Giselle Dian Intervista Monica Lanfranco


Monica Lanfranco, giornalista professionista, nata a Genova il 19 marzo 1959, vive a Genova; collabora con le testate delle donne "DWpress" e "Il paese delle donne"; ha fondato il trimestrale "Marea"; dirige il semestrale di formazione e cultura "IT - Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che veniva accluso in edicola con il quotidiano "l'Unita'"; collabora con il quotidiano "Liberazione", i mensili "Il Gambero Rosso" e "Cucina e Salute"; e' socia fondatrice della societa' di formazione Chance. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e sulla comunicazione. Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA Donne di sport; nel 1994 ha scritto per l'editore Solfanelli Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi, ristampato in due edizioni. Per Solfanelli cura una collana di autrici di fantasy e fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996 l'ufficio stampa per il network europeo di donne "Women in decision making". Nel 1995 ha curato il libro Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato imperfetto nelle foto di fine secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con Silvia Neonato, Lotte da orbi: 1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo testo di storia sociale e politica scritto anche in braille e disponibile in floppy disk utilizzabile anche dai non vedenti e rintracciabile anche in Internet. Nel 1996 ha scritto Storie di nascita: il segreto della partoriente (La Clessidra). Ha pubblicato due importanti volumi curati in collaborazione con Maria G. Di Rienzo: Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005. Il suo libro piu' recente e': Letteralmente femminista. Perche’ e’ ancora necessario il movimento delle donne, Edizioni Punto Rosso, Milano 2009


 
- Giselle Dian: La riflessione e la pratica del femminismo hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dei movimenti sociali impegnati per i diritti umani di tutti gli esseri umani. Come si e' esercitato questo ruolo nel corso degli ultimi decenni a livello planetario?
- Monica Lanfranco: Per rispondere a questa domanda riprendo un pezzo del sesto capitolo “Pratiche antiche e nuove”, del mio ultimo libro, Letteralmente femminista. Perche’ e’ ancora necessario il movimento delle donne.
Nonviolenza, unica strada
"E' importante che le  donne capiscano che ci troviamo in un tempo di cruciale transizione, in cui il modello dominatore patriarcale del potere viene contrastato da un movimento globale teso verso sistemi di condivisione. Donne ed uomini in  tutto il mondo stanno sviluppando nuovi modelli e teorie del potere, basandosi su modi di vivere equi e relazionali. Capire come il modello dominatore si manifesti anche nelle nostre persone e' il primo e vitale passo per riuscire a sviluppare nuovi modi di essere. I modi di essere non patriarcali devono essere vissuti su una base quotidiana da ogni persona coinvolta nel processo di trasformazione della cultura: poiche' la coscienza spirituale, politica, economica e sociale sono interconnesse, questi esperimenti viventi offrono grandi opportunita': condividendo il processo e le idee, noi insegneremo a noi stesse/i e agli altri e alle altre cio' di cui abbiamo bisogno".
Le parole di Ruth Barrett, sociologa e femminista pacifista, hanno preso corpo in molte parti del mondo, ultimamente. E, anche se lontano dai riflettori, una messa in pratica di questa pericolosa (perche' la pace fa molto piu' paura della guerra ai potenti, che si trovano immediatamente senza lavoro), paziente, instancabile strada che, in molte e molti, stanno percorrendo da tempo si e' manifestata a partire dall’attacco alle due torri, e dopo la conseguente guerra in Irak. Oltre 200 persone - rappresentanti di sindacati, di associazioni, di Ong, parlamentari e cittadini - hanno partecipato per l'Italia, insieme a circa 300 pacifisti europei, alla missione civile "Action for Peace" in Palestina e Israele, dove hanno incontrato esponenti pubblici e rappresentanti della societa' civile palestinese e israeliana. E ogni anno l’appuntamento si rinnova, instancabile, nonostante nulla di buono ancora sia accaduto sui due fronti di una guerra infinita.
"Quando due parti non ce la fanno a dialogare e' necessario che un terza parte si faccia avanti, e intrecci parole e fatti per riannodare il filo perduto. Questo, oggi, mi pare sia il nostro compito, come nonviolente e soprattutto come donne". Laura Bergomi, aderente all'Associazione per la Pace, una delle femministe che insieme a Luisa Morgantini e altre donne in nero ha fatto parte della delegazione ha ancora negli occhi le immagini del viaggio.
"Meglio soffrire le pene della pace che le agonie della guerra" si leggeva, scritta in inglese e arabo, lungo strade e muri di case un po’ dappertutto in Palestina. "Scegli la vita", scritto in arabo, inglese ed ebraico, perche' tutte e tutti capissero, faceva da sfondo al palco finale della manifestazione indetta dalla Coalizione delle donne per una pace giusta, da Gerusalemme Ovest a Gerusalemme Est. Le donne, nelle seconda Intifada, sono meno, molto meno visibili. Laura e Luisa, e Cristina Cattafesta, e Ivana Stefani ne hanno incontrato molte; tra queste Zaira Kamal, delegata alle questioni di genere presso il Ministero della Pianificazione e della Cooperazione Internazionale dell’Anp. Il suo racconto e' un rosario che sgrana solo dolore: quello delle giovanissime vedove, di tutte quelle che si ritrovano capofamiglia senza preparazione; delle madri che vedono le paure dei bambini, i disturbi nel linguaggio e nella crescita causati dalla paura; delle insegnanti che rilevano difficolta' di concentrazione, scarso rendimento; delle operatrici che vedono crescere il bisogno di cure sociali e psicologiche per donne e bambini; quello dell’impotenza di quante e quanti, tra gli israeliani, lavora per la pace.
Nei primi giorni del 2002 dieci donne hanno partorito bloccate ai check point: una di loro e' morta, e cosi' quattro bambini. Zaira continua: passano vecchie che si trascinano con il bastone, ma nessuno ha il tempo di aiutarle: il tempo di vita si spende per le strade ai check point, lei stessa impiega a volte sei ore per andare e tornare dal luogo di lavoro che disterebbe 20 minuti. E si continua cosi', senza che nulla cambi, a parte nuovi muri che crescono.
Che fare? "Di certo e' importantissimo che, visto l’odioso veto Usa alla presenza di osservatori, si intensifichino le missioni di interposizione dal basso,  fino ad una nuova iniziativa forte per Pasqua, sostiene Laura. Tornata in Italia, trovo tristemente adatta alla situazione una frase di Martin Luther King: "Non temo le parole dei violenti, mi preoccupa molto il silenzio degli onesti". Alla Porta di Jaffa, alla fine del corteo pacifista del 28 dicembre 2003 a Gerusalemme, una donna in nero di Haifa racconta di essere corsa all’ospedale subito dopo l’attentato suicida di un palestinese ad un autobus e di aver fatto visita all’autista, volato via dal suo mezzo a causa dell’esplosione: il ferito ha indicato la spilla a forma di colomba bianca, simbolo delle donne pacifiste, che lei indossava come sempre, e le ha detto "Only this is the way", questa e' l’unica strada.
Seminare pace
E se in tempo di guerra c’e' chi pensa che siano da ricercare le parole per far smettere alle armi di parlare c’e' chi in tempo di (relativa) pace inizia dall’abc a seminare, ovvero dall’educazione della prole. Ha iniziato, una trentina di anni fa, in Africa, con i suoi figli, a sperimentare un sistema educativo e di osservazione delle dinamiche sociali. Non sapeva, allora, che il suo sguardo anche materno, amorevole e curioso avrebbe, coniugato con una tenace intelligenza creativa e una forte convinzione che i conflitti vanno affrontati e risolti con ogni mezzo nonviolento, dato alla luce uno dei modelli piu' avanzati di gestione della violenza nel mondo.
Pat Patfoort, antropologa, pacifista, formatrice di origine fiamminga, di recente "adottata" dalla Sardegna grazie al lavoro dell'associazione "La Triangola" per un suo studio sulla atavica e complessa conflittualita' sociale e culturale dell’isola, tra poco dara' alle stampe la traduzione italiana del suo ultimo libro, Difendersi senza attaccare, e sara' interessante comparare la sua visione del potere, del conflitto e delle modalita' con cui affrontarlo anche alla luce del crescente successo di argomentazioni limitrofe e consequenziali, quali ad esempio quelle di John Holloway con il suo Cambiare il mondo senza prendere il potere.
Pat Patfoort non e' una studiosa tradizionale, e maneggia con disinvoltura creativa e spiazzante linguaggio e contenuti, tanto da aver immesso nella formazione sulla gestione del conflitto il concetto e metodo dell'Equivalenza, che sta utilizzando sia in Senegal, facilitando le relazioni tra il governo centrale di Dakar e i ribelli armati, sia in Belgio, dove il 70% dei detenuti ha meno di 30 anni ed e' un’emergenza sociale il futuro di questi cittadini una volta scontata la pena.
In sostanza si tratta di adottare, al posto della concezione dominante del minore/maggiore (dal quale deriva tra l’altro anche il collaudato metodo della democrazia parlamentare e di quella dei partiti, basato sulla dinamica maggioranza/minoranza) quella di equiparazione per la risoluzione dei conflitti, nei quali attori e attrici del conflitto, quale esso sia, fanno pesare allo stesso modo e in eguale misura convincimenti, bisogni, desideri, principi. Il fatto straordinario e' che il metodo sembra non avere confini quanto al suo utilizzo, e Patford lo ha testato dai conflitti interetnici, alle carceri, all’ambito familiare, ai gruppi di movimento.
In una intervista, rilanciata dalla newsletter "La nonviolenza in cammino" che da anni condivide quotidianamente materiali sulla nonviolenza via web Patfoort ha spiegato la radice del suo nuovo lavoro.
"Secondo un’antica leggenda musulmana esiste un fiore, detto fiore di fuoco, un fiore virtuale, che trasmette amore solo a chi coltiva la propria forza interiore. Il fiore significa dolcezza, bonta', il fuoco e' forza. Questi due poli, nella mia visione di nonviolenza, interagiscono: per essere nonviolenti bisogna avere consapevolezza delle proprie qualita', bisogna avere autostima.
L'autostima negli esseri umani, specie nei bambini e nelle bambine, deve essere coltivata, non repressa. Ad esempio, nel rapporto tra padre e figlio, piuttosto che fare molte critiche, sottolineare cio' che non va, che avrebbe potuto fare meglio, il padre potrebbe prestare piu' attenzione alle qualita', alle attitudini personali, ai progressi che fa suo figlio.
Generalmente in famiglia non va cosi': un bambino che mostra empatia con il mondo che lo circonda, che osserva le cose, viene lodato meno di uno bravissimo a scuola, che sa far di conto velocemente, che sa leggere ad un'eta' precoce e cosi' via. Considero questa negativita' come la malattia della societa' contemporanea. Noi stessi l'abbiamo dentro il nostro vissuto: ce l'hanno insegnata da piccoli, e da grandi la ripetiamo inconsciamente e l'applichiamo ai nostri figli. Infatti, il momento migliore per avvicinarsi alla nonviolenza e' quando ci nasce un figlio o una figlia. La nonviolenza serve a questo punto, per aiutare i piccoli a diventare individui forti, senza frustrazioni, che non abbiano bisogno di esercitare la violenza sugli altri per affermarsi nella societa'".
La risposta e' nel vento
Una intervista radiofonica, raccolta circa trent'anni fa, dall’editorialista Colman McCarthy, oggi columnist del "Washington Post". L’intervistata e' Joan Baez, attivista pacifista e folk singer; la sua esecuzione di Blowing in the wind sara' la colonna sonora di migliaia di manifestazioni contro le guerre, a partire da quella del Vietnam, una dolce bandiera di note e parole per la pace. Ritrovare questo materiale mi ha fatto uno strano effetto: le domande poste alla Baez sono le stesse, identiche, che oggi  vengono rivolte a chi prova a parlare di nonviolenza in vari ambienti, compresi quelli dell’attivismo odierno: "Si', si', bei discorsi, niente armi ne' mezzi di difesa. Ma cosa faresti se, per ipotesi, qualcuno aggredisse tua nonna?". La forza delle (apparentemente) lievi e ironiche risposte della Baez sta tutta in questa sua considerazione, che spiazza l’incalzante intervistatore, convinto che in fondo chi parla di nonviolenza stia sfuggendo di fronte all’inevitabile scelta ultimativa: "Nessuno sa cosa fara' in un momento di crisi, domande ipotetiche ottengono risposte ipotetiche. Il fatto e' che mettiamo le persone in processi d'apprendimento il cui scopo e' trovare modi efficaci di uccidere. Sai come funziona: ruggire e urlare, uccidere e strisciare via, e saltare giu' dagli aeroplani. Roba ben organizzata. Un generale pianta uno spillo in una mappa. Una settimana piu' tardi un mucchio di ragazzini suda in una giungla da qualche parte. Si fanno saltar via braccia e gambe, piangono, pregano e perdono il controllo degli intestini". L’intervistatore non molla: "Ma cosa fai, allora? Porgi l'altra guancia, suppongo. Guarda un po' che gli e' successo, a quello che diceva ‘Non uccidere’. Lo hanno attaccato ad una maledetta croce!". Sentite come risponde Joan: "Non devi metterti a scegliere come morire, o dove. Puoi solo scegliere in che modo vivere. Adesso. Confrontati con il male, ecco cosa ti dice la pacifista. Resisti con tutto il tuo cuore, tutta la tua mente, tutto il tuo corpo, finche' esso sara' sconfitto. Il problema e' il consenso. C'e' del consenso la' fuori sul fatto che va bene uccidere quando il tuo governo decide chi dev'essere ucciso. Se uccidi qualcuno nel tuo paese, hai dei guai. Se uccidi qualcuno fuori dal tuo paese, al tempo giusto, nella stagione giusta, perche' e' l'ultimo nemico in ordine di tempo, ti prendi una medaglia. Ci sono 130 stati-nazione e ciascuno di essi pensa che non sia poi cosi' peregrina l'idea di far fuori gli altri 129, perche' il ‘nostro’ stato e' piu' importante. I pacifisti pensano che ci sia al mondo una sola tribu', di tre miliardi di persone. Queste persone vengono prima di tutto il resto. Noi pensiamo che uccidere un membro della famiglia sia un'idea cretina. Pensiamo che ci siano metodi piu' decenti, e piu' intelligenti, di comporre le differenze. E l'umanita' deve mettersi ad investigare questi metodi, perche' se non lo fa, per errore o volutamente, e' probabile che si uccida l'intera dannata razza umana. Vogliamo arrivare a costruire un pavimento, un forte e nuovo pavimento, stando sul quale non si potra' piu' affondare. Una piattaforma, che sta un po' piu' in su del napalm, della tortura, dello sfruttamento, dei gas velenosi, delle bombe nucleari. Vogliamo dare all'umanita' un posto decente per stare in piedi. Fino ad ora ci siamo trascinati nel sangue umano, nel vomito e nella carne bruciata, urlando che questo avrebbe portato pace al mondo. E come costruire, praticamente, questa struttura?
Dalle fondamenta. Studiando, sperimentando ogni possibile alternativa alla violenza, ad ogni livello. Imparando a dire no alle tasse per la guerra, no alla leva, no all'uccidere in genere e si’ alla cooperazione, dando vita ad istituzioni basate sul principio che l'omicidio in ogni sua
forma e' fuori discussione, creando e mantenendo relazioni nonviolente in tutto il mondo, impegnandoci in ogni occasione di dialogo con le persone e i gruppi, per spostare quel consenso che ora c'e' attorno all'opzione di uccidere. Ci sara' chi continuera' a dire: 'Suona proprio bene, ma non credo possa funzionare'. Probabilmente ha ragione. Probabilmente non abbiamo abbastanza tempo: ebbene, forse saremo un glorioso flop, ma sapendo che l'unico fallimento peggiore dell'organizzazione della nonviolenza e' stato l'organizzazione della violenza".
Alba e le altre
In italiano si chiamerebbe Alba la giovane donna che porta in giro questo nome pacatamente luminoso; se e' vero che talvolta l’appellativo incide sul carattere, di luce ne ha tanta dentro e fuori, Dawn Peterson, da New York, 25 anni, studentessa, attivista di "Peaceful Tomorrow", l’associazione dei familiari delle vittime dell’attentato dell’11 settembre che hanno detto "not in my name" allo scoppio della guerra angloamericana contro l’Irak. Not in my name, no alla guerra senza se e senza ma: lo abbiamo sentito dire molto, lo abbiamo detto, e scritto in molti modi, in tutto il mondo nelle piazze con le manifestazioni e dai balconi delle nostre case, con l’esposizione delle bandiere della pace, subito dopo l’11 settembre e allo scoppio della guerra in Irak. Ma sentirlo dire, e ascoltare l’impegno diretto contro la violenza dalle labbra di una persona che avrebbe motivo legittimo di sbattere in faccia al mondo le sue ragioni per chiedere vendetta, per infischiarsene del pacifismo di chi non e' coinvolto personalmente dalla violenza, nella sua stessa carne, nei suoi affetti, fa un grande impressione, e fa la differenza. Come quando si ascoltano ebrei e palestinesi che continuano a sostenere argomentazioni di non belligeranza, di nonviolenza ad ogni costo, pur nello strazio che ormai tocca a livello personale quasi tutti in entrambi i popoli, cosi' e' inedito affacciarsi ad un percorso di pace incarnato in una persona che viene dagli Stati Uniti, e che per di più e' da un anno in lutto a causa del terrorismo. Succede che ti chiedi: "se capitasse a me, avrei la forza di elaborare e trasformare la rabbia, il dolore indicibile e perenne in energia positiva, in spinta verso l’esterno piuttosto che in cupa vendetta, ancestrale sete di sangue con la quale illudersi di lenire la pena?".
La sua perdita si chiama Davin, il fratello maggiore che stava al  piano 104 di una delle Twin Towers, assieme ad altri settecento colleghi in una compagnia import-export, nessuno dei quali e' tornato a casa, "L’11 settembre? La caduta delle Torri - racconta - e' per me direttamente connessa alla perdita di Davin. Dopo il crollo che ha ucciso mio fratello molte cose sono cambiate. Non avevo mai immaginato una vita in cui lui non ci fosse. Avevamo vissuto insieme a New York per oltre tre anni, e molti aspetti delle nostre vite erano legati insieme. Era il primogenito e nella mia famiglia mia sorella, mio fratello, mia madre ed io guardavamo a lui per avere consigli e pareri. Era un po’ come una guida".
Dawn e' stata in Italia due volte dal 2001, ospite di diverse associazioni e movimenti per la pace italiani. La sua voce arriva da una New York tesa. "Da allora - racconta - si respira in citta' un clima traumatico, che colpisce duramente chi ha pelle scura e tratti mediorientali: sono vere le manifestazioni di razzismo che vengono denunciate. La liberta' e' stata lacerata un bel po' negli ultimi mesi. Liberta' non significa decidere cos'e' meglio per gli altri con il pretesto che li stiamo liberando, o stiamo salvaguardando la loro liberazione. Liberta' e' la capacita' di pensare, parlare e porre domande. Non significa ferire gli altri con la scusa che stanno morendo per un bene piu' grande. Dov'e' la loro liberta'? Per me, liberta' e' vivere la propria vita nel modo che si sente appropriato, mentre si rispetta questo diritto per le altre persone. La liberta' non implica il dover sacrificare la propria vita. Davin era fidanzato con una ragazza di origine araba. All’indomani dell’attentato lei, che era in condizioni strazianti, e' stata aggredita per strada da gente che le ha urlato contro frasi razziste a causa del suo aspetto, accomunandola ai terroristi. E lei era in lutto e sotto shock. E’ stato orribile".
Pur cosi' giovane Dawn ha affrontato prove che per una ragazza della sua eta', senza preparazione e sostegno, sembrano inimmaginabili. Poco tempo dopo lo sgomento per la perdita subita ha dato vita a "Peaceful Tomorrow", il cui primo atto e' stato incontrare un gruppo di donne madri di giovani che hanno perso la vita nell’attacco. Non deve essere stato facile.
"La gente e' varia - racconta -. Qualcuno pensa che io sia troppo idealista, qualcuno pensa che io sbagli e che l'unico modo in cui le persone possono apprendere qualcosa, o l'unico modo in cui si puo' avere a che fare con chi usa il terrore sia mostrargli il dominio attraverso la violenza militare. Altri pero' sostengono quello che faccio. I membri di "Peaceful Tomorrows" ovviamente supportano il movimento per la pace. Tutti noi abbiamo deciso che i risultati dell'11 settembre dovevano essere la pace e la nonviolenza".
"Peaceful Tomorrows" ha molti progetti per il futuro. Alcuni della rete si sono recati prima in Afghanistan e poi in Irak per incontrare la gente, e dire che non tutti gli americani sono per la guerra. Anche questa una decisione mica da poco. Cosi' come inedito e trasgressivo per la cultura del paese piu' armato e belligerante del mondo e' il progetto di gemellaggio e pacificazione tra New York e le due comunita' giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, rase al suolo dall’atomica nordamericana che concluse la seconda guerra mondiale.
E proprio a Hiroshima c’e', tra gli altri, un monumento ai Bambini di pace, un cippo in pietra sommerso da piccoli uccellini di carta, un origami semplice, alla portata anche di chi non ha esperienza nell’arte sottile del ritaglio: e' dedicato alla dodicenne Sadako Sasaki, che mori' di leucemia da radiazioni nel 1955. Sadako lotto' con tutte le sue forze contro la malattia, e negli otto mesi che passo' in ospedale costrui' centinaia di uccellini di carta, mentre sperava di guarire. Al monumento la gente lascia ancora in pegno queste piccole forme di carta colorata, come i biglietti del metro' che cospargono la tomba di Simone de Beauvoir a Parigi. Oggi, senza clamore, le forze governative del Giappone, che ha nella sua Costituzione un articolo, il 9, molto simile al nostro 11 di ripudio della guerra come strumento per dirimere le controversie, stanno premendo per allentare il divieto assoluto del paese a fare guerra, e a costruire un esercito offensivo, e alcune voci si stanno levando per informare il mondo di questo.
Lo fa, per esempio, una donna molto sofferente, Michiko Yamaoka, vicedirettora e narratrice al Centro di Cultura della Pace di Hiroshima. Si chiama cosi', narratrice, e questo c’e' scritto anche sul suo biglietto da visita. La racconta, in un delicato ritratto, la giornalista Evelyn Varady del "Journal of Women Thinking and Acting for Peace".
Parla di Michiko, dei ricordi mai sopiti del giorno della bomba, di visioni d'inferno, come le file dei corpi nudi sormontati da facce mostruose, con la pelle che si staccava dalle membra, il dolore bruciante, continuo, delle ferite, il primo salvataggio da sotto le macerie della casa dove stava quella mattina, e il secondo, da parte di sua madre, che la fermo' mentre stava per gettarsi nel fiume, perche' voleva smettere di vivere nel dolore continuo; e quello non meno piccolo quando il suo fidanzato la lascio' dopo aver visto com'era ridotto il suo corpo.
Del primo viaggio negli Usa, nel 1955, dove c’era gente che  le gridava: "Ricordati di Pearl Harbour". Qui, assieme ad altre ventiquattro donne Michiko ha subito numerosi interventi chirurgici per tentare di guarire dagli orrendi danni della bomba: oltre venti interventi di chirurgia le hanno lasciato comunque la mascella cascante, le mani di un rosso vivo screpolato e senza unghie, il sorriso storto, alcuni tumori ancora in corso con i quali convive. Solo dopo vent’anni lei e altre donne hanno rotto il silenzio del dolore e del trauma, e iniziato a raccontare. Oggi questo e' il suo lavoro, in Giappone e nel mondo. Sorprendentemente Michiko Yamaoka, nel cui biglietto da visita, molto grande, c'è scritto "Pace, Amore e Vita", dice che non e' molto interessata alla politica, ma che spendera' gli anni che le restano nel raccontare la storia di Hiroshima e Nagasaki. Oggi il suo nuovo impegno e' quello di contrastare il "ritocco" alla Costituzione e l’apertura conseguente del Giappone alla partecipazione in imprese militari aggressive. "Fate tesoro della vita, e non pensate mai di essere prive e privi di potere - ammonisce -. La pace sara' il risultato dello sforzo di ogni persona. Il desiderio piu' profondo del mio cuore e' l'abolizione delle armi nucleari, e pace genuina sulla Terra".
Dal Giappone al Canada, passando per la scrittura.
E’ una delle piu' grandi autrici canadesi femministe viventi, si chiama Margaret Atwood, e un paio di suoi libri sono stati paradigmatici nella descrizione letteraria e politica di due risvolti drammatici dell’umanita' femminile: la schiavitu' e l’emarginazione nei regimi religiosi da una parte, e la schiavitu' delle dittature culturali del mercato nei regimi laici dall’altra. La prima descritta ne Il racconto dell’ancella, un dolente giallo fantascientifico nel quale si mescolano l’arretratezza dell’Afghanistan sotto i taleban e l’aridita' dell’occidente ricco ed egoista, la seconda ne La donna da mangiare, uno (in apparenza) scoppiettante ritratto di giovane donna afflitta dai malesseri delle civilta' opulente: la bulimia e l’anoressia. In sintesi, come nel titolo di un altro testo, questa volta dell’indiana Anita Desai, Atwood ha messo in scena lo scontro tra due tendenze e maledizioni degli estremi culturali dei nostri tempi: digiunare, divorare, la drastica condizione di squilibrio degli esseri umani in questo pianeta. Prudente nel firmare appelli, sapiente descrittrice delle miserie e delle grandezze del contraddittorio e straordinario continente nordamericano, la Atwood ha di recente scritto una lettera, che lei stessa ha definito "davvero difficile", ad un soggetto altrettanto arduo da identificare come mittente: l’America, o meglio quel nord America che nella finzione letteraria diviene una persona cara alla quale ci si rivolge con passione e dolore: "Confesso di avere difficolta' a capire che cosa oggi tu sia", scrive. Atwood elenca cose condivise anche da noi europei: i fumetti dell’infanzia, Paperino e Topolino, la musica di Ella Fitzgerald, dei Platters, di Elvis. Come darle torto quando nomina "alcuni tra i mie libri piu' cari: Huckleberry Finn, Beth e Jo in Piccole donne, coraggiose in modi diversi. E poi  Whitman, ed Emily Dickinson, testimone dell’anima umana femminile, Hammett e Chandler, eroi della strada, e Hemingway, Fitzgerald, e Faulkner, che tracciarono i percorsi dei labirinti oscuri del cuore, e ancora Sinclair Lewis e Arthur Miller, che con il loro idealismo hanno indicato le strade per dare dignita' all’agire umano. Tu - scrive Atwood agli Stati Uniti - hai indicato alle moltitudini la via per l’onesta', la giustizia e la liberta', hai protetto gli innocenti. Ho creduto a tutto questo, e' stato vero, e reale, fin qui. Non mi addentro nelle motivazioni che ti hanno portato all’avventura in Irak. So solo che tu hai sventrato la Costituzione, e il risultato? La tua casa e' stata invasa, sei stata incarcerata senza ragione, la tua posta spiata, i tuoi ricordi privati violati. Ti hanno detto che tutto questo lo si sta facendo per il tuo bene, ma fermati un attimo a riflettere: perche' hai così paura, al punto da distruggerti? La gente nel mondo sta iniziando a non credere piu' nelle cose buone che hai costruito, la gente nel mondo sta guardandoti distruggere le leggi della giustizia, stanno pensando che tu hai distrutto e infangato il tuo stesso nido. Nel mito anglosassone c’e' la figura di Re Artu', che non sarebbe morto, ma starebbe dormendo in una grotta, e nel momento del massimo pericolo si sveglierebbe, per tornare a salvare il mondo. Anche tu, amica mia, annoveri figure di donne e uomini da risvegliare, persone coraggiose, oneste, giuste: hai bisogno di loro, chiamali a raccolta per ispirarti e difendere le cose migliori che ci sono ancora in te".
"La logica suggerirebbe che una donna che ha perso un figlio o una figlia in una guerra basata sull'odio etnico divenga amara e rabbiosa. Ci si aspetta che questa  madre si dedichi alla vendetta, e ad alimentare i fuochi dell'odio. Invece scopriamo che queste donne dicono: cio' che e' accaduto a me non deve piu' accadere a nessun'altra, perche' io so quanto e' terribile, e cosa si  prova. Percio', per favore, non compatite queste donne. Sono donne dall'enorme coraggio, e dal grandissimo impegno". Sono le parole di Swanee Hunt, ex ambasciatrice Usa, tra le fondatrici di Women Waging peace: tradotto letteralmente "donne che intraprendono la pace", un network internazionale fondato quattro anni fa che attinge alle risorse di ogni paese del mondo dove c’e' guerra e odio e chiede alle donne di scegliere il genere come paradigma e diventare quella terza parte che puo' fermare lo spargimento di sangue. A fine novembre il network ha fatto un incontro molto intenso, riportato negli Usa dalle pagine del "Los Angeles Times", bucando il rituale ricorso dei media alle sole notizie e analisi dell’infernale impresa irachena.
Ecco quindi il racconto di Sawsan Al-Barak, che viene da Hilla, una citta' fra le colline irachene. Durante il regime di Saddam Hussein, piu' di 20.000 persone sul mezzo milione di residenti della sua citta' sono state imprigionate e ne hanno riportato cicatrici fisiche e psicologiche. Lo scorso giugno Al-Barak, ingegnera al Ministero dell'Industria del suo paese, ha fondato il "Centro per le donne Fatima Al-Zahara", dove le donne possono avere consigli legali, aiuto contro la violenza domestica, e frequentare corsi di formazione. Visaka Dharmadasa dello Sri Lanka e' la fondatrice dell'"Associazione genitori dei dispersi in guerra e delle donne che vi si oppongono". Dharmadasa insegna i diritti umani ai soldati, ai giovani, ai leader delle comunita' e promuove lo sviluppo sociale ed economico delle donne attraversando le linee del conflitto. Loro, e altre, sono il cuore di "Women Waging Peace". Citando il rapporto annuale dell’associazione Hunt ha raccontato come nelle zone di guerra le donne lavorino per migliorare le condizioni delle donne, mentre sono attive nella costruzione della pace. Le loro azioni vanno dall'offrire seminari sulla risoluzione nonviolenta del conflitto all'ideazione e sviluppo di nuovi mezzi per la protezione dei diritti umani, al provvedere istruzione e formazione. Poiche' sono molto di frequente ritratte solo come vittime, esse ricevono scarso riconoscimento per il ruolo effettivo che giocano nel ristabilire e promuovere pace e sicurezza. E' una percezione che deve cambiare, dice Hunt, perche': "I politici e i diplomatici di solito ignorano le donne presenti e parlano solo agli uomini, dimenticando che sono le donne ad organizzarsi a livello di base, e a parlarsi l'un l'altra attraversando le linee del conflitto".
Un caso tra gli altri, portato a paradigma: in Namibia, nel 1997, mentre il paese si stava riprendendo dopo una lunga guerra di guerriglia, gli stupri e la degradazione delle donne erano fatti giornalieri e completamente ignorati sino a che lo stupro di una bimba di due anni non venne reso pubblico. Le donne dissero: ora basta. Diedero inizio ad un'intensa campagna contro la violenza sessuale, fino a che il Presidente della Namibia dovette condannarla in un discorso televisivo e promuovere nuove leggi".
Era presente anche Ala Talabani, cofondatrice dell'Alto consiglio delle donne irachene, che ha ribadito il ruolo centrale delle donne del suo paese nel saper conciliare le differenze etniche e culturali ed ha chiesto maggior riconoscimento nel processo di  ricostruzione: "Oggi siamo più del 55% della popolazione irachena. La nostra e' una societa' molto varia: siamo curdi, turchi, musulmani, ed altro ancora. Saremo coloro che costruiranno la pace. Non permetteremo che le divisioni etniche distruggano un paese che neppure un dittatore e' riuscito, in decenni, a distruggere".
Al forum le donne dell'Afghanistan, dell'Iran, dell'Iraq e di Israele si sono sedute accanto alle donne delle Fiji, del Guatemala, del Kosovo, della  Liberia e del Congo. Hanno parlato delle tecniche per la costruzione della pace e della frustrazione nell'aver a che fare con corpi diplomatici dominati da uomini in divisa. E tutte  hanno ricordato che le donne spesso mostrano scarsa deferenza per i confini politici, etnici o nazionali. Proprio per questo, e per la loro abilita' nel risvegliare la comune umanita' in forze ostili, sono cruciali nei processi di pace: "Le donne si mettono di fronte agli uomini armati. Alzano le braccia davanti ai fucili e dicono: Fermi! O vanno in luoghi in cui gli uomini, al loro posto, verrebbero uccisi. Dicono: Si', sono serba, croata, oppure palestinese o israeliana, fa parte della mia identita'. Ma sono anche una donna, e capisco le altre in questa situazione".
"Abbiamo la necessita' di sfidare la montante agenda reazionaria, sempre piu' fondamentalista, sui ‘tradizionali valori familiari’. Non possiamo costruire una democrazia sana fondandola sull’autoritarismo e sull’intolleranza, in casa come fuori di casa. Le relazioni familiari influenzano i modi in cui le persone pensano ed agiscono".
Riane Eisler, storica nordamericana autrice del bestseller internazionale Il calice e la spada, allarma cosI', alla vigilia del mediatico e commerciale "mummy day" la comunita' politica e sociale del suo paese dalle pagine virtuali del sito del Center for Partnership Studies, www.partnershipway.org <http://www.partnershipway.org> , del quale e' presidente.
"Ricordate lo slogan: 'il personale e' politico'? Oggi, sono i fondamentalisti reazionari, non i progressisti, ad essere piu' a proprio agio nel parlare del personale come politico, prosegue Eisler. Sono loro, e non i progressisti, a dominare il dibattito sulla vita ‘privata’ e sui ‘valori della famiglia’. Eppure le relazioni familiari influenzano direttamente cio' che le persone considerano normale e morale in tutte le relazioni, private e pubbliche. Influenzano il modo in cui le persone votano e governano, e la scelta sul sostenere politiche di giustizia democratiche o politiche di violenza ed oppressione. Gli slogan sui valori tradizionali spesso mascherano una moralita' familiare tagliata su misura per culture non democratiche, rigidamente dominate dal maschio e cronicamente violente. Esse spacciano sul mercato una famiglia in cui le donne sono subordinate ed economicamente dipendenti, dove i padri dettano le regole e puniscono severamente la disobbedienza, il tipo di famiglia che prepara le persone ad essere deferenti con i leader forti, che non ammettono dissenso ed usano la forza per imporre la loro volonta'. Non e' una coincidenza che per i fondamentalisti reazionari (cristiani, hindu, ebrei o musulmani) la sola morale familiare sia quella modellata sui ranghi inferiore/superiore della dominazione, sostenuta dalla paura e dalla forza. Non e' una coincidenza che i terroristi dell’11 settembre provenissero da famiglie in cui donne e bambini vengono forzati alla sottomissione mediante il terrore".
Fin qui l’analisi della Eisler, mentre la fredda contabilita' dei numeri ci inchioda ad una fotografia cupa: l’Organizzazione mondiale della sanita' riporta che ogni anno 40 milioni di bambini sotto i 15 anni sono vittime di abusi familiari abbastanza seri da richiedere soccorso medico. L’abuso sessuale e lo stupro sono all’ordine del giorno in meta' del pianeta. Negli Usa una donna viene picchiata, dall’uomo di casa, ogni 15 secondi.
La Eisler conclude con una esortazione, e un paragone di certo non lusinghiero per i fautori dell’american dream: "I progressisti non possono ritirarsi sui valori morali e su questioni come l’aborto e i diritti degli omosessuali. Abbiamo bisogno di un’agenda progressista per la famiglia che sia in linea con gli insegnamenti chiave di tutte le religioni: cura, empatia e responsabilita', anziche' coercizione, intolleranza e violenza. Non e' un sogno. Le nazioni nordiche, per esempio, hanno economie prospere, persone con maggior aspettative di vita, e meno crimini degli Usa. Le donne e gli uomini sono partner con maggior eguaglianza, e politiche quali la sanita' pubblica e il congedo parentale retribuito incrementano la salute delle famiglie e della societa'. Non possiamo credere di costruire societa' che rispettino i diritti umani e la democrazia quando milioni di persone crescono in famiglie che violano di routine i diritti umani. Negli Usa non e' una questione di Democratici contro Repubblicani. La questione e' promuovere valori che ci aiutino davvero nel fare la nostra societa' sicura, prospera, giusta, egualitaria".
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- Giselle Dian: E' sempre piu' evidente la coerenza e la saldatura tra impegno per la pace, affermazione dei diritti umani di tutti gli esseri umani, scelta della nonviolenza, femminismo ed ecologia. Come e perche' si realizza questa convergenza? Quali frutti rechera' all'umanita'?
- Monica Lanfranco: "Noi donne, in tutta la nostra vibrante e favolosa diversita', siamo testimoni della crescita delle aggressioni contro lo spirito, la mente e il corpo umano, e la continua invasione ed assalto contro la terra e le sue diverse specie. E siamo infuriate".
Questa era la frase di apertura del numero di "Marea" del marzo 2001, prima del G8 di Genova, quando a giugno la nostra rivista organizzo' "Punto G", appuntamento internazionale di donne sulla globalizzazione che apri' in anticipo i forum tematici per un'altra globalizzazione, contro il neoliberismo selvaggio e inumano. A dieci anni da allora i temi che ruotano intorno al rapporto umanita', stato della terra e delle risorse sono ancora al centro dei proclami delle enclave dei governi; ma la sensazione e' che poco stia cambiando. I movimenti ecologisti premono perche' soprattutto le nuove generazioni siano sensibilizzate e alfabetizzate verso un'idea e una pratica di consumo sostenibile, ma solo nicchie di mercato, di politica e di opinione pubblica vanno in quella direzione. Poco si fa per dare valore e impulso anche all'ecologia del quotidiano, facendo apparire come inefficace e quasi inutile l'impegno singolo, rimandando solo alle strutture forti (i governi) la possibilita' di incidere davvero. L'ecofemminismo ha, fin dalla sua nascita, ribaltato questa visione, dando grande valore anche al cambiamento individuale come motore di quello collettivo. E sostenendo che l'oppressione subita dalle donne e il deterioramento ambientale sono prodotti dai valori patriarcali, che generano entrambi le ingiustizie.
Oggi le donne, da vittime come lo e' la Terra, sono passate a prendere parola e a promuovere azioni per fermare la distruzione delle risorse, scongiurando la tragica ipotesi di un lascito di un pianeta devastato e infecondo. Come sempre, quando il movimento e il pensiero delle donne si connette con altre filosofie e pratiche di cambiamento, i risultati sono incoraggianti. In questo numero di "Marea" del marzo 2010 abbiamo cercato di dimostrare come l'ecofemminismo sia uno di questi.
Non sara' un caso che le parole e i corpi di chi ha dato vita allo straordinario e variegato movimento che si oppone alla globalizzazione neoliberista siano parole e corpi di donne, prima tra tutte l’ecofemminista indiana Vandana Shiva.
Il suo pensiero ci parla di diversita' ecologica come unica strada per fermare la fine del pianeta e delle sue risorse, e per farlo si serve di un piccolissimo esempio, quello del seme di senape, minacciato di essere completamente distrutto in India dalla monocultura della soia imposta dalla multinazionali. E spesso accosta la metafora del corpo violentato di una donna per descrivere cio' che l’incuria e l’arroganza umana sta causando alla terra.

"In questi tempi di 'pulizia etnica', spiega Shiva nel suo Monocolture della mente, mentre le monocolture si diffondono nella societa' e nella natura, riconciliarsi con la diversita' diventa un imperativo per la sopravvivenza. Le monocolture sono una componente essenziale della globalizzazione, che si basa sulla omogeneizzazione e la distruzione della biodiversita'.

Il controllo globale delle materie prime e dei mercati rende le monocolture necessarie. Questa guerra alla differenza non e' del tutto nuova. La diversita' e' stata messa in pericolo dovunque sia stata vista come un ostacolo. Le radici della guerra e della violenza stanno nel trattare la diversita' come una minaccia, una fonte di perturbazione e di disordine. La globalizzazione trasforma la diversita' in malattia e carenza, perche' non riesce a tenerla sotto controllo. Quello che succede in natura si ripresenta anche nella societa'. Quando l’omogeneizzazione viene imposta a differenti sistemi sociali, le parti iniziano a disintegrarsi l’una dopo l’altra. Perche' la violenza intrinseca all’integrazione globale centralizzata, a sua volta, crea violenza anche tra le vittime. La globalizzazione non e' solo l’interazione culturale tra le diverse societa', ma l’imposizione di una specifica cultura su tutte le altre. Vi e' una solo strada per contenere queste epidemie di violenza. Con sensibilita' e responsabilita' spetta a noi - chiunque siamo e dovunque ci troviamo - riconciliarci con la diversita'".
 

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