The Rag Blog
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Venerdì, 09 marzo

Cosa Ho Imparato dalla Mia Vita Turbolenta di Attivista? Dieci Comandamenti Immodesti
di Mike Davis
Traduzione di Vinicio Corrias

Poco tempo fa un’amica canadese mi ha chiesto se le manifestazioni di protesta degli anni ’60 avevano qualche lezione importante da trasmettere al movimento Occupy.

Le ho risposto che uno dei pochi ricordi chiari che conservo di allora – sono passati quarantacinque anni – è la promessa fervente che mi feci di non trasformarmi in un vecchio imbecille che ha lezioni da trasmettere.

Però ha insistito e la sua domanda ha finito per risvegliare la mia curiosità. Che cosa ho imparato, in fin dei conti, dalla mia turbolenta vita di attivismo? 

Vediamo, senza dubbio sono diventato uno specialista nello stampare migliaia di volantini da un ciclostile delicato, prima che si disintegri. (Ho promesso ai miei figli di portarli un giorno al Museo Smithsonian perché ammirino questi aggeggi del demonio che tanto hanno dato al movimento per i diritti civili e ai movimenti contro la guerra).

A parte questo, mi ricordo soprattutto di alcuni consigli dei miei compagni più vecchi che avevano più esperienza, e di averli memorizzati come fossero i Dieci Comandamenti personali (sullo stile di quelli che si possono trovare in un libro di dietetica o negli opuscoli per l’ispirazione religiosa). Per quanto possano valere:

Primo, l’imperativo categorico è organizzare, o meglio, facilitare l’auto-organizzazione delle altre persone. Va bene catalizzare, ma organizzare è molto meglio.

Secondo, i dirigenti del movimento devono essere temporanei e sempre soggetti a essere sostituiti. Il lavoro di un buon organizzatore, come si usava dire all’epoca del movimento per i diritti civili, è quello di organizzare il proprio ritiro, e non quello di diventare indispensabile.

Terzo, i manifestanti devono sovvertire la tendenza costante dei mezzi di comunicazione alla metonimia, cioè a riferirsi al tutto per una delle sue parti, a un gruppo per uno dei suoi individui. (Pensate alla stranezza, ad esempio, di avere la “Giornata di Martin Luther King”, invece della “Giornata del Movimento per i Diritti Civili”). I portavoce dovrebbero essere alternati regolarmente e, quando necessario, rimossi.

Quarto, lo stesso avvertimento vale per le relazioni esistenti tra un movimento e gli individui che vi partecipano come blocco organizzato. Credo molto nella necessità di una sinistra rivoluzionaria organica, però i gruppi possono pretendere l’autenticità solo se danno la totale priorità alla costruzione della lotta, e non hanno un’agenda segreta rispetto agli altri partecipanti.

Quinto, come abbiamo capito duramente a nostre spese negli anni ’60, democrazia consensuale non è uguale a democrazia partecipativa. A livello di comunità o di gruppi di affinità, la presa di decisione per consenso può funzionare molto bene ma, quando si tratta di una lotta 
maggiore o più lunga, è essenziale qualche forma di democrazia rappresentativa per permettere una partecipazione più ampia ed egualitaria possibile. Come sempre, il diavolo è nei dettagli: assicurarsi che qualsiasi delegato possa essere destituito, formalizzare il diritto delle minoranze politiche, garantire la rappresentanza affermativa e così via.

So già che è un’eresia dirlo, ma i buoni anarchici, quelli che credono nell’azione concertata e nell’autogoverno della base, troveranno insegnamenti di grande valore nel Robert’s Rules of Order (semplicemente un utile strumento tecnico per le discussioni organizzate e per prendere decisioni).

Sesto, una “strategia organizzativa” non è solo un piano per aumentare la partecipazione alla lotta, ma anche un concetto per allineare la protesta con quelle persone che sostengono il peso dello sfruttamento e dell’oppressione.

Per esempio, una delle manovre strategiche più brillanti del movimento di liberazione dei neri alla fine degli anni ’60 è stata quella di portare la lotta dentro le fabbriche di automobili di Detroit per formare la League of Revolutionary Black Workers (Associazione degli Lavoratori Neri Rivoluzionari, ndt).

Oggi, possiamo vedere una sfida e un’opportunità simili in “Occupying the Hood” (Occupare il quartiere, ndt). E le “truppe” che attualmente occupano i cortili dei plutocrati devono rispondere in modo inequivocabile alla crisi dei diritti umani che attraversa le comunità di operai immigrati.

Le manifestazioni per i diritti degli immigrati, cinque anni fa, sono state tra le maggiori nella storia degli Stati Uniti. Forse il prossimo Primo Maggio vedremo tutti questi movimenti convergere contro la disuguaglianza in un’unica giornata d’azione.

Settimo, la costruzione di movimenti che siano davvero inclusivi verso poveri e disoccupati richiede infrastrutture che rispondano alle necessità umane più urgenti come cibo, casa, cure mediche. Se vogliamo che ci siano vite consacrate alla lotta, dobbiamo creare collettivi condivisi e ridistribuire le nostre risorse ai giovani che lottano in prima linea.

Allo stesso modo, dobbiamo rinnovare l’apparato di professionisti legali impegnati nel movimento (come la National Lawyers Guild) (Associazione Nazionale degli Avvocati, ndt) che ha giocato un ruolo vitale nel sostenere le proteste di fronte alla repressione di massa degli anni ’60.

Ottavo, il futuro del movimento Occupy sarà determinato non tanto dall’assembramento al Liberty Park (nonostante la sua sopravvivenza sia una condizione sine qua non per il futuro) quanto dalla sua presenza a Dayton, Cheyenne, Omaha e El Paso. Molte volte l’espansione geografica delle manifestazioni è uguale a un coinvolgimento diversificato dei non bianchi e dei sindacalisti.

L’avvento dei social media ha creato, naturalmente, opportunità senza precedenti per un dialogo orizzontale tra gli attivisti che non appartengono all’élite, in tutto il paese e nel mondo. Ma il movimento Occupy Main Street ha bisogno di ancora maggior appoggio da parte dei gruppi che hanno più risorse e che hanno maggior fascino mediatico, nei grandi centri accademici e urbani. Un’agenzia nazionale, autofinanziata, di oratori e artisti avrebbe un valore inestimabile.

Al contrario, è essenziale far arrivare le storie dal centro e dai confini a un pubblico nazionale. La narrativa della protesta ha bisogno di diventare un graffito che racconta le cose per cui la gente ordinaria sta lottando, lungo tutto il paese: per esempio, per fermare l’estrazione di minerali a cielo aperto nella Virginia occidentale; riaprire gli ospedali a Laredo; appoggiare i lavoratori portuali a Longview, Washington; opporsi a un dipartimento di sceriffi fascisti a Tucson; protestare contro gli squadroni della morte a Tijuana, o contro il riscaldamento globale a Saskatoon; e così via.

Nono, la crescente partecipazione dei sindacati nelle proteste di Occupy – inclusa la forte mobilitazione che ha costretto il Dipartimento di Polizia di New York a rinunciare temporaneamente allo sgombero di Occupy Wall Street – è reciprocamente trasformativo e fa nascere la speranza che la rivolta possa diventare un’autentica lotta di classe.

Allo stesso tempo, comunque, dovremmo tenere a mente che la maggioranza dei dirigenti sindacali rimane irrimediabilmente legata a un disastroso matrimonio con il Partito Democratico, così come a guerre interne senza scrupoli che hanno tradito la promessa di una nuova era per la classe operaia.

I contestatori del capitalismo hanno quindi bisogno di stabilire un contatto effettivo con i gruppi di opposizione di base e i comitati progressisti all’interno dei sindacati.

Decimo, una delle lezioni più semplici ma più durature che arriva dal passato delle generazioni dissidenti consiste nella necessità di usare un linguaggio semplice. L’urgenza morale di un cambiamento acquista il suo maggior splendore quando è espressa con un vocabolario condiviso da tutti.

Tanto è vero che le voci radicali più ascoltate – Sojourner Truth, Frederick Douglas, Gene Debs, Upton Sinclair, Martin Luther King, Malcolm X e Mario Savio – hanno sempre saputo come appellarsi agli americani attraverso le parole familiari e potenti della loro grande tradizione di coscienza.

Uno straordinario esempio è stata la quasi vittoriosa campagna elettorale di Sinclair per il posto di Governatore della California nel 1934. Il suo manifesto, "End Poverty in California Now," (“Eliminare la povertà in California, immediatamente”, ndt), era nella sua essenza il programma del Partito Socialista tradotto in parabole del Nuovo Testamento. Conquistò milioni di simpatizzanti.

Oggi, mentre il movimento Occupy discute se vi sia o meno la necessità di una più concreta definizione politica, dobbiamo capire quali richieste abbiano maggiore attrattiva pur rimanendo radicali in senso anti-sistemico.

Alcuni giovani attivisti potrebbero temporaneamente mettere da parte i loro libri di Bakunin, Lenin o Slavoj Zizek e rispolverare una copia della piattaforma elettorale del 1944 di Franklin Delano Roosevelt: an Economic Bill of Rights (una Carta dei Diritti Economica, ndt).

Era un appello alla cittadinanza sociale e una dichiarazione dei diritti su lavoro, casa, sistema sanitario e vita felice, quanto di più lontano si possa concepire dalla concessiva politica del “Per favore ammazza la metà degli ebrei” dell’amministrazione Obama.

La piattaforma per il quarto mandato (quali che fossero le motivazioni opportunistiche che esistevano nella Casa Bianca) ha usato il linguaggio di Jefferson per avanzare le richieste principali del CIO e dell’ala social-democratica del New Deal.

Non è stato il programma della sinistra più avanzato (ad esempio, la proprietà socialdemocratica delle banche e delle grandi imprese), ma certamente ha rappresentato l’atteggiamento più progressista di sempre da parte di un grande partito politico o presidente degli Stati Uniti.

Oggi, naturalmente, una Carta Economica dei Diritti è sia un’idea totalmente utopica, sia una semplice definizione di quello di cui la maggioranza degli statunitensi ha realmente bisogno.

Ma i pochi movimenti nuovi, così come quelli vecchi, devono a tutti i costi occupare il campo dei bisogni fondamentali e non quello del “realismo” politico a breve termine.

Nel farlo, perché non accettare il dono del sostegno di FDR?

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Fonte: Mike Davis : Ten Immodest Commandments

17.11.2011

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