MARXISMO E NONVIOLENZA NELLA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO

Riflessioni a partire da un dibattito iniziato trent’anni fa
di Alberto L’Abate

"La "complementarietà" della nonviolenza rispetto al marxismo..
è stata la tesi che ha finito per emergere, e che merita di essere
considerata come il punto di partenza di ulteriori discussioni”
Norberto Bobbio, in ?Marxismo e Nonviolenza"

SOMMARIO

1) Premessa

2) Il dibattito su Marxismo e Nonviolenza

3) Spunti successivi per il dibattito su marxismo e nonviolenza

4) Il ruolo in Europa di un movimento di inspirazione marxista e nonviolenta

4.1.L’ONU

4.2. Quale socialismo? Lo sviluppo delle collettivizzazione anticapitalistiche

4.3. L’aggiunta nonviolenta

5) Chiarimenti linguistici

5.1 Movimento della Pace e Movimento Nonviolento

5.2 Nonviolenza, non-violenza, a-violenza, potere popolare

5.3. Disobbedienza civile

Bibliografia di Riferimento

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1) Premessa

Non molto tempo fa è morto a Torino Norberto Bobbio, che qualcuno ha definito la “coscienza critica della sinistra italiana”. Tutto il mondo politico, ed in particolare la sinistra, sta riscoprendo molti aspetti della sua saggezza ed il suo stretto collegamento, ed amicizia, con un altro studioso: Aldo Capitini, che è stato invece quasi del tutto rimosso dal dibattito politico .
Bobbio è stato il principale interlocutore del dibattito degli anni 70 tra nonviolenti e marxisti, ed ha svolto, tra i sostenitori di queste posizioni, quasi il ruolo di arbitro ed intermediatore. Da quel primo dibattito ne sono nati altri, sul marxismo e lo stato, sul leninismo, sulla “terza via al socialismo”. Ma giustamente Norberto Bobbio, in un articolo sulla “Stampa”, si è lamentato che tutti questi altri dibattiti, che qualcuno ha definito come “litigio a sinistra”, non abbiano tenuto conto di quei primi su “Marxismo e Nonviolenza”, promossi dal Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capititi, e secondo lui questa mancanza ha reso molto più poveri questi altri dibattiti.
Il dibattito era iniziato nel 1974 con alcuni articoli pubblicati su due giornali “Alternatives Non Violentes”, francese, ed “Azione Nonviolenta”. E’ poi proseguito con due convegni, uno presso l’Università di Firenze, nel 1975, e l’altro a Perugia nel 1978, nel decennale della morte di Capitini. A questi dibattiti hanno partecipato alcuni amici di Aldo Capitini, ed importanti interlocutori del marxismo e del socialismo italiano e della nonviolenza. Tra questi, per non ricordarne che alcuni, oltre al già citato Bobbio, Lelio Basso, Nicola Badaloni, Lucio Lombardo Radice, Adalberto Minucci, Padre Ernesto Balducci, Don Giovanni Franzoni, Guido Calogero, Giuliano Pontara, Matteo Soccio, Antonino Drago, Giovanni Cacioppo, e, naturalmente, l’autore di questo saggio. Le persone interessate a questo dibattito, molto vivace anche se in certi momenti è sembrato un “dialogo tra sordi”, possono leggere tutti i contributi nei due volumi pubblicati dal Movimento Nonviolento (1977, 1981) e, per il secondo, anche i due miei saggi su “Testimonianze” (nn.211; 212).
Nel richiamare il dibattito mi manterrò su alcuni aspetti, secondo me fondamentali, che possano servire come base per una riflessione finale sulla situazione attuale. Ma per lo sviluppo di questo tema è stato per me molto importante, oltre ai convegni citati, anche il lavoro con Danilo Dolci, in Sicilia, l’amicizia con Aldo Capitini, che ho considerato il mio vero “maestro di vita”, e quella infine con Giuseppe Ganduscio. Questi era un intellettuale siciliano che ha lasciato una fiorente industria di HF a Firenze, per venire a lavorare come volontario in Sicilia da Dolci. Ganduscio è noto soprattutto come raccoglitore e cantante, per la Ricordi, di canti tradizionali siciliani; egli si definiva “marxista nonviolento”, od anche “comunista gramsciano” e ci faceva, a noi volontari, la formazione alla cultura locale attraverso conversazioni che poi saranno raccolte in un prezioso libretto “Perché il Sud si ribella”. Da lui ho imparato ad amare Gramsci ed a studiare i collegamenti tra questo autore e la nonviolenza.


2) Il dibattito su Marxismo e Nonviolenza

La tesi principale di questi dibattiti era quella che tra la socialdemocrazia, di cui si è avuta una sperimentazione in alcuni paesi occidentali, ed il comunismo, che si è concretizzato, in modo piuttosto imperfetto, in vari paesi dell’Est Europeo (con un modello definibile più come “capitalismo di stato” che come socialismo o comunismo vero e proprio) fosse possibile un terzo modello di socialismo di base, autogestito, teorizzato e tentato di realizzare dai sostenitori della rivoluzione di Praga (represso ferocemente dai carri armati sovietici) (Richta,1969) e parzialmente sperimentato, anche qui in modo piuttosto imperfetto, dall’autogestione jugoslava.
Ma il corollario di questa tesi era quello che questo terzo modello di società, organizzato dal basso, libero e con una democrazia sostanziale (e non solo formale) fosse raggiungibile solo attraverso una terza via rispetto alle due sperimentate fino ad allora storicamente (ed accettate anche, sul piano teorico, da Marx e da Lenin) e cioè da una parte la via elettorale, e dall’altra la rivoluzione armata.
Questa terza via, in Italia, è stata preconizzata e sperimentata sia da Capitini ( si pensi ai COS – Centri di Orientamento Sociale – ed all’importanza da lui data alle assemblee di base ed al “potere di tutti”) (Capitini, 1969), sia da Dolci in Sicilia (con la disobbedienza civile dei braccianti disoccupati, e con il progetto costruttivo della diga della Valle del Belice) (Dolci,1968). Ambedue questi studiosi, ed operatori sociali, hanno definito la loro linea come rivoluzione nonviolenta.ß
Nei due convegni su citati questa tesi è stata sostenuta soprattutto da Giuliano Pontara (un obbiettore di coscienza che ha preferito al carcere in Italia l’esilio di Svezia). La tesi di Pontata era quella che tra il voto ed il fucile esistesse una terza via, appunto quella di una rivoluzione nonviolenta (che lui definisce come “nonviolenza specifica”). Lui arriva a queste conclusioni sviluppando tre temi 1) sull’insufficienza del metodo parlamentare nella transizione al socialismo (- l’alleanza con il ceto medio necessaria a vincere le elezioni si ottiene solo annacquando notevolmente il programma socialista – il ceto medio può poi allearsi con forze di destra e bloccare e distruggere il già fatto. I ceti operai sono impreparati a resistere nonviolentemente a tale restaurazione); 2) sulla controproduttività del metodo violento (- l’uso della violenza nella transizione tende a deumanizzare e a brutalizzare i valori del socialismo – L’uso della violenza tende ad insediare in posti dirigenziali persone o gruppi autoritari che mantengono il potere attraverso la soppressione delle informazioni, la segretezza, l’irregimentazione, l’eliminazione totale dell’autogestione del popolo); 3) sulla specificità e potenzialità del metodo rivoluzionario nonviolento, ovvero della “nonviolenza specifica” (- la nonviolenza tende ad inibire nell’avversario quei processi sociali e psicologici che lo portano a deumanizzare il nemico, tende perciò a ridurre il processo di “scalata” della violenza stessa ).La nonviolenza specifica , secondo Pontara, richiede l’accettazione di cinque principi: 1) non causare la morte o gravi sofferenze all’avversario; 2)assumere su di sé i sacrifici necessari a portare avanti la propria causa; 3) in tutte le fasi massima obiettività ed imparzialità, massimo controllo da parte dei partecipanti, non clandestinità; 4) allargare la partecipazione grazie anche ad un programma costruttivo che ricerchi obiettivi sovraordinati che richiedono, per il loro raggiungimento, la collaborazione delle parti in conflitto; 5) graduare i mezzi di lotta: scelta di quelli più radicali ( come la disobbedienza civile o il boicottaggio) solo quando quelli più blandi si sono dimostrati chiaramente insufficienti.
E Tonino Drago, partendo dall’esempio gandhiano, fa notare come questa rivoluzione parta da se stessi e metta in atto una specifica forma di presa del potere attraverso quattro diverse modalità: 1) la ricomposizione tra lavoro manuale ed intellettuale; 2) la realizzazione di piccole società alternative; 3) la ricerca di una massima semplicità tecnologica; 4) la realizzazione di un vero e proprio governo parallelo per esprimere la capacità di organizzarsi ed autogestirsi da parte delle masse. Drago, inoltre, distingue due tipi di marxismo, quello istituzionale, che punta solo a modificare i gestori del potere senza modificare la macchina istituzionale; e quello consiliare, che punta invece alla trasformazione dei rapporti di potere attraverso la creazione di contropoteri di base. La conclusione di Drago è quella che “ In definitiva tra marxismo stalinista, che ha la sua origine storica ed ideologica nel leninismo, e la socialdemocrazia riformista, che è stata di puntello alla società borghese, noi rivendichiamo l’esistenza di una terza via che permetta una transizione alla società senza classi, che è la via nella quale possiamo camminare insieme sia i nonviolenti sia i marxisti consiliari (Testimonianze, n. 211, p. 29). E come esempio concreto di queste possibili forme di azioni comuni cita le lotte del 68, quelle dei quartieri e quelle antinucleari.
Sulla scia delle relazioni di Pontara e di Drago io, in un intervento libero al convegno di Perugia ma che ha ripreso alcuni temi da me affrontati anche in quello precedente, ho dato alcune indicazioni per un lavoro comune tra nonviolenti e marxisti: “ 1) una attenzione ed una lotta, non per delle riforme “tout court”, ma per delle riforme che provengano dal basso ed avvengano con una crescente organizzazione di base, facendo emergere, come protagonisti, oltre alla classe operaia, nuovi attori tradizionalmente emarginati (sottoproletariato, giovani, donne, anziani, ecc.) Questo tipo di organizzazione può impedire sia la “corporativizzazione” delle stesse (come esempio in negativo si pensi alla riforma sanitaria), sia il loro essere rimangiati da “controriforme”; 2) una alleanza prioritaria tra classe operaia ed i ceti più emarginati (piccoli e medi contadini, salariati agricoli, disoccupati, popolazioni delle zone rurali e del mezzogiorno, ecc.) che non escluda anche figure più basse del ceto medio ed impiegatizio, ma senza dare, all’alleanza con il ceto medio quel ruolo centrale che era presente ( e lo è tuttora) nella politica dei due partiti (si era nel 1978) della sinistra storica; 3) il chiarire meglio verso che tipo di società si vuole andare, senza fare esercizi a tavolino, ma prendendo nella dovuta considerazione ed analizzando meglio certi aspetti del modello di sviluppo messo in moto da vari paesi del terzo mondo, con il loro peso centrale all’agricoltura, al decentramento industriale-urbanistico – ed aggiungerei politico – alle tecnologie soffici ed intermedie, alla valorizzazione del capitale umano, e non quello finanziario, all’uso (ma questa è una aggiunta che viene soprattutto dalla nostra esperienza di paesi sviluppati ed inquinati) di fonti energetiche pulite e rinnovabili( sole, acqua, vento, geotermia, rifiuti, ecc.” (Testimonianze, 211. pp. 29-30).
Ma questa tesi dell’integrazione reciproca tra due modi diversi di intendere la “terza via”, e cioè, o come “terzo tipo di società” o come “terzo modello di transizione” (tra il voto ed il fucile), non è stata affatto compresa dal mondo politico italiano.
Lo stesso Bobbio che, come ho già accennato, è stato il nostro principale interlocutore, e grande amico di Capitini, e che considerava la nonviolenza come una grande speranza per un futuro più pacifico, non accettò la nostra tesi di una terza via al socialismo, ritenendo la non-violenza come implicita nel sistema democratico. Quindi per lui terza via e socialdemocrazia venivano a coincidere, anche se non è mai riuscito del tutto a risolvere il problema dell’importanza, nella rivoluzione nonviolenta, della disobbedienza civile, o di forme varie di boicottaggio, tutte forme di lotta non facilmente conciliabili con le regole di un sistema democratico.
Ed anche Lelio Basso, pure lui un grande estimatore della non-violenza, che, ad esempio, qualche anno prima, quando ancora l’obiezione di coscienza non era riconosciuta dal nostro sistema giuridico, in un processo simulato all’obbiettore al servizio militare obbligatorio, ad Agape (villaggio comunitario nelle Valli Valdesi del Piemonte), aveva sostenuto che questo tipo di azione era una forma di “disarmo dal basso” necessario perché, come sostenuto anche da Carlo Cassola alla fondazione della Lega per il Disarmo Unilaterale, il disarmo dall’alto, da parte dei governi stessi, non aveva fatto, e non fa, molti passi in avanti. Ma anche lui, al nostro convegno, non ha accettato la tesi della nonviolenza come terza via, almeno in forma generalizzata, perché riteneva che questa forma di azione richiedesse, per poter diventare operativa, un certo livello di libertà, di cultura, e di sviluppo economico, che si potevano trovare solo in sistemi già almeno parzialmente sviluppati e democratici. Mentre per lui la nonviolenza non aveva alcuno spazio nei paesi poveri e dittatoriali nei quali l’unica via di transizione al socialismo restava la rivoluzione armata .
Adalberto Minucci, direttore di “Rinascita”, sostenne al contrario la tesi opposta a quella di Basso: che la nonviolenza potesse trovare spazio solo nei paesi sottosviluppati, perché in quelli sviluppati e già democratici, la democrazia stessa offriva possibilità di mutamenti sociali anche profondi senza bisogno di ricorrere alle lotte nonviolente.
In pratica tutti e tre questi studiosi, anche se con argomentazioni diverse e talvolta anche opposte, hanno appoggiato la tesi che nonviolenza e società democratica fossero in qualche modo correlati, e sarà questo il messaggio che gran parte della sinistra italiana accetterà. Quindi il dibattito sulla terza via, quella della rivoluzione nonviolenta, auspicata da Capitini, Dolci, e dal Movimento Nonviolento fondato da Capitini, cadrà sostanzialmente nel vuoto, ed anche autori del mondo marxista che avevano avuto intuizioni che andavano in questa stessa direzione, come Rosa Luxemburg, Gramsci, Lukacs, e tutta la rivoluzione praghese, verranno messi ai margini da parte dei partiti comunisti, o ex-comunisti.
Ed il dibattito successivo si è sviluppato solamente sul concetto di terza via come terzo modello di società, anche con un incontro ad altissimo livello, a Firenze, con la partecipazione di Blair, Schoeder, Clinton, D’Alema, ed altri leaders della sinistra europea, con la presenza anche di alcuni sociologi come consulenti, Giddens, ad esempio, ed Alberto Martinelli. Ma in questi incontri l’alternativa non era tra modelli di società interni al socialismo, come era stata la tesi del Movimento Nonviolento, ma tra capitalismo da una parte e comunismo dall’altra, considerando perciò la terza via come identificata nella socialdemocrazia, e non cercando di aumentarne il livello di socialismo, ma, al contrario, di renderla più compatibile con le leggi del mercato capitalistico. E questa impostazione ha del tutto messo da parte il problema del metodo, considerato scontato che fosse quello elettorale, negando alcuna validità al problema del collegamento tra metodo di transizione e i risultati della stessa, che è stata invece la tematica fondamentale sottolineata dagli studiosi e pratici della nonviolenza.
Nella premessa infatti alla pubblicazione degli atti del primo convegno si dice: “Il problema dell’uso della violenza o della nonviolenza nella transizione al
socialismo è stato sottovalutato dalla sinistra che ha ritenuto, a torto, il problema
dei metodi come secondario rispetto a quello della conquista del potere…
L’esperienza storica ha dimostrato “ad abundantiam” come le modalità con cui si
arriva al potere sono una variabile fondamentale anche del come tale potere viene
mantenuto e gestito e che perciò un “socialismo dal volto umano” necessita di un
modo di arrivare al potere diverso dalla rivoluzione armata, ma forse diverso anche
dal semplice uso dello strumento elettorale…Resta perciò aperto il problema di una via
originale di transizione al socialismo che non si identifichi né con la tradizionale via
riformistica dei paesi a capitalismo avanzato (che spesso si è limitata a
razionalizzare il sistema senza trasformarlo profondamente) né con quello della
rivoluzione armata portati avanti nei paesi del terzo mondo (che spesso danno vita
a regimi dittatoriali e totalitari e non a quella nuova forma di società intravista da
Marx, Luka_s, Gramsci e altri autorevoli marxisti.
(Movimento Nonviolento, in “Marxismo e Nonviolenza” pp 7-8),

Invece la discussione successiva non ha tenuto in alcun conto il rapporto tra fini e mezzi, che è una delle ipotesi fondamentali della nonviolenza, e la tesi che tra voto e fucile fosse possibile una terza via, quella della rivoluzione nonviolenta. Eppure come scritto da Bobbio in un suo articolo su "Il Ponte", e riportato all’inizio di questo saggio (in Marxismo e Nonviolenza, p. 14), egli riteneva che la tesi della complementarietà tra marxismo e nonviolenza avesse avuto una certa conferma. Ma Bobbio si poneva poi la domanda se fosse possibile. “far passare la dottrina della nonviolenza…dalla utopia alla scienza, o meglio dal cielo delle buone intenzioni alla terra delle buone azioni?”(Ibid. p. 18) Ma Bobbio, con questa sua accettazione della socialdemocrazia e la sua sottolineatura dell’importanza delle regole del gioco democratico (che lui paragonava al possesso delle chiavi per aprire la porta) non riuscirà ad accettare quella parte, importante, del ruolo dell’ uscita dalle regole del gioco che è un aspetto fondamentale di una lotta nonviolenta.
Ma se si prende in analisi la storia contemporanea e le lotte che in questa sono avvenute, con risultati in qualche modo positivi, riportate da Galtung, se ne trovano almeno 10:
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1.La campagna di Gandhi per l’indipendenza dell’India (1920);
2.La liberazione degli ebrei arrestati a Berlino grazie alla lotta delle loro mogli (1943);
3.La campagna di Martin Luther King contro l’apartheid in USA (1956);
4.Il movimento contro la guerra del Vietnam;
5.La lotta delle madri di Plaza de Majo a Buenos Aires contro i militari;
6.Il movimento “People Power” nelle Filippine (1986);
7.Il movimento “Children Power”contro l’apartheid in Sud Africa (1986);
8.Il movimento della prima Intifada nella Palestina occupata (1987);
9.Il movimento democratico di Pechino (1989);
10.Il movimento “Solidarnosh” in Polonia©

Questo dà torto a tutti e tre gli interlocutori dato che molti dei successi avuti dalla nonviolenza sono stati sia in paesi sottosviluppati e dittatoriali, sia in altri sviluppati e sedicentemente democratici, a conferma del fatto che questa può funzionare anche in contesti opposti e molti diversi l’uno dall’altro. Interessante, a questo riguardo, il commento finale di Galtung su queste lotte:
“Dato il crescente fallimento della violenza e della guerra come istituzioni … e dati
i significativi risultati ottenuti con mezzi nonviolenti, perché questi mezzi non vengono usati molto di più?…. Non stiamo ipotizzando che la nonviolenza funzioni sempre, che sia una panacea… ma ci sono molte argomentazioni a favore dell’ipotesi che la violenza non funzioni mai !”.
(Galtung, 2000, pp. 215-219)

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3) Spunti successivi per il dibattito su marxismo e nonviolenza

Il dibattito ufficiale dei due convegni, a parte altri commenti più favorevoli al rapporto tra questi due termini, come quello di Lucio Lombardo Radice che parla di aggiunta nonviolenta al Marxismo, ha nella sostanza confermato il mio commento iniziale di “dialogo tra sordi”. Ma non tutto il marxismo è stato così sordo alle istanze espresse da Capitini e dai suoi epigoni, e cioè di una terza via di transizione al socialismo che portasse con sé anche un modello di società diverso da quelli da noi storicamente conosciuti. In Italia, ad esempio, Pietro Ingrao, in vari suoi libri (1977,1979), ha presentato delle tesi che non si differenziano molto da quelle dei nonviolenti. Ed in Francia André Gorz (1990) è andato nella stessa direzione, sia sottolineando l’importanza di uno sviluppo ecologicamente compatibile, con energie dolci rinnovabili, sia liberando il concetto di rivoluzione da quell’alone di morte e di sangue che tradizionalmente, e nell’immaginario collettivo, viene associato a questa parola. Gorz infatti sottolinea come la vera alternativa attuale non sia tanto tra rivoluzione, immaginata come conquista del “palazzo d’inverno”, e riforma, ma tra le riforme che vengono dal basso, con una grossa pressione di base che servirà poi ad impedire che vengano rimangiate dal sistema, e riforme dall’alto, molto più equivoche ed instabili. Per Gorz perciò il problema principale non è quello della definizione (rivoluzione o riforma), ma quello del processo che porti al mutamento sociale desiderato. Una “riforma” che venga fatta grazie ad una grossa pressione ed organizzazione della base, può essere molto più incisiva e duratura, di tante “rivoluzioni” che portano, magari, al cambiamento anche rapido di una classe dirigente, ma lasciano immutata la struttura sociale con il quale il potere si mantiene.
Ho già accennato, nella premessa, alla grande influenza avuta su di me dall’esempio e dall’insegnamento di Giuseppe Ganduscio - morto purtroppo molto giovane, a causa di un male incurabile. Egli si definiva “marxista nonviolento” e si richiamava, per questa sua posizione, all’insegnamento gramsciano. Un punto importante del suo insegnamento, riportato nel suo libro citato, era quello della distinzione tra “rivoluzione” e “rivolta” o “ribellione”. Commentando questa distinzione, che Ganduscio traeva dall’insegnamento di Gramsci, io scrivevo, nella mia relazione di Perugia :
“Se si distingue in un continuum tra “rivoluzione”, processo di rivolgimento sociale in cui l’elemento razionale – la scelta strategica alternativa - è massimo, e la”ribellione o rivolta”, in cui manca del tutto una scelta strategica e l’azione è puramente irrazionale ed esplosiva, le interpretazioni prevalenti dei processi rivoluzionari tendono a porsi più sull’asse della rivolta che su quello della rivoluzione”
L’insegnamento e la familiarietà con Ganduscio mi ha portato, negli anni successivi, ad approfondire i rapporti tra Gramsci e la nonviolenza. Questo ha stimolato la Casa per la Pace di Ghilarza, in cui ero andato varie volte ad animare dei training sulla nonviolenza, e la Casa Gramsci di quella stessa cittadina sarda, ad organizzare insieme un seminario su questa stessa tematica. A me era stato dato il compito di introdurre il tema. Gli altri interlocutori erano un dirigente di un Centro Gramsci di una importante città italiana, ed un sacerdote cattolico di Padova che aveva fatto una tesi di laurea sul pensiero di Gramsci, seguita da Norberto Bobbio, che era poi diventata un importante libro su questo autore (Nardone, 1971).
Nella mia relazione ho sostenuto che Gramsci aveva molti punti di contatto con il pensiero e la prassi nonviolenta e che poteva essere considerato come un antesignano di una rivoluzione nonviolenta. Purtroppo sembra che la registrazione del dibattito sia andata persa, ed io non ho mai avuto il tempo e la calma per risistemare le centinaia di pagine di appunti da me scritti per preparare la relazione suddetta. Citando a memoria cercherò qui di sintetizzare le mie principali argomentazioni. Intanto risultava, da alcune pagine delle sue “Lettere dal Carcere”, che Gramsci conosceva la lotta di Gandhi per l’indipendenza dell’India, e che l’aveva sostanzialmente apprezzata. L’aveva conosciuta attraverso un libro su Gandhi scritto da un suo amico, il famoso romanziere francese Romain Rolland, che era anche andato a trovarlo in carcere, portandogli copia del suo libro su Gandhi, e che si era dato in seguito da fare, invano, per far liberare Gramsci dalla prigione. Le tesi da me argomentate si basavano su questi assunti: 1) Il superamento, da parte di Gramsci, di un certo meccanicismo ed evoluzionismo presente in molti marxisti, che faceva ritenere che il comunismo sarebbe stato il naturale sviluppo del progresso capitalistico. Gramsci, ed anche la Luxemburg, recuperava l’essere umano come costruttore della propria storia. Da qui l’importanza della creazione di organismi di base – i consigli operai - che lottassero, dal basso, per dare vita ad una società diversa, a misura di uomo; 2) la non attesa messianica, da parte di Gramsci, della conquista del potere come punto di svolta per dar vita ad una società diversa, e l’importanza, invece, di cominciare da subito a dar vita a quelle che Gramsci considerava le “casematte”, da costruire da subito all’interno del mondo attuale come prefigurazione della società diversa, a cui dar vita. E questo sottolinea anche l’importanza, per Gramsci, degli aspetti progettuali e strategici.
“E’ distruttore-creatore – scrive Gramsci – chi distrugge il vecchio per mettere alla luce, far affiorare il nuovo che è divenuto necessario ed urge implacabilmente al limitare della storia. Perciò si può dire che si distrugge in quanto si crea”. (Gramsci, 1975, 6,30)
3)Il superamento , da parte di Gramsci, del concetto di “dittatura del proletariato” come fase indispensabile per arrivare al comunismo, e la sua sottolineatura invece del concetto di “egemonia culturale della classe operaia” che, come ha sottolineato anche Bobbio (1967), mette al centro del processo rivoluzionario non il numero di persone, né la forza bruta, ma la capacità di elaborazione culturale; 4) Il superamento della mitizzazione della classe operaia, tradizionalmente intesa, come leva principale del processo rivoluzionario, che sarebbe perciò limitato ai paesi industrialmente più forti, emarginando del tutto i contadini del mezzogiorno ed i popoli non industrializzati. Uno dei punti essenziali dell’insegnamento gramsciano era quello di trovare punti d’accordo, ed una strategia comune, tra operai e contadini, tra Nord e Sud.

Probabilmente ho sostenuto anche altre tesi che in questo momento non mi tornano in mente, ma sicuramente le argomentazioni principali sono state queste. Quello che ricordo chiaramente è la totale adesione alle mie tesi del sacerdote, allievo di Bobbio, e l’abbraccio entusiasta dei parenti di Gramsci che erano venuti a Ghilarza dalle varie zone della Sardegna in cui abitavano. Di opinione del tutto contraria invece fu il dirigente del Centro Gramsci che non poteva accettare la definizione di Gramsci come nonviolento dato che per lui nonviolenza e riformismo erano la stessa cosa, e dato che Gramsci tutto poteva essere definito fuorché riformista. Questo ha confermato quanto emerso nei convegni precedenti da parte di autorevoli membri dell’allora PCI, della impossibilità di un accordo tra nonviolenti e marxisti istituzionali, come sostenuto da Drago, ed invece la vicinanza tra il marxismo consiliare ed attivo, di cui Gramsci era una delle colonne, e la nonviolenza.
Una conferma, d’altra parte, della vicinanza tra l’impostazione gramsciana e la nonviolenza viene anche dall’applicazione a Gramsci delle indicazioni gandhiane di acquisizione del potere, presentate a Perugia da Drago. Queste erano: 1) la ricomposizione tra lavoro manuale ed intellettuale; 2) la realizzazione di piccole società alternative; 3) la massima semplicità tecnologica; 4) il governo parallelo. L’applicazione di queste indicazioni al pensiero e la prassi gramsciana, per quanto riguarda il primo aspetto, fa emergere una perfetta sintonia tra Gandhi e Gramsci. Scrive, a proposito di questo aspetto del pensiero gramsciano, Aldo Capitini:
“Intellettuale non è più considerato soltanto il letterato, colui che sa di greco e di latino, ma intellettuale è ognuno, anche se in diverso grado. ‘Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale – scrive Gramsci -. Non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens”.(Capitini, 1968, p.47)
Da lì, per Gramsci, l’importanza di una scuola unica di base che preveda lo
sviluppo delle capacità di lavorare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo delle capacità del lavoro intellettuale.
Rispetto al secondo aspetto, sull’importanza per Gramsci della
sperimentazione di realtà alternative, ne abbiamo già parlato quando si è
accennato al concetto di casematte. Più dubbi ci potrebbero essere per il terzo
punto, quello della semplicità, dato che la coscienza ecologica si è sviluppata in
tempi più recenti rispetto a quelli in cui è vissuto Gramsci, ma nell’educazione
prevista da Gramsci per le nuove generazioni, al primo punto egli pone:
“L’acquisizione delle leggi di natura: bisogna far capire come la natura sia retta da leggi ben precise, in un mondo di ordine….” (Capitini, 1968, p.51).
E per quanto riguarda il quarto punto, quello del governo parallelo, cos’altro è l’egemonia culturale della classe operaia prevista da Gramsci, se non la capacità di prefigurare e lavorare concretamente per una società alternativa?
Ma c’è un ultimo punto che avvicina la pedagogia gramsciana a quella di Gandhi, e cioè l’importanza data da ambedue alla disciplina. Scrive Capitini, parlando di Gramsci educatore: “
“disciplina anche fisica, in quanto il corpo pure ha bisogno di una educazione, altrimenti poi non risponderà alle varie esigenze a cui l’individuo dovrà sottoporsi: occorre creare delle attitudini psico-fisiche”(Ibid., p.52)
E questo rende Gramsci un precursore di quella che Gandhi e molti
pedagogisti contemporanei chiamano come educazione del carattere, cui danno una sempre maggiore importanza, soprattutto per la nonviolenza dato che il superamento delle paure ed il coraggio di andare contro corrente sono due aspetti fondamentali di un comportamento nonviolento specifico, per usare la terminologia di Giuliano Pontara.
Un ulteriore importante contributo all’aggiornamento del dibattito viene da uno scienziato di fama internazionale, che ha anche vinto vari premi per le sue attività di pianificazione sociale e territoriale svolte soprattutto in America del Sud, ma anche in alcuni paesi dell’Asia: John Friedmann . Questo studioso, nato in Austria da famiglia ebraica, si è poi trasferito con la famiglia in Inghilterra e più tardi negli USA, dove ha insegnato pianificazione urbana alla Università di Los Angeles (UCLA), di cui attualmente è professore emerito. Più recentemente ha lasciato gli USA per andare in Australia ed ora vive in Canada. E’ anche il fondatore di una organizzazione (INURA) formata da pianificatori che mettono le proprie competenze scientifico-professionali a servizio dei movimenti che cercano di dar vita ad una società a misura dell’essere umano, e non del mercato.
Egli dedica molte pagine di un suo libro (1993) al marxismo, visto come una scuola fondamentale di quella corrente pianificatoria che lui definisce di “mobilitazione sociale”, ed anche ai dibattiti interni a questa corrente, come quelli su violenza e nonviolenza nella trasformazione sociale, su spontaneismo ed organizzazione, sul ruolo delle elite e delle masse, e sulle varie possibili strategie di transizione al socialismo, tutti temi di grande attualità e che sono normalmente oggetto delle discussioni interne dei sostenitori delle varie scuole che fanno di questa corrente.
Gli elementi fondamentali dell’insegnamento di Friedmann, nei vari suoi
libri (1993, 2004), possono essere così sintetizzati:
- la pianificazione come processo che dalla conoscenza va all’azione, oppure, al contrario, dall’azione va alla conoscenza, con tutti e due i momenti come fondamentali (teoria-prassi; prassi-teoria);
- una approfondita analisi dei dibattiti interni alla scuola di mobilitazione
sociale, su accennati, scuola di cui fanno parte, oltre al marxismo,
l’anarchismo, il socialismo utopistico, la sociologia critica;
- l’importanza della capacità della gestione nonviolenta dei conflitti, con il
riconoscimento istituzionale di forme nonviolente di protesta, come aspetto fondamentale di una “buona città”;
- una critica al marxismo (ma non a Gramsci) per aver messo in secondo piano la programmazione di una società alternativa da costruire, rimandata spesso all’azione spontanea delle masse, il che rende il movimento più reattivo al programma padronale che proattivo;
- importanza di una programmazione dal basso, con la gente, per una alternativa all’attuale modello di sviluppo, con gli obiettivi di una “democrazia inclusiva”, di uno sviluppo che superi il problema della povertà, e sia sostenibile, con l’equità tra uomo e donna, ed uno sviluppo responsabile verso le generazioni future.
L’accenno di Friedmann ad un riconoscimento istituzionale delle lotte
nonviolente, tema che abbiamo visto non essere stato risolto da Bobbio, apre un problema importante, quello cioè del rapporto tra lotte nonviolente di massa ed il terrorismo. Scrive, a questo proposito, Gene Sharp, uno dei più noti studiosi mondiali di lotte nonviolente:
“L’introduzione del diritto ad organizzare la disobbedienza civile, piuttosto che distruggere la democrazia, la rinforzerebbe dando risposta ad una delle sue maggiori debolezze – l’assenza di strumenti democratici per esprimere estremi dissensi - e ridurrebbe i più seri pericoli posti alla democrazia dalla passività e dalla violenza politica” (Sharp, 1997)
Questa alternativa posta da Sharp tra nonviolenza e violenza politica trova
conferma in molte ricerche e molti esempi storici che mostrano esserci una correlazione negativa tra lotte nonviolente di massa e terrorismo. Più forti ed incisive le lotte, meno diffuso il terrorismo. Accenneremo a due soli esempi, ma potrebbero essere molti di più:
1) In Israele le azione terroristiche sono quasi del tutto sparite durante la prima Intifada sostituite da lotte generalizzate nonviolente (disobbedienza civile, scioperi delle tasse, obiezioni di coscienza al servizio militare, azioni di rimpianto di alberi distrutti dai militari israeliani, ecc.), e da forme di lotte di massa a bassa intensità di violenza (la pietra di Davide contro il mitra del gigante Golia). L’espulsione da Israele, da parte del governo Israeliano, di Mubarak Awad, il palestinese che aveva teorizzato la resistenza nonviolenta generalizzata all’occupazione israeliana dei territori, e l’ aveva anche organizzata, ha portato in tempi brevi alla cessazione della I Intifada, che verrà più tardi sostituita dalla II Intifada che ha invece trovato nelle azioni di tipo terroristiche dei Kamikaze la sua arma tragica preferita. (L’Abate, 2002)
2) Nelle Filippine c’era una resistenza armata alla dittatura di Marcos portata avanti da piccoli gruppi di ribelli. Questa è sparita del tutto quando Cory Aquino, la vedova del leader politico di opposizione a Marcos fatto uccidere da lui, si è messa alla testa di lotte nonviolente di massa che sono riuscite a sconfiggere Marcos ed a convincerlo di andare in esilio. Ma attualmente l’emarginazione della politica della Aquino sostituita da leader politici meno radicali che stanno portando avanti una politica filo USA sta facendo rinascere forme di lotta armata di tipo terroristico (Mir Padova, 1989, AA.VV.,1992)
Ma prima di affrontare il prossimo tema, e cioè il ruolo in Europa di un
movimento che si ispiri al marxismo ed alla nonviolenza, cercherò di trarre da quanto detto finora delle indicazioni operative a carattere generale che possono emergere dalle esperienze su citate:
1) Non il rifiuto della democrazia elettorale, che è comunque un passo avanti verso una democrazia reale, ma la sua integrazione, come chiedeva Capitini, con molti altri centri di potere e decisionali di base (nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri, ecc.), gestiti però democraticamente, in modo da poter stimolare una politica per la base e con la base, per controllare dal basso chiunque detenga le “redini del potere” , e con il riconoscimento legale di forme di protesta anche gravi (tipo il boicottaggio o la disobbedienza civile) purché portate avanti in forma nonviolenta e sulla base di una serie di regole dichiarate pubblicamente;
2) Il totale rifiuto del modello di sviluppo attuale che sta aumentando continuamente il divario tra ricchi e poveri sia all’interno dei singoli paesi, che tra il mondo cosiddetto sviluppato, e quello definito, spesso eufemisticamente, “in via di sviluppo”. La ricerca invece di un modello di sviluppo alternativo che veda i gruppi più poveri protagonisti ed interpreti principali del loro riscatto, secondo le importanti prefigurazioni ed ipotesi dei lavori di Friedmann, e soprattutto del suo ultimo dedicato proprio a questo argomento (2004).
3) Un lavoro costante per individuare le radici della violenza a tutti i livelli (nell’educazione, nel mondo economico, nel lavoro, nei quartieri, nella vita associativa, nella vita politica interna ed esterna, ecc.) cercando di risolvere nonviolentemente i conflitti e prevenirne la scalata fino all’esplosione armata, ma senza che questo lavoro vada a vantaggio dei detentori del potere, e di chi è interessato a mantenere le attuali ingiustizie e squilibri sociali.
4) L’unione tra azione diretta nonviolenta, per lottare contro le tante ingiustizie e soprusi, ed il progetto costruttivo, per dare vita ad una società alternativa dove la ragione non sia dalla parte del più forte, ma dove la forza (che non significa forza bruta ma egemonia culturale e pressione sociale dal basso) sia subordinata alla ragione.
5) Lavorare per dar vita ad una società dal socialismo dal volto umano (come quella che si era cercato di costruire in alcuni paesi dell’Est Europeo, repressa e stroncata violentemente dai carri armati russi a Praga ed in Ungheria. Oppure quella ricercata dagli studenti cinesi di Piazza Tien an Men, a Pechino, anche queste repressa violentemente dal governo sedicentemente comunista, in realtà appoggiato dagli USA e dalla CIA, e contro la volontà del Partito Comunista Cinese che si era invece dichiarato a favore degli studenti manifestanti. In complesso perciò per dar vita ad un tipo di società, controllata dalla base, nella quale libertà e giustizia siano ambedue valori fondamentali perseguiti, e non l’uno senza o contro l’altro.
6) Una programmazione economica, sociale e politica fatta per e con la popolazione stessa, come quella studiata e realizzata da Danilo Dolci in Sicilia (1968), e sperimentata da Friedmann in varie zone del mondo (programmazione da lui definita “transattiva”) o da noi sperimentata a livello regionale (che abbiamo definito “circolare”). In questa le indicazioni che vengono dal centro, necessarie per evitare le pressioni dei poteri forti esterni a quello che Friedmann definisce il “dominio pubblico” (come quelle delle multinazionali, e delle loro rappresentanze anche interne ad organismi internazionali – come il Fondo Monetario Internazionale, e la Banca Mondiale) e quelle che provengono dalla base, per una risposta alle esigenze dei gruppi più disagiati, si incontrano in un punto più vicino alle esigenze della base tanto più queste ultime saranno capaci di lavorare insieme e trovare strategie comuni. Questo presuppone che la “globalizzazione liberale o dei mercati”, attualmente imperante, venga contrastata, e profondamente corretta, da un movimento anche più potente e coordinato, di “globalizzazione dal basso” (Pianta,2001), in cui l’unione del movimento non sia basata solo sul no alla globalizzazione dei mercati, ma anche sul progetto costruttivo, del tipo di società cui si vuole dare vita.

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4) Il ruolo in Europa di un movimento di inspirazione marxista e nonviolenta

Ma queste indicazioni rischiano di restare astratte ed avere scarsa o nulla rilevanza politica se non si incarnano nella vita politica concreta di costruzione dell’Europa. Ma per far questo vorrei partire da alcune citazioni di Capitini, la prima degli anni 48 e l’altra dei 60, in una situazione molto diversa dall’attuale nella quale c’erano ancora due blocchi, quello americano e quello sovietico, e l’Europa era del tutto inesistente come entità. Ma malgrado questo molte delle cose scritte anni fa da Capitini sembrano ancora molto attuali.
Scrive Capitini nel 1948, in un paragrafo : “Il compito dell’Europa”: “Una Europa come punto d’incontro delle due civiltà dell’’Est e dell’Ovest, il loro superamento, la loro integrazione con ciò che ad esse manca e che non sapranno mai darsi che imperfettamente……Una Europa che unisca Occidente ed Oriente, la civiltà liberaldemocratica e quella comunista, ma nell’unità mondiale, pur necessaria…….L’Europa come mediatrice e superatrice dei due mondi dell’Est e dell’Ovest, un socialismo che assorbe il tema della “persona” e le dà una base sociale: una federazione di popoli pacifici, pianificatrice ed operosa……conservatrice dello
slancio della libertà ai valori” ( Capitini, 1948, pp. 93-95)
Capitini, in un altro testo scritto nel 1966, ma pubblicato nel 1968, intitolato , “Il posto dell’Europa nel mondo”, scrive:
“ L’Europa…non può accettare gli Stati Uniti americani, anche se vi riconosce, ingigantiti, alcuni aspetti della propria civiltà, perché l’Europa è debole come forza, ma è più complessa come spirito, sente più esigenze, mentre gli Stati Uniti, nella loro sostanza, sono la difesa del sistema della proprietà privata: gli Stati Uniti, posto il proprio modo di vivere (way of life), sono disposti a subordinare tutto alla difesa di esso, alla sicurezza in esso.Perciò si sono assicurati la forza maggiore che sia nel mondo, e questa presenza della forza ha due facce: che si serve della forza chi vuol essere protetto; che la forza impone inevitabilmente condizioni, cioè crea un impero….Una fermezza davanti agli Stati Uniti americani è necessaria, appunto per quel semplicismo, per quella elementarietà, per quella pretesa di ‘guardiani dell’ordine’’, come se non fosse percepibile che tale ordine è quello che loro conviene, o credendo che a loro convenga, ricade per le sue conseguenze su tutti…. Errato è, dunque accettare a occhi chiusi la ‘forza’ degli Stati Uniti: errato è voler costituire in Europa una forza di carattere nazionale…né è possibile fantasticare una forza europea che possa stare alla pari di quella americana” (p. 286).
In complesso Capitini pensava ad una Europa che non facesse parte
né del blocco Occidentale, né di quello Orientale, ma che nemmeno cercasse di seguire questi blocchi in una ricerca nazionalistica…
“Una Europa – scrive Capitini - che punti su tre pilastri: l’ONU, le collettivizzazioni
anticapitalistiche, la nonviolenza…. Per realizzare la pace nei due sensi, negativo,
di evitare la guerra, positivo, di costruire la nuova civiltà di tutti” (Ibid. p.288)
Nel proseguo di questo saggio analizzerò ognuno di questi tre temi, o pilastri, come li definisce Aldo, partendo da citazioni capitiniane su questi stessi argomenti, ed elaborandoli ulteriormente sulla base della politica più recente.

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4.1.L’ONU

Scrive Capitini:
“L’organizzazione delle Nazioni Unite va sempre sostenuta, difesa, protetta da
qualsiasi influenza, ma anche integrata da due forze che si affianchino senza
distruggerla: lo sviluppo delle collettivizzazioni anticapitalistiche, lo sviluppo del
metodo nonviolento da applicare a qualsiasi lotta interna o esterna” (ibid. p. 288)

Per aggiornare queste indicazioni ho elaborato uno schema a due colonne, nella prima ho indicato , rispetto all’ONU, la politica portata avanti dagli USA e dei suoi vassalli, nella seconda, invece, la politica che dovrebbe portare avanti l’Europa auspicata:

La politica degli USA Il ruolo dell’Europa
Privilegio ai diritti umani individuali, emarginazione di quelli sociali ed economici; I diritti umani individuali hanno valore solo nel quadro, ed in accordo, con quelli sociali ed economici;
Tendenza a rifiutare Tribunali generali, ed accettazione solo di tribunali per specifici crimini (Ruanda, Jugoslavia), con uno stretto controllo su questi del Consiglio di sicurezza ristretto; Potenziamento del Tribunale Penale Internazionale e delle possibilità che le sue sentenze vengano effettivamente eseguite, verso tutti i paesi, compresi quelli più potenti e meno inclìni ad accettarne le sentenze (come gli USA);
Incapsulamento e subordinazione dell’ONU e delle altre organizzazioni a questo legate, alla politica USA ( si pensi al rifiuto di dare il visto ad Arafat, invitato dall’ONU per un’ audizione; oppure al bombardamento di Bagdad, durante la prima guerra del golfo, il giorno stesso dell’arrivo in quella città degli aiuti umanitari della CRI); Massima apertura democratica a tutti i popoli con possibilità di sedi nelle cinque grandi regioni del mondo, e, per quella centrale, trovare una sede in qualche piccolo paese che non possa subordinare la sua politica ai propri interessi;
Emarginazione delle norme che vedono l’ONU come il supremo garante della pace, non lasciandogli svolgere il proprio ruolo di mediazione, e non permettendo nemmeno di portare avanti interventi incisivi (ad esempio, limitando notevolmente i soldi e gli uomini per le azioni di peace-keeping). E cercando invece di sviluppare, al suo esterno, forme di intervento di “imposizione della pace” mantenendo il controllo di queste attraverso il consiglio di sicurezza ristretto (i cui paesi risultano aver venduto, secondo un documento dell’UNICEF, dal 1995 al 1999 l’85,6 % delle grandi armi del mondo) o attraverso organismi da lei controllati come la NATO L’Europa dovrebbe lavorare per una reale democratizzazione dell’ONU, eliminando il diritto di veto dei pochi paesi del Consiglio ristretto, per potenziare le sue attività per la prevenzione e la mediazione dei conflitti, organizzando anche un corpo internazionale di polizia che gradualmente sostituisca tutti gli eserciti nazionali, e che possa intervenire concretamente per far applicare le sentenze del Tribunale Penale Internazionale, e dei Corpi Civili Non Armati che lavorino per prevenire, interporsi e riconciliare i paesi ed i gruppi sociali in conflitto reciproco
L’emarginazione totale di qualsiasi politica di prevenzione dei conflitti armati sostituita spesso dalla ricerca sistematica di occasioni di conflitto armato (per non indebolire il complesso industriale-militare molto potente nei paesi sviluppati) Da questo punto di vista sembra importante che la nuova costituzione europea, ancora in discussione, non preveda solo, come già deciso, una agenzia per il coordinamento delle politiche militari dei singoli paesi, ma anche una agenzia per la costruzione della pace, come quella proposta dalla EPLO – un organismo di cui fanno parte molte delle ONG che si occupano di prevenzione e di intervento nonviolento nei conflitti armati - all’interno della quale operino quei corpi civili di pace su indicati.

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4.2. Quale socialismo? Lo sviluppo delle collettivizzazione anticapitalistiche

Scrive Capitini :
“ Noi non possiamo stare in una situazione di socialismo riformistico che faccia semplici ritocchi alla realtà sociale esistente, e vi si accomodi per giacere e godere: mancherebbe il meglio, la ragione di tutto, quelle ragioni ideali che dicevamo sopra…non avremmo nulla di caratteristico rispetto alle civiltà dell’Ovest e dell’Est, non daremmo il nostro contributo” (1948, p.94)
Ed altrove scrive.
“L’Europa avrebbe certamente da guadagnare dall’incremento di un socialismo serio, profondo, risolutore, di grande tensione, ma vorrebbe anche sviluppare certi incrementi di libertà” (1968, p. 287)

E’ certo che grazie alle lotte pacifiche (non-violente o a-violente) della classe
operaia il modello di società attuato dalle socialdemocrazie europee (soprattutto da quelle nordiche) è probabilmente il più valido attuato nel mondo. Il cosiddetto “Stato Sociale” o “Stato del Benessere” garantisce infatti, qualche volta purtroppo solo sulla carta, il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, al riposo, alla pensione, ecc. ecc. Tutte conquiste fondamentali in una società civile che altre società, magari anche più ricche (come gli USA), non si sognano nemmeno. Ma considerare questa come la reale ed unica “terza via” e l’unica alternativa al capitalismo da una parte, ed al comunismo dall’altra, o credere, come sostenuto da Karl Popper, che questo è il “mondo migliore possibile” è una totale mistificazione. Rispetto al modello di società (o terza via) proposto da Aldo Capitini e dal Movimento Nonviolento ci sono almeno quattro deficit:
1) Non c’è quell’aggiunta alla democrazia che Capitini auspicava con, accanto al Parlamento ed agli altri organi ufficiali previsti anche a livello locale, organismi di base (tipo i COS da lui organizzati a Perugia e poi in molte città italiane), nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, ecc. per rendere la politica di questi organismi meno staccata dai reali problemi della popolazione, e per farli controllare dal basso da parte di questa. Ma questo richiede un salto rivoluzionario, come quello previsto da Capitini e da Dolci, con il passaggio da una democrazia puramente “delegata” ad una democrazia realmente “partecipata”, un tipo cioè di democrazia che tutti i conservatori (anche di sinistra) paventano come una minaccia al loro potere;
2) Una parte importante delle socialdemocrazie europee ha completamente dimenticato il pacifismo che pure è stato uno dei temi forti con i quali il socialismo era nato (si pensi a Jaurés o alla Luxemburg) ed è diventato “militarista” (si veda la politica di Blair in Inghilterra), molto più di tanti conservatori intelligenti. A questo cambiamento di politica ha spesso contribuito la loro accettazione della tesi della crisi dello stato sociale come dovuto alla crisi fiscale dello stato, e cioè degli alti costi che questo comportava. E si sono messi essi stessi a smantellare vari aspetti importanti dello stato cosiddetto del benessere, sedicentemente per risparmiare e spendere meno, ma spesso anche perché i soldi risparmiati nel sociale servivano invece ad aumentare le spese militari. Questa sottovalutazione da parte delle sinistre italiane ed europee , e questo militarismo viscerale, è emerso chiaramente in un convegno tenuto due anni fa presso la sede del Parlamento Francese. Il tema erano i “Corpi Civili di Pace”, che i francesi preferiscono definire “interventi civili di pace”, perché meno assimilabili ai corpi armati (AA.VV., 2001). Un generale francese che rappresentava il Ministero Francese della Difesa, fece una relazione nella quale parlò di tre fasi dell’intervento nei conflitti: 1) la prima di intervento esclusivamente militare per superare lo stato bellico esistente in quel luogo; 2) la seconda mista militare-civile, nella quale, con l’aiuto dei militari stessi, un certo numero di civili intervengono per mettere a punto un piano di ricostruzione civile della zona; 3) la terza esclusivamente civile per portare avanti questo programma. Ed in rapporto a queste tre fasi dell’intervento dichiarò che all’interno del Ministero della Difesa Francese si erano costituiti appunto tre dipartimenti, ognuno corrispondente ad una di queste fasi.
Alla domanda fattagli da vari partecipanti al simposio in quale delle tre fasi veniva inserita l’attività per la prevenzione dei conflitti armati, dapprima fece finta di non capire, ma dopo varie insistente sbottò in una risposta di questo tipo: “E’ vero, la prevenzione dei conflitti armati è importante, ma non è compito del Ministero della Difesa portarla avanti, ma al Parlamento intero. – ed aggiunse qualcosa di questo tipo – anche noi militari, prima di essere mandati a fare una guerra, preferiremmo che si studiasse a fondo se l’intervento militare è proprio indispensabile e se non ci fossero invece altri mezzi per risolvere il problema!”. “Purtroppo però – fu l’amara conclusione del generale – il Parlamento intero non si occupa tanto della prevenzione ed è, a stragrande maggioranza, a favore degli interventi armati!”. Qualche giorno più tardi il Parlamento italiano dovette discutere sull’intervento in Afganistan e, tranne poche mosche bianche, votò per l’intervento armato a stragrande maggioranza, confermando perciò la deriva militarista anche della nostra sinistra (che sarà, dopo l’aver partecipato attivamente, come governo, alla guerra del Kossovo, una delle ragioni non secondarie della sua perdita di consensi, e in definitiva, delle elezioni)
3) Inoltre, cercando di far coesistere il capitalismo nel settore produttivo, ed il socialismo nel settore distributivo, non sono riuscite a superare molti squilibri sociali tanto da ricreare, al loro interno, processi di impoverimento e di arricchimento che portano a sempre maggiori squilibri sociali.
4) La situazione è peggiorata notevolmente con la crisi del comunismo sovietico, che hanno interpretato come la fine del marxismo, portando perciò la loro terza via ad essere poco più di una versione più “soft” del capitalismo occidentale.

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4.3.L’aggiunta nonviolenta

Per analizzare il terzo pilastro di quella che Capitini vedeva come via europea al socialismo conviene partire da un documento, scritto intorno al 1966, intitolato
“Per una corrente rivoluzionaria nonviolenta”, come contributo ad una discussione tra amici, e pubblicato del 1973 nella rivista “Azione Nonviolenta” (rivista da lui fondata

“La situazione politica italiana presenta un vuoto rivoluzionario: i partiti stanno o su posizioni conservatrici o su posizioni riformistiche, prive di tensione e di forza educatrice e propulsiva nelle moltitudini. Così si va perdendo anche l'esatta prospettiva che pone come finalità decisiva della lotta politica il superamento del capitalismo, dell'imperialismo, dell'autoritarismo. Vi sono tuttavia delle minoranze che vedono chiaro, ma tali minoranze devono giungere ad un'azione organica nella situazione italiana, per cui, da una società dominata da pochi, si passi ad una società di tutti nel campo del potere, della economia, della libertà, della cultura.
La crisi dei movimenti operai e socialisti nell'attività politica e sindacale è dovuta principalmente al fatto che non si è saputo concordare dinamicamente la triplice finalità suddetta con la pratica quotidiana nella attuale democrazia.
Sarebbe un errore credere che la politica del neocapitalismo con le attrattive del benessere e la suggestione degli interventi paternalistici e provvidenziali riesca a cancellare dalle moltitudini la tendenza a possedere effettivamente il potere con tutte le sue responsabilità, a controllare tutte le decisioni pubbliche, a impedire realmente la guerra, a sviluppare la libertà e la cultura di tutti nel modo più fiorente. La tenacia delle lotte sindacali, l'aumento dei voti dell'opposizione nelle ultime elezioni, lo sviluppo della lotta per la pace, la crescente energia delle pressioni studentesche per una riforma della scuola, provano che le moltitudini italiane non accettano gli equivoci offerti dalla classe dirigente.
Nello sviluppo del socialismo nel mondo è facile osservare che sono stati superati gli schemi dottrinari che attribuivano a una determinata ideologia, o ad un unico partito di ispirazione leninista la possibilità di intervento rivoluzionario, quando invece si vede che di tale possibilità ci si è valsi in altri luoghi con schemi, forme, forze e metodi del tutto diversi seppure orientati allo stesso fine. E' opinione sempre più accettata che esiste una connessione stretta tra il metodo rivoluzionario adottato e il tipo di potere che segue alla conclusione vittoriosa della rivoluzione. Anche in questo campo l'insufficienza del metodo leninista, e di altri metodi similmente imposti da minoranze alla maggioranza, è rivelata dalla crisi che ha contrapposto e contrappone in maniera più o meno drammatica la società civile al potere rivoluzionario e che è diventata l'elemento costante della vita politica degli stati così detti socialisti e degli altri stati sorti nel dopoguerra da moti sottoposti all'egemonia di minoranze. La medesima crisi tra deficienza di potere civile delle masse e reale potere politico di gruppi ristretti è chiaramente visibile anche nella crescente e insolubile necessità in cui le democrazie parlamentari si trovano nel subire la pressione egemonica di gruppi di potere economici, politici, religiosi, agenti fuori dagli istituti civili e capaci di svuotarli sempre più della rappresentatività popolare, piegandoli ai loro interessi di minoranza. Inoltre, nel nostro paese, come del resto in tutto l'occidente, la situazione è tale che tutti i vecchi metodi dell'opposizione popolare si rivelano inutilizzabili o insufficienti a mantenere una tensione rivoluzionaria che si costruisca progressivamente, nel suo sviluppo, gli adeguati strumenti pratici della sua applicazione.
Per queste ragioni siamo convinti che il metodo che deve essere assunto per la lotta rivoluzionaria è il metodo dell'attiva nonviolenza, nella articolazione delle sue tecniche, già attuate in altri paesi in lotte di moltitudini. Riteniamo che questo metodo sia da accettare e da svolgere non soltanto per la sconvenienza e l'improduttività dei metodi violenti e la loro inaccettabilità da parte delle nostre moltitudini, ma sopratutto per il suo contenuto profondamente umano, all'altezza del migliore sviluppo della società civile moderna.
Questo metodo, che per essere visibilmente e politicamente efficace deve essere impugnato da un largo numero di persone, mostra con ciò stesso che è in grado di dare le più ampie garanzie di democraticità, di espressione delle forze dal basso, di insostituibile e mai sospendibile libertà delle più varie opinioni, di decentramento del potere nelle sue varie forme economiche, politiche, sociali, civili.
Con questo metodo è possibile dare inizio alla formazione di organismi e istituzioni dal basso che concretino tali garanzie, prefigurando e preparando la complessa società socialista o società di tutti. I rivoluzionari violenti con i loro metodi non sono capaci di realizzare tali organismi e istituzioni, e ne rimandano l'attuazione a dopo la conquista del potere, con atto autoritario che ne infirma la democraticità, o vi rinunciano, vista l'impossibilità di usare la violenza, cadendo i dirigenti nell'inerzia e le moltitudini nello scetticismo.
Nell'attuale momento, crediamo che come prima fase un intervento nella situazione italiana che segua questo orientamento possa prendere la forma di "corrente" con "gruppi" operanti dentro e fuori le attuali associazioni politiche, sindacali, culturali, etico-religiose. Questi gruppi potranno operare coordinatamente secondo piani che saranno stabiliti dai gruppi stessi nei loro incontri.
Possiamo definire così gli obiettivi finali di tutto il lavoro: la costituzione di una società socialista la cui organizzazione economica, politica, civile e culturale sia continuamente sotto il potere e il controllo di tutti, nella libertà di informazione, di associazione e di espressione, manifestazione e promovimento costante di apertura ad una società universale socialista nonviolenta.
Obiettivi immediati di transizione a questa finalità sono:
a) la diffusione delle tecniche della nonviolenza da applicare a tutte le lotte politiche e sindacali;
b) l'opposizione alla preparazione e alla esecuzione della guerra;
c) la convergenza sul piano rivoluzionario nonviolento dei lavoratori, degli studenti e delle loro associazioni di qualsiasi ideologia;
d) la rapida costituzione di centri di orientamento sociale aperti, in periodiche riunioni, a tutti e alla discussione di tutti i problemi della vita pubblica;
e) la formazione di consulte rionali o di villaggio elette da tutti i cittadini per il controllo e la collaborazione nei riguardi delle amministrazioni locali;
f) favorire in tutte le aziende l'organizzazione di consigli operai e contadini, eletti da tutti indipendentemente dalle organizzazioni politiche e sindacali, con il compito di seguire i problemi delle singole aziende e di portare i lavoratori al possesso delle tecniche del controllo sulla produzione e sulla pianificazione democratica, da utilizzare nella lotta per la società socialista; sulla base di questi consigli dovrà essere ricostituita l'unità sindacale, aperta a tutte le correnti;
g) impostazione di una riforma della scuola per cui tutti gli istituti scolastici a tutti i livelli siano organizzati con spirito comunitario e controllati da consigli degli studenti e dei professori;
h) sollecitare gli enti pubblici a fondare giornali quotidiani e settimanali con assoluta obiettività di informazione;
i) promuovere la costituzione di centri cooperativi culturali dal basso per l'educazione degli adulti nel campo della divulgazione dei valori artistici, scientifici, storici ecc. sottraendoli alle manipolazioni autoritarie o di parte.
Noi pensiamo che una corrente rivoluzionaria nonviolenta debba richiedere ai suoi aderenti un comportamento manifestamente concorde alla finalità socialista, realizzando tra l'altro il principio che ogni eletto a qualsiasi carica, sia della corrente sia di ogni altro organismo, possa essere dispensato dal suo incarico nei periodici incontri con i suoi elettori; dedicando ad iniziative pubbliche orientate in senso socialista la massima parte del proprio bilancio privato, non partecipando al possesso di beni che comportino lo sfruttamento dei lavoratori.
A coloro che non scorgessero differenza tra la nostra impostazione e quella democratica parlamentare teniamo a far presente quanto limitata sia la democraticità parlamentare, lontana dalla volontà attiva e quotidiana di tutti i cittadini, e quanto invece è complessa e diretta la presenza di tutti negli organismi da noi propugnati, atti a superare continuamente i privilegi e il potere dei pochi.
A coloro che obiettassero che la pianificazione economica sociale di uno stato moderno non può essere che centralistica e autoritaria, rispondiamo che la pianificazione può e deve essere accompagnata dall'esistenza di organi popolari che ne rendano possibile la preparazione, il controllo della esecuzione e la revisione. Questi organi sono l'unica garanzia che l'autoritarismo della pianificazione non si trasferisca nell'autoritarismo di tutto l'apparato statale, come ha dimostrato l'esperienza sovietica. Questi organi, infatti, continuando l'azione già svolta nella situazione di economia privatistica dai consigli dei lavoratori, dovranno svilupparsi fino a diventare i protagonisti del mondo produttivo socialista nei due settori pubblico e cooperativo di autogestione.
La garanzia che la società socialista nonviolenta dà alla libera funzione delle correnti ideologiche e dei partiti deve avere come unica contropartita la libera espressione, all'interno delle correnti e dei partiti stessi, dei pareri dei singoli e dei gruppi.
Nella politica internazionale attuale la nostra posizione è, oltre che di lotta per la pace - primo ed urgente obiettivo, - di pieno appoggio a tutti coloro che lottano contro il capitalismo, l'imperialismo, l'autoritarismo; di aiuto incondizionato ed immediato a tutti i popoli sottosviluppati da concretarsi in grandi piani di collaborazione; e nella diffusione dei nostri metodi nonviolenti per il raggiungimento dei fini comuni.”
Questo testo di Capitini si inserirebbe benissimo nel dibattito aperto magistralmente da Lidia Menapace, nel quotidiano informatico di Viterbo “Nonviolenza in cammino” con la proposta di una Europa di Pace. Le idee emerse dal dibattito, ed i documenti conclusivi dei due convegni organizzati in seguito a Verona e Venezia, sono fondamentali e da accettare in pieno. Io mi limiterò ad aggiungere alcune annotazioni utili per un aggiornamento delle idee Capitiniane alla situazione politica attuale. E’ abbastanza scandaloso che la strada ufficiale dell’Europa, anche di quella autentica, non solo di quella Berlusconiana (che in realtà, in accordo con il suo amico Bush, ha cercato e sta cercando di distruggere tutto il processo di costruzione della stessa) ma anche di quella ufficiale della Commissione Europea sembra voler scimmiottare la politica degli USA. Infatti l’unico accordo reale nella preparazione della nuova Europa è stato quello per un organismo di coordinamento delle politiche militari, mentre altre proposte innovative, come quella di considerare come parte della politica di difesa non solo le forze armate, ma anche i corpi europei civili di pace che Alex Langer aveva proposto fin dal 1995 come strumento importante di una politica europea di prevenzione dei conflitti armati, sono messi piuttosto in secondo piano. La bozza della nuova Costituzione Europea li prevede, ma anche andando contro la volontà delle ONG che si occupano di aiuti umanitari, come appoggio a queste ed all’interno della politica di emergenza , dimenticando del tutto che il ruolo principale di questi organismi potrebbe e dovrebbe essere, sia quello della prevenzione dei conflitti armati, sia l’organizzazione di forme di Difesa Popolare Nonviolenta ( Ebert,1984¸Drago, 2004, Sharp,1989) di fronte ad eventuali invasori esterni o colpi di stati interni.
Inoltre la politica europea ha sempre dato una eccessiva importanza alla ricostruzione delle strutture fisiche (case , industrie, ecc.), sicuramente fondamentali, ma ha sempre trascurato invece la ricostruzione dei rapporti umani dopo i conflitti armati , che sono sicuramente molto importanti perché, in caso contrario, c’è il grosso rischio che i conflitti si ricreino e riesplodano. Per questo corpi del genere di quelli previsti dalla proposta Langer potrebbero essere fondamentali. C’è anche una proposta, presentata dalla EPLO, (una organizzazione di cui fanno parte molte ONG che intervengono, in forma civile, nei conflitti armati, ed anche la Rete italiana per i Corpi Civili di Pace) di costituire, accanto all’organo su citato di coordinamento della politica militare, una Agenzia Europea per la costruzione della Pace. Questa dovrebbe, se approvata, portare avanti sia ricerche, sia ricerche-intervento, sia iniziative, come ad esempio i citati Corpi Europei Civili di Pace, per la prevenzione dei conflitti armati, per l’interposizione civile in caso di conflitti, o per la ricostruzione dei rapporti civili ed umani, o per lavorare per il superamento delle ingiustizie interne o esterne che possono portare a conflitti armati.
E’ chiaro che non possiamo illuderci che istituzioni, come anche l’Europa riformata, possano portare avanti una politica come quella preconizzata dalla rivoluzione nonviolenta capitiniana. Ma se nello stesso tempo che si portano avanti queste riforme istituzionali si dà vita a degli organismi di base per il controllo dal basso, come quelli organizzati da Capitini, il rischio che la politica dell’Europa si allontani molto dalle richieste della popolazione possono essere molto ridotti.
Una grossa importanza, all’interno di una politica di pace, è quella della formazione e dello sviluppo di forme di Difesa Nonviolenta di base, che potrebbero permettere alla nuova Europa di eliminare, almeno gradualmente, gli eserciti, da una parte attraverso la costituzione, prevista nel paragrafo sull’ONU, di una vera e propria polizia internazionale per fare applicare le sentenze del Tribunale Penale Internazionale, e dall’altra, dall’organizzazione di forme efficaci di difesa nonviolenta (Sharp, 1989).
Inoltre sarebbe importante che per i volontari che intervengono in zone di conflitti a proprio rischio sia riconosciuto il diritto a mantenere il posto di lavoro ed ad avere una assicurazione, come previsto per i volontari che intervengono in situazioni di emergenza.
Ma vorrei concludere questa relazione con alcuni chiarimenti semantici i n modo da evitare che anche questo seminario, e questo nuovo incontro tra marxisti e nonviolenti, rischi di essere un nuovo “dialogo tra sordi” come quello di cui abbiamo parlato per i due convegni precedenti:


5) Chiarimenti linguistici

5.1 Movimento della Pace e Movimento Nonviolento

Spesso questi due movimenti sono considerati come una unica cosa, con le
stesse caratteristiche comuni. In realtà, anche se ci sono molti elementi concordanti, e c'è una positiva tendenza ad avvicinarsi reciprocamente, nella loro realtà storica e nei loro principi sono molto diversi l’uno dall’altro e non vanno assolutamente confusi.
Il movimento per la pace è in genere un movimento di massa che nasce per ostacolare i tentativi di un governo, o di più governi, di fare una specifica guerra. Ma di solito, ottenuto, o meno, il risultato desiderato il movimento tende a sparire. Ha perciò un andamento curvilineo con picchi molto alti e molto bassi. Il movimento nonviolento è invece un movimento formato da gruppi molto più ristretti, di persone molto impegnate in vari campi (O.S.M. – obiezione alle spese militari; O.C.- varie altre forme di obiezione di coscienza, al servizio militare, al lavoro per la costruzione di armi, ecc.; Commercio equo-solidale, ecc.) con un andamento anche questo ondulante (con alti a bassi) ma con picchi molto meno elevati ed una tendenza ad una crescita. Le cause di queste differenze, almeno finora, sono state individuate nel fatto che il movimento della pace tende ad essere reattivo, a reagire cioè contro le decisioni che esso considera ingiuste, per cercare di impedirle, ma per questo si attiva solo quando queste decisioni si cominciano a materializzare; il movimento nonviolento ha nella sua genesi storica la doppia vocazione, di opporsi a ciò che, secondo lui, c’è di sbagliato nella società attuale attraverso forme varie (manifestazioni, varie forme di obiezione, boicottaggi, azioni dirette nonviolente, disobbedienza civile, ecc.), ma la seconda vocazione è invece quella positiva, e cioè il progetto costruttivo, di operare perciò per dar vita ad una società diversa, più equa, più solidale. E’ questo secondo aspetto che lo rende molto più durevole e costante dell’altro, perché c’è sempre molto da fare per ottenere dei risultati positivi: quindi ha un carattere proattivo, e non reattivo.
Un esempio chiarissimo di questa differenza si è avuto con la guerra del Kossovo. Il movimento nonviolento, in particolare il MIR (Movimento Internazionale per la Riconciliazione – sezione italiana) fin dal 1993, aveva organizzato un coordinamento di associazioni varie: la Campagna Kossovo, che in vari modi (viaggi studio nella zona, articoli, libri, convegni, dossier, mostre, video, mozioni, manifestazioni, ecc.) si è dato da fare, sia nel nostro paese che a livello europeo, per far comprendere la reale situazione della zona, per individuare soluzioni pacifiche e per prevenire l’esplosione del conflitto armato. E’ riuscito ad ottenere l’appoggio di vari Enti Locali, di varie Regioni, e di un certo numero di parlamentari (circa una sessantina), e di un’altra organizzazione la Comunità di Sant ‘Egidio che è riuscita ad ottenere dei primi risultati positivi per un accordo sulla scuola. Ma la stragrande maggioranza delle forze politiche, ed i governi in carica, sono stati sordi alle istanze presentate ed hanno anzi utilizzato i risultati ottenuti dalla Comunità di Sant’Egidio per promuovere i propri interessi di mercato, e non per ricercare la pace. La manifestazione più larga che si è potuta organizzare a favore di una soluzione pacifica, di fronte al Parlamento italiano, è stata di circa 800 persone, ma di questi circa 500 erano persone dello stesso Kossovo. La Campagna Kossovo continua tuttora a lavorare in zona con training di formazione alla comprensione interetnica e alla riconciliazione, problema che la guerra ha aggravato notevolmente. Questo per mostrare la continuità dell’impegno che la nonviolenza richiede, ma anche la scarsità di appoggi che questa riesce ad ottenere (L’Abate, 2001). Invece quando la NATO ha deciso di intervenire militarmente (con una cosiddetta “guerra umanitaria”) il movimento per la pace, fino ad allora inesistente o sordo, ha portato nelle piazze centinaia di migliaia di persone a manifestare contro l’intervento, ma anche queste, aimè, senza risultati tangibili.

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5.2 Nonviolenza, non-violenza, a-violenza, potere popolare

Anche in questo campo domina una completa confusione terminologica,
per cui si tende a definire “nonviolente” lotte di grandi categorie di persone (es. lavoratori, o sindacati) che non hanno usato violenza, senza però per questo aver fatto una scelta cosciente in questo senso. Gandhi distingueva tra Satyagraha e Duragraha. Le prime erano quelle che si possono definire “nonviolente” perché fatte attraverso una scelta cosciente di questo metodo di lotta, e seguendo una o più regole che caratterizzano questo tipo di azione (si vedano i 5 principi di Pontara per illustrare la nonviolenza specifica). E’ per questo tipo di azioni che converrebbe usare, come indicato da Capitini, il termine “nonviolente” tutto attaccato. Le seconde erano lotte di massa che tendevano ad usare mezzi pacifici (manifestazioni, cortei, scioperi, azioni dirette, ecc.), ma senza una scelta cosciente, né, in particolare, una accettazione dei principi e delle regole citate. Per questo tipo di azioni molti preferiscono usare il termine di “non-violente” (Piero Pinna, il primo obbiettore di coscienza politico italiano e già segretario di Aldo Capitini le definisce “a-violente”) sottolineando il carattere negativo o privativo, della violenza, ma non quello positivo di una scelta di un metodo di lotta. Altri ancora parlano di nonviolenza generica, per le seconde, e nonviolenza specifica, per le prime. Una definizione che si sta diffondendo, molto suggestiva, che è stata usata sia per le lotte contro Marcos nelle Filippine, sia per quelle nei paesi ex-comunisti, è quella di “potere popolare”, che tende a sottolineare non la distinzione tra questi due tipi di azione, ma la loro integrazione in lotte di massa molto radicali e partecipate. E’ chiaro che una “rivoluzione nonviolenta”, come quella auspicata da Capitini, necessita di ambedue queste forme di azione, ma se la prima (la nonviolenza specifica) è troppo debole e minoritaria si rischia di avere un movimento facilmente infiltrabile (dai famosi provocatori) e manovrabile dall’esterno, e spesso non molto durevole e costante, che non ha chiaro dove vuole arrivare perché viene a mancare l’aspetto positivo del progetto costruttivo.

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5.3. Disobbedienza civile

La rottura delle regole di un sistema è uno degli aspetti fondamentali di un movimento che cerca di trasformarlo e di dar vita ad un sistema basato su regole diverse dalle prime. Ma spesso si è diffusa, specie in certi gruppi sedicenti di avanguardia, l’idea che per essere rivoluzionari basti andare contro le regole del sistema, qualsiasi queste siano (ad esempio che basti fumare canne ed assumere droghe leggere, portare i capelli in un certo modo, vestirsi in modo diverso, ecc.). In realtà la disubbidienza civile, proprio perché è una delle armi fondamentali della nonviolenza, richiede che per portarla avanti in modo adeguato questa si sviluppi seguendo una serie di regole. La prima è quella, indicata anche da Pontara, che prima di ricorrere a questa forma di azione si siano utilizzate, inutilmente, altre forme di azioni più blande. La seconda è quella che va dichiarata anticipatamente, sia nei modi, sia nei tempi, sia nei suoi obbiettivi, in modo che l’opinione pubblica, ed anche gli avversari, sappiano chiaramente dove e come si vuole arrivare a certi risultati. La terza regola è quella che devono essere chiare le nostre ragioni della disobbedienza, e di cosa vogliamo sostituire alle norme o leggi che noi trasgrediamo. La quarta è quella che le persone che la portano avanti devono accettare le conseguenze penali-giudiziarie della propria azione. Un esempio pratico di questo ultimo aspetto, che dimostra la scarsa comprensione del funzionamento della “nonviolenza” è il fatto che malgrado fossimo oltre 3000 persone a fare i blocchi alle entrate della base di Comiso nel 1983 per interrompere i lavori per la costruzione di una base nucleare (di missili Cruise di I colpo, e cioè da spedire prima di quelli dell’avversario, e perciò non di difesa ma di attacco, in contrasto con la nostra Costituzione) mi sono trovato solo ad essere incriminato proprio per quella azione (il rapporto della polizia diceva “con migliaia di persone sconosciute”), e malgrado la mia proposta a tutti i movimenti organizzatori di una autoincriminazione generalizzata, nessuno di questi ha risposto positivamente. Così sono stato processato da solo, ma questo fatto, attraverso queste assenze, ha svuotato completamente il processo del proprio significato politico di resistenza, rendendo quasi inutile tutto il lavoro fatto per organizzare queste azioni. Tutto questo sta a dimostrare come la disobbedienza civile sia uno strumento fondamentale, ma che va usata secondo una serie di regole e contro specifiche norme che si vogliono contestare e cambiare, e non in modo generalizzato che rischia di renderla scarsamente significativa e poco efficace.

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