli stacc una tela dalla porta della baracca e gliela porse con grande sussiego: Non una parola con altri, per quanto riguarda il prezzo! intim. Zoanin ha voluto partecipare alla vostra gioia fa­cendovi un grosso sconto. Saluti cerimoniosi furono scam­biati, poi, mentre gli acquirenti se ne andavano tenendo alta la tela come se fosse lo stendardo della loro rinnovata fiducia nella vita, l'ex prete torn a rivolgersi a me: Dieci ducati: niente male per un quadro che documenta l'impaz-zimento della teologia.

Lo guardai meravigliato. Credete che esageri? do­mand don Cesare. Ebbene, osservate, caro amico: c' dunque questo Cristo che pare una versione effeminata del grande Giove Tonante e che, con la collericit di quel dio pagano, perseguita le stesse persone per cui morto sulla croce. Poi c' la Madonna, l'obbedientissima, ecce ancilla Domini. E che fa? Vanifica l'azione del Figlio, come se questa azione (e dunque Dio stesso) fosse ingiusta e insensata...

Avrebbe proseguito a lungo, certamente, un discorso che sembrava appassionarlo se, a questo punto, Zoanin non si fosse levato sulle sue gambette storte in preda a una vera crisi di furore: Cancheri di gran dottori, cominci a gri­dare il nano che non capite un'ostia n del cielo n della terra! Quando io ero bambino e facevo delle mascalzonate, mio padre, che pure mi voleva un gran bene, poverino, mi bastonava e aveva ragione di farlo. Ma la mia mamma si parava fra il suo bastone e il mio sedere, a rischio di pren­derle lei, perch ci voleva bene, a me e a lui, e non voleva che, dopo, fossimo tristi. E Cristo, secondo voi, dovrebbe essere meno giusto di mio padre? E la Madonna meno buo­na di mia madre? Andate via, grandissimi rompiballe, e lasciate che l'artista lavori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






17

Nei giorni che seguirono e che stranamente rimangono nella mia memoria come un periodo di serenit, andai ren­dendomi conto che la galea aveva tutte le caratteristiche d'un paese quando, d'inverno, i contadini sono costretti a rimanere oziosi e la neve impedisce anche i viaggi di noi mercanti. Le mille persone che vivevano a bordo, e che si avvicendavano secondo ritmi assai lenti poich la quaran­tena durava almeno tre settimane, non avevano altro da fare che pregare ed esaminare ansiosamente, pi volte al giorno, il proprio corpo e quello dei familiari per rassi­curarsi che non vi fossero emersi i segni del terribile morbo. Ridotte - se si escludevano alcuni artigiani e le madri di famiglia - alla pi totale inattivit, non c'era da meravi­gliarsi se inclinassero al gioco d'azzardo, alle tresche amoro­se, ai litigi e ai pettegolezzi. Se tuttavia il gioco veniva re­presso dai gendarmi e le conclusioni carnali delle passioni erano impedite dalla mancanza di luoghi isolati, le chiac­chiere, quelle non poteva fermarle nessuno. E, con le chiac­chiere, il fermentare di vere e proprie fazioni.

C'erano i pii, i mansueti, o pi semplicemente i galan­tuomini e le donne assennate, che si sforzavano di vivere decorosamente e di conservare alla nave-ospedale le sue ca­ratteristiche di luogo triste ma senza orrori. Queste persone facevano capo quasi naturalmente a don Battista Fiore, pre­te generoso ed equilibrato, propenso a stimolare in tutti l'attenzione per la dignit di ognuno e per il bene comune piuttosto che ad applicare i rigidissimi regolamenti emanati dal Consiglio dei Dieci per i lazzaretti.

E c'erano i fanatici che andavano purtroppo crescendo di numero man mano che le notizie sulla diffusione del morbo si facevano sempre pi tragiche. Travolti dalla paura, non solo della morte fisica ma anche di quella spiri­tuale, convinti pi che mai che la peste fosse un flagello mandato da Dio per punire la cristianit dei suoi peccati, essi trovavano in padre Utilperzio un pungolo che inces­santemente acuiva i loro sensi di colpa e dettava loro un moralismo che li spingeva a vedere ovunque nemici di Cristo. Se soltanto pochi avevano il coraggio (o la follia) di unirsi alla misera brigata dei flagellanti e di salire ogni giorno il calvario inventato dal frate, molti altri - uomini e donne - seguivano, affascinati, con una specie di lugubre avidit, le concioni di Utilperzio. Tutti i pomeriggi, egli or­dinava a gran voce che la sua cesta fosse calata e predicava per ore davanti a una folla crescente. Le sue parole, cos suggestive per la collera che le infiammava, si udivano su tutta la nave.

Il risultato di questo indottrinamento era una rottura sempre pi manifesta dei seguaci del Monaco con la disci­plina dell'ospedale galleggiante, un aperto rifiuto delle nor­me igieniche e quindi anche un appena larvato disprezzo per don Fiore e una plateale detestazione per il dottor Sar­tirana. Non c'era dubbio, per i flagellanti e i loro amici: chi non apparteneva alla loro fazione non era un vero cristiano e perci attirava su tutti la maledizione di Dio.

C'erano infine, com' inevitabile l dove centinaia di persone sono raccolte (e tanto pi in cos penoso affolla­mento e con cos grande ansiet per la sorte di s e dei propri cari), uomini e donne che parevano inebetiti o pri­gionieri di una loro follia, tranquilla o furiosa; e veri e propri mascalzoni e femmine di malaffare e ubriaconi: tutta una fauna umana che di solito si tiene ai margini della civile convivenza ma che qui si trovava fatalmente gomito a go­mito con chi seguiva volentieri le norme del buon vivere. A seconda del proprio temperamento, quei disgraziati oscillavano fra l'abulia e la rissost; e finivano per fare da con­trappeso, volta a volta, tra il partito di don Fiore e quello di padre Utilperzio.

Il Priore capiva perfettamente, io credo, il pericolo che veniva dal Monaco ma disponeva di scarsi mezzi per fermarlo. Le frequenti visite della Dogaressa, di altre dame

e di non pochi nobili rinforzavano il potere del frate, lo rendevano evidente ai gendarmi e al personale dell'ospedale cosicch don Fiore, dopo avere inutilmente ammonito e supplicato Utilperzio sulle conseguenze della sua predica­zione, non aveva poi, di fatto, potuto n impedirla n limitarla.

Penso che, in cuor suo, il Priore finisse per chiedere a Dio che il pi folle dei progetti presentati da padre Util­perzio al Consiglio dei Dieci per il tramite delle sue patro­nesse potesse realizzarsi. Il Monaco, una sera, aveva an­nunziato di avere chiesto che alla galea fossero ridati rema­tori e vele, in modo che potesse riprendere la navigazione, costeggiare l'Italia e forse altre terre, con un carico di peni­tenti che si ingrossasse ad ogni porto: un'isola navigante di veri cristiani, un'anticipazione di quel Regno di Dio che Utilperzio vedeva dominato dal disprezzo per la carne.

A contrastare il Monaco e i suoi adepti non erano pe­r soltanto don Fiore e il dottor Sartirana ma anche don Cesare Fanelli e Zoanin delle Madonne. L'ex prete era obli­quo e feroce nella sua ironia: bench la sua situazione cano­nica fosse tanto delicata (il che significava che lo era anche la sua situazione sociale), don Fanelli godeva di grande ascendente presso le persone pi colte che si trovavano nel­l'ospedale galleggiante e che finivano per considerarlo ap­partenente al loro gruppo; e anche molti popolani, che lo vedevano stimato dai signori e spesso intento alla lettura di una Bibbia stampata (che il Monaco non possedeva: per cui le sue citazioni delle Scritture erano frequentemen­te, come don Fanelli dimostrava, monche o stravaganti), fi­ nivano per subire il suo fascino. Egli ripeteva che il Dio di padre Utilperzio non era quello misericordioso del Nuovo Testamento; e neppure quello dell'Antico, che per bocca dei profeti aveva proclamato di essere sazio, anzi disgusta­to, di sacrifici e chiesto di essere onorato con atti di bont e di giustizia.

Non tocca a un prete rimosso dal suo ministero di­ceva don Fanelli insegnare com' il vero Dio. Ma i profeti sono certamente pi grandi di un monaco che ama starsene lontano dalla gente e parlare dall'alto.

Si mai visto quel frataccio occuparsi di un appe­stato? gridava Zoanin delle Madonne, abbandonando per un attimo le sue amate tele. Ha mai dato prova di carit? Persino quelle specie di braciole sanguinolenti che sono i suoi incappucciati, se si ammalano, le lascia partire per il lazzaretto senza neppure un saluto. E lui, poi, lui si guarda bene dal flagellarsi... Se il suo cristianesimo, voglio farmi maomettano!

Nonostante il riserbo del Priore e del dottor Sartira­na, le liti e l'animosit fra le due fazioni andavano aumen­tando ed era facile prevedere che si sarebbe giunti a qual­che esplosione di furore. Meno facile, o addirittura impos­sibile, era invece prevedere che il dramma sarebbe stato di cos terribili proporzioni quale poi lo vivemmo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

18

Era il 2 giugno e una soffocante coltre di calura era scesa sulla laguna. L'afa, lo scoramento per le notizie che giungevano da Venezia, il continuo infoltirsi del numero delle persone, che, giunte sulla galea per la quarantena, ve­nivano scoperte malate, tenevano la popolazione dell'ospe­dale galleggiante in una cupa angoscia. Quel giorno persino la liturgia del mattino era stata insolitamente breve e, per la prima volta da che mi trovavo sulla nave, padre Utilper­zio, dopo avere a lungo confabulato con loro, aveva esen­tato i flagellanti dal loro supplizio.

Questa atmosfera, cos simile a quella che precede i temporali e che ci fa spesso impauriti da tristi, incompren­sibili presagi, fu rotta per me e pochi altri da una gioiosa notizia: il dottor Sartirana torn dal lazzaretto annunziando che entro la settimana sua moglie avrebbe ricevuto la fede di sanit e Veniero, dopo tanto patire, avrebbe finalmente riabbracciato la madre. Con altri amici giurai che, a costo di saccheggiare la dispensa della nave, avremmo organizzato una gran festa; e Zoanin delle Madonne ci commosse pro­clamando che la sua prossima Beatissima Madre di Dio avrebbe avuto il volto della signora Sartirana.

Ma se tu non la conosci nemmeno! scherz il me­dico. Mia moglie potrebbe essere bruttissima! No, si­gnor dottore! grid subito il nano. Un uomo come lei non pu avere sposato che una donna con una luce dentro. E Veniero corse ad abbracciarlo.

Subito dopo la refezione serale, mentre, finalmente, un po' di brezza mitigava il tormento della calura, il Mo naco annunzi gridando che aveva un messaggio da comu­nicare a tutti gli ospiti della nave. Si capi subito che si sarebbe trattato di cosa importante: i flagellanti, infatti, ri­vestirono le bianche tuniche che solitamente indossavano solo la mattina, abbassarono i cappucci sui visi e percorsero la nave suonando certi campanacci che non avevano mai usato prima.

Quando tutti fummo usciti dalle baracche, padre Util­perzio ordin che la sua cesta venisse calata di una decina di metri, di modo che la sua voce giungesse meglio a noi e, nello stesso tempo, egli ci sovrastasse come un nume. Due dei suoi discepoli, muniti di torce, salirono sul sartiame ai suoi fianchi, illuminando il suo viso che ci sembr un te­schio, dominato com'era dalle grandi occhiaie e dalle rughe che gli tendevano la bocca.

Di tutte le persone ch'ero andato conoscendo sulla cit­t galleggiante solo don Fiore mancava: come sempre quan­do il Monaco predicava, il Priore rimaneva chiuso nella propria cella in segno di dissenso.

Cos parl padre Utilperzio.

Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Del Padre che distrusse Sodoma e Gomorra. Del Figlio che minacci ai peccatori l'Inferno ove pianto e stridore di denti. Dello Spirito Santo che fece precipitare dall'alto Si­mon Mago. Nel nome di Dio che chiese il sacrificio di Isacco...

Ma poi lo risparmi! lo interruppe don Cesare Fanelli.

Taci, rinnegato! url di rimando il Monaco. Taci, traditore della Santa Chiesa! E subito alcuni flagellanti si strinsero intorno all'ex prete che ne rimase visibilmente impaurito.

Io, umilissimo servo di quel Dio, riprese padre Utilperzio parlo per l'ultima volta a voi, gregge di pecca­tori e peccatrici, capre nere avviate al macello. La notte scorsa ho avuto una visione, ed ora so quel il mio ed il vostro destino.

Vegliavo in preghiera e d'un tratto ho visto venire a grandi passi nel cielo, da Oriente, una gigantesca figura di vecchio. Candidi i suoi capelli e la sua barba, candida la sua veste. E la sua immensa mano era su Venezia, con il pollice abbassato in segno di condanna. Poi la mano si rin­chiuse a pugno e quel pugno tremava di collera; e poi un indice grande come un albero segn questa nave e dall'un­ghia di quel dito usc un raggio di luce che mi illumin nella mia miseria. Io caddi in ginocchio, piangendo e bat­tendo i denti per il terrore.

Mi guardai intorno: molti uomini e quasi tutte le don­ne erano anch'essi in ginocchio, gli occhi dilatati dallo spa­vento: Per Dio mi sussurr il medico. Questo pazzo ci spinger tutti alla folla...

Riprese padre Utilperzio:

E poi l'Altissimo, poich quel vecchio era Geova dal­la voce tonante, mi parl. Rombo alla mie orecchie, vento impetuoso che mi squassava come un fuscello, ma sussurro per voi che giacevate nei vostri letti di peccato, nelle vostre nequizie. Egli mi disse: Profeta, profeta mio, tu devi mo­rire! Ed io, prostrato fra le mie feci, osai chiedere: Perch, mio Signore? Ed egli rispose: Perch, ecco, io ho suscitato in Venezia colui che poteva salvare la citt attraverso il dolore liberamente accettato per compiacere la mia collera, ma tu non sei riuscito a convertire il popolo di Babilonia. Domandai gemendo: all'Inferno, mio Signore, che tu mi condanni? Ed egli rispose: Tu hai fatto ci che potevi e sarai salvo dopo la tua morte terrena; e, per il tuo sangue, saranno salvi anche i tuoi figli e le tue figlie...

Nessuno grid don Fanelli si salva se non per il sangue di Cristo! Ma la sua voce ricadde nel silenzio degli astanti, come una foglia portata via dal vento.

Questa sera io non vi annunzio pi la collera di Dio, come ho fatto per sei mesi, inutilmente, continu il Mo naco ma la morte prima, quella della carne, e la morte seconda, quella dell'anima. Non c' pi scampo per voi. La notte scorsa ho visto la lingua dell'Altissimo farsi fiamma, penetrare ogni baracca, leccare la chiglia di questa nave, ruggire nelle sue viscere. I vostri corpi ardevano come le­gna secca, il fuoco che si levava nell'aria aveva il puzzo del­la carne bruciata...

Si ud un urlo, altissimo. Era di Zoanin delle Madon­ne: Taci, frate senza piet. Cristo salito in croce per noi e la Beata Vergine ci ama! .

Taci tu, nano malefico! rispose a gran voce padre Utilperzio. Taci, aborto vivente, sacrilego che dipingi con­tadine travestite da Madonne per dimenticare che la conta­dina tua madre era una puttana: poich soltanto una put­tana pu avere generato un mostro come te!

Sembr allora che il nano si fosse trasformato in una palla d'obice. Attravers la folla senza che nessuno potesse arrestarlo, si inerpic con incredibile agilit su per il sartia­me, non si ferm neppure quando uno dei flagellanti lo colpi con la torcia, incendiandogli gli abiti intrisi di ac­qua ragia. Balz nella cesta di padre Utilperzio e nutilmen­te il Monaco lev a difesa le sue mani grassocce. Il nano lo aveva afferrato, lo rovesci oltre il bordo della coffa, ab­bracciato a lui si schiant, da dieci metri d'altezza, sull'im­piantito della nave.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

19

Non dimenticher mai gli orrori che seguirono a quel­la prima tragedia.

Dopo il tonfo dei due corpi sul ponte della nave, la folla rimase per un istante come rattrappita in se stessa, e muta. Poi si levarono urla e singhiozzi e i flagellanti si fe­cero strada brutalmente, alcuni per raccogliere il corpo di Utilperzio - che subito risult senza vita -, altri per finire a calci e bastonate il nano che sembrava sogghignare mentre le sue vesti fumavano ancora. A stento, e solo sguainando le spade e usandole di piatto, i gendarmi riuscirono a distri­care il sanguinante viluppo dei vivi e dei morti. E, alla fine, si scopr che tre erano i cadaveri perch qualcuno aveva sventrato con una coltellata don Cesare Fanelli e un altro gli aveva menato un gran fendente tra le scapole con un'ascia da marinaio.

Tutte le lampade della galea erano accese e torce bril­lavano sulle navi vicine, da cui provenivano verso la nostra richieste di notizie e poi commenti eccitati. Alcune delle imbarcazioni pi piccole si movevano quasi freneticamente per la laguna, radunandosi e allontanandosi in diverse dire­zioni come formiche che accostano le antenne per trasmet­tersi un messaggio e poi corrono a informare le compagne.

Quella notte fui testimone di come pu nascere una leggenda. Il sangue non si era ancora disseccato sulle ve­sti del Monaco e gi la folla proclamava la grandezza di sant'Utilperzio: egli aveva offerto la propria vita per la sal­vezza dei veneziani e perci Satana, infuriato, lo aveva get­tato dal pulpito... Sulla galea accanto alla nostra qualcu inton l'antico inno cantato dai martiri nelle arene, a sfida dei Cesari:

Christus vini,

Christus regnat,

Christus, Christus imperat;

e una folla innumere, che nella notte sembrava l'intera umanit, riprese il canto, a gran voce. Pi tardi giunse fino a noi il suono delle campane che, da Venezia, facevano eco al pianto e all'eccitazione della citt galleggiante.

Don Fiore, bench sconvolto, mostr il solito equili­brio e grande capacit di far fronte all'accaduto. Ordin che tutti rientrassero nelle baracche e vi rimanessero sino alla liturgia dell'indomani, pena l'arresto. Permise ai soli flagellanti di restare all'aperto per vegliare il loro maestro, sotto il controllo dei gendarmi. Chiese al dottor Sartirana, che considerava giustamente in pericolo, di chiudersi con Veniero nella loro stanzetta e mise tre guardie a loro difesa. Dispose che i corpi di don Cesare Fanelli e di Zoanin fos­sero portati nella cella del pittore. Infine affid il comando della nave al capo dei gendarmi, Marino Morandin, poi, salito su una scialuppa, part per Venezia a ragguagliare il Consiglio dei Dieci.

Io chiesi ed ottenni di restare, con un buon numero di guardie e due amici, a vegliare i cadaveri del nano e del­l'ex prete.

Attraverso lo sbarramento dei gendarmi vedevo i flagellanti affaccendarsi intorno alla salma di Utilperzio. Estratto dal deposito l'altare scomponibile, avevano su di esso disteso il corpo del Monaco, ergendogli accanto la sua croce astile. Avevano probabilmente sottratto alla cambusa l'intera provvista di candele perch ora decine e decine di fiammelle illuminavano la nera figura del morto, rendevano pi bianche le chiazze del viso, delle mani, dei piedi ignudi. Poi, calati i cappucci sui volti arrossati dalla passione, i flagellanti si inginocchiarono intorno all'altare. Si udivano le sferze ricadere sui corpi degli uomini mentre essi into­navano il terribile inno:

Dies trae, dies Ma:

Il giorno della collera, quel giorno

il mondo si dissolver in fuoco.

Mi domandai inquieto quale prezzo di sangue avreb­bero ancora chiesto i flagellanti per l'uccisione del loro maestro.

Sapevo bene che per Zoanin delle Madonne non vi sarebbero stati funerale religioso n sepoltura in terra con­sacrata. Nessuno avrebbe ricordato quanto volgare e vele­nosa fosse stata la provocazione che aveva scatenato la sua collera: egli era morto da assassino, e assassino di un sa­cerdote. Che avesse ucciso, che avesse voluto uccidere, que­sto lo credevo anch'io: ma accanto a quel piccolo corpo rattrappito, infranto dalla caduta e devastato dalle fiamme e dalle ferite, non riuscivo a non sentire per il nano un af­fetto profondo che mi doleva non avergli manifestato in vita. Con la sua povera arte e con la sua povera teologia egli aveva cercato di farci coraggio, di aprire i nostri cuori alla speranza. Coinvolto in un dramma universale, il suo bisogno di madre lo aveva spinto a farsi, per tutti, ritrat­tista o inventore d'una mamma celeste. Mentre Utilperzio ci ingiungeva di ridurci a servi striscianti della divinit, schiacciati dalla colpa, Zoanin aveva continuamente offerto a chi lo avvicinava uno spiraglio di cielo, una realt casa­linga capace di trasformare, con la presenza di una buona madre, la giustizia di Dio in affettuosa paternit carnale. L'abominevole assassino era morto cercando di difendere la bont, la nostra e la propria necessit d'amore.

Cos, contemplando quella figura contorta di bambino cresciuto soltanto nei muscoli, mi sentii estenuare il cuore in una piet e in una dolcezza di cui, dopo tanti terribili


eventi, non mi credevo pi capace. Improvvisamente desi­derai sentire nella mia mano la mano di Fransisca e mi dissi: Ora s che saprei scaldargliela con il mio cuore.

A don Fanelli sottrassi il suo tesoro, la Bibbia stam­pata in italiano, a Firenze. Ad essa, come mi aveva narrato, doveva, in certo senso, tutte le proprie sciagure. Era stato sospettato di avere venduto, per acquistarla, certi vasi sacri della chiesa in cui era rettore, ci che, se provato, gli avreb­be valso la scomunica; e per averla poi troppo spesso citata, in base ad essa confutando pubblicamente alcune opinioni teologiche del Patriarca e, peggio ancora, del Doge, si era ritrovato, tre anni prima, ridotto allo stato laicale. Come avesse vissuto da allora sino all'internamento sulla nave-ospedale, nessuno sapeva: di fame, certamente, ma anche, probabilmente, di piccole truffe e raggiri ai danni della gente danarosa. Il gusto della beffa aveva acuito questa sua abilit; ma io lo avevo sempre visto manifestare ai poveri rispetto e amorevolezza; e sulla galea il suo sodalizio con Zoanin aveva avuto il calore d'una strana paternit, bona­riamente ironica, talvolta, ma pi spesso soccorrevole e non priva di tenerezza.

Non era stato, forse, un uomo di grande coraggio e certamente non era stato un profeta; ma aveva sempre cer­cato di opporsi alla superstizione di Utilperzio, non soltanto in base al buon senso ma anche e soprattutto in base al messaggio di Dio cos come la Sacra Scrittura ce lo ha conservato.

E forse, dunque, per questa sua fedelt al Verbo, su quella nave che ora mi pareva maledetta, il vero martire era lui, non il Monaco la cui tozza sagoma sembrava tre­mare alla luce delle fiammelle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

20

Passarono lunghe ore. Sulle altre navi le luci s'erano spente una ad una. Anche nelle baracche della nostra galea la gente sembrava immersa nel sonno. Intorno all'altare, tuttavia, continuava la veglia dei flagellanti. Sospeso il rito, essi sedevano ora in cerchio, ascoltando le parole di un con­fratello che aveva rialzato il cappuccio sul viso ma di cui mi era impossibile scoprire i lineamenti e intendere le pa­role. Mi giungeva soltanto il suono della voce: intuivo che parlava in dialetto e la monotonia del discorso, che durava da tempo, mi pareva implacabile.

Verso le due del mattino torn la scialuppa con don Fiore. Si vide allora che nessuno dormiva perch la gente si affacci in silenzio alla porta delle baracche, movendosi quasi impercettibilmente ne varc la soglia, and adden­sandosi intorno all'altare mentre i gendarmi, essi stessi tra­volti dalle emozioni, lasciavano fare.

Ad alta voce, il rettore della nave rese noti gli ordini del Consiglio dei Dieci. Padre Utilperzio avrebbe ricevuto solenni funerali nella basilica patriarcale, al Vespro; perci il suo corpo avrebbe dovuto essere immediatamente trasla­to a Venezia per essere esposto in San Marco.

Si fece avanti umilmente, a testa china, colui che sem­brava essere diventato il nuovo capo dei flagellanti. Potevo ora riconoscerlo: si chiamava Tonietto Albisan, era un for­naio, aveva un volto pallido e affilato, folti sopraccigli in­torno ad occhi che parevano di pesce. Viveva sulla nave da quasi tre settimane con la moglie e un figlio: altri quat­tro bambini gli erano morti di peste.

Chiese Tonietto: Signor don Fiore, che faremo ora senza il nostro buon padre? .

Non dimenticate rispose il prete che tutti abbia­mo un Padre che sta nei Cieli.

Tonietto assent gravemente col capo: S; e nei Cieli c' ora anche il martire sant'Utilperzio; e presto, speriamo, faremo festa insieme. Ma voi, signor don Fiore, avete ascol­tato la profezia: manca poco, pochissimo, alla morte di tutti noi. Perch, allora, non consentirci di trascorrere queste ul­time ore accanto alla salma del nostro maestro? .

Don Fiore rispose che gli ordini del Consiglio dei Dieci non potevano essere modificati. Aggiunse che la ne­cessit della traslazione nasceva anche dal rispetto che si voleva portare al corpo del frate: Non abbiamo modo, qui, di ripararlo dal gran caldo che al mattino scender sulla nave.

Tonietto torn ad assentire pacatamente: Anche questo vero. Ma chi sa quando arriver davvero questo gran caldo e quali effetti porter con s. Don Fiore, un po' interdetto, non seppe ribattere se non che bisognava ora trasportare il corpo del defunto sulla scialuppa.

La voce di Tonietto si fece pi acuta: Signor don Fiore, voi avrete notato che io vi tratto con rispetto, chia­mandovi "signore" e "don". Perch voi rifiutate di dire "sant'Utilperzio"?.

La gente seguiva il dialogo sempre pi innervosita, spingendosi avanti, premendo contro i gendarmi.

Don Fiore rispose seccamente che solo il Sommo Pon­tefice poteva proclamare la santit d'una persona.

Tonietto alz ancora la voce: Il papa di Roma lon­tano, troppo lontano perch possa sapere che il grande Utilperzio morto, e come morto. Ma la voce del popolo grida: Santo, santo, santo. Ed ora riflettete, signor Priore: voi volete portarci via il corpo del nostro martire, Venezia pregher intorno ad esso ma la gente di questa nave su cui il padre ha vissuto, sofferto, predicato, versato il suo san gue, non ha ancora pregato ai suoi piedi. Guardate! grid all'improvviso, indicando con un gran gesto il corpo del Monaco. Noi non gli abbiamo chiusi gli occhi. Glieli chiu­deremo soltanto quando avranno contemplato il nostro omaggio. Dalla folla si lev un grande battimani. Tonietto cal sul volto il cappuccio bianco, volt le spalle a don Fiore, torn con gli altri flagellanti intorno all'altare. Accese le torce, si disposero a guardia del corpo di Utilperzio.

Mentre la gente si inginocchiava intorno a loro, il Priore e il capitano Morandin tennero consiglio, poi man­darono a chiamare nuovamente Tonietto. Egli venne ancora in umile atteggiamento, un po' curvo in avanti, stropic­ciandosi nervosamente le mani. Don Fiore gli disse corte­semente ma con fermezza che si assumeva la responsabilit di rimandare di un'ora la traslazione della salma perch gli pareva giusto che anche sulla nave si pregasse per un de­funto che sulla nave aveva vissuto. Ma dopo un'ora, ag­giunse, un'ora e non un minuto di pi, il corpo sarebbe stato avviato a Venezia; lui, don Fiore, si augurava che Tonietto non volesse rendere meno solenne e pi amara la triste bisogna. Tonietto replic che per nulla al mondo avrebbe voluto essere d'inciampo alla gloria non solo cele­ste ma anche terrena di sant'Utilperzio.

Poi il Priore domand all'incappucciato se egli e i suoi confratelli desideravano che uno dei cappellani dell'ospe­dale guidasse un rito liturgico. Tonietto rispose, con una certa arroganza, che tra i fratelli c'era un sacerdote che don Fiore non conosceva ma che Utilperzio aveva avuto caro. A questa notizia che scoteva una volta di pi la disci­plina della nave e le disposizioni sia dell'autorit ecclesia­stica che di quella civile, il Priore impallid visibilmente; ma il Morandin gli strinse un braccio a suggerirgli, e forse imporgli, pazienza: ormai tutte le persone che vivevano a bordo della galea erano manifestamente sconvolte dall'emo­zione, non bisognava creare un casus belli.

 

Un flagellante vest dunque i paramenti delle esequie e inton le litanie dei defunti. Il contrasto fra il bianco cappuccio e la pianeta nera rutilante d'oro rendeva quel prete (se era poi tale) simile al sacerdote di qualche reli­gione barbarica che non aveva parentela con la Chiesa di Cristo. Le figure spettrali dei flagellanti, a momenti riverse sul tavolato, in altre erette con le braccia verso il cielo, rendevano pi terribile, e quasi oscenamente blasfemo, il rito che veniva celebrato. Vidi che don Fiore, accanto a me, piangeva di rabbia e di avvilimento.

Dopo un'ora, a un cenno del Priore, quattro gendarmi si fecero verso l'altare, reggendo una barella. Mitemente, gli incappucciati chiesero di essere loro a trasportare la salma: uno ad uno sfilarono davanti all'altare, sollevando un lembo del cappuccio per baciare i piedi, le mani e la fronte del maestro; poi, con tenerezza filiale, ne raccolsero il corpo e lo disposero sulla barella. Formarono quindi una processione, tenendo alte le fiaccole, e si avviarono verso il barcarizzo.

A questo punto il Morandin ordin loro di fermarsi e di passare il carico ai soldati. Di dietro il cappuccio, la voce di Tonietto chiese perch. Voi non potete lasciare la na­ve disse il Morandin. Saranno i suoi figli a donare a Venezia sant'Utilperzio replic con forza Tonietto; e la folla url approvando.

Parve forse al dottor Sartirana che don Fiore stesse esitando perch si fece avanti e grid: Nessuno pu la­sciare la nave senza mio permesso. Questi uomini da tempo si rifiutano di farsi visitare e possono essere infetti. Gli rispose una salva di insulti.

A un ordine del capitano Morandin i gendarmi sguai­narono le spade. Allora Tonietto Albisan url Amen, amen, a gloria di Dio e di sant'Utilperzio! e ogni incap­pucciato lanci la propria torcia verso le baracche.

Le fiamme si levarono altissime su tutta la nave.

 

 

 

 


1

Sin da quando ero nato, mio padre aveva deciso di avviarmi al sacerdozio. Non ne sono certo, perch di argo­menti del genere nelle famiglie si parla ben poco: ma credo si trattasse di un voto fatto nella speranza, poi felicemente divenuta realt, di essere guarito da una malattia venerea. Comunque fosse, a sette anni, vestito di nero nonostante le proteste di mia madre, avevo cominciato i miei studi presso il santo Arciprete Rizzieri.

Ero stato l'alunno volonteroso di un meraviglioso maestro. Dodicenne, leggevo gioiosamente le opere latine, affascinato da un mondo in cui, per il candore e la passione poetica del vecchio sacerdote, le ninfe mi sembravano dan­zare sugli stessi prati di Galilea di cui Ges aveva ammirato i gigli, e san Girolamo e l'Aquinate sedere a banchetto con il ramingo Enea. La teologia, invece, mi piaceva assai meno, mi sembrava astrusa, pi adatta a complicare il vangelo che a dispiegarlo come una vela che ci portasse lontano sul mare della conoscenza di Dio.

Convinto che il sogno di mio padre fosse anche il mio, ero stato uno strano bambino. Gli abiti neri, le frequenti devozioni, le continue letture, la stessa deferenza, un po' ironica, che il parentado e la servit mi dimostravano ave­vano finito per isolarmi dai miei coetanei.

Il mio unico amico fu allora Obizio Ducoli. Ancora infante, Obizio era stato in punto di morte. La madre, una lavandaia che non aveva marito, disperata per l'agona di quel figlio che le era valsa la taccia di pubblica peccatrice, aveva anche lei fatto un voto, a sant'Antonio da Padova:

se fosse scampato, il figlio avrebbe, a gloria del grande Tau­maturgo, portato il saio sino ai quattordici anni. Cos era stato: ma per quell'abito che, a causa delle beffe dei mo­nelli era diventato per lui un tormentoso cilicio, Obizio, anzich a pregare, aveva imparato a bestemmiare come un bifolco. Quando i ragazzi del paese, che lo sapevano senza difesa, lo inseguivano chiamandolo reverendo padre, Obizio, se era lontano dal lavatoio in cui sua madre si sfi­niva per camparlo, alzava il saio mostrando il culo nudo e, battendosi una natica con la mano, urlava ai persecutori: Tel chi 1 padre! .

Bench io potessi dirmi ricco e lui misero, la singola­rit dei nostri vestiti ci aveva spinti l'uno verso l'altro. Se anche tutto ci che era religione sembrava a Obizio una condanna, egli ascoltava con una specie di grave deferenza i miei sproloqui ecclesiastici e mi seguiva silenzioso nelle mie passeggiate.

Usciti dal paese, scendevamo sulle rive dell'Oglio, cer­cavamo un tratto in cui la corrente fosse meno tumultuosa, poi, smovendo sassi e rena, costruivamo un minuscolo por­to: e da quel porto varavamo piccole imbarcazioni di cor­teccia sulle quali io immaginavo di salire per recare il van­gelo agli infedeli, in Arabia o nelle Indie. Allora, mentre io mi eccitavo e gridavo parole per lui incomprensibili, il volto di Obizio si faceva intento e purissimo, perso il suo sguardo dietro sogni che io non conoscevo n mi curavo di conoscere, bastandomi che col suo silenzio egli facesse da cassa di risonanza al mio liuto interiore.

Ma un'estate io andai scoprendo che avevo un corpo fatto per il piacere. Nel gran caldo mi tastavo con mani febbrili e, senza ancora capirne il perch, pensavo a qualche ragazza che mi sarebbe piaciuto abbracciare. Un pomerig­gio, riemerso dal mio languore, mi rivestii con gli abiti di mio fratello Giacomo, poi scesi nella piazza, finalmente eguale ai miei coetanei. Obizio mi attendeva per uno dei nostri appuntamenti mai fissati. Mi contempl in silenzio,

quasi inorridito. Poi gli occhi gli si riempirono di lacrime ed egli corse via con il suo povero saio svolazzante sulle gambe sottili.

Adesso, mentre mi risvegliavo con la stanchezza di chi ha camminato un'intera vita, Obizio era davanti a me. Uo­mo. E ancora vestito da frate.

La sua immagine si appann, poi torn a farsi nitida. La sua voce mi giunse da lontano: S, Guerino, sono io. Ma tu, adesso, sii bravo e non cercare di parlare. Hai preso un brutto colpo in testa, sei salvo per miracolo e devi dor­mire. Ma la nave? riuscii a domandare con un filo di voce. E il medico? E il suo bambino? La nave an­data distrutta, rispose Obizio ma i tuoi amici sono tutti salvi.

Dovevo scoprire pi tardi che Obizio era un santo, un vero santo, ma quella volta mi aveva mentito. Al fuoco appiccato dai flagellanti, le baracche di legno erano bruciate rapidamente. Impazzita di terrore, la gente era corsa qua e l in cerca di scampo. Chi sapeva nuotare e non aveva pa­renti a bordo (o non s'era curato di loro) s'era gettato nella laguna; gli altri s'erano urtati, spinti, atterrati a vicenda, scavalcati, calpestati tentando di giungere al barcarizzo sot­to il quale si andavano raggruppando alcuni natanti portati da coraggiosi.

Poi aveva preso fuoco anche il corpo della nave e la galea si era trasformata in un inferno. Quando qualche brandello di ricordo riemerse nella mia mente dalle tenebre dell'orrore, rividi me stesso vagare tra il fumo e le fiamme tenendo fra le braccia il corpo esanime di Veniero; e qual­cosa di pesante e di infuocato che mi crollava addosso, mi schiacciava al suolo, mi chiudeva in una notte senza sogni.

Anche dalle altre navi avevano cercato con ogni mezzo di spegnere l'incendio che minacciava l'intera citt galleg­giante; ma erano riusciti soltanto a circoscriverlo: la galea era andata distrutta e pi di duecento persone ricoverate

nell'ospedale erano morte annegate, o di ferite e di ustioni. A dieci giorni dalla tragedia, si ripescavano ancora cadaveri straziati. Il dottor Sartirana era morto, scomparso il suo bambino.

L'incendio non era ancora spento che era intervenuta, feroce, la giustizia del Consiglio dei Dieci. Don Fiore e il capitano Morandin, destituiti dalle loro cariche, per inca­pacit, erano stati imprigionati; e si mormorava che gi, nelle segrete in cui li avevano rinchiusi, fossero stati finiti dal veleno o dal pugnale, che il consesso dei nobili vene­ziani non raramente preferisce alla liturgia dei processi. Tonietto Albisan e altri cinque flagellanti scampati al rogo erano stati prontamente impiccati, bench agonizzanti.

Ma il Consiglio dei Dieci era scaltro, il Consiglio sa­peva che opportuno concedere alla plebe tutto ci che non pericoloso per lo Stato: e dunque la salma di Utilperzio, sottratta fortunosamente alle fiamme, era stata tumulata con grande solennit in San Marco; e l'ambasciatore della Serenissima a Roma aveva gi consegnato al Sommo Ponte­fice Gregorio XIII una petizione della Repubblica e del Patriarcato con cui si supplicava instanter, instantius, in­stantissime che il monaco morto per la fede fosse al pi presto canonizzato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2

Giunse il luglio ma io mi sentivo l'inverno nelle ossa. Tutto ci che avevo vissuto in quei mesi si era trasformato dentro di me in un rutilo di immagini che mi travolgeva; talvolta mi sembrava che qualcuno frugasse con dita di in­sopportabile luce fra le viscere del mio cervello per trarne ricordi come si traggono vibrazioni dalle corde di una cetra. Desideravo soltanto dormire; ma anche il sonno era pieno di incubi. La mattina, destandomi, alzavo una mano contro la finestra, la guardavo intento, la movevo lentamente, qua­si per riprendere contatto con la vita, con il mio corpo, sangue e muscoli.

Obizio era accanto a me, soccorrevole. Quel giorno, finalmente, mi parl a lungo: Erano pi di dieci anni che non ci vedevamo, vero, Guerino? Ed meraviglioso, per me, averti ritrovato perch io ti debbo due volte la mia vita....

Lo guardai con stupore. S, ti devo ci che sono e ci che ho scelto di fare. Vuoi che ti racconti?

Quella sera che ti vidi nella piazza il mondo mi croll addosso. Se tu, ormai, non eri diverso dagli altri, io rima­nevo solo con la mia condanna. Mi sentii tradito, ti male­dissi con orribili parole, desiderai poterti fare del male. Poi decisi di imitare il tuo esempio: nella notte mi levai dal mio pagliericcio, scavalcai un muro, rubai una camicia, un paio di pantaloni. Mi tolsi il saio, mi rivestii, tornai a dormire: felice. Mi risvegliai che mia madre mi legava le mani. Non riuscii a impedirglielo. Mi baston con tutte le sue forze, implacabilmente, per ore. Avevo dodici anni, ero un ragaz zetto gracile, ricordi? Neppure mia madre era forte; ma il terrore la trasform in una terribile carnefice.

Obizio parlava tristemente, ma senza rabbia, guar­dando per terra. Credo che mi abbia spaccato qualche costola perch, ancora adesso, quando respiro, avverto delle fitte al torace. Ma la capisco. Vedi, Guerino, per voi ricchi tutto pi facile: voi siete signori anche per la religione. Adesso che ho studiato un po', posso facilmente immagi­nare ci che avvenne nel tuo caso. Quando tu deponesti i tuoi abiti di futuro sacerdote, tuo padre si infuri. Tua madre si interpose fra te e la collera di lui. Poi si rec piangendo dall'Arciprete; e l'Arciprete - dimmi se sba­glio! - venne nella vostra casa, parl a lungo con tuo padre e gli spieg che nessuno pu con un proprio voto disporre della vita degli altri; gli ricord che la vocazione un fatto personale, che lui dunque non poteva obbligarti al sacer­dozio e che, invece, poteva trasformare la sua promessa a Dio in buoni propositi, in una generosa elemosina, in un pellegrinaggio...

Assentii: proprio questo era avvenuto.

Pensa a mia madre, adesso, la pubblica peccatrice. Nessuno a consigliarla, a spiegarle, a toglierle di dosso col­lera e paura. E il figlio della colpa che, improvvisamente, decide di violare il patto che lei ha stretto con il pi grande dei santi, pi grande, ai suoi occhi, di Nostro Signor Ges Cristo. Come si vendicher, quel santo? In quali abissi di orrore potr gettare una persona alla quale non pu to­gliere n ricchezza n stato sociale perch ne gi priva? Per il mio gesto di ribellione, mia madre deve aver visto se stessa e me trascinati sull'orlo dell'inferno.

Dopo avermi ridotto sanguinante e gemente come un cane travolto dalle ruote di un carro, mi ha guardato con occhi lucidi di folla e mi ha detto ansimando: "Se ci riprovi, ti uccider; giuro che ti uccider".

Pressappoco le stesse parole me le ha dette, un mese dopo, il pastore al quale mia madre mi ha affidato, un po' per sottrarmi alla persecuzione dei monelli, un po' perch io potessi finalmente mangiare a saziet. Anche il mandria­no guardava al mio saio come al segno d'un patto con le potenze celesti e a quelle potenze come a forze spietate, pronte, se tradite, a vendicarsi magari su di lui e sulle sue mucche. Rimasi dunque vestito da frate anche lass, in una malga verso Bazena: ma il saio si logor, la moglie del man­driano vi aggiunse toppe colorate, sotto di esso, per il gran freddo, dovetti portare pantaloni, sopra di esso indossare un giubbotto di pelle di pecora. Ben presto smisi di pen­sarci.

Smisi di pensarci anche perch nella malga fui schiac­ciato dal lavoro e dalla paura. Mi alzavo alle quattro, nel gelo, per guidare le vacche al pascolo. Per tutta la giornata dovevo seguirle, attento a che le pi balzane non fuggissero verso i precipizi, n si ferissero lottando fra loro, cercando di montarsi come tori. Tornavo al tramonto e c'era la mun­gitura; e decine di secchi di latte da travasare nei calderoni di rame per fare il formaggio...

Ma pi che la fatica fu la paura a dominare la mia vita di allora. Non raramente restavo nella malga, da solo. Quando le ombre cominciavano a calare, tremavo di terrore. Sui crinali dei monti incombenti mi sembravano comparire, all'improvviso, in silenzio, orde di streghe e di stregoni e di diavoli, un'armata che sostava domandandosi se valesse la pena di irrompere su di me. Pregando e piangendo mi chiudevo nella malga, il volto immerso fra i cenci del mio giaciglio e chiamavo mia madre e la maledicevo. Sarei cer­tamente fuggito se non avessi dovuto camminare ore ed ore prima di giungere a qualche casa abitata; e sapevo che, nella mia marcia solitaria, avrei dovuto passare accanto ad antri che potevano nascondere la bocca dell'inferno, a rupi su cui erano incisi segni magici che attestavano il dominio di Sa­tana, a tuguri scoperchiati sulle cui mura qualcuno aveva tracciato grandi croci di calce perch vi gemevano i fanta­smi di giovani spose massacrate da mariti gelosi, di bambini sgozzati dalle streghe. Sapevo che non sarei sopravvissuto a quel cammino, non sarei mai giunto fra cristiani, mani ge­lide mi avrebbero trascinato in oscurit pi spaventose di quelle della notte, caproni con l'alito di fuoco si sarebbero levati a due zampe contro di me per segnarmi la fronte con qualche crisma diabolico...

Anche a te, da bambino, certamente, qualche dome­stica avr parlato della "donna del Sock", l'orribile mege­ra; e anche tu, pensando ad essa, avrai tremato, tirandoti le coperte sul capo. Ma qualcuno dormiva nella tua camera, nelle stanze vicine c'erano i tuoi genitori, i tuoi fratelli, le serve. La tua casa ha solide mura, solide imposte, una porta di quercia... Prova adesso a immaginarti come me, bambino, in una notte di bufera, in una malga, solo. Fuori, tra il vento che scende urlando dalle gole dei monti, sussurra nel camino, negli spiragli fra pietra e pietra, nelle fessure delle imposte, l'orribile donna che forse non ha neppure un corpo, fatta di polvere e di forza, bussa alla porta, cerca di aprirla, singhiozza, ride, ti chiama per nome. Intanto le bestie levano muggiti, si muovono convulse nel recinto. Chi ti ha appena sfiorato? Che cos' quell'ombra nell'ango­lo dove prima non c'era? E la lanterna non sta forse per spegnersi?

Poi l'alba, finalmente, si leva. Nel grande freddo trovi il coraggio di uscire e di guardarti intorno. Sul fango raggelato, le tue stesse impronte ti sembrano mutate, la­sciate da piedi biforcuti, da serpi immonde e gigantesche che vi si siano contorte in una specie di danza infernale. Il topo che, rinvigorito dal sole, fugge accanto ai tuoi piedi sembra la testimonianza concreta che quella notte qualcosa di orribile ti ha lambito, che qualcuno riuscito a bere il tuo sangue di bambino, la tua infanzia...


3

Ma ti ho detto che ti devo due volte ci che sono. Ascolta come e perch.

Nei due anni trascorsi con il mandriano, come puoi capire, desideravo soltanto andarmene. Ma andare dove? Per il piccolo bastardo che io ero, il paese rimaneva luo­go di fame e di disprezzo. La mia nascita mi segnava as­sai pi che il saio. Il saio, a quattordici anni compiuti, avrei potuto togliermelo di dosso: il peccato di mia madre, mai.

Dunque dovevo andare lontano, dove nessuno mi co­noscesse, sapesse la mia storia. Ma mi bastava dire quella parola, lontano, per ripensare ai tuoi giochi sulle rive dell'Oglio, alle tue barchette di legno, ai tuoi racconti eccitati di missionari che partivano per recare ai confini del mondo la legge dell'amore. Solo tu mi avevi insegnato a guardare lontano... E un giorno che piangevo la mia infelicit, sentii nascere in me questo sogno bellissimo: che io, il non-amato, potessi diventare un uomo che insegnava agli altri a voler bene alla gente e a Dio.

Questo sogno non cess di sedurmi. Quando compii i quattordici anni, non mi tolsi il saio. Rendendo per la prima volta felice mia madre, che mi baci le mani, decisi di farmi frate e salii al convento francescano di Bienno. Mi accettarono come novizio. Questa fu la prima volta che tu, senza saperlo n volerlo, mutasti la mia vita.

Figlio illegittimo, non potevo sperare di diventare sacerdote. Sono diventato un fratello laico e mi sta bene egualmente. Dio sa quanto mi piacerebbe far fiorire la presenza di Cristo nell'ostia, fra queste mie mani di bastardo e di vaccaro: bastardo, in qualche modo, lo stato anche Lui; e anche Lui ha avuto i calli sui palmi delle mani... Ma c' tanto da fare per il Regno di Dio anche in altri modi, non credi?

Per sei anni ho pregato e lavorato con tutte le mie forze. Ho anche studiato un poco e, pensa!, ora so leggere e scrivere. Per sei anni, ogni giorno, ho pregato i miei su­periori di farmi partire missionario, in qualche parte del mondo. Tre mesi fa, finalmente, ho ottenuto il permesso. Contro voglia, ma estenuato dalla mia cocciutaggine, il mio Provinciale mi ha concesso di andare, con cinque confra­telli, nelle Indie Orientali.

Siamo arrivati a Venezia, per imbarcarci; ma prima ancora che salissimo a bordo buona parte dell'equipaggio stata colpita dalla peste. Il Provinciale ha visto in ci il dito di Dio: mi ha ordinato di tornare con lui a Padova, non appena egli avesse ultimato certe sue incombenze.

Guerino, tu mi hai raccontato la tua storia d'amore e la tua desolazione. Credimi: non minore stata la mia tristezza. come se una donna amata ti chiamasse accanto a s, per essere tua ma tu non potessi raggiungerla. Non credere che un sogno possa essere meno amabile di una donna!

Nell'attesa di tornare a Padova, trascinavo per Ve­nezia la mia infelicit, scendendo spesso al porto per con­templare le navi che salpavano verso i mari, i cieli, le terre nuove che non avrei mai viste. E poi, un pomeriggio, hanno cominciato ad allineare sulla riva i poveri corpi tratti dalla galea in fiamme; e fra essi ho riconosciuto il tuo.

stato come se una benda mi cadesse dagli occhi. Anch'io come te, tutto preso dal mio amore, non avevo avuto attenzione per la tragedia di Venezia. Gli uomini, le donne, i bambini che vagavano per le calli senza speranza, colpiti da miserie senza responsabili, m'erano sembrati sol­tanto una visione sgradevole che rendeva meno dolorosa la

mia partenza e poi anche pi amaro il mio soggiorno. Ma quando ho trovato te, ridotto in quelle tristissime condizio­ni, ho compreso quanto grande fosse l'inganno in cui ero caduto: ho capito che la realt sempre pi grande e im­portante di ogni sogno, nella realt che dobbiamo vivere e amare. E ho capito anche che non cosa pi santa battez­zare che soccorrere, n viaggiare mille miglia piuttosto che compiere pochi passi, quando si tratta di amare.

Del resto, accaduto cos anche al "mio" sant'An­tonio: partito per andare missionario in Terra Santa, si ritrovato frate in Italia. Non ci avevo pensato sin che non ti ho visto...

E allora? domandai.

Allora ho chiesto di potermi prendere cura di te e degli altri feriti, in questo piccolo ospedale improvvisato. E quando tutti sarete guariti, andr al lazzaretto come infermiere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4

Sia lode all'abnegazione degli offiziali della Serenissi­ma! Bench anziano e claudicante, messer Tito Castriota, detto l'Albanese, aveva portato con s nella fuga, a ri­schio di annegare per l'ingombro, il grosso registro su cui erano annotati gli arrivi delle persone sull'ospedale galleg­giante. Fu dunque possibile appurare che io ero ormai sotto controllo da ben pi di ventun giorni; e mi fu rila­sciata la fede di sanit. La ricevetti con grande emozio­ne. Al di l del significato delle sue parole latine che dichia­ravano la mia immunit, quel documento mi sembrava at­testare che la mia avventura veneziana era definitivamente conclusa: potevo, come ormai ardentemente desideravo, fa­re ritorno al mio paese. Non un anno ma dieci, cento, mi parevano trascorsi da quando, con i miei compagni, avevo lasciato dietro di me la nostra Valle, vedendo sparire a ogni curva di strada i paesaggi pi cari; e persino da quando l'amore e poi la collera per Fransisca mi avevano teso, afflo­sciato, fatto vibrare come imo stendardo nel vento e nelle intemperie. Adesso ero in pace.

Bench la mia debolezza fisica permanesse, mi sentivo cresciuto, dentro. Non sapevo ci che avrei fatto una volta tornato fra i miei: ma sapevo, o credevo, che sarei stato capace di amare in modo diverso, pi vero, le persone che mi circondavano, e me stesso. I dolori che la vita porta con s sono come il fango portato da un'inondazione: che spesso distrugge i coltivi ma talvolta li arricchisce, rende pi fertile il terreno.

La mia emozione nel ricevere la fede, non era tuttavia dovuta soltanto a queste riflessioni. Sotto quel docu­mento avrei desiderato leggere la firma di Zeno Sartirana. Quando, sulla galea, la nostra breve amicizia s'era fatta, per sua generosit, quasi fraterna, avevo fantasticato sulla gran festa che avremmo celebrato insieme al momento del nostro congedo: avremmo mangiato e bevuto lietamente, avrei fatto ricchi doni a Veniero, al medico, a sua moglie. Adesso del dottore e del bambino non mi restavano che ricordi straziati. Della signora Sartirana scoprivo che non solo non conoscevo il volto ma neppure il nome; n l'indirizzo se mai dal lazzaretto fosse tornata in Venezia. Obizio mi pro­mise che avrebbe proseguito le ricerche; io gli affidai met del mio danaro perch glielo consegnasse se l'avesse trova­ta: altrimenti, dopo un anno, avrebbe speso quei soldi in qualche opera di carit.

Lasciai Venezia alle prime luci di un giorno di agosto. Abbracciai Obizio che rimaneva in quell'inferno di vivi, in cui la peste aveva gi sterminato almeno un quarto dei cit­tadini. Una barca mi traghett in Terraferma. Passammo accanto alla citt galleggiante e tesi invano l'orecchio. Sui vascelli dormivano ancora, nessun canto si levava, di quelli che tante volte avevano riscaldato il mio cuore. Mi sembr che Venezia mi negasse ogni saluto e mi sentii pi solo...

Della prima parte del viaggio che mi riport al mio paese non ho che ricordi confusi. La peste e l'arsura del­l'estate avevano resi identici tutti i luoghi: identiche fra loro le campagne nel color ocra della siccit, identici gli uo­mini nella diffidenza: dovunque le persone cercavano di tenersi lontane dai propri simili e guardavano con ostile so­spetto il forestiero: pi volte mi furono negati cibo, ospi­talit e persino acqua, nonostante fossi - e lo dimostrassi -disposto a pagare a caro prezzo.

Nei pressi delle citt, al limitare dei ponti, agli incroci delle strade erano frequenti i posti di guardia. Gendarmi arcigni interrogavano a lungo il viandante per sapere chi fosse, donde venisse, dove andasse e perch; con lo sguardo corrucciato dell'analfabeta esaminavano documenti e fedi di sanit; rimettendo, in fine, ogni decisione ai loro uffi­ciali, annoiati e irascibili.

Camminai spesso da solo, assorto nei miei pensieri. Raramente trovai chi fosse disposto a lasciarmi salire su un carro. Soltanto i mendicanti e i pellegrini sembravano acco­gliere con piacere la mia compagnia e mi intrattenevano con straordinari racconti sulle tragedie che il morbo aveva provocato nelle citt da cui provenivano, sui portentosi ri­medi che qualche gran dottore vendeva a peso d'oro, sulle meravigliose grazie concesse dall'uno o l'altro santo ai pro­pri devoti.

Seppi cos che Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Man­tova e Trento avevano patito terribili falcidie mentre Tre­viso e Bergamo erano rimaste, per la propria devozione alla Vergine, quasi incolumi. Dovunque un'eccitazione, una paura, un'irritabilit dominavano, tali da inquinare i rap­porti sociali. A Padova i magistrati erano stati costretti a emanare un bando per contenere le vessazioni contro gli Ebrei accusati di arricchirsi con i beni degli appestati: ben­ch nel ghetto la peste avesse infuriato pi che nel resto del­la citt, ai Giudei si negavano il vino e il pane! Il Vescovo di Brescia, si diceva, era fuggito dal suo palazzo per evitare il contagio: e il suo collega di Milano, il santo Carlo Borro­meo, s'era offerto di prendere il posto di lui, anche per ri­cordare a tutti che il recente Concilio di Trento aveva fatto obbligo ai vescovi di risiedere nelle citt loro affidate. Sentii popolani commentare sarcasticamente la grande mo­ria di nobildonne (mentre le contadine morivano in egual numero che i maschi) con la sprezzante conclusione che esse erano deboli perch oziose e viziose, soltanto femmine da letto; e conobbi altra povera gente che, invece, si consi­derava offesa dal fatto che la Dominante avesse preso a mandare in Terraferma magistrati che non erano nobili: Perch dicevano solo dei nobili ci si pu fidare.

E tuttavia la peste sembrava avere stimolato non sol­tanto la malvagit, l'intolleranza, le debolezze morali ma anche l'ingegno di molti. Vidi, per esempio, un po' dovun­que, grandi agglomerati di capanne di legno e di paglia, non prive di una loro rustica bellezza. Le avevano costruite al­cuni villici e poi affittate a caro prezzo ad artigiani, profes­sori d'universit, commercianti che desideravano tenere la propria famiglia lontana da Padova. Si diceva che queste ville fossero pi di tremila...

In una taverna di Vicenza, una sera, mi sentii chiama­re per nome. Era Toni Prinoth, un mercante tirolese che avevo conosciuto in casa Barbarano e che mi aveva sempre dimostrato grande simpatia. Rosso di pelo e di carnagione, il viso devastato dalle cicatrici del vaiolo, grande e grosso pi che grasso, pareva l'immagine della tranquillit. Mi ab­bracci con affetto, volle che mi sedessi al suo tavolo.

Salvo anche voi, dunque! Mi fa piacere, gridava in mezzo al frastuono dell'osteria perch ormai, con le ter­ribili notizie che arrivano da Venezia, davo per morti tutti gli amici.

Ne elenc alcuni del cui decesso era certo: mi accorsi con orrore che di nessuno di loro, che pure anch'io avevo conosciuto, ricordavo il volto, la voce. Poi Prinoth disse ci che oscuramente avevo presagito: ... e la nostra deli­ziosa padroncina di casa, Fransisca Barbarano.

Giunta nella sua villa di Stra, raccont il tirolese senza accorgersi del mio pallore, Fransisca non aveva neppure fatto a tempo ad aprire i bauli che s'era sentita svenire. Si era pensato alle fatiche del viaggio, all'emozione per un di­stacco da Venezia che si preannunziava assai lungo... Poi ogni dubbio era stato fugato dalla comparsa dei segni ine­quivocabili del morbo. E in tre giorni Fransisca era morta vaneggiando.

 

Il padre quasi impazzito. Da mesi tiene corte im­bandita nella sua villa: ci sono baldracche, giocolieri, zin­gari con l'orso ammaestrato; e fra loro nobili e nobildonne che il terrore della morte ha reso avidi di piaceri. Il notaio il re demente di questo festino ininterrotto: ma si comin­cia a mormorare che ormai non gli rimanga che la villa e qualche rotolo di monete d'oro che ben presto finiranno...

Soltanto a questo punto del racconto, Prinoth si accor­se che io piangevo. Da quel gentiluomo che era, nonostante il suo corpaccio e il suo naso da bevitore, finse dapprima di non vedere le mie lacrime. Ma il mio pianto si fece presto incontenibile: io non amavo pi Fransisca come si ama una donna alla quale si vogliano unire la propria carne e il pro­prio destino; ma ogni odio e amarezza nei suoi confronti erano svaniti in me, mi accorgevo di pensare a lei con la tenerezza con cui un padre o un fratello maggiore guardano a ima bambina; e mi sembrava che ora quella bambina va­gasse, atterrita, nel buio.

 

5

Mi avvedo che nel mio racconto mi sono spesso raffi­gurato in lacrime. Sbaglierebbe per chi credesse che io sia - o sia stato - un uomo piagnucoloso, incapace di pa­droneggiare le emozioni. Si voglia, invece, convenire che io vissi, al tempo della mia avventura, dolori e avvenimenti di singolare gravit: e in tale contesto che l'animo non poteva non rimanerne progressivamente scosso e quasi debilitato. Non ho mai capito, comunque, perch il pianto debba es­sere in un uomo pi disdicevole del riso: al contrario, io penso, chi non capace di piangere, o se ne vergogna, come chi non sa ridere: vive a met, rinchiuso in una specie di corazza che gli comprime il respiro interiore e gli rende impossibile stringersi al petto i propri simili.

Ma oltre al pianto e al riso esistono nell'uomo e nella donna altre emozioni, ben pi difficili da padroneggiare: la rabbia e l'odio, per esempio. E durante il mio viaggio io mi trovai a doverle fronteggiare: ci che pi strano, come pi avanti narrer, in un luogo sacro.

Gentilezza e, penso, un pizzico di rimorso per la sua sbadataggine (non poteva non essersi accorto, a Venezia, che io amavo Fransisca) spinsero il buon Toni Prinoth a offrirmi un passaggio sulla sua carrozza sino a Mezzocorona, nel Trentino. Di l, mentre egli avrebbe proseguito per il Tirolo, io avrei potuto discendere la Val di Non, poi salire sino al Passo del Tonale e giungere finalmente in Valcamonica. Partendo da Venezia, avevo progettato un diverso itinerario: ma la prospettiva di non dover vivere in solitudine la tristezza di cui mi aveva pervaso la notizia della morte di Fransisca, e di poter viaggiare rapidamente e co­modamente mi spinsero ad accettare la proposta.

Pi che un amico, Prinoth si rivel un padre, discreto e generoso. Non mi parl pi di Venezia n di Fransisca; solo una volta che mi vide chiuso in un desolato mutismo si lasci andare a dirmi: Guerino, credete a un vecchio sciocco! Voi siete giovane: tornerete ad amare ed essere amato.

Prinoth ebbe anche la capacit di comprendere quan­do avevo bisogno di silenzio e quando della sua rumorosa conversazione. Cerc di farmi mangiare abbondantemente perch mi ritemprassi; cerc anche, ma con minore succes­so, di farmi bere molto vino e molta birra: rimedi, assicu­rava, preziosissimi per ogni malattia dell'anima e del corpo.

Gli affari obbligavano il mio amico a frequenti soste, cosicch il viaggio risultava tutt'altro che faticoso. Quando rimanevo solo, io leggevo appassionatamente la Bibbia che era stata di don Fanelli. La traduzione italiana mi faceva intendere nuovi significati delle Scritture e suscitava in me nuovi problemi. Non mi stancavo di passare dalle parole volta a volta terribili o dolcissime dei profeti alla storia grandiosa dell'Esodo all'accesa sensualit del Cantico dei Cantici: un dono fatto da Dio ai giovani, io credo, perch siano fieri della carnalit del loro amore. Talvolta, come mi poi di nuovo accaduto nel corso della vita, sentivo Dio sovrastarmi come quando Mos, sul monte, gli aveva chie­sto di contemplarlo: giacevo in una cavit della roccia, egli mi faceva schermo con una mano perch il fulgore della sua gloria non mi uccidesse mentre passava per ore, per giorni, sopra di me come nuvole di temporale spinte da un vento impetuoso. Talvolta, come sempre pi frequentemen­te mi accade ora che sono vecchio, mi sembrava invece di sentire nella mia mano la mano calda e asciutta del Cristo che mi portava con s verso una festa di nozze; o, addirit­tura, ripensando a ci che avevo sofferto, credevo di essere Lazzaro chiamato fuori dalle tenebre del sepolcro verso la luce del sole...

A Mezzocorona, come convenuto, vi fu il congedo. Toni, che andava verso il Tirolo in cui continuava, e da anni ormai, a infuriare la peste, dichiar solennemente che con i tempi che correvano era facile che due cristiani non dovessero rivedersi se non in paradiso; ma se mai io fossi salito dalle parti di Innsbruck, ricordassi che vi avevo un amico sicuro. Risposi, con altrettanto affetto, che, saputo ci che aveva fatto per me, i miei genitori lo avrebbero sempre considerato un fratello. Gli vennero le lacrime agli occhi, ordin con voce brusca al cocchiere di partire imme­diatamente. Dio lo benedica!

Discesi a piedi la Val di Non senza incontri degni di nota, ma felice di trovarmi fra monti cos simili ai miei. Poi, un giorno - ero ormai giunto a una trentina di miglia dall'inizio della salita per il Tonale e zoppicavo penosamen­te per una piaga che mi s'era formata a un calcagno - mi super una carrozza tirata da due cavalli. La guardai senza speranza: sapevo ormai, per molteplici esperienze, che ben pochi signori sono della razza di Toni Prinoth. Con mia grande meraviglia, invece, la carrozza si ferm e il vetturale mi fece cenno che mi avvicinassi. Quasi incredulo, mi af­frettai come potevo. Dal finestrino si sporse il volto magro e pallido di un anziano frate domenicano: Monta, monta, figliolo. Siediti a cassetta, poich qui dentro siamo gi in due e con un gran mare di carte. Ringraziai con calore. Mi rispose: Il nostro santo padre Domenico ci ha insegnato a vedere Cristo in ogni bisognoso. Sii dunque il benvenuto.

Salii accanto al cocchiere e commentai che quel frate era davvero un brav'uomo: Altroch disse con convin­zione il vetturale. E sapessi quant' importante! Ma poi­ch la strada era difficile e sconnessa, rimandammo i discor­si ad altro momento.

 

 

 

 

 

 

6

Due ore pi tardi giungemmo al convento domenicano di ***, ai piedi dell'erta per il Tonale. Il nostro arrivo do­veva essere atteso perch il portone fu subito spalancato, una campanella cominci a suonare festosamente e da ogni parte vennero correndo frati di tutte le et. Si radunarono intorno alla carrozza, inchinandosi e sorridendo: nei loro abiti bianchi e neri, sembravano un branco di gazze intente a becchettare.

Seguito da quello che era evidentemente un segretario e che si teneva umilmente in disparte, l'anziano domenicano che mi aveva raccolto sulla strada scese dalla carrozza e potei finalmente vederlo bene: era alto e diritto, i capelli brizzolati, il naso aquilino e le labbra sottili nel volto sca­vato. Il superiore del convento si fece avanti e tent di baciargli la mano; quello gliela sottrasse e lo strinse invece amabilmente fra le braccia.

La campana, intanto, continuava a suonare. I frati si ordinarono in processione e tutti ci recammo nella cappella per una breve cerimonia di ringraziamento. Dopo la pre­ghiera, rivolto ai suoi sudditi, il Priore del convento disse: Fratelli, avremo la gioia di ospitare per qualche settimana padre Romualdo Zane, vanto del nostro Ordine, recente­mente nominato Inquisitore per la Terraferma veneta. Egli viene, con un caro confratello, a raccogliere le memorie del nostro venerando padre Valerio per metterle a frutto di tut­ta la Santa Chiesa. Sono sicuro che ciascuno di noi cercher di rendere lieta e proficua la sua presenza fra noi.

Rispose amabilmente padre Romualdo che la tradizione di ospitalit e la temperie spirituale del convento di *** gli erano ben note, sicch si considerava come giunto nel­la propria casa. Egli veniva per un compito non facile ma certamente utilissimo. Dopo il Sacrosanto Concilio di Trento, la Chiesa stava dovunque rinvigorendo la lotta agli errori che offuscavano il suo volto e la ragione di tanti uo­mini e donne, persino di sacerdoti. Non era difficile - disse padre Romualdo - identificare e combattere i luterani, nep­pure quelli che, come fumus Diabuli, si erano insinuati nella Casa del Signore: da un lato, le loro eresie erano immediatamente riconoscibili nel rifiuto di sottomissione filiale al Sommo Pontefice e di venerazione per la Santa Madre di Dio; dall'altro, grazie al Cielo!, nelle nostre terre essi non potevano, come purtroppo altrove, contare sulla protezione di principi o di altri potenti.

Ma i luterani - spieg l'oratore - non erano l'unico pericolo per la purezza della fede: altre eresie erano diffuse tra il popolo. Anzi, era convinzione di padre Romualdo, che la povera gente (la maggior parte dell'umanit!) poco si curasse di dibattiti teologici e di contese sulla Santa Bibbia e continuasse, invece, a lasciarsi fuorviare, in molte zone, da orribili superstizioni che affondavano le radici nelle an­tiche sozzure pagane e nella presenza sempre viva e vele­nosa di Satana.

Anche per il fatto di abitare cos vicino al Passo del Tonale, unanimemente riconosciuto come luogo di raduno delle streghe, i cari confratelli sapevano bene quanto i culti demoniaci fossero ancora vivi tra i bifolchi delle valli alpi­ne. Lui, padre Romualdo, bench indegno, era stato chia­mato a ripulire da queste immonde erbacce il giardino della Chiesa, nella Terraferma veneta. Lo avrebbe fatto con tutte le sue forze. Ed ecco che, mentre si preparava al suo com­pito, senza nessun altro scopo che la maggior gloria di Dio, egli aveva appreso che proprio l, nel convento di ***, era ancora vivo padre Valerio de Boni, colui che, per la sua meravigliosa battaglia in Valcamonica, pi di mezzo se­colo prima era stato chiamato malleus maleficarum!

Padre Romualdo aveva allora sentito il desiderio, e quasi il dovere, di raccogliere gli insegnamenti di un uomo cos straordinario: del testimone di una stagione in cui la Chiesa, non infiacchita dalla mitezza eccessiva di certi ec­clesiastici, come poi era avvenuto, aveva colpito duramente gli adepti di Satana. L'Inquisitore si sarebbe posto ai piedi di padre Valerio come alunno, ne avrebbe registrato atten­tamente le preziose lezioni. Intanto, desiderava ringraziare il reverendo padre Priore e i cari confratelli tutti per avere mantenuto in vita con la loro amorevolezza un uomo tanto venerando.

I frati accolsero con evidnte compiacimento il discor­so di padre Romualdo e poco manc che lo applaudissero.

Avevo notato che pi volte il Priore mi aveva fissato, dapprima con uno sguardo interrogativo e poi con aperta cordialit. All'uscita dalla cappella, mentre padre Romual­do e padre Teresio "(cos si chiamava il segretario) si reca­vano a prendere possesso delle loro celle, egli venne feste­volmente verso di me e mi domand se io non fossi figlio di quel messer Bernardino Ronchi di Breno, cui gli pareva ch'io somigliassi e cui la famiglia domenicana doveva rico­noscenza per tante cortesie ricevute.

Alla mia risposta affermativa, egli mi esort a fermar­mi nel convento quanto volessi e, vedendo che zoppicavo vistosamente, mi ingiunse di farmi medicare da padre Lu­dovico: il quale, dai confratelli e dagli abitanti dei paesi vicini, era considerato un grande dottore bench avesse studiato soltanto, come lui stesso usava dire, all'universi­t di mia madre e dei boschi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7

Nonostante gli impiastri ( o forse a causa degli impia­stri) di cui padre Ludovico andava ricoprendola, la piaga si infett, il piede mi si gonfi e mi trovai impossibilitato a riprendere il mio cammino. Ormai, tuttavia, ero vicino a casa. Scrissi alcune lettere a mio padre e le affidai ad altret­tanti viaggiatori che salivano verso la Valcamonica. Chie­devo umilmente aiuto come il figliol prodigo del vangelo; raccontavo, molto sommariamente, le mie avventure, mi fe­licitavo di avere appreso che la peste si era arrestata ai con­fini meridionali della Valle, cosicch potevo pensare in buo­na salute tutti i miei cari; e supplicavo mio padre di man­darmi a prendere con una carrozza o di farmi avere i soldi per l'acquisto di una cavalcatura. Io avrei atteso due setti­mane nell'ospitale convento, a meno di non trovare chi ac­consentisse a prendermi con s; poi — padre Ludovico giu­rava che per quell'epoca sarei perfettamente guarito - in caso di mancata risposta avrei ripreso a piedi il mio viaggio: maggior indugio non mi era consentito dal desiderio, che ormai s'era fatto smanioso, di rivedere la mia famiglia, do­po tanto soffrire e mio e suo.

Le frequenti letture della Bibbia nel silenzio della cap­pella e la partecipazione alle liturgie conventuali mi aveva­no attirato la simpatia dei frati che spesso, dopo la refe­zione serale, amavano conversare con me. Alcuni di loro erano ignorantissimi, altri non si erano mai mossi dal con­vento se non per qualche cerimonia nei paesi circostanti, nei quali erano nati: a loro, nonostante la giovane et, io apparivo come un grande viaggiatore ed essi non si saziava­no mai di ascoltare i miei racconti: che talvolta, con un po' di vanit o addirittura di malignit, infiorettavo di partico­lari sensazionali fantasiosamente inventati.

Fra quelli che gradivano conversare con me, uno mi attirava specialmente, per la sua finezza intellettuale e per la sua intensa religiosit; e nello stesso tempo mi incurio­siva perch, man mano che passavano i giorni, lo vedevo turbato e quasi divorato da una febbre interiore. Era quel padre Teresio da Rovereto che accompagnava come segre­tario padre Romualdo.

Poteva avere quarant'anni, la sua corporatura era esi­le, spioventi le spalle. Ai lati del cranio rasato, perfetta­mente rotondo, le grandi orecchie sporgevano vistosamen­te, conferendo al suo volto, non so bene perch, un aspetto infantile. Anche la bocca sembrava quella d'un bambino, un po' gonfia. La miopa rendeva i suoi occhi incerti e dolcissimi.

Quando, per la prima volta, avevamo intrecciato una conversazione, il giorno dopo il nostro arrivo, si era detto felice del lavoro cui avrebbe atteso. La sua passione era la storia, quella sacra e quella profana: Pensate! Padre Va­lerio una persona nata nel secolo scorso, oggi nonage­nario. Quali tesori pu offrirci se la sua memoria ancora integra, come dicono e come a me pare, dopo il primo breve incontro con lui! .

Aveva insistito perch mi recassi a vedere il vegliardo. Avrei dovuto fingere di essere un servo, per non turbarlo: padre Valerio, infatti, non amava essere avvicinato da sco­nosciuti e soltanto per mantenere fede al proprio voto di obbedienza aveva accettato di rispondere alle domande di padre Romualdo.

Eravamo entrati in una grande sala, arroventata da un caminetto acceso nonostante la dolcezza di quel settembre. Il martello delle streghe mi parve, dapprima, piuttosto che un uomo, un immenso viluppo di panni e di coperte abbandonato su una grande poltrona. Poi distinsi una fac­cia gonfia, color cenere, singolarmente priva di rughe, ispi­da di una barba mal rasata. Gli occhi acquosi ammiccavano sotto sopraccigli cos folti da sembrare due pezzi di pellic­cia. Dalla grande bocca sdentata usciva una vocetta grac-chiante che talvolta si perdeva in un sussurro incompren­sibile. Da anni una paralisi gli aveva immobilizzato la gam­ba e il braccio sinistri.

Il medico del convento (vale a dire: padre Ludo­vico), che da tanti anni si curava di lui, asseriva che ormai padre Valerio aveva i giorni contati dall'idropisia: i visita­tori erano giunti appena in tempo...

Nella stanza ristagnava un acre odore d'urina; ma su quel corpo in disfacimento si appuntava, come potei con­statare quel giorno e nei giorni seguenti, la venerazione dei confratelli perch tutti sapevano che, per decine di anni, padre Valerio aveva posto, e logorato, il suo vigore fisico a difesa della purezza della fede.

Mentre raccoglievo alcune stoviglie, i suoi occhi mi avevano seguito con sospettosa ostilit, poi lo avevo sentito chiedere a padre Teresio: Siete uno di quei veneziani? Quando dobbiamo cominciare?.

Domattina, reverendo padre aveva risposto con os­sequio il frate.

Allora, sorprendentemente, padre Valerio aveva riso: Beh, fate in fretta se volete che ci sia ancora! .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8

Alla primitiva eccitazione dello studioso che sperava di ampliare le proprie conoscenze and subentrando in pa­dre Teresio una condizione di profondo disagio e poi di crescente malessere.

Gi agli inizi del suo lavoro, mi confid che era rima­sto turbato dal modo di porsi del vegliardo davanti al mes­saggio di Dio: Vedete, Guerino, io credo che ognuno, magari senza saperlo, scelga un proprio vangelo ideale, ri­tagli dalle Scritture una norma che gli pare importante so­vra le altre. Lui, padre Valerio, ha scelto due terribili frasi dell'Antico Testamento, legate ai tempi della "durezza di cuore" di Israele. Sono le uniche citazioni bibliche che ri­pete in continuazione. Per averle ormai scritte tante volte, le ricordo a memoria: Esodo 22,17: Non lascerai vivere chi pratica la maga; Levitico 20,27: Se un uomo o una donna in mezzo a voi evocheranno gli spiriti dei morti o faranno gli indovini, dovranno essere uccisi: saranno lapi­dati e il loro sangue ricadr su di loro...

Qualche giorno pi tardi, padre Teresio mi chiese quanti abitanti potesse contare la Valcamonica nel 1518, cio all'epoca della grande caccia alle streghe sferrata da padre Valerio e da quattro suoi confratelli che lavoravano in stretto accordo con lui. Io non lo sapevo esattamente ma azzardai una cifra che ho poi verificato esatta: fra le trenta­cinquemila e le quarantamila persone. A questa mia rispo­sta, padre Teresio alz le mani al cielo: Sapete quante furono gettate in carcere? Circa cinquemila, il che vuol dire che non solo intere famiglie ma interi paesi vennero coinvolti nei processi! .

Il giorno dopo, le labbra gli tremavano mentre mi rac­contava: Una strage, una vera strage! terribile ci che ci ha raccontato oggi il vegliardo! Pensate! Sulle piazze delle cinque pievi della vostra Valle furono bruciate vive, complessivamente, sessantaquattro persone. Talune erano state torturate cos a lungo e crudelmente da dover essere portate al rogo su barelle; e almeno quattro donne erano gi morte prima che le fiamme le raggiungessero. Ma, dice il vecchio, furono arse egualmente: perch anche il numero degli abbruciati conta quando la Chiesa e il suo braccio secolare scelgono, per fortificare la fede dei sudditi, la me-dkina di un salutare terrore.

Man mano che il lavoro di verbalizzazione dei raccon­ti di padre Valerio procedeva, un mutamento anche fisico traspariva nei due Inquisitori. Padre Romualdo aveva oc­chi pi accesi e un tenue rossore copriva le sue pallide guance quando usciva dalla sala degli interrogatori; a sera, durante la cena, non mancava di rendere pubbliche lodi al coraggio, alla tenacia con cui padre Valerio aveva sradicato la mala pianta della stregoneria: Un vero Domini canis esclamava con forza.

Padre Teresio sembrava invece divenuto un topo im­paurito. Avvolto nel suo mantello nero scivolava lungo i muri, silenziosamente ed evitava ogni conversazione. Ac­campando un persistente dolore allo stomaco, aveva chiesto ed ottenuto di essere esentato dalla cena in refettorio: be­veva una scodella di latte in cucina; e l, una sera, lo trovai, tutto solo, in pianto.

Dapprima rifiut di parlarmi: poi, vinto dalla mia amorevolezza, mi confess di essere allo stremo delle pro­prie forze morali. Gli orrori che andava annotando, la com­piacenza con la quale padre Valerio rendeva le proprie ter­ribili deposizioni e l'insistenza con cui padre Romualdo chiedeva particolari sulle torture alle quali gli inquisiti erano stati sottoposti gli parevano essi stessi un rito malefico, che niente avevano a che vedere con la fede nel Signore Ges, mite e umile di cuore, colui che non spezzava la canna incrinata n spegneva il lucignolo fumigante.

Quel giorno, mi raccont Teresio, l'Inquisitore aveva domandato al vecchio come e perch avesse scelto, a suo tempo, la propria missione. Volevo ascoltare la risposta? Il mio amico trasse dalla tasca alcuni fogli di appunti che non aveva ancora avuto la forza di trascrivere. Riassunse cos ci che padre Valerio aveva detto.

Nel 1517, aveva trentadue anni e si trovava a Brescia quando gli era stato offerto da un confratello di intervenire come scrivano al processo intentato a quella che nella sua deposizione definiva una immonda vecchia. Gli interro­gatori nel chiuso della camera di tortura e quelli in pub­blico erano durati due mesi. Valerio ne era rimasto scon­volto: La pertinacia con la quale la megera negava le ac­cuse di stregoneria e poi la dovizia di infami particolari con la quale le confermava se appena, esaurito ogni bonario ten­tativo dei giudici, il boia le pungolava le carni, spalancarono davanti a me visioni di orrore. Era dunque vero quel che avevo sentito narrare da tanti, e cio che, come Cristo, an­che Satana ha i propri sacerdoti e, come i re, i propri eser­citi: i quali si levano in armi contro la fede non gi con picche e archibugi ma con unguenti e sortilegi anche pi temibili di ogni arma terrena; possono colpire con le forme d'una donna seducente, con l'avidit di piaceri o di poteri sovrumani, con il fascino di riti perversi.

Contemplando poi il sollievo dei testimoni — bifolchi che, finalmente, vista in ceppi la donna malefica, ritrova­vano il coraggio della verit e della conversione, dopo es­sersi da lei lasciati infangare l'anima — il frate aveva giurato di consacrare tutte le proprie forze alla lotta contro quello che definiva il corpo mistico di Satana.

Ma - desiderava sottolinearlo - a spingerlo a questo impegno non era stato soltanto l'odio per il male ma anche l'amore per i peccatori: L'orrenda vecchia, che nel viso e nel corpo deformi portava evidenti i segni della degrada­zione morale, man mano che le amorose esortazioni degli Inquisitori e l'opera del carnefice la piegavano al penti­mento, ritrovava l'amore per il Signore, per la Vergine; andava supplicandoli con tenere parole, con gemiti, con una devozione che pareva quella d'una bambina. Oh s, talvolta li invocava contro di noi: ma se tu costringi con la forza un piccino a ingurgitare l'amara medicina che pure gli neces­saria, anch'egli si dibatter, ti insulter e persino desiderer la tua morte... Allo stesso modo quella donna (ecco, ri-cordo il suo nome: Benvenuta Pincinella) gridava contro di noi: ma intanto, guidata dalle nostre mani di miele e di ferro, tornava sulla strada del Signore; e un'invocazione a Maria Santissima stato il suo ultimo grido tra le fiamme del rogo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

9

Qualche giorno pi tardi, dopo la messa conventuale, padre Romualdo annunzi che il suo confratello non aveva la forza di levarsi dal letto su cui giaceva tremante di feb­bre. Padre Ludovico fu mandato a visitarlo. Torn dicendo con la consueta ruvidezza: un professorino cui il mestie­re di frate non conviene. Il viaggio, il lavoro, i digiuni lo hanno sfinito. Letto e cibo abbondante lo guariranno. Ma disse rivolto all'Inquisitore credo che per qualche setti­mana vi sar necessario un altro aiuto.

Padre Romualdo si appart in conciliabolo con il Prio­re. Poco dopo, mi fece cenno di avvicinarmi a lui: Ho accettato di prendere come segretario padre Giuseppe da Vermiglio, consigliatomi dal suo superiore: ma solo per cortesia. Non sono convinto delle sue doti, mi sembra len­to e impacciato; ho avuto modo, invece, di notare che voi scrivete velocemente e so che siete un giovane colto, devoto e fedele alla Chiesa. Cos, appena trover modo di liberar­mi di padre Giuseppe senza offendere il Priore, il mio aiu­tante sarete voi.

Mi sentii mancare, inorridito com'ero dai racconti di padre Teresio; ma sapevo bene che non si pu negare col­laborazione a un membro della Santa Inquisizione senza attirare su di s e sui propri cari rovinosi sospetti. Risposi dunque che ero onorato della sua stima ma che, come sapeva, di l a una settimana, poich il mio piede era ormai guarito, avrei ripreso il mio viaggio.

Vedremo, vedremo! disse padre Romualdo, con un sorriso che mi parve sinistro.

Inquieto e angosciato, quella sera bussai alla porta della cella di padre Teresio, sia per portargli la consolazione dell'amicizia sia per chiedere il suo consiglio. La sua voce mi parve impaurita mentre mi chiedeva chi fossi, prima di aprire il chiavistello.

Quando mi lasci entrare, mi ritrovai, con grande sor­presa, in una cella inondata di luce. Le abitudini del con­vento erano spartane: in ogni stanza un fioco lumicino con­sentiva appena di vedere le sagome dei mobili; qui, invece, cinque candele ardevano sull'inginocchiatoio ed altre erano preparate accanto a loro.

In quel chiarore, gli occhi di padre Teresio apparivano pesti e supplichevoli. Egli tent un sorriso mentre si tra­scinava sul lettuccio dal quale era evidentemente sceso per aprirmi: Le ho rubate in sacrestia. Il buio mi fa orrore. Nel buio sento voci fioche che mi chiedono piet. Sono le vittime di padre Valerio, sapete. Se rispondo loro che non sono stato io il carnefice dei loro tormenti, esse replica­no che vesto il suo stesso abito e sono pronto a compiere le sue stesse imprese. Ho stretto il mio cilicio, raddoppiato le mie preghiere ma sono ormai il relitto di un naufragio. Non riesco pi a credere nell'obbedienza che un frate deve ai suoi superiori come se fossero lo stesso Cristo. Entrando nell'Ordine di san Domenico, avevo giurato che avrei ac­colto lietamente ogni incarico, ogni destinazione. Adesso desidero con tutte le mie forze andarmene da questo luogo spaventoso, lasciare padre Romualdo, padre Valerio. Quel­le voci....

Si lasci cadere sul letto, stringendosi nel suo nero mantello. Ma subito torn a levarsi: Quell'orribile vec­chio parla delle sue stragi come di una festa! Intorno ai roghi faceva suonare pifferi e zampogne e trombe e tambu­ri. E le campane suonavano, come al momento dell'elevazione. E a contemplare i roghi non c'erano solo uomini e donne ma anche bambini. Tutti dovevano sentirsi pi buo­ni e pi allegri mentre il Diavolo veniva scacciato dal paese attraverso i fuochi su cui spasimavano le carni della sua gente...

Sono malato, Guerino! disse con voce lamentosa. Chi mi liberer di questo corpo di morte? Non voglio guarire perch il futuro mi appare pi spaventoso del pas­sato. Quei fuochi bruceranno ancora, bruceranno ancora...

Cercai di consolarlo dicendo che padre Romualdo ave­va chiesto la sua sostituzione. Sorrise come un bambino che non si fidi di una bella promessa: Dite davvero, Guerino? Non ne so niente e non ci credo. Gli assicurai che era cos: io stesso, forse, avrei dovuto subentrargli nell'incarico.

Non lo fate, Guerino, fuggite! mi grid con voce strozzata. Non lasciatevi lambire dalle onde di quel mare mostruoso! Poi sembr quietarsi: Ma voi siete giovane, vigoroso. Avete una famiglia in cui rientrare. Vostra madre ancora viva, vero? Come vorrei avere una madre! .

Mentre parlava, il labbro inferiore cominci a tremar­gli e a inarcarsi verso l'alto, come quello d'un piccino che sta per piangere. Allora torn a distendersi e mi volt le spalle. Sconvolto, uscii dalla sua cella.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10

A salvarmi dalla decisione dell'Inquisitore fu, il gior­no dopo, mio padre. Quasi per un presentimento, leggevo le ultime pagine del Libro di Tobia, figlio di Tobi, un rac­conto biblico che descrive la meravigliosa storia di una fa­miglia unita nella sofferenza e nella speranza: Tobi gli si butt al collo e pianse dicendo: Ti vedo, figlio, luce dei miei occhi! E aggiunse: Benedetto Dio! Benedetto il suo grande nome!... Perch egli mi ha colpito ma poi ha avuto piet ed ecco io ora contemplo mio figlio Tobia.

Erano le dieci del mattino. Sentii la carrozza entrare nel cortile del convento, il cuore mi danz nel petto e corsi gi per le scale come un ragazzino. Era lui, era lui! Restam­mo un istante, muti, a contemplare i segni che il tempo e il dolore avevano inciso sui nostri volti. Poi ci abbracciam­mo stretti; e non riuscivamo pi a staccarci l'uno dall'altro...

Il Priore accolse amorevolmente mio padre, ci guid in parlatorio ed ebbe la bont di lasciarci soli a consumare un pranzo che, contrariamente alle usanze del convento, fu abbondante e arricchito di buon vino. Noi non riuscivamo quasi a parlarci, se non con frasi smozzicate. Lui, diceva, mi trovava ormai un uomo, io lo trovavo - mentii - gio­vane e vigoroso; ma cercavo invano di vincere la mia pena nel contare tante nuove rughe sul suo viso e quanto si fos­sero fatte grosse e nodose le vene sul dorso delle sue mani.

Fu facile discorrere degli altri, dare e commentare tante notizie. Ma parlare di noi fu - come al solito - quasi impossibile. La nostra gioia nel rivederci era grande, evidente il nostro reciproco amore. Questo avrebbe dovuto bastarci: fra padre e figlio difficile comunicare sentimenti, dirci quanto ci si vuol bene, descrivere certe esperienze, le pi intime. Ma io sentivo (e credo che anche lui sentisse) la nostalgia di quanto avrebbe potuto forse esserci fra noi e non c'era, non c'era mai stato: una confidenza piena, l'aprirsi vicendevole dei cuori. Cos la vita dei maschi, in questo, a me sembra, tanto pi rozza e povera di quella delle donne...

La sera salii nuovamente a far visita a padre Teresio. Lo trovai in piedi, allo scrittoio. Gli occhi erano lucidi di febbre e le sue guance arrossate; ma, d'un tratto, egli sem­brava forte e sicuro. Soltanto due candele ardevano ora nella stanza.

Mi fece cenno di sedermi sul suo letto mentre rapida­mente finiva di ricopiare alcuni fogli. La sua penna raschia­va una pergamena, con forza, decisa.

Dopo una decina di minuti, Teresio sospir come chi ha portato a compimento una lunga fatica. Si volt sorri­dendo: Guerino, fratello mio, ho lavorato tutto il giorno per te. Stamani ho sentito arrivare la carrozza, mi sono affacciato e ti ho visto riabbracciare tuo padre. Domani partirai, ne sono certo. Tuo padre m' sembrato un uomo deciso, non ti lascer nelle mani di padre Romualdo.

Torn a sorridere, come un fanciullo: Ieri sera, inve­ce di consolarti, ti ho turbato con il mio turbamento. Oggi ho pensato che ti avevo comunicato soltanto i fatti pi turpi che ho ascoltati da padre Valerio, mentre ce ne sono alcuni, da lui narrati con orrore, che a me sono rimasti nella memoria come un bel sogno. Ho voluto fartene dono. Mi pose in mano la pergamena che aveva vergato: Na­scondila, adesso, che nessuno la veda quando uscirai di qui. Io sono ormai perduto. Prega per me. Non mi lasci re­plicare, mi abbracci, mi spinse fuor dalla porta. Lo sentii chiudere il chiavistello, provai invano a bussare.

Come Teresio aveva previsto, mio padre fu scaltro e intransigente. Si appell alla comprensione dell'Inquisitore, da padre carnale a padre spirituale: questo figlio man­cava da casa ormai da un anno, dato per perso; adesso che era stato ritrovato e raggiunto, si poteva chiedere alla madre di pazientare ancora? La povera donna ne sareb­be stata straziata: e la Chiesa non esaltava forse la piet filiale? Ed era poi opportuno - si permetteva di chiederlo -che un uomo tanto giovane, e laico per giunta, venisse ad­detto a un lavoro cos delicato come quello che il reverendo gli aveva proposto? Lui, mio padre, gli era grato di tanta stima; e, per la conoscenza che aveva di me, osava dire che era ben riposta: Ma un giovane sempre un giovane, ten­de fatalmente alle chiacchiere con gli amici.

Romualdo, il quale, dopo tutto, doveva essersi ricre­duto sul conto del povero padre Giuseppe, fece buon viso a cattivo gioco. Mi lasci con la sua benedizione, ma volle aggiungere un consiglio: mi aveva visto leggere la Bibbia spesso, forse persino troppo spesso; ricordassi che anche fra la Sacra Scrittura e l'anima di un cristiano pu insinuar­si furtiva la voce del Tentatore. Soltanto la Gerarchia ec­clesiastica sa interpretare con sicurezza la Parola dell'Al­tissimo; riportassi dunque ogni mio dubbio di fede al mio parroco e non pretendessi mai di riuscire a comprendere da me un messaggio su cui da millecinquecento anni si affa­ticavano il Santo Padre, i Vescovi e i teologi...

Prima della partenza tornai da Teresio, ma inutilmen­te: la porta della sua cella era socchiusa, il mio amico era sdraiato sul letto, seduto accanto a lui, quasi ricopren­dolo, c'era padre Ludovico. Il medico si volt a guar­darmi, accigliato, scosse la testa in atto di deprecazione e con la mano mi fece cenno di andarmene. Non osai insistere.

Tutti gli altri frati ci salutarono affettuosamente, stringendosi intorno alla nostra carrozza. Il Priore, prima del congedo, chiese a mio padre se non volesse, per caso, es­sere presentato al vecchio padre Valerio che tanto si era prodigato per la salvezza di Breno. Con mia sorpresa, mio padre rispose che un attacco di gotta lo travagliava dalla notte precedente e riusciva a fatica a tenersi in piedi. Chie­deva, pertanto, licenza di partire subito.

Quando il portone del convento si chiuse alle nostre spalle, domandai ansiosamente a mio padre notizie sulla sua salute: soffriva molto? da quanto tempo quel male cos insidioso lo aveva colpito? Mio padre mi rispose brusca­mente: Sto benissimo; ma per nulla al mondo avrei vo­luto rivedere quell'uomo. Tu lo conosci? domandai sbigottito. Avevo tre anni rispose lui con voce sommes­sa quando a Breno, sulla piazza del mercato, bruciarono otto streghe. Tra la folla c'ero anch'io. Da un palco, il frate gridava che per ogni ramoscello posto sul rogo avremmo avuto il dono di cento giorni di indulgenza. Non sapevo che cosa fosse un'indulgenza ma portai anch'io il mio bravo legnetto e qualcuno mi batt le mani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

11

Dopo un'ora o poco pi, mio padre, stanco delle pre­cedenti giornate di viaggio e sfinito dalle emozioni, si appi­sol. Guardavo con tenerezza il suo volto che nel sonno sembrava pi dolce e indifeso; e sentivo crescere in me quello strano sentimento di paternit per il proprio padre che segna il trapasso dalla giovinezza egoista e competitiva alla maturit che sa riconoscere i doveri della gratitudine e della piet per l'anziano.

A questo stato d'animo si mescolava l'inquietudine che sempre coglie chi ritorna da una lunga assenza: i dubbi per il proprio futuro, la paura di trovare mutata la realt nella quale si vissuti ma soprattutto la paura di trovare mutati se stessi, irreparabilmente.

Costretto al silenzio, innervosito, mi ricordai infine delle carte consegnatemi da Teresio, le trassi dalla mia sac­ca e cominciai a leggerle.

Sono passati tanti anni da quel giorno e non sono mai riuscito a sapere come n dove sia finito colui che scrisse quella lettera. Temo forte che egli non sia campato a lungo dopo il nostro congedo: se egli ha manifestato a qualcuno - tanto pi nell'ambiente in cui viveva - le opinioni che mi aveva confessato apertamente, e che nella sua lettera cos inquietante ribadiva, non c' da dubitare che la Santa In­quisizione lo abbia stritolato, o reso muto, con quelle mani che il terribile vegliardo aveva definito di ferro e di miele...

Teresio aveva scritto:

Caro Guerino, fratello mio nel Signore, nel Cristo Ges nella cui misericordia continuer a credere sino al mio ultimo respiro! Ci siamo conosciuti per pochi, pochissimi giorni: ma la tua amorevolezza nei miei confronti stata cos cordiale e toccante che io ti ho aperto volentieri il mio cuore travagliato; di pi: mi sono attaccato a te come fa un bambino con il fratello maggiore se le tenebre calano im­provvisamente mentre sono in cammino.

Grazie! Te lo dico con tutto il cuore perch penso che non ci vedremo mai pi, su questa Terra. Io sto per compiere qualche atto che potr sembrare inconsulto ma che a me sembra doveroso: debbo, assolutamente, testimoniare in pubblico l'orrore che mi ha colto nell'apprendere dalla viva voce di un carnefice le torture inflitte a creature di Dio, nel suo Santo Nome. Tacere mi sembrerebbe correit: tanto pi che comprendo che padre Romualdo si prepara a riprendere le imprese di Valerio de Boni; e ne ha i mezzi e il potere.

Io non affermo che tutte le persone cadute nella "grande caccia" in Valcamonica fossero sante. Al contrario, possibile e persino probabile che qualcuna si fosse mac­chiata di uno o pi delitti; altre erano sicuramente folli; al­tre ancora, cattive, per naturale inclinazione o perch rese tali dalla repulsione dei vicini per la loro bruttezza o infer­mit; ed altre erano veramente streghe o stregoni, cio si erano convinte di esserlo per illudersi di essere forti mentre non erano che rottami umani; o perch, prive della grazia della fede, cercavano di seguire ancora antichissimi riti, giunti, con chiss quali deformazioni!, sino a loro; o perch, infine, si vantavano capaci di malefici per guadagnarsi da vivere alle spalle della superstiziosa crudelt della plebe, degli odi che tanto spesso avvelenano la vita dei paesi e persino delle famiglie. Alcuni meritavano certamente una punizione, severa. Ma non furono puniti: furono massacra­ti, fatti a brandelli! E, pensa, Guerino, che le sessantaquat­tro persone poste al rogo in quel terribile anno 1518 confessarono complessivamente pi di duemilacinquecento as­sassini: una strage di cui nessuno aveva mai avuto contezza, incomprensibilmente, prima che Valerio e i suoi confratelli giungessero nella Valle!

La realt che gli Inquisitori ararono la Valcamonica paese per paese con la loro predicazione. Seminarono il terrore in tutti i cuori: ogni gesto furtivo di un vicino, ogni strano odore annusato alle finestre di una persona che viveva sola, il canto inconsueto di una vecchia, tutto poteva testimoniare la presenza del demonio. Non riferire questi segni di Satana agli Inquisitori significava farsi com­plici delle streghe, perdere la propria anima, rischiare l'ar­resto e la tortura.

Ai peggiori non fu difficile rivestire di questi sospetti le persone su cui appuntavano i propri rancori, le proprie antipatie. Ai pi deboli fu difficile vincere la tentazione di diventare, di colpo, eroi, collaboratori dei potenti in un'im­presa tanto meritoria. Cos si riempirono di gente le carceri e le sale di tortura.

Straziate dai tormenti, blandite da promesse non mantenute, estenuate dalle preghiere continuamente rove­sciate su di loro, schiacciate da terribili invettive, riprese dolcemente e poi lasciate ricadere di schianto nell'abisso dei supplizi, molte di queste persone confessarono turpitudini senza nome. Confessarono? Per notti e notti, nell'insonnia che mi viene dall'orrore, io ho studiato queste "confessio­ni": ti giuro, Guerino, non possono essere tali! Non vec­chie analfabete, non poveri contadini vissuti in casolari isolati, ma solo persone che conoscevano la teologia e la liturgia possono avere inventato quei riti sacrileghi, quegli sfregi osceni alla nostra religione. Le deposizioni delle stre­ghe e degli stregoni sono, a parer mio, la pi parte almeno, i sogni perversi degli Inquisitori trasformati in parole im­poste a povere bocche sanguinanti.

Ma mentre, incalzate dalle torture, le vittime accetta­rono, un poco alla volta, di fare proprie quelle orrende fantasie, quando ad alcune giovani donne fu concesso di dire quel che volevano (purch confessassero di essere streghe, s'intende! ) esse inventarono racconti che a me sembrano la disperata volont di sognare il trionfo della propria carne e di una libert senza limiti nei luoghi in cui la carne ve­niva crocifissa e "libert" era una parola priva di senso.

Ho cercato di cucire fra loro alcuni di questi racconti perch essi si somigliano in maniera stupefacente. Streghe davvero, dunque? Non so rispondere. Ma domani, quando salirai verso il Tonale e traverserai quel passo, guardati in­torno. l che avrebbero dovuto essere sparse le ceneri di quelle povere donne, l dove hanno sognato di essere state felici...

Spero che tu non considererai il mio dno come qualcosa di diabolico... o come un mio cedimento alla su­perstizione. Io te lo affido, invece, come un messaggio di speranza: nessun carnefice pu uccidere la fantasia dei po­veri, la loro sete di libert.

Dio sia con te, sempre. Tuo fratello Teresio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

12

Dai racconti di padre Valerio de Boni, gi Inquisitore per la Pieve di Breno di Valcamonica nell'anno 1518, e dai verbali degli interrogatori di alcune streghe poi bruciate vive, carte che egli amorosamente conserva nel convento di ***.

Ah, Madonna, piet di me! Piet di me, buoni signori! Che cosa volete che vi dica ancora? Le notti sul Tonale? Quali notti? No, basta, per l'amor di Dio. S: le notti sul Tonale.

Avvenne una sera. La mia mamma, che era una strega (Dio abbia misericordia di lei!), mi disse che poteva pro­curarmi ricchezze e piaceri se appena io lo avessi voluto. Io la guardai credendo che fosse impazzita: abitavamo in un tugurio, mio padre era morto quando io ero bambina, vivevamo di miglio e di un po' di latte e io non avevo mai posseduto un paio di scarpe. Risi, dunque, alle sue parole. No, non sapevo che fosse una strega, non m'ero mai accorta di qualcosa di strano. Mi obbedirai? chiese lei, senza badare al mio riso. Risposi, meravigliata, che le avevo sem­pre obbedito. Allora lei batt le mani e subito comparve davanti alla porta della nostra casa un bellissimo cavallo nero...

In nome di Dio, che volete che dica? S, s: sputai su un crocefisso, prima, il cavallo nero comparve subito dopo. Lasciami, lasciami, vigliacco! Va bene: non era un cavallo, mia madre unse una scopa, con un suo unguento, vi montammo sopra a cavalcioni e quella si lev per l'aria. Volam­mo cos in alto che nessuno poteva vederci.

Nel tempo che ci vuole per recitare un'Ave Maria giungemmo su una bellissima pianura che era quella del Tonale. Quante luci, quante luci! C'erano centinaia e cen­tinaia di persone: alcune suonavano e molte coppie balla­vano il rigoletto, quella danza che un grande giro­tondo. No, non vidi diavoli. Come dite? S, alcune donne avevano piccole corna sulla fronte...

Erano bellissime coppie, eleganti, allegre. E qua e l per la pianura c'erano mense imbandite con ogni mera­viglioso cibo e grandi caraffe di vino e calici d'oro per bere. Seduti ai tavoli c'erano signori e signore ma anche contadini e contadine vestite a festa, e mangiavano e beve­vano lietamente. Ma quando mia madre ed io arrivammo sul nostro cavallo nero - oh, s: sulla nostra scopa - le mu­siche e le danze si interruppero e la gente che stava a tavola si alz e tutti vennero verso di noi e mi battevano le mani e mi gridavano: Benvenuta fra noi, come sei bella! .

Mi scortarono verso un grande palazzo che scintillava di luci. Era di marmo, ricoperto d'oro e di pietre preziose. Aveva colonne d'oro; e nella grande sala in cui mi intro­dussero c'era un uomo gigantesco che sedeva su un trono d'oro e la gente si rivolgeva a lui chiamandolo Grande Maestro. Intorno a lui c'era una corte di baroni ricca­mente vestiti di seta; e dietro di loro molti bellissimi giovani.

Mia madre, tenendomi per mano, mi condusse davanti al trono, si inchin e disse: Mio signore, ti ho portato una discepola. Allora il Grande Maestro esclam: Brava, mia carissima, tu sei davvero un'amica preziosa. Siediti qui, ai miei piedi, su questo tappeto d'oro; ti godrai la festa accanto a me. Poi mi guard con i suoi immensi occhi, che, anch'essi, rilucevano come oro. Mi disse: Figliola, tu sei la benvenuta!. Nessuno mi aveva mai parlato con tanta dolcezza...

No, non vidi corna sulla sua fronte. Qualche altro se­gno? Lasciatemi pensare... Ecco, aveva le mani palmate, ma lo si vedeva appena. Mi chiese se io volevo diventare sua figlia ed io risposi di s. Allora sorrise e fece un cenno e venne verso di me un bellissimo giovane...

No, no, perch? Perch? Signore, Madonna, cosa mi fate dire! Sputai... e orinai... su un crocefisso... perch il Grande Maestro mi aveva detto: Tu rinnegherai la fede di Cristo e mi avrai per tuo Signore, e mi adorerai per tuo Dio...

E venne dunque quel bellissimo giovane e davanti a tutti ci amammo e lui era dolce e tenero... No, non sulla croce, non sulla croce... Non... S, sulla croce...

E giacemmo a lungo insieme e fummo felici, maledet­ti!, felici, felici, felici...

 

 

 

 

 

 

















Parte III

IL MAIZ

Porta il buon villanel da strania riva sovra gli omeri suoi pianta novella e, col favor della pi bassa stella, fa che risorga nel suo campo e viva...

(Francesco Beccuti, Rime, 1509-53)

 

 

 

 

 

 

 



















1

Come avviene ormai sempre pi spesso, l'alba mi tro­v ad occhi aperti. Mi levai pian piano dal letto, attento a non destare Cecilia; e anche a non destare (ci che assai pi difficile! ) il reuma che da anni mi travaglia il gi­nocchio sinistro.

Il famiglio Battisti mi attendeva nella piazza, con il mulo. Montai in sella con un po' di fatica e intanto, come ogni mattina, mi guardai intorno per un attimo a contem­plare con amore quello che per me il centro dell'universo mondo.

La piazza grande, credo la pi grande della Valle; ed , a me pare, bellissima. Il suo cerchio quasi perfetto sembra delimitato dai monti: la Concarena, che fu l'Olimpo degli dei carmini; il Badile, con la sua tagliente lama di roc­cia arrossata dall'irrompere del sole; l'Alta Guardia, festo­samente verde, onorata dal santuario di San Valentino, sorto sui resti di un tempio romano consacrato ad Apollo; e poi la collina su cui sorge la rocca, fondata — come affer­mano i dotti - da Auronco, luogotenente di Brenno. Da Brenno, il condottiero dei Galli che umiliarono Roma, deri­verebbe il nome di Breno; da Auronco, quello della mia famiglia.

Quasi per riaffermare queste mitiche origini e poten­za, mio padre costru proprio alle falde del colle la nostra casa; e consider poi uno sfregio il fatto che il Municipio, nel 1566, sospinto dalla lieta constatazione che ormai la pace della Valle sembrava destinata a durare per sempre, acquistasse dalla Serenissima l'ormai vuoto castello e ne

vendesse i contrafforti alle famiglie brenesi perch li tra­sformassero in orti e vigneti. Inutilmente l'Arciprete Rizzoni and magnificandogli la serenit della pace agreste contrapposta agli orrori delle guerre; inutilmente gli cit l'immortale Ovidio:

Jam seges est ubi Troia...

Ormai c' un campo dove sorse Troia...

Poich la strada che mena al castello costeggia pro­prio la nostra abitazione, ad ogni carro di terra che i ca­valli - raspando coi ferri il ciottolato e traendone lunghe scintille - trascinavano verso la rocca fra le grida dei car­rettieri, mio padre borbottava bestemmie; n lo placava il fatto che, la sera, scendendo dai nuovi campi, non pochi infilassero, silenziosamente, nelle inferriate della finestra della cucina fiori o primizie, come omaggio a mia madre. Erano i tempi in cui mio padre si faceva dipingere il famoso ritratto; e credo che molto del cipiglio che volle impresso sul suo volto fosse dovuto a quell'amarezza: era un mer­cante, ma se fosse stato un generale, non sarebbe mai dive­nuto un Cincinnato.

Mentre percorrevo pian piano la piazza, in quella mat­tina di giugno, ripensavo a mio padre con tenerezza. Da quando ho raggiunto i sessant'anni, ogni ricordo amaro di lui s' come dileguato: non conservo che la memoria della lieta irruenza in cui viveva, l'amore delicato che portava a mia madre (nonostante qualche tradimento che gli pareva peccato veniale); e la pronta risposta al mio appello, ai tempi della mia avventura; la generosit, infine, con la quale non mi chiese mai conto di quella che i miei fratelli maggiori mi rimproverarono spesso come una pericolosa folla.

Ma forse neppure questo vero: anche questi ricordi sono ormai sbiaditi. Pi facilmente, invece, da un po' di tempo, da quando, cio, diventato quasi impossibile par-

lare di lui con qualcuno (morti tutti i suoi coetanei; e morti tanti dei miei! ), l'immagine di mio padre che si so­vrappone a ogni altra del tutto fantastica e straziante. Lo vedo con il volto terreo della sua ultima malattia, una ru­vida barba bianca; ed un mendicante che sale per una strada polverosa.

Io sono un bambino. Qualcuno mi ha posto fra le ma­ni un grande pane e mi ha detto di portarglielo. Io so che egli ha fame e che potrei, con una breve corsa, raggiungerlo e consegnargli quel dono pietoso. E tuttavia non riesco a muovermi: c' in me il timore che egli mi guardi con occhi imploranti, con un sorriso troppo mite, che infrangerebbe per sempre la sua figura di padre; che egli allunghi la mano in una carezza che mi farebbe piangere di compassione...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2

Quella mattina, tuttavia, andavo anch'io come un fo­restiero nella mia terra: avrei contemplato un piccolo — o forse grande - avvenimento senza esserne protagonista. Un giovane amico, il cavalier Pietro Gaioncelli, di Sonico, mi aveva invitato ad assistere alla seminagione d'una nuova pianta, destinata, secondo lui, a liberare la Valcamonica da quella scarsit di granaglie che spinge tanti Carmini alla sofferenza dell'emigrazione.

Questa pianta - che il Gaioncelli chiama maiz ma che i suoi contadini preferiscono chiamare, fantasiosamen­te, grano turco - arriva dai confini della Terra. Emi­granti, mercanti o soldati, molti di noi valligiani hanno percorso l'Europa e non pochi hanno combattuto a Ci­pro e a Candia, sotto le bandiere della Serenissima; ma il Gaioncelli andato ben pi lontano: nel Nuovo Mondo, nel Mexico, ove egli ha militato valorosamente fra gli Spa­gnoli alla conquista di un immenso impero di straordinarie ricchezze. Che un conquistador, come chiamano la gente che combatte laggi, abbia portato con s, tornando, non solo oro per la sua famiglia ma anche una semente che po­tr saziare la fame di molti, questo mi sembra ammirevole.

Ma pi mi lascia pensoso il fatto che il mondo sia di­ventato improvvisamente cos vasto - e cos piccolo: che sterminate regioni delle quali un secolo fa non si supponeva neppure l'esistenza possano oggi donarci nutrimento mate­riale mentre lo zelo eroico di tanti sacerdoti porta laggi il nutrimento spirituale del vero Dio. Il coraggio della nostra vecchia Europa continua ad allargare gli orizzonti della civilt e a tessere nuovi inquietanti legami fra genti diversis­sime. Il giovane ancora vivo in me osa sperare che, solleva­ta l'ultima cortina della nostra ignoranza, troveremo, non il mitico paese dell'oro - l'El Dorado, lo chiamano i conqui­stadores - ma la Terra Nuova profetata da san Pietro, in cui regnano la giustizia e la pace; ma il vecchio che il gio­vane ormai costretto a portare sulle spalle teme, invece, che al di l degli oceani violati ci si possa imbattere in ter­ribili orde di nuovi Tartari o Mongoli che, divenuti consa­pevoli della nostra esistenza, muovano al nostro attacco co­me il Khan Gianisbergo a Kaffa, tre secoli fa. Arrivai al podere del Gaioncelli che il mattino era gi alto e l'aratura volgeva al termine. Il mio amico - vigoroso e diritto nonostante il suo corpo sia segnato da tante feri­te - appariva emozionato. Aveva accanto il sacco delle se­menti e vi tuffava le mani: i semi sembravano chicchi di melograno, alla forma, appena un poco pi grandi, ma di un bel colore giallo che ricorda quello del sole.

Il cavaliere mi salut rumorosamente. Era una solenne giornata per lui, disse, e, se non s'ingannava, per la Valcamonica. Era sicuro che gente come noi avrebbe saputo ottenere raccolti ben migliori di quei selvaggi indiani da cui aveva imparato le virt del maiz. Mi spieg che le pian­te sarebbero cresciute sino all'altezza di un metro e mezzo, e pi, e avrebbero prodotto pannocchie assai pi grandi e robuste di quelle del miglio. Macinandone i grani, si sa­rebbe ottenuta una farina gialla che, fatta bollire a lungo in acqua, avrebbe fornito un ottimo alimento per i contadini, invece della solita povera zuppa di miglio cui sono abituati.

Poi - il sole batteva ormai sulla collina con tutta la forza del mezzod - Pietro Gaioncelli propose: Mettiamo­ci un po' all'ombra di quei lecci. Lo seguii volentieri. Egli continuava a parlare, eccitato; e, parlando, menava col suo bastone grandi colpi a una siepe di arbusti. D'un tratto si interruppe con un'espressione a mezzo tra la sorpresa e il disgusto: Guardate! . Con pochi fendenti complet il var­co che aveva aperto nel cespuglio; e mi indic una grande lastra di arenaria scura che la vegetazione aveva tenuto nascosta. Corrosa dal tempo ma ancora chiaramente leggi­bile, sulla pietra era incisa un'immagine primitiva e inquie­tante: un personaggio dalle enormi spalle e due grandi cor­na di cervo sul capo, un pugnale in una mano e un serpente attorcigliato alla vita. Accanto, una figura d'uomo assai pi piccola, con le mani levate in segno di preghiera.

Con interesse mi chinai ad esaminare l'incisione, mor­morando: Un'altra di quelle pietre misteriose!. La Valcamonica fitta di queste testimonianze di chiss quale po­polo vissuto chiss quanti secoli or sono. Io stesso ne ho viste non poche nei miei terreni e spesso sono stato colpito dal rozzo vigore delle incisioni. Sono uomini a cavallo, con grandi elmi, capanne, cervi, animali di cui non saprei dire il nome, complicati labirinti. Preti e frati detestano queste incisioni, ritenendole opera del demonio, e i loro fedeli spesso le esorcizzano scolpendovi sopra grandi croci.

Con mia sorpresa, il Gaioncelli reag come loro. Ri­batt accigliato: Pietre del mistero, le chiamate? Io pre­ferisco dire: pietre diaboliche. Fischi imperioso a un con­tadino. Appena quegli fu accorso, gli domand: Hai una mazza? . Il contadino guard lui, poi il lastrone d'ardesia. Si segn: S, signor padrone. E allora, dagli un bel colpo.

La pietra and rapidamente in frantumi. Ne fui turba­to: perch distruggere le memorie dei nostri progenitori? Ma il Gaioncelli parl con voce dura: Facciamo cos an­che nel Mexico. Ci che incomprensibile, mostruoso, fa­vorisce la superstizione, ostacola l'avvento della religione cattolica: dunque va distrutto.

Tacqui: non era stato necessario n ai martiri n a Costantino abbattere le pietre dell'antica Roma perch il cristianesimo trionfasse.

 

 

 

 

 

 

 

3

A settembre tornai col Gaioncelli nel suo fondo. Le piante erano alte e rigogliose. Il mio amico era felice del suo successo: gi molti contadini si recavano da lui per chie­dergli un po' di sementi e lui donava con generosit.

facile prevedere che la coltura del maiz trionfer su quella del miglio; io stesso l'adotter per i miei campi. E a questo modo, l'aspetto della natura intorno ai nostri paesi, rimasto identico per secoli, sar mutato. Ci, proba­bilmente, bene per tutti e ne sono contento; ma non pos­so fare a meno di sentirmene scosso. Certamente la vec­chiaia: ma mi sembra che tutto cambi sempre pi rapida­mente intorno a me. come se sull'antica meridiana che sta sulla facciata della nostra casa la freccia d'ombra avesse preso a muoversi vertiginosamente e, a ogni giro, cancel­lasse un po' del mio passato...

forse per questo che ho sentito l'impulso di scri­vere qualcosa della mia vita? Non so rispondere a questa domanda. Del resto, nessuno me la pone. I miei figli sono ormai adulti, vivono ormai una loro vita indipendente dalla mia ed ben giusto che sia cos. Io cerco di vincere la ten­tazione ricorrente di occuparmene troppo: niente pi mi­serevole che vedere un anziano ciabattare ai margini d'una danza giovanile o un vecchio che si ostina ancora a guidare un aratro. Tocca a loro, adesso. Io godo del loro frettoloso affetto per me e per la loro madre. Mi basta. O forse no: ma come pretendere che chi va incontro alla vita si fermi a domandare al padre che cosa ha sognato?

Ma anche Cecilia tace. A tarda sera entra nella mia stanza, controlla che nel lume vi sia ancora olio per qualche ora, che la coperta di pelliccia sia ben composta intorno alle mie gambe. Mi sfiora la tempia con un bacio, mi dice: Io vado a dormire, buona notte!. Non mi esorta a se­guirla: e io non so se esserle grato di tanta discrezione o un po' offeso.

Quando eravamo giovani, ho scritto per lei qualche poesia e poi, dai miei viaggi, lettere, tante. Delle lettere si sempre detta riconoscente; delle poesie mi spesso sem­brata imbarazzata. Una volta, poco dopo il nostro matrimo­nio, mi ha domandato: Sono proprio per me? Sei sicuro che sia io la donna di cui parli? . Io le ho risposto con un bacio perch lei, Cecilia, era, , bellissima; ma m' rimasto dentro il dubbio che, come accade a quelli che non sono veri artisti, io non abbia saputo parlare veramente del mio amore ma solo di un'idea dell'amore.

Adesso anche un altro dubbio mi sfiora. Forse Cecilia mi vede scrivere senza curiosit perch pensa che sia comin­ciato per me quel tempo della vita in cui si preferisce vivere di ricordi piuttosto che di realt. Se cos, allora i suoi sen­timenti nei miei confronti sono di piet: perch, a quaran-tanove anni, la mia donna ancora di quelle che, quando aprono la finestra la mattina, non si stupirebbero di vedere un volo d'angeli sui tetti o la corte di Carlo Magno accam­pata sulla piazza del paese. Voglio dire: lei guarda a ogni giorno come a una nuova regione da esplorare con interesse e con allegra speranza: anche se non lo sa, felice di vivere.

Ma neppure a Cecilia, che mi conosce tanto intima­mente da riuscire talvolta a suggerirmi le risposte pi vere, saprei dire che cosa sto facendo mentre scrivo queste carte.

Certamente, non un'autobiografia. Dopo il mio ritor­no dall'avventura veneziana, ho vissuto molte altre espe­rienze; ho compiuto viaggi ben pi lunghi e non meno emo­zionanti: sono stato a Firenze, a Roma e persino a Colonia.

Ho contemplato marine sconfinate e varcato montagne in cui i sentieri lambivano spesso immensi ghiacciai e, ad ogni passo, bisognava evitare l'orrore di fenditure abissali; ho visto alberi che credevo inventati dalla fantasia dei pittori e animali che credevo inventati dai tavolieri; e Turchi e Mori e persino, in una processione papale, a Roma, Indiani del Nuovo Mondo, con i loro copricapi di penne variopinte e occhi a mandorla il cui gelo mi ha ricordato i crepacci. E ho sofferto l'atroce spettacolo di altre pesti, in altre citt, e sentito i monatti gridare per le strade: Ah, chi ha morti da seppellire?; e dalle case rispondere: Misericordia! ... Ma di ci non ho avvertito, n avverto, il bisogno di scrivere.

Ho amato. Amo.

Mi bastato incontrare Cecilia a una festa di nozze, per sentire che doveva essere la mia sposa. Non solo la mia amante: ma una donna con cui crescere insieme, costruire insieme. Aveva un volto in cui il candore si mescolava a una strana consapevolezza del dolore; ma i suoi occhi, la sua bocca si aprivano generosamente al sorriso. Ci parlam­mo a lungo, gi quella sera, mentre tante coppie danzavano, sotto gli occhi vigili o correi delle madri, ma noi sem­bravamo avere inventato un modo nuovo per muoverci insieme.

Lei, dapprima, diffid. Aveva un'aria da cavallina biz­zarra che fiuta strani richiami nel vento e non tollera che alcuno le metta morso n briglia; questa sua ansia di liber­t, e la difficolt di potere non gi placarla ma parteciparne, io che sono di passo lento e di solide tradizioni, fu un fascino in pi che scoprii in lei. E, nel nostro conoscerci e poi amar­ci, ci fu anche la difficolt del nostro passato. Io avevo alle spalle un'educazione dura, Fransisca, la peste, padre Utilperzio, padre Valerio: e ancora, a un anno dal mio ritorno a Breno, mi sembrava di camminare per una foresta selvaggia. Lei apparteneva a una famiglia pi colta della mia, e nobile: in cui l'intelligenza, le molte letture e le dotte accesissime discussioni fra il padre e i figli pi grandi sem­bravano aver trasformato la casa forse in un arengo univer­sitario ma anche in una boscaglia in cui raramente il sole della tenerezza reciproca riusciva a filtrare; e per coglierne i frutti bisognava accettare di ferirsi le dita fra i rovi delle reciproche animosit.

Ma ad attirarci l'uno verso l'altra non furono i nostri dolori e i nostri turbamenti. Ci piacemmo subito, fisica­mente; e a legarci sempre pi fu la speranza che tutt'e due, imparando a camminare insieme, scoprimmo di possedere, testardamente: che senza fuggire dalla realt (come io ave­vo cercato di fare con Fransisca) avremmo potuto trasfor­mare un angolo del nostro vecchio mondo in un mondo nuovo: una casa aperta al sorriso, all'amicizia, all'amore e all'amare.

Posso dire che cos stato. Ancora adesso che tanti anni sono passati, e la giovinezza se n' andata, non a passo di danza, come dicono certi poeti, ma con il passo lento e faticato della fanciulla che porta l'orcio del vino ai falcia­tori e torna con la gerla pesante di fieno, mi piace, la sera, sedermi con mia moglie davanti al caminetto, un po' di­scosto da lei. Fingo, magari, di leggere la mia Bibbia ma contemplo Cecilia che rammenda o ricama. Le sue lunghe ciglia, le sue mani morbide sono per me parole d'amore vissuto e da vivere. Ogni tanto lei alza verso di me i suoi grandi occhi, domanda un po' confusa: Perch mi guardi cos?. Allora la mia tenerezza e il mio desiderio danzano come le fiamme nel camino, e le sere d'inverno non sono meno belle di quelle dell'estate in cui, dal letto, lasciate aperte le finestre, contempliamo la luna che fa il suo arco sulle montagne...

Cecilia mi ha dato tre figli. Quando sono usciti dal suo ventre e lei li ha accolti con un sorriso delle labbra, bianche per lo sforzo, e le donne che l'assistevano me li hanno posti fra le braccia ancora rossi del sangue della loro madre, non mi sono curato di vedere se mi somigliassero. Avessero o no i miei lineamenti, essi mi arricchivano per il fatto stesso che continuavano la mia storia, che mi obbli­gavano a vivere. Un uomo senza figli come una polla d'ac­qua che non trova sfogo: se ha in s una limpidezza vigoro­sa, pu diventare un lago prezioso che d ad altri refrigerio e nutrimento; ma pi facilmente ristagna, si riempie di al­ghe, di muffe. Un padre, invece, se davvero vuole essere tale, non pu fermarsi: e per questo tante vite di padre hanno il colore sbiadito dei ruscelli che sono poco pi che rigagnoli ma fanno un lungo cammino e magari, precipitan­do in abissi improvvisi, muovono ruote di magli e pale di mulini. E, andando con i figli, in mezzo ai rovi delle loro incomprensibili scelte, fra i sassi aspri dei loro rifiuti, un padre si sente talvolta non inutile e quindi pi vivo; e vi sono momenti in cui si accorge che i suoi ragazzi tuffano le mani nelle sue acque e bevono e si rinfrancano; e momenti in cui nelle sue acque si specchiano i figli gi cresciuti, quasi per riconoscersi; e accanto a loro si affaccia, con un po' di trepidazione, un'altra persona che essi introdurranno nella vita della famiglia.

Sono momenti tanto rari, ma stupendi. Allora, anche se i figli sono duri e ruvidi come le piante del maiz venute dal Nuovo Mondo e tu ormai ti pieghi come la spiga del­l'antichissimo frumento, senti che le tue e le loro radici si confondono nella stessa terra; e questo ti d un senso pro­fondo di compimento.

Ma non neppure di questo che ho sentito, n sento, la necessit di scrivere; e mi stato invece impossibile ne­gare parole a quei ricordi lontani che, improvvisamente, mentre il grano turco cresceva nel campo del Gaioncelli, sono andati sgorgando dalla mia memoria. Non solo Fran-sisca e padre Teresio, il dottor Sartirana e Prinoth, il rumoroso mercante, e il nano e il quasi scomunicato don Fanelli e la Bestia Utilperzio, debitamente canonizzata da Sua San­tit, ma anche il ragazzo che sono stato: questa folla logora di personaggi m' venuta intorno e mi sembrato che cia­scuno di loro mi implorasse di riconoscerlo, di rifarlo vivo per un attimo.

Adesso mi pare di avere compiuto un pietoso dovere. Ieri notte, prima di levarmi dallo scrittoio, mi sono breve­mente appisolato. Non ho sognato; ma ho avuto come la sensazione che mia madre mi ringraziasse di avere scritto di lei, ponendomi nelle mani, per un istante, una delle sue melograne; o uno dei suoi seni di nutrice.

Ho finito. Finito che cosa? Provo a dire: il racconto di un anno di vita. Ma, poi, perch proprio quell'anno?

Forse, per ciascuno di noi, c' come una regione tem­porale che la nostra vera patria. Un giorno, presto o tardi, scopriamo di essere venuti di l, con fatica e con pena, per­ch a quel tempo che, per la prima volta, fummo davvero consapevoli di vivere da uomini.

come se, in quell'anno, in quella regione, avessimo varcato un passo, ecco: un passo di montagna. Lo avevamo risalito lasciandoci alle spalle una terra nota ed ora ci spa­lancava davanti una terra inquietante, diversa nell'aspetto e negli abitanti. Avremmo, forse, potuto tornare indietro, rifugiarci nel rifiuto di crescere; o lasciare che altri ci tra­scinassero, riluttanti, come bambini. Invece, abbiamo accet­tato di muovere verso il futuro, da adulti: come quel giorno in cui, accanto a mio padre che dormiva il suo sonno di vecchio, attraversai il Tonale; e mi guardai intorno, con desiderio e con paura, per scoprire qualche traccia del pa­lazzo del Grande Maestro; ma non vidi che prati stinti dal gelo, e vento forte e lontane cime innevate. Laggi, verso Ponte di Legno, cominciava la Valle in cui ero nato ma in cui tornavo come straniero, dopo un anno di esaltazioni e di dolore. Avrei dovuto reimparare a viverci; e anche questo sarebbe stato faticoso e penoso, come l'anno che avevo appena trascorso. Ma sentii che ero pronto a farlo, che vo­levo andare avanti, con coraggio e con piet: sentii che la vita mi interrogava offrendosi senza illusioni: ed io dissi di s, che la volevo, a qualunque costo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al lettore o alla lettrice che, per avventura, desiderasse sapere quale sia la quota di verit storica del mio romanzo, dir che padre Utilperzio e la sua confraternita, Romualdo Zane, Teresio da Rove­reto, Fransisca Barbarano e Zeno Sartirana sono personaggi fanta­stici, anche se qualche esimio studioso che mi onora della sua ami­cizia me ne attesta la plausibilit. Valerio de Boni, invece, esistette veramente; veramente, con quattro suoi confratelli, dissemin di roghi la Valcamonica ad majorem Dei gloriam; ma che sia finito, nonagenario e pago delle proprie imprese, in un convento alle falde del Tonale, ci pura invenzione.

Anche il cavalier Pietro Gaioncelli persona reale e fu davvero colui che introdusse il maiz nell'agricoltura della Valle; ma mi scuso con la sua venerabile ombra se gli ho affibbiato, senza il conforto di prova veruna, la taccia di distruttore di alcune di quelle incisioni rupestri che fanno della Terra camuna un'ineguagliabile "riserva" antropologica e artistica.

Quanto alle notizie sulla grande pestilenza del 1575, ho cer­cato di documentarmi seriamente cosicch ogni particolare risponde a verit storica; un lazzaretto galleggiante, fra l'altro, esistette a Venezia in quei terribili mesi (ma il suo incendio inventato).

Infine, una nota sulla descrizione del sabba sul Tonale. Spero che il lettore o la lettrice avr notato con la stessa emozione che ha colto me quando ho letto le "confessioni" da cui l'ho tratta quasi letteralmente, che la narrazione sembra la versione na'ive di un capi­tolo de II Maestro e Margherita. Non so donde Bulgakov abbia deri­vato il suo racconto: ma sia esso opera di pura poesia o rielabora­zione di deposizioni di "streghe" di terre lontanissime dalla Valca­monica, la coincidenza mi sembra una toccante dimostrazione di quell'unit nel dolore, nei sogni, nella ferocia dei potenti e nell'in­nocenza degli umili che raccoglie l'Europa dalle Alpi agli Urali.