Ogni mattina a Jenin
di Susan Abulhawa


Feltrinelli, Milano 2011



tratto da Tecalibri.it

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Preludio

JENIN

2002

Amal avrebbe voluto guardare meglio negli occhi del soldato, ma la bocca del fucile automatico contro la fronte non glielo permetteva. Era sufficientemente vicina per vedere che portava le lenti a contatto. Si immaginò il soldato curvo su uno specchio che si infilava le lenti negli occhi prima di vestirsi e andare a uccidere. Che strano, pensò, quello che ti viene in mente tra la vita e la morte.

Si domandò se i soldati si sarebbero dichiarati pentiti dell'uccisione "accidentale" di una cittadina americana. O se la sua vita sarebbe semplicemente finita nel marasma del "danno collaterale".

Una solitaria goccia di sudore scese lungo il volto del soldato. L'uomo batté le palpebre, più volte. Lo sguardo fisso di Amal lo metteva a disagio. Aveva già ucciso altre volte, ma mai guardando la vittima negli occhi. Amal lo capì, e avvertì la sua inquietudine in mezzo alla carneficina che li circondava.

Che strano, pensò di nuovo, non ho paura di morire. Forse perché sapeva, dal modo in cui il soldato aveva battuto le palpebre, che si sarebbe salvata.

Chiuse gli occhi, rinata, il metallo freddo ancora contro la fronte. I ricordi la riportarono indietro, e ancora indietro, a una patria che non aveva mai conosciuto.

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Quattro

QUANDO SE NE ANDARONO

1947-1948

Poco dopo aver partecipato al matrimonio di Hassan e Dalia, Ari Perlstein partì per andare a studiare medicina ma, anche se le loro strade si erano divise, i due amici non persero mai completamente i contatti. Quando Bassima morì, Ari chiese un permesso e venne a 'Ain Hod a piangere la sua scomparsa insieme a Hassan.

Era un pomeriggio limpido e fresco quando Hassan e Ari abbandonarono i riti funebri, che sarebbero durati quaranta giorni. L'ipnotica salmodia del Corano risuonava dalla casa di Yehya Abulheja e andò affievolendosi sempre più a mano a mano che Hassan e Ari si allontanavano fra gli oliveti.

"È terribile, Hassan" disse Ari. "I sionisti hanno un mucchio di fucili. Hanno messo insieme un esercito con tutti gli ebrei che arrivano ogni giorno sulle navi. Tu non sai com'è, Hassan. Hanno perfino blindati e aerei."

Hassan guardò i terreni che un giorno sarebbero diventati suoi. Quest'anno avremo un ottimo raccolto. Il suono di un nye si alzò tra gli alberi e Hassan si girò istintivamente verso il cimitero cercando il padre con lo sguardo. Nessuno. Solo una melodia dal cuore svuotato e colmo di silenzio, come se il nye stesse piangendo.

"Hassan, si prenderanno la terra. Hanno lanciato una campagna mondiale, chiamano la Palestina 'una terra senza popolo'. Ne faranno una patria per gli ebrei."

"Mio padre lo ripete da anni, ma sembrava così inverosimile."

"È la verità, Hassan. Le Nazioni Unite si riuniranno a novembre e sono tutti convinti che smembreranno il paese. Sono molto ben organizzati e come sai gli inglesi hanno disarmato gli arabi dopo la rivolta, anni fa. Alcuni ebrei ortodossi in città hanno organizzato un movimento antisionista. Dicono che creare un vero stato di Israele è un sacrilegio. Ma certi 'uomini potenti in America hanno scatenato un'accanita campagna per spingere Truman a riconoscere e appoggiare uno stato ebraico qui." Ari era visibilmente preoccupato.

"Tu cosa ne pensi? Voglio dire, del fatto di creare uno stato ebraico qui" chiese Hassan, schiacciando un'oliva tra le dita per valutare come sarebbe stata la raccolta di novembre. La raccolta tirerà un po' su di morale papà.

"Non lo so, Hassan." Ari abbassò lo sguardo, si sedette su una pietra e cominciò a passare le dita sulla sabbia. "Sono un ebreo. Cioè, penso che sia sbagliato. Ma non sai cos'abbiamo passato." La voce di Ari cominciò a tremare. "Ci ha uccisi, quello che è successo, anche se siamo riusciti a scappare. Non hai mai notato come sono vuoti gli occhi di mia madre? È morta dentro. Anche mio padre. Hassan, tu non sai com'è. Nemmeno adesso ci sentiamo al sicuro. Mio padre è convinto che quello che stanno facendo è sbagliato e non ne vuole sapere. Ma non siamo più al sicuro. Si dice in giro che gli inglesi se ne andranno. Allora sarà inevitabile. Trasformeranno questa terra in uno stato ebraico. Ma credo che se gli arabi l'accetteranno, andrà tutto bene e riusciremo a convivere pacificamente."

Hassan si sedette per terra accanto ad Ari. "Ma hai appena detto che vogliono uno 'stato ebraico'."

"Sì, ma credo che permetteranno agli arabi di restare." Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse fermarle.

"Quindi questi immigrati mi permetteranno di restare nel mio paese?" La voce di Hassan si alzò.

"Hassan, non intendevo dire questo. Per me sei come un fratello. Farei qualsiasi cosa per te o per la tua famiglia. Ma quello che è successo in Europa..." Le parole di Ari sfumarono nelle terribili immagini dei campi di sterminio che entrambi conoscevano.

Hassan schiacciò un'altra oliva come se volesse comprimere le parole di Ari, che aleggiavano nell'aria come un tradimento.

"Proprio così, Ari. Quello che ha fatto l'Europa. Non gli arabi. Gli ebrei vivono qua da sempre. Per questo adesso ne arrivano così tanti, giusto? Pensavamo che fossero solo in cerca di un rifugio, dei poveracci che volevano solo vivere, invece hanno ammassato armi per cacciarci dalle nostre case." Hassan non era arrabbiato come sembrava perché comprendeva il dolore di Ari. Aveva letto delle camere a gas, dei campi di sterminio, delle atrocità. Ed era vero: sembrava che la vita avesse abbandonato gli occhi della signora Perlstein da tempo. Uno, due, tre... diciotto perle graziose.

Prevedendo il conflitto che sarebbe scoppiato, Hassan disse: "Se gli arabi prenderanno il controllo della città Vecchia, vai da mia zia Salma. Sai dove abita. Ha una casa grande e puoi nasconderti da lei".



Irgun, Haganah e Gruppo Stern. Gli inglesi li chiamavano terroristi. Gli arabi li chiamavano yahud, ebrei, sionisti, cani, figli di puttana, merde. La nuova popolazione ebraica li chiamava combattenti per la libertà, soldati di Dio, salvatori, padri, fratelli. Comunque li si chiamasse, erano armati fino ai denti, ben organizzati e ben addestrati. Volevano sbarazzarsi della popolazione non ebraica – prima gli inglesi, con linciaggi e attentati dinamitardi, poi gli arabi, con massacri, terrore ed espulsioni. Non erano molti, ma la paura che provocarono fece rabbrividire l'intero 1947, preannunciando gli eventi futuri. Tra il 1947 e il 1948, mentre la Palestina era ancora mandato britannico, arrivarono a 'Ain Hod almeno quattro volte.

Il primo attentato avvenne in occasione della festività ebraica di Hanukkah, il 12 dicembre del 1947. Un'esplosione fece tremare l'aria e Dalia scappò via dal cimitero urlando. Sentendo il boato, Hassan si precipitò a casa. Non trovando la moglie, corse al cimitero e la incontrò lungo la strada. Dalia gli si gettò tra le braccia, piangendo. "Arrivano gli ebrei! Arrivano gli ebrei!"

Hassan la condusse verso casa mentre pennacchi di fumo si alzavano dalla vicina al-Tira, e i curiosi e spaventati abitanti di 'Ain Hod si riunivano in piazza a guardare. Una volta dentro, Hassan fece delicatamente sdraiare sua moglie sul letto e le lavò il sangue dai piedi.

"Cosa ti è successo?" chiese, controllando la gamba sanguinante.

"Stavo curando le rose sulla tomba di Bassima" ansimò Dalia. "Poi ho sentito lo scoppio e una mano è uscita dall'inferno per afferrarmi la gamba. Ma ho continuato a correre e quelli se ne sono andati."

Yehya entrò con in braccio il piccolo e spaventato Yussef. "Ci siamo tutti? Darwish è andato a controllare i cavalli e Isma'il è con sua moglie. Da dove arriva quel sangue?"

Poche cose spaventavano il piccolo Yussef più del sangue. "Mamma! Mamma!" cominciò a strillare.

Dalia prese in braccio il figlio e lo baciò sul capo. "È solo un taglietto, mio eroe."

"Vado a vedere cosa diavolo è successo" ruggì Yehya uscendo di casa.

"Non hai più la cavigliera!" esclamò Yussef.

"Sì, l'ho persa" rispose sua madre.

"Non tintinnerai più! Come farò a capire che stai arrivando?"

"Ho sempre quell'altra." Dalia dimenò una gamba. "Vedi?"

Yehya tornò dentro precipitosamente. "Che Dio maledica gli ebrei! Una delle loro bande ha lanciato delle bombe incendiarie contro una casa di al-Tira ed è scappata con un furgone che aspettava negli oliveti sopra il cimitero. Devono aver visto Dalia davanti alla tomba. Siamo fortunati che non l'hanno presa. Lo sa Dio cosa le avrebbero fatto."

La rabbia e la frustrazione di Yehya crescevano, le sue mani gesticolanti tuonavano come la sua voce mentre andava su e giù per la stanza. "Ci servono delle armi, maledizione! Dove sono gli eserciti arabi mentre questi cani ammazzano un paese dopo l'altro? Cosa diavolo abbiamo fatto a quei figli di puttana? Cosa vogliono da noi?" Alzò le braccia al cielo, poi si lasciò cadere su una sedia, arrendendosi all'attesa, e si appoggiò allo schienale, gli occhi rivolti a Dio.

"Affidiamoci alle sagge mani del Signore" disse Yehya e si alzò per andarsene. "Hisbiya Allah wa-ni'am al-uakil" mormorò ripetutamente tra sé mentre usciva, per scongiurare il male.

Ma non andò ad aiutare gli abitanti di al-Tira. Hisbiya Allah wa-ni'am al-uakil. Come i paesi arabi che malediceva, Yehya non andò in aiuto dei suoi sfortunati fratelli. Segretamente, pensava che 'Ain Hod sarebbe stata risparmiata se i suoi abitanti non si fossero immischiati. Pensava che una sincera proposta di pace agli ebrei avrebbe garantito loro la continuità.

"Baba, gli ebrei bombarderanno anche noi?" La domanda di Yussef arrivò dritta al cuore di suo padre.

"Dio ci proteggerà, figliolo. E soprattutto io proteggerò te, tua madre e tuo fratello" lo rassicurò Hassan, guardando Dalia. I suoi occhi contenevano un oceano d'amore e quel giorno, cinque anni dopo il loro matrimonio, mentre Hassan le teneva i piedi tra le mani e faceva quella promessa al figlio, Dalia si rese conto di quanto amava suo marito.



Meno di due settimane dopo l'incidente di al-Tira, ci fu una strage di palestinesi nella vicina Balad al-Shaykh. I venti pestilenziali di quell'attentato soffiarono su 'Ain Hod portando con sé un avvertimento inequivocabile. Mentre notizie di nuove atrocità raggiungevano 'Ain Hod, i suoi abitanti furono presi dal terrore di ciò che li stava per investire. In previsione di nuovi attacchi, le donne staccarono dai rami prematuramente fichi e uva, li fecero seccare per avere uva passa e sciroppi, e raccolsero ortaggi per sostentare le loro famiglie in vista di un assedio prolungato dei cecchini.

Nel maggio del 1948 gli inglesi lasciarono la Palestina e i profughi ebrei che vi erano entrati a frotte si autoproclamarono stato ebraico, cambiando il nome del paese da Palestina a Israele. Ma 'Ain Hod era vicino a tre villaggi che formavano un triangolo non ancora conquistato all'interno del nuovo stato, e il destino della gente di 'Ain Hod si unì a quello di ventimila altri palestinesi che ancora si aggrappavano alle loro case. Respinsero gli attacchi e proposero una tregua, chiedendo solo di continuare a vivere sulla loro terra come avevano sempre fatto. Avevano sopportato molti padroni – romani, bizantini, crociati, ottomani, inglesi – e il nazionalismo per loro non aveva significato. Il nocciolo della loro esistenza era il legame con Dio, con la terra e la famiglia, ed era questo che volevano difendere e custodire.

Alla fine si arrivò a una tregua e 'Ain Hod tirò un sospirò di sollievo. "Daremo una festa in segno di amicizia e per dimostrare che vogliamo vivere fianco a fianco con loro" annunciò Yehya agli abitanti del villaggio a nome del consiglio degli anziani. Strinse la mano di Hajj Salim con cupa e speranzosa determinazione, come fosse una preghiera condivisa tra due vecchi amici.

Gli ufficiali del nuovo stato arrivarono con le loro uniformi marrone chiaro tutte identiche, in assurdo contrasto con il calore di luglio. Venti cocenti facevano frusciare i peperoncini legati a seccare e le pentole appese sbattevano rumorosamente mentre i soldati israeliani armati di fucile, freschi di gloria per la vittoria, attraversavano il paese. Il sole artigliava tutto ciò che toccava e il ricco aroma dell'agnello e del cumino cercava di fare breccia nell'inquietudine.

Yussef, quasi cinque anni, si aggrappava alla thobe di sua madre, sbirciando da dietro i fianchi di Dalia quegli stranieri con la pelle chiara e l'elmetto che mangiavano a quattro palmenti. Tra i soldati c'era un uomo di nome Moshe che era convinto di compiere una missione divina. Mentre mangiava, guardava Dalia servire il cibo con Isma'il al petto e Yussef attaccato alle gambe. I suoi occhi continuavano a posarsi su di lei e i suoi pensieri filtravano ogni rumore che non fosse il tintinnio dell'unica cavigliera che le era rimasta.

Dopo la festa i soldati se ne andarono nello stesso agghiacciante silenzio in cui avevano mangiato, lasciandosi dietro una scia di disprezzo. Rabbrividendo per quel presagio, gli abitanti di 'Ain Hod, da soli o in gruppo, passarono il resto della giornata a pregare e rimisero il loro destino nelle mani di Dio prima di consegnarsi all'insonnia. La mattina successiva, il 24 luglio, Israele scatenò un colossale bombardamento aereo e di artiglieria. L'Associated Press riferì che con quell'attacco immotivato gli aerei e la fanteria israeliani avevano violato la tregua palestinese. Le bombe piovevano mentre Dalia correva di riparo in riparo insieme a un terrorizzato Yussef e al piccolo e urlante Isma'il.

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Dieci

QUARANTA GIORNI DOPO

1967

Guardavo il nostro campo devastato fuori dalla finestra rotta. Il sole era ancora nascosto, ma il cielo splendeva già dei viola e degli arancione che preannunciavano il suo arrivo. Sorprendentemente, i galli erano sopravvissuti, fedeli ai loro canti mattutini e ignari dell'ombra sinistra che gravava su di noi. Come al solito mi ero alzata prima dell'alba. Il sorgere del sole apparteneva a me e papà, quando leggeva per me mentre il mondo tutt'attorno dormiva. Erano passati quaranta giorni dalla fine della guerra e da quando suor Marianne ci aveva riportate a Jenin dove avevo trovato mamma in stato confusionale. Papà e mio fratello Yussef erano ancora dispersi.

Poco dopo, la melodia dell'adhan entrò nelle nostre dimore provvisorie trasportata dall'aria, chiamando i fedeli alla preghiera. Decenni più tardi, dopo una vita di esilio, questa inconfondibile cadenza dell'anima araba mi avrebbe dato la serena certezza che avevo fatto la scelta giusta decidendo di ritornare a Jenin.

Sebbene avventurarsi fuori fosse ancora pericoloso, il piccolo Samir, il nostro vicino di cinque anni, stava correndo per il campo strillando come un ossesso. La sua voce acuta squarciava il silenzio del coprifuoco che ormai dominava le nostre vite.

Pensai che il piccolo stesse rivivendo il terrore degli eventi recenti. Non sarebbe stato strano: ultimamente quasi tutti i bambini gridavano nel sonno.

"Sono nudi" diceva Samir affannosamente, sforzandosi di organizzare i pensieri. "Hanno bisogno di vestiti. Me l'hanno detto loro."

Il piccolo Samir era agitatissimo e la gente cominciò a svegliarsi. Occhi esausti e perplessi sbirciavano dalle finestre. Le anziane fecero cigolare le loro porte improvvisate per dare un'occhiata di fuori.

"Cosa succede?" gridò una voce lungo il vicolo.

"Siamo di nuovo in guerra?" chiese un'altra. In quegli attimi di confusione, sconforto e trepidazione, la voce palpitò come una ventata di speranza tra quei morti viventi.

La gente cominciò a gridare: "Allahu akbar!".

Volti comparvero alle finestre di ciascuna baracca e si udirono altre grida mentre l'eccitazione cresceva nel campo. Dalla fessura di una finestra annerita dal fuoco giunse un messaggio euforico: "Gli eserciti arabi stanno venendo a liberarci!". Ma la gente rimase titubante, perché vedevamo i soldati israeliani appollaiati sulle loro postazioni di guardia. Quegli arroganti conquistatori. Assassini e ladri. Li odiavo tanto quanto il mare di cenci bianchi che ondeggiava sopra le nostre case — simboli di una resa umiliante.

Ma con la stessa velocità con cui era divampata, l'euforia si spense non appena cominciammo a capire cosa diceva Samir.

"Basta! La guerra è finita. Il bambino sta dicendo che i nostri figli sono vivi" disse la voce di un uomo, azzittendo le canzoni di guerra. Era Hajj Salim. Era sopravvissuto! Chissà dove si era nascosto.



Hajj Salim aveva visto tutto. Così diceva a noi giovani. Ci vollero diverse stagioni per conoscere la sua storia, perché ce la raccontava sempre in maniera frammentaria. "L'ho visto con i miei occhi" diceva. "Lavoravo fedelmente per quegli uomini dai capelli biondi e gli occhi colorati, e in cambio quelli ci hanno mandato degli ebrei stranieri che mi hanno rubato tutti i mobili." Sempre piccole tessere del puzzle della sua esistenza, dispensate una alla volta. "Le ho viste con questi occhi. Tutte le guerre. Ci hanno cacciati dalla terra e si sono presi tutti i miei mobili." Poi si allontanava, lasciandoci pieni di curiosità. Ma nel nostro campo la sua storia era la storia di tutti, un unico racconto fatto di espropriazione, dell'essere denudati della propria umanità, essere buttati come spazzatura in campi profughi indegni dei topi. Dell'essere lasciati senza diritti, senza casa né nazione, mentre il mondo si voltava dall'altra parte a guardare e ad applaudire l'esultanza degli usurpatori che proclamavano il nuovo stato che chiamavano Israele. Hajj Salim era un uomo sagace e bonario, capace di modellare il legno in mobili eleganti e oggetti raffinati. Una volta, ci disse, un ufficiale inglese d'alto grado aveva acquistato una sua scultura in legno d'ulivo della Vergine Maria per darla alla regina degli uomini biondi e dagli occhi colorati, e la cosa fece sorgere in me la fantasia che Hajj Salim conoscesse una regina.

E stato il personaggio più vivace e divertente della mia infanzia, e fu lui a tramandare la storia ai bambini del campo. A lui devo il mio patrimonio di folklore e proverbi palestinesi. Fu lui a insegnarmi i nomi e le vicende delle varie persone che, decenni dopo, avrei ritrovato come vittime della guerra sui testi di storia.

Ci piaceva accerchiarlo e insistere perché ci raccontasse una storia dei tempi andati. Lo supplicavamo, dieci o venti monelli scalzi e con il moccio al naso, promettendo di non infastidirlo più, finché lui cedeva, perfettamente cosciente che saremmo tornati il giorno dopo o l'ora dopo.

Ci sedevamo per terra attorno a lui, pronti a ricevere i doni fantastici che uscivano dalla sua bocca. Hajj Salim, allora, intesseva vivide descrizioni della vita e degli eventi passati con una tale dovizia di particolari che la Palestina e tutti i suoi paesi, molti dei quali ormai devastati da Israele, prendevano vita nella mia immaginazione come se ci avessi abitato io stessa. La sua voce rauca, graffiata da anni di narghilè e mu'assal, si alzava e abbassava animatamente, trasportandoci magicamente al fianco dei nostri avi e facendo rivivere gli eventi passati come se appartenessero al presente.

Ai nostri giovani occhi, Hajj Salim sembrava incredibilmente vecchio. "Avrà almeno novant'anni" azzardò Lamya una volta. Solo da adulta avrei capito che, in quei mesi prima della guerra del 1967, aveva solo sessant'anni o poco più. Era quasi calvo, con radi capelli bianchi che gli ricadevano sulle enormi orecchie. Una fitta peluria gli ricopriva la pelle abbronzata di tutto il corpo, alto e ossuto, le spalle sporgenti che facevano pensare a una gruccia sotto la dishdashe tradizionale. Come la maggior parte degli uomini palestinesi, portava la kefiah a quadretti bianchi e neri legata morbidamente attorno alla testa. Aveva due baffi arruffati che spesso tradivano quel che aveva mangiato. Erano una cosa enorme e corvina che non invecchiò mai, nemmeno quando superò i novant'anni: una curiosa reliquia di gioventù su un vecchio volto avvizzito. Soprattutto, non aveva denti. Li aveva persi, diceva, "lottando contro lo scorbuto". Naturalmente, tutti noi bambini odiavamo lo "scorbuto", che credevamo fosse un mostro israeliano. Quando giocavamo a darci dei soprannomi, "scorbuto" veniva invariabilmente scelto come insulto. "Sei orribile come lo scorbuto" faceva parte del mio privato arsenale di parolacce. A nove anni qualcuno mi spiegò cosa voleva dire e non usai mai più quella parola.

Ricordo bene quel sorriso sdentato. Quando eravamo piccoli, io, i miei cugini e i miei amici cercavamo spesso di farlo ridere. Facevamo il verso ai leader israeliani, prendendo in giro l'altezzoso Menachem Begin, che imitavamo schiacciandoci il volto, oppure scimmiottavamo la ruvida sciatteria di Golda Meir, la "Vecchia Strega", come la chiamavano gli egiziani. Alla fine, quando Hajj Salim non ce la faceva più, le sue gengive rosa gli aprivano il volto abbronzato in una risata fragorosa, stringendogli gli occhi in due lunghe linee indistinguibili dalle altre rughe che segnavano la sua meravigliosa risata. Contenti di aver provocato quello spettacolo spassoso, ci univamo a lui in preda alla ridarella.

Non ho mai capito da dove venisse, da quale città o paese, perché sapeva un sacco di cose praticamente su ogni angolo della Palestina. Mamma non me lo disse mai e Yussef non ne era sicuro. Girava voce che la sua famiglia fosse rimasta uccisa durante la Nakba del 1948 – anche se quella storia non ce la raccontò mai. Viveva solo, senza moglie né figli, fratelli o sorelle. Era una cosa molto insolita nella società araba, che ruota attorno alla famiglia allargata. Nessuno era "senza famiglia". Ma tra i palestinesi, spodestati e costretti a disperdersi in seguito alla Nakba, c'erano molte eccezioni alla regola. Hajj Salim era stato amico di Jeddo Yehya. L'avevo saputo da papà.

Hajj Salim fu anche il primo a parlarmi di mio fratello Isma'il, scomparso ancora in fasce nel caos disastroso del 1948. "Il piccolo è svanito nel nulla" disse durante una delle sue riesumazioni storiche. "Da allora, tua madre non è più stata la stessa."

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Nonostante l'affronto subito, il mio corpo non perse l'abitudine di svegliarsi prima dell'alba, nella commemorazione quotidiana di papà, anche se la mia memoria aveva già dissolto i tratti del suo viso in un aroma vagamente evocativo di tabacco al miele e mela. Lessi e rilessi i libri che amava e oggi, se potessi fare una lista di desideri materiali come avevamo fatto da ragazzine dopo la battaglia di Karameh, sceglierei solo quei libri malconci.

Avvolsi la mia nuova pelle in un mare di carta e inchiostro, senza curarmi della mia povera madre che perdeva chilo su chilo, delle violente scorrerie dei soldati o della mia migliore amica Huda, e della storia d'amore che stava nascendo tra lei e Osama.

Mi feci una fama di studentessa prodigio ed emersi dal mio esilio autoimposto all'ammirazione degli adulti del campo che, scambiandola per religiosità, approvavano anche la mia indifferenza verso i ragazzi. Ma sapevo benissimo, come lo sapeva Huda, che il mio non era altro che il tormento dell'inadeguatezza. Quando finalmente riemersi dalla Siberia della mia cocciuta determinazione, ritrovai ancora una volta il solido e duraturo terreno dell'amicizia di Huda, e ricominciammo da dove ci eravamo lasciate.

Mentre io sprofondavo nella vergogna, nello studio e nel rimorso, Huda si innamorava. Ormai tutti nel campo sapevano che Huda era la ragazza di Osama ed era solo una questione di tempo prima che si sposassero. Nelle trasformazioni fisiche dell'adolescenza, le guance di Huda si alzarono sotto a due occhi screziati da gatta e le sue labbra si fecero piene, dipingendole una linea sinuosa sopra a due incisivi leggermente storti quando sorrideva. La "strana bimbetta dagli occhi particolari" era sbocciata in una Cleopatra con un fiume setoso di capelli neri e una bella pelle olivastra. Osama era invidiato da tutti i ragazzi del paese.



Io e Huda avevamo quattordici anni quando, una calda sera di giugno, trovammo mamma fredda nel suo letto. Ci avvicinammo lentamente, accendemmo la lampada a olio sulla parete. Come avevamo sempre fatto di fronte all'incerto, ci prendemmo per mano. Mamma era distesa su un fianco, come era solita quando dormiva, e l'ombra della sua sagoma rigida sfarfallava sulla parete. Il brusio delle conversazioni fuori dalla finestra e l'odore viziato della fine strisciavano lungo le giunture tra la vita e la morte. Là, sulla gommapiuma a colori sgargianti del suo materasso, per terra, contro la parete spoglia e crepata della nostra piccola baracca, in quell'improvvisata nazione di dimenticati, mamma era morta da sola.

I miei occhi versarono lacrime silenziose. Piansi, non per la morte di questa donna, ma per mia madre, che aveva abbandonato quel corpo ormai da anni. Piansi con un sollievo dolce-amaro al pensiero che si era finalmente e completamente sbarazzata del mondo corrotto che le aveva deflorato lo spirito. Piansi per l'impatto smussato del senso di colpa per non averla salvata, per non esserci riuscita. Piansi perché, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a riconoscere in quel corpo esile e pallido la donna che mi aveva messo al mondo. E piansi per l'imminenza di un triste domani sul terreno arido e cosparso di cadaveri dei miei giorni. Huda pianse per me. Solo Umm 'Abdallah, che aveva lasciato la fedele compagna a riposare ed era tornata per svegliarla, pianse per mamma. Era l'unica ad aver conosciuto la persona che aveva vissuto dentro quel cadavere emaciato, sul quale adesso versavamo lacrime in tre.



Tra me e il corpo senza vita di mia madre aleggiava il ricordo di un tempo in cui Dalia mi aveva insegnato a spostare un bambino non ancora nato dentro al grembo della madre. Tutti erano sicuri che il piccolo sarebbe morto, forse anche la madre. Finalmente Dalia arrivò. "C'è Umm Yussef, la levatrice, insieme a sua figlia Amal" annunciò qualcuno quando ci precipitammo dentro, da quella donna che aveva spinto e agonizzato per ore mentre noi aspettavamo il permesso di uscire di casa durante il coprifuoco. Non ci era stato concesso, così eravamo sgattaiolate fuori di nascosto, le forbici speciali di mamma nascoste sotto alla thobe. La donna era sfinita a forza di gridare per allontanare il dolore. Per allontanare la morte dal suo bambino. Le luci basse e l'odore del parto riempivano la piccola stanza dove gemeva distesa sul letto. Dalia aveva messo delicatamente una mano sulla fronte della donna e l'altra sulla sua pancia, e aveva cominciato a recitare delle preghiere.

"Respira, piccola. Affidati a Dio. Non c'è posto migliore per te che nelle sue mani. Respira, piccola." La calma di mamma era contagiosa. "Aiutami a sollevarla." Mi fece un cenno. Anche la zia della donna si avvicinò e insieme la girammo, le gambe in alto sui cuscini, le spalle sul bordo del letto. "Il bambino è messo di traverso e potrebbe strozzarsi. Faremo ciò che vuole il Signore." Poi, mamma congedò i presenti dicendo: "Uscite e pregate per lei. Vi chiamerò, se avremo bisogno di aiuto".

Avremo. Lei e io.

"Metti le mani qua" mi disse, appoggiando le sue dall'altra parte dell'addome della donna. "Chiudi gli occhi finché non senti che si muove, e lascia che Dio guidi le tue mani." Ero spaventata, ma avevo capito bene. Qualsiasi cosa senti, tienitela dentro.

Canticchiando sottovoce, come per blandire il bambino, mamma massaggiò la pelle della donna per un'eternità. Finché non cominciarono i movimenti. "Adesso aiutami. Muovi le mani così," disse, sempre calma, sempre canticchiando. La donna gemeva ma era tranquilla. Respira, piccola. Respirai e le mie mani si mossero insieme al bambino verso quelle di mamma.

Ormai era fatta. Le donne tornarono. "Le vostre preghiere sono servite," disse mamma, "ma mia figlia ha fatto la parte più difficile." Lanciandomi un'occhiata dall'altro lato della pancia, mi disse: "Tu hai posizionato il bambino, Amal". Fece un gran sorriso orgoglioso, si alzò in piedi e, avvicinandosi, mi baciò sulla fronte.

Come avevo potuto dimenticare quel giorno e perché mi tornava in mente adesso, alla morte di mamma? Dalia mi aveva voluto bene. Come avevo potuto metterlo in dubbio?

"Allahu akbar." Il corteo funebre si concluse con la sepoltura di mamma, – la sommessa fine di mia madre, l'impetuosa ragazza beduina dalle cavigliere tintinnanti chiamata Dalia.

Com'era usanza, uomini e donne piansero la defunta separatamente. Ma 'Ammu Darwish non si unì a nessun gruppo. Lo trovai al cimitero da solo, costretto sulla sua sedia a rotelle, preda di una sofferenza bruciante.

Anche 'Ammu Jack O'Malley pianse la morte di mamma. "Ho conosciuto tua madre che era ancora una ragazza, disperata per la perdita del suo piccolo" mi disse. "Era una brava donna. Anche tuo padre. Mi dispiace tanto, Amal. al-Ba'iyya fi hayatik."

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Trentatré

IL MARTIRIO DI UNA NAZIONE

1982

Quella settimana di settembre, iniziata con la telefonata di Yussef, è il fulcro attorno al quale ruota tutta la mia vita. È il mio centro di gravità. È il punto in cui confluiscono simultaneamente tutte le svolte della mia vita. È il crescendo assordante di una stirpe vecchia duemila anni. È il trono di un dio demoniaco.

Il 16 settembre, nonostante il cessate il fuoco, l'esercito di Ariel Sharon accerchiò i campi profughi di Sabra e Shatila, dove Fatima e Falastin dormivano indifese senza Yussef. I soldati israeliani eressero posti di blocco per impedire l'uscita ai profughi e fecero entrare nei campi i loro alleati della Falange Libanese. I soldati israeliani, appostati sui tetti, guardavano l'area con i loro binocoli durante il giorno e di notte illuminavano il cielo con i razzi per guidare la Falange che passava di baracca in baracca. Due giorni dopo, i primi giornalisti occidentali entrarono nei campi profughi e riferirono quel che videro. Robert Fisk scrive nel Martirio di una nazione: 



"Erano dappertutto, per strada, nei vicoli, nei cortili e dentro le stanze diroccate, sotto ai calcinacci e sopra ai mucchi di spazzatura. Quando arrivammo a cento cadaveri, smettemmo di contare. In ogni vicolo c'erano cadaveri – di donne, ragazzi, bambini, anziani – ammassati in gran numero, languidamente, terribilmente, là dov'erano stati sgozzati o uccisi dai mitra. Nei corridoi tra le macerie c'erano altri cadaveri. I pazienti dell'ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i killer avevano ordinato ai dottori di andarsene. Dappertutto, trovammo segni di fosse comuni scavate in fretta e furia. Anche mentre eravamo là, circondati dall'evidenza di tanta ferocia, potevamo vedere i soldati israeliani che ci osservavano. Dal tetto di un alto palazzo a ovest, li vedevamo fissarci con i loro binocoli, scrutare avanti e indietro quelle strade piene di cadaveri, e le lenti dei loro binocoli a volte brillavano al sole mentre il loro sguardo si spostava per il campo. Loren Jenkins [del Washington Post'] cominciò a imprecare come un matto. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto rispondere di quell'orrore. 'Sharon!' gridò. 'Quello stronzo di [Ariel] Sharon! Questo è un altro Deir Yassin!'

"Ciò che trovammo dentro al campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 era inenarrabile o, al limite, lo si sarebbe potuto esporre nella fredda prosa del linguaggio medico. C'erano già state altre stragi in Libano, ma raramente di questa portata e mai sorvegliate da un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. In questo paese, decine di migliaia di persone erano rimaste uccise nel panico e nel furore della battaglia. Ma queste persone, a centinaia, erano state ammazzate anche se erano disarmate. Si trattava di una carneficina, di un incidente – com'era facile usare il termine 'incidente' in Libano – che era anche un'atrocità. Andava al di là di ciò che gli israeliani in altre circostanze avrebbero chiamato atrocità terroristica. Era un crimine di guerra.

"Io e Jenkins eravamo talmente sconvolti da ciò che avevamo trovato a Shatila che sulle prime non fummo in grado di esprimere il nostro shock. Avremmo potuto accettare l'evidenza di qualche omicidio, anche di dozzine di cadaveri, uccisi nella foga della battaglia. Ma c'erano donne distese dentro le loro case con le gonne tirate su fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola sgozzata, file di ragazzi fucilati alle spalle dopo essere stati allineati lungo un muro. C'erano neonati – anneriti, perché erano stati trucidati da più di ventiquattr'ore e i loro piccoli corpi erano già in stato di decomposizione – buttati su mucchi di spazzatura accanto a lattine di cibo vuote dell'esercito americano, materiale medico dell'esercito israeliano e bottiglie vuote di whisky".



Conoscevo quelle donne, o quelle bambine? Quante di loro erano state mie alunne? Per quarantotto ore i soldati israeliani, acqua frizzante e patatine a portata di mano, avevano guardato quell'assalto feroce. Come può un soldato israeliano, un ebreo, guardare un campo profughi che viene trasformato in un macello? Fatima. Falastin. 



"In un vicolo alla nostra destra, a meno di cinquanta metri dall'ingresso, erano ammassati dei cadaveri. Saranno stati più di una dozzina, ragazzi le cui gambe e braccia si erano intrecciate le une alle altre nell'agonia della morte. Erano stati tutti uccisi a bruciapelo con un colpo alla guancia. Il proiettile aveva strappato una striscia di carne fino all'orecchio ed era entrato nel cervello. Alcuni avevano degli sfregi cremisi oppure neri sul lato sinistro della gola. Uno era stato castrato: aveva i pantaloni aperti e una colonia di mosche che gli brulicavano sulle intestina squarciate. Questi ragazzi avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto solo dodici o tredici anni."



Nel brano successivo trovai il destino di Fatima e delle sue amiche – le amiche che le erano state accanto il giorno in cui aveva dato alla luce Falastin. Le donne che mi avevano baciato perché Fatima gli aveva parlato tanto di me. Le donne che avevano spettegolato quando mi ero innamorata di Majid, e che avevano cantato, ballato e pianto di gioia al mio matrimonio.



"Dall'altra parte della strada principale, su un viottolo tra le macerie, trovammo i corpi di cinque donne e diversi bambini. Le donne erano di mezza età e i loro corpi giacevano abbandonati su un mucchio di calcinacci. Una era supina, il vestito strappato e la testa di una bambina che le spuntava da dietro. La bambina aveva capelli corti e ricci, e i suoi occhi ci fissavano con un'espressione imbronciata. Era morta. Qualcuno aveva squarciato la pancia della donna, tagliandola di traverso e poi verso l'alto, forse per uccidere il bambino che portava in grembo. I suoi occhi erano sbarrati, il suo volto scuro una maschera di orrore."



Un fotografo dell'Associated Press premette un pulsante e diffuse l'atrocità scarlatta di quella scena per il mondo. Vidi la foto sulla stampa araba e riconobbi subito la veste azzurra della donna. La dishdashe preferita di Fatima, lisa dopo quasi vent'anni di uso. La bambina riccia dietro di lei era mia nipote. Falastin.

Yussef mi chiamò, gridando. Gridando.

Anche attraverso le linee telefoniche, l'agonia nella sua voce era tale da squarciare il cielo. La sento ancora mandare in frantumi il vento quando cammino.

"Quanto dobbiamo sopportare ancora? Quanto dobbiamo pagare?" gemette come un bambino. "Fatima! La mia Fatima! Hai visto cos'hanno fatto?" chiese, gridò, e si rispose da solo. "Le hanno squarciato la pancia, Amal!"

Non avevo parole.

"Hanno squarciato la pancia della mia Fatima con un coltello!... Hanno ucciso i miei bambini!" Continuava a gridare. "Hanno ucciso i miei bambini, Amal. Dio! Dio!"

I suoi singhiozzi scuotevano la terra sotto ai miei piedi e credetti che l'intensità del suo dolore avrebbe fatto a pezzi il sole. Lanciava gli oggetti che aveva sottomano mentre io ero in Pennsylvania, ipnotizzata dal rumore di vetri infranti all'altro capo del mondo. Piangeva in maniera convulsa, stretto in una morsa di dolore. Spasmo incontrollabile. Tuono.

Maledì Israele, gli americani, Ronald Reagan, Arafat e il mondo intero, senza risparmiare nessun leader, nessun dio e nessun demonio. "Che vadano tutti all'inferno. Che provino quest'inferno che ci stanno facendo vivere."

Sotto la sua voce sentivo crescere il ruggito silenzioso dell'ira. Sentivo indurirsi in determinazione la sostanza grezza della disperazione e della rabbia. Promise vendetta, giurò che avrebbe tagliato loro la gola come maiali. Picchiò la testa contro il muro senza pietà per se stesso, tenendo ancora il telefono vicino all'orecchio, continuando a imprecare. Continuando a urlare – le urla di un'anima che moriva.

Quel dolore folle lo annientò. Yussef era perso, irrimediabilmente. Uccidendo Fatima, avevano ucciso in contumacia anche il mio dolce fratello. E il suo cuore adesso batteva con la forza della sua rabbia.

"HANNO MASSACRATO MIA MOGLIE E I MIEI BAMBINI COME BESTIE!"

La linea diventò muta. Rimasi così, paralizzata dal tradimento del destino. Dai futuri rubati e dal dolore insopportabile dell'amore perduto.

Nuovamente uscii di casa. Le foglie appena cadute crepitavano sotto ai miei passi. Soffocai le lacrime stringendo con forza i denti. Avevo paura di piangere, paura di sentire la stessa tempesta che si agitava dentro mio fratello.

Qualsiasi cosa senti, tienitela dentro. Oh, Dalia, madre! Ora capisco!

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