Il Progetto del Corpo Civile Europeo di Pace,
una Proposta per la Politica Estera e di Sicurezza Comune

di Giorgio Grimaldi,
Dottore di ricerca in Storia del Federalismo, collabora con il Dipartimento di Ricerche Europee della Facoltà di Scienza Politiche dell’Università di Genova

tratto da Quaderni del Satyagraha, n°3 giugno 2003


“La fiducia nei mezzi violenti è ingannevole e distoglie dal cercare febbrilmente dei modi preventivi che scendano alla radice intima…”

Aldo Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, 1937, p. 118


SOMMARIO


Verso una strategia di prevenzione della violenza nei conflitti

La Proposta e la Potenzialità di un Corpo Civile Europeo di pace

Breve presentazione di metodi e azioni nonviolente per la sicurezza e la pace

Considerazioni conclusive generali per una politica di sicurezza europea

Note



Verso una strategia di prevenzione della violenza nei conflitti

Il preoccupante deterioramento della convivenza dei gruppi sociali all’interno di ordinamenti statali o a livello internazionale e le tensioni che attraversano stati, regioni ed aree territoriali di differenti dimensioni, alimentate dall’esclusione all’accesso delle risorse vitali, dalla mancanza di istituzioni democratiche consolidate o da contrapposizioni interne tra fazioni ed etnie, rende sempre più urgente la necessità di studiare e predisporre risposte appropriate per gestire e risolvere le situazioni di conflitto (1). Soprattutto dopo il violentissimo attacco terroristico scatenato l’11 settembre 2001 a New York, che ha provocato migliaia di vittime e la distruzione delle Twin Towers e una rapida rimilitarizzazione della politica degli Stati Uniti con il lancio di un’offensiva planetaria contro il terrorismo e il macroscopico aumento delle spese per la sicurezza, peraltro già prima previsto dall’amministrazione Bush allo scopo di dotarsi di un sistema di sicurezza spaziale, risulta di primaria importanza studiare e organizzare risposte politiche, sociali, culturali ed economiche in grado di affrontare i problemi e le radici dei conflitti, intervenendo prima del ricorso alla violenza. Le guerre o gli interventi “umanitari” fondati quasi esclusivamente sull’uso delle armi (più o meno sofisticate) manifestano concretamente i propri limiti, anche quando le azioni siano programmate e avvengano per fermare e impedire il propagarsi incontrollato di scontri, “pulizie etniche” e massacri indiscriminati. Infatti, benché tali interventi possano ottenere come risultato, spesso precario, la cessazione della violenza, emerge con evidenza la loro incapacità di rimuovere o sanare le cause che hanno prodotto la violenza e rimane ineludibile la necessità di sviluppare azioni politiche nonviolente, basate sulla conoscenza delle situazioni oggettive e sul coinvolgimento graduale delle parti in conflitto in un processo di riappacificazione.

Sul solco tracciato da anni di riflessioni e dibattiti nell’ambito dei peace studies e della tradizione della peace reserch, ampliatasi progressivamente a partire dalla seconda guerra mondiale, in particolare negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e nei paesi scandinavi, e avvalendosi della sperimentazione e dell’attività condotta dalle Organizzazioni Non Governative (ONG) in zone di conflitto, è stata elaborata negli anni ’90 la proposta di costituire forze di intervento civile nonviolento come strumento per favorire processi di pacificazione e rinascita civile, sociale ed economica in aree sconvolte da conflitti bellici. Tali forze si sono sviluppate effettivamente per missioni ad hoc sia su iniziativa di singole associazioni e ONG, sia come esperienze di singoli paesi e nell’ambito di organizzazioni internazionali – un esempio è costituito dai Caschi Bianchi dell’ONU (2) – raccogliendo istanze e spinte provenienti dalla società civile organizzata.

La proliferazione di microguerre locali, non di rado recanti una matrice etnica e nazionalista, e l’anarchia da queste creata, che si sta rivelando un’inquietante eredità esplosa dopo il cambiamento del sistema internazionale alla fine degli anni ’80, dovrebbe comportare un profondo ripensamento del ruolo politico degli stati nazionali nel campo della sicurezza e della difesa e spingere alla costruzione di nuove forme istituzionali democratiche capaci di rispondere alle esigenze delle popolazioni, garantendone soprattutto i diritti umani fondamentali (3).

Le condizioni sulle quali la prevenzione dei conflitti dovrebbe fondarsi sono essenzialmente la conoscenza delle ragioni e della natura dei conflitti e un’attività volta a instaurare un rapporto di dialogo e fiducia reciproca. Questi aspetti dell’attività preventiva, spesso sottovalutati e trascurati, appaiono di rilevante importanza per disinnescare potenziali future guerre ad ogni livello e per evitare il diffondersi del terrorismo.

L’attuale segretario dell’ONU Kofi Annan, sollecitando investimenti incisivi con risultati a lunga scadenza per diffondere la democrazia nel mondo e, con essa, far diminuire i conflitti violenti, ha indicato quali principali cause che stanno alla base del fallimento della prevenzione delle guerre i tre seguenti comportamenti:
1) Il rifiuto dell’intervento esterno da parte di uno o più soggetti coinvolti nel conflitto;
1) La mancanza di volontà ai vertici della comunità internazionale;
1) L’inesistenza di strategie integrate di intervento per la prevenzione all’interno dell’ONU e del sistema internazionale (4).

Come è facile constatare, le ragioni dell’insuccesso sono eminentemente politiche e derivano dalla scarsa volontà da parte degli stati nel modificare la propria politica estera e nel prevalere di una realpolitik “miope”, guidata da interessi nazionali contingenti, piuttosto disattenta riguardo al rafforzamento delle istituzioni democratiche internazionali e incapace di comprendere l’utilità di un approccio preventivo e nonviolento nell’azione diretta.

L’analisi di Annan evidenzia l’importanza di rendere l’ONU effettivamente in grado di difendere i diritti umani nel mondo ricorrendo sia ad operazioni di polizia internazionale miste, con il coinvolgimento di militari e civili per garantire la cessazione delle ostilità, la sicurezza delle persone (in particolare di rifugiati e profughi) e ripristinare la convivenza civile, sia per applicare la giustizia internazionale attraverso la cattura e la condanna dei criminali di guerra (5).

In quest’ottica le operazioni di peace-keeping dovrebbero assumere compiti più ampi rispetto alla separazione dei belligeranti e all’appoggio a missioni umanitarie, incorporando le azioni di polizia necessarie a rendere effettivamente sicure e approvvigionate le aree di intervento, in collaborazione con la società civile. Il peace-building, la costruzione della pace, diventerebbe l’elemento centrale di una politica internazionale umanitaria, attraverso la valorizzazione dell’apertura ad iniziative di collaborazione su base locale, l’inizio del dialogo tra ex nemici, la cogestione di progetti di sviluppo decentrati e delle risorse economiche comuni, la costituzione di organismi politici condivisi. Inoltre, per evitare un progressivo ricorso all’uso della forza e arrestare l’escalation violenta dei conflitti è essenzialmente prevedere, accanto alle capacità di ascolto e di dialogo, il ricorso alla confidence building, cioè la ricostruzione di un clima di reciproca fiducia tra le parti, messa in atto dalle organizzazioni non governative stabilmente attive in vari settori di intervento (6).

L’Unione Europea (UE) rappresenta un’organizzazione internazionale a carattere regionale dotata di una fisionomia alquanto particolare e ibrida nel mondo contemporaneo e con caratteristiche specifiche uniche, a causa degli elementi di statualità (tra i quali la moneta unica governata dalla Banca Centrale Europea), dall’avanzata integrazione economica (ormai quasi completa) e dello sviluppo di politiche comuni in quasi tutti i settori tra i paesi membri. Il processo di integrazione europea dispiegatosi a partire dalla Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 allo scopo di garantire la pace all’interno del continente europeo e al di fuori dei suoi confini si è realizzato inizialmente attraverso la gestione comune di risorse strategiche con la nascita della Comunità del Carbone e dell’Acciaio (CECA) nel 1951 ed è poi proseguito con la formazione della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea per l’Energia Atomica (Euratom) nel 1957 fino alla costituzione dell’odierna Unione Europea fondata con il Trattato di Mastricht del 1992 su tre pilastri: quello comunitario comprendente la CEE e le politiche economiche, quello della Politica Estera e di Sicurezza (PESC) e quello della cooperazione giudiziaria e degli affari interni. L’UE, che ha apportato, a breve distanza di tempo una dall’altra, ulteriori modifiche prima con il Trattato di Amsterdam del 1997 (entrato in vigore il 1° maggio 1999), e poi con il Trattato di Nizza (siglato nel dicembre 2000 e operativo soltanto dal 1° febbraio 2003, dopo un lungo e travagliato processo di rettifica, in un primo tempo negata nel 2001 dal referendum irlandese), ed è tuttora impegnata attraverso i lavori della Convenzione Europea a ridefinire la propria identità per fare fronte alle sfide internazionali globali, è chiamata a contribuire al superamento dell’instabilità mondiale adottando una strategia di prevenzione dei conflitti. Nell’ambito di un complessivo ripensamento delle azioni per la pace a livello regionale e mondiale il Parlamento Europeo (PE) ha elaborato da alcuni anni un progetto specifico per contribuire a delineare una politica estera e di sicurezza dell’UE. Benché il PE non abbia poteri decisionali in tale politica, ma solo di proposta, i suoi orientamenti e alcune proposte operative votate in apposite risoluzioni ufficiali hanno evidenziato l’elaborazione di una visione “multidimensionale” della politica di sicurezza e di un approccio di tipo globale ai conflitti (7). A questo riguardo particolare attualità e rilevanza acquistano, infatti, i conflitti infranazionali rispetto a quelli tra stati e soprattutto i conflitti per l’accesso all’acqua, alle materie prime e alle risorse energetiche, che producono effetti sociali, economici e ambientali devastanti nei paesi sottosviluppati (8).

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La Proposta e la Potenzialità di un Corpo Civile Europeo di pace

La costituzione di un Corpo Civile Europeo di Pace rappresenta uno strumento istituzionale d’azione che il PE ha elaborato e riproposto sin dalla metà degli anni ’90, come suo specifico contributo alla discussione sulla PESC. Questa iniziativa è rimasta ad oggi inattuata e sia la Commissione Europea che il Consiglio dei Ministri dell’UE non hanno preso ufficialmente posizione su di essa.

Nel rapporto preparato dagli europarlamentari Jean Louis Bourlanges, popolare francese, e David Martin, laburista inglese, approvato dal PE il 17 maggio 1995 con una lunga risoluzione che illustrava la posizione ufficiale sulla Conferenza Intergovernativa (CIG) del 1996, per la revisione del Trattato di Maastricht, grazie ad un emendamento degli europarlamentari verdi Alexander Langer e Claudia Roth veniva riconosciuta per la prima volta la necessità di istituire un Carpo Civile Europeo di pace. Nel testo ufficiale del rapporto, infatti, compariva la seguente affermazione:

un primo passo per contribuire alla prevenzione di conflitti potrebbe consistere nella creazione di Corpo Civile Europeo della Pace (che comprenda gli obiettori di coscienza) assicurando la formazione di controllori, mediatori e specialisti in materia di soluzione dei conflitti (9).

L’idea del Corpo Civile Europeo era stata sviluppata da Alexander Langer (1946 – 1995), europarlamentare sudtirolese e instancabile promotore di iniziative per la pace, coinvolto direttamente in missioni dell’UE in Albania e in Jugoslavia e convinto assertore di una federazione di stati europei portatrice di pace al di là dei propri confini (10). Partendo dalla constatazione delle difficoltà incontrate dalle missioni di peace-keeping organizzate dalla comunità internazionale, Langer proponeva il ricorso all’intervento organizzato di civili, soprattutto nei conflitti “complicati” fra minoranze o rivolti contro di esse e fomentati da motivi religiosi o nazionalistici, per garantire maggiore flessibilità, capacità di dialogo, discrezione e comunicazione. Secondo la visione di Langer che aveva conosciuto e studiato la difficile convivenza tra popolazioni di etnie differenti, era possibile prevenire la violenza e trasformare i conflitti senza urtare le parti in conflitto, attraverso il coinvolgimento nel Corpo Civile Europeo di Pace di persone professionali e culturali, di professionisti specializzati e volontari addestrati, possibilmente rappresentativi del maggior numero di paesi e di ogni fascia di età e sesso e quindi aperto ai giovani e agli anziani e capace di valorizzare il ruolo delle donne (11). Il Corpo Civile di Pace era frutto dell’abbandono di una classica logica pacifista rigidamente antimilitarista e ammetteva la necessità di un addestramento comune tra militari e civili, i quali in determinate situazioni avrebbero dovuto avere una protezione armata, sottolineando parallelamente l’autonomia e la reciproca distinzione dei compiti per il mantenimento o il ristabilimento della pace. Tale iniziativa rilanciata qualche mese dopo insieme alla richiesta di intervento per bloccare lo sterminio della popolazione civile jugoslava mentre si aggravava la crisi dopo tre anni di guerra e massacri di fronte all’impotenza e all’inadeguatezza dei caschi blu dell’ONU presi in ostaggio dagli aggressori serbi, non riuscì a smuovere le istituzioni comunitarie e i governi dei paesi europei, divisi e confusi sulle decisioni da prendere, nonostante l’estremo drammatico appello di Langer e di numerosi pacifisti che chiedevano un intervento urgente durante il Consiglio Europeo di Cannes per scongiurare il proseguimento degli eccidi (12). Lo studio e l’elaborazione di uno strumento concreto di intervento nonviolento come il Corpo Civile Europeo di Pace alimentò un dibattito politico che coinvolse nei mesi ed anni successivi, ricercatori, esperti di conflitti, organizzazioni non governative e associazioni a livello europeo (13).

Dopo il primo inserimento in una risoluzione, il 10 febbraio 1999 il PE votò una raccomandazione specifica (A4 – 0047/99) per promuovere l’istituzione di un Corpo Civile di Pace Europeo (CCPE) (14). Presentata su iniziativa del Frutto Verde, la proposta del CCPE venne però approvata emendata e privata della parte che prevedeva la richiesta dell’avvio di un progetto pilota e uno studio di fattibilità per verificare il contributo che tale nuova istituzione avrebbe potuto fornire all’UE in qualità di strumento per lo sviluppo della PESC. La proposta era ormai sufficientemente articolata e delineata con una sufficiente precisione almeno nei suoi elementi essenziali, individuando scopi, obiettivi e modalità del CCPE, oltre ad essere corredata da allegati che illustravano nel dettaglio il potenziale funzionamento e sviluppo dello stesso CCPE.

Il CCPE si caratterizzava come organo ufficiale dell’UE creato per:

la trasformazione delle crisi provocate dall’uomo, per esempio la prevenzione dell’escalation violenta dei conflitti e il contributo verso una loro progressiva riduzione (…), in quanto più umana e meno onerosa rispetto alla ricostruzione del dopo conflitto.

Concepito come “servizio specifico” nell’ambito della Direzione Generale della Commissione Europea, “con un Direttore Generale responsabile nei confronti della Commissione per gli Affari Esteri e dell’Alto Rappresentante della PESC”, il CCPE avrebbe dovuto essere dotato di una struttura ispirata, secondo le indicazione del PE, al modello dell’Ufficio per gli Aiuti Umanitari della Commissione Europea (European Commission Humanitarian Aid Office – ECHO) (15).

Operando sotto gli auspici della stessa UE esclusivamente su mandato dell’ONU o delle sue organizzazioni regionali quali l’OSCE (16), l’OUA (17) e l’OAS (18), il CCPE avrebbe contribuito con la sua attività a far nascere “i necessari collegamenti tra le attività diplomatiche, da un lato, e la società civile, dall’altro”. Costituito da personale civile per lo svolgimento di competenze specifiche nella prevenzione di conflitti, senza escludere un possibile impiego in compiti umanitari connessi alla manifestazione di catastrofi naturali ed in generale di protezione civile, il CCPE avrebbe rappresentato uno strumento operativo con un raggio d’azione non predeterminato e tendenzialmente dispiegabile in tutte le aree del mondo e neppure limitato nei settori di intervento. Le attività multifunzionali che avrebbero potuto ricadere sotto la sua competenza erano fondate su “un approccio olistico” che avrebbe dovuto comprendere “interalia sforzi politici ed economici e l’intensificazione della partecipazione politica e del contesto economico delle operazioni”.

Non mancavano nel documento allegato alla risoluzione del PE riferimenti precisi a specifiche attività concrete del CCPE che avrebbero richiesto un alto livello di formazione e di specializzazione dei suoi componenti, quali:

la mediazione e il rafforzamento della fiducia tra le parti belligeranti; l’aiuto umanitario (ivi compresi gli aiuti alimentari, le forniture d’acqua, medicinali e servizi sanitari); la reiterazione (ivi compresi il disarmo e la smobilitazione degli ex combattenti e il sostegno agli sfollati, ai rifugiati e ad altri gruppi vulnerabili); il recupero e la ricostruzione; la stabilizzazione delle strutture economiche (ivi compresa la creazione di legami economici); il controllo e il miglioramento della situazione relativa ai diritti dell’uomo e la possibilità di partecipazione politica (ivi comprese la sorveglianza e l’assistenza durante le elezioni); l’amministrazione provvisoria per agevolare la stabilità a breve termine; l’informazione e la creazione di strutture e di programmi in materia di istruzione intesi ad eliminare i pregiudizi e i sentimenti di ostilità, e campagne di informazione e di istruzione della popolazione sulle attività in corso a favore della pace.

Il carattere nonviolento delle sue missioni era basato essenzialmente sull’accordo di cessate il fuoco e sul consenso delle principali parti interessate e si inseriva in un rapporto di stretta collaborazione e cooperazione con altri attori operanti sul territorio, fondato sul reciproco riconoscimento: in particolare le organizzazioni non governative, rispettandone la precipua funzione e distinzione in riferimento ai ruoli svolti e le forze militari ivi presenti. In relazione a queste ultime avrebbe dovuto essere salvaguardata l’autonomia del CCPE laddove questo si fosse trovato ad agire congiuntamente ad operazioni di mantenimento della pace.

Il personale del CCPE, reclutato rispettando un’equa ripartizione proporzionale tra gli stati membri dell’UE, era distinto in due categorie: “un nucleo costituito da personale qualificato a tempo pieno”, incaricato di “compiti di gestione” e di garanzie “continuità (vale a dire un segretario con compiti di amministrazione e gestione, assunzione, preparazione, intervento, rapporto di fine missione e collegamento)” al CCPE e “un gruppo costituito da personale specializzato da destinare alle missioni (ivi compresi esperti, con o senza esperienza, tuttavia perfettamente addestrati), chiamato a compiere missioni specifiche, assunto a tempo parziale o con contratti a breve termine in qualità di operatori sul terreno (ivi compresi gli obiettori di coscienza su base volontaria o volontari non remunerati)”.

Per un opportuno funzionamento stabile e costante del CCPE, il finanziamento della struttura e delle operazioni sarebbe stato a carico della stessa UE che avrebbe dovuto sostenere le spese in concorso con gli stati membri. Infine il CCPE avrebbe dovuto avere richiesti con una notevole flessibilità e una pronta capacità di adattamento per affrontare con efficacia situazioni differenti tra loro e pertanto veniva già previsto un successivo e continuo ampliamento (19).

La proposta del Corpo Civile di Pace Europeo è stata rilanciata dal PE attraverso una nuova risoluzione ad hoc alla fine del 2001 (20), adottata in occasione dell’esame della comunicazione della Commissione Europea sulla prevenzione dei conflitti (21). Il testo di questa risoluzione (A5 – 0394/2001) (22) ribadisce la necessità di un approccio globale a questo tema, ritenendo prioritario “un vasto programma promosso dalla comunità internazionale per l’eradicamento della povertà” e indirizzato a rendere coerenti le azioni dell’UE nelle diverse politiche comunitarie (politiche di sviluppo e cooperazione, accordi economici e commerciali, estere e di sicurezza, controllo del commercio delle armi, programmi di sostegno alla democrazia, allo stato di diritto, alla società civile e agli organi di informazione indipendenti, di ricostruzione dell’apparato amministrativo, del dialogo interetnico e di forme alternative di gestione dei conflitti), onde evitare “l’impatto conflittuale che numerose politiche comuni dell’UE potrebbero avere sull’origine e lo sviluppo dei conflitti locali in determinate regioni”. Il PE esprimeva quindi, con vigore, il bisogno di una capacità di reazione rapida di fronte alle crisi e alle cause potenziali di conflitto (23) attraverso l’elaborazione di un’efficace analisi dei fattori di rischio che potevano minare la “stabilità strutturale” e la definizione di indicatori sulla base dei quali dar corso alle azioni. Valutando positivamente la comunicazione della Commissione Europea e il programma dell’UE per la prevenzione dei conflitti violenti approvato dal Consiglio Europeo di Gotenborg (14 – 16 giugno 2001) (24), il PE sottolineava, inoltre, l’importanza della maggior parte delle proposte già avanzate a partire dalla metà degli anni ’90, tra le quali l’istituzione del CCPE, e chiedeva il rafforzamento della cooperazione con altre istituzioni internazionali come l’ONU (25), l’Alto Commissariato dell’ONU per i Rifugiati (26) e l’OSCE, organizzazione particolarmente impegnata sull’avvertimento precoce (early warning) e la prevenzione, attraverso la preparazione e lo svolgimento di missioni specifiche (mantenimento e ripristino dell’ordine pubblico, addestramento delle forze dell’ordine, mediazione, monitoraggio dell’ordinamento di pace, gestione delle elezioni e riabilitazione post – bellica), il coinvolgimento di forze di polizia civili, e, attraverso il sistema REACT (Rapid Expert Assistance and Cooperation Teams) di rapida mobilitazione del personale in dodici settori (sviluppo mediatico dei diritti umani, amministrazione, aiuti alle forze di polizia civile e alle missioni operative sul campo ecc…). In particolare il PE ha sollecitato l’allacciamento di collegamenti operativi molto stretti con alcuni settori dell’OSCE, Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani, Rappresentante dell’OSCE per la libertà dei media, Centro di Prevenzione dei Conflitti), insistendo anche sulla necessità di creare “un reale coordinamento strategico ed operativo con le ONG e gli altri soggetti che operano nell’ambito della società civile” e di continuare a ricorrere alla Rete universitaria di prevenzione dei conflitti, proposta dal PE per assistere la Commissione, estendendone la consulenza allo stesso PE e al Consiglio dei Ministri dell’UE.

In questa ampia risoluzione il PE ha quindi affermato con nettezza che “la prevenzione dei conflitti sia a lungo che a breve termine richiede un impegno e una direzione politica più forti da parte degli Stati membri, dal momento che i soli strumenti comunitari non sono sufficienti a risolvere tutte le possibili fonti di conflitto” e, accentuando la critica nei confronti delle lacune della comunicazione e del programma UE per la prevenzione dei conflitti violenti, ha posto in rilievo l’incapacità della Commissione ad affrontare “adeguatamente la rigidità dell’attuale struttura a pilastri del sistema di prevenzione dei conflitti”, invitando a rimettere in discussione la stessa struttura a due pilastri – e la conseguente incoerenza della politica estera europea – in occasione della dichiarazione di Laeken, tenutosi dal 14 al 15 dicembre 2001, pur avendo adottato una dichiarazione sull’operatività della politica di sicurezza e di difesa (27), ha tradito, alla pari dei precedenti summit del Consiglio Europeo, le aspettative del PE e non ha citato nei CCPE, ne la riforma della struttura a due pilastri, così omettendo qualsiasi commento alle pur specifiche e reiterate proposte e indicazioni del PE. Ogni possibile sviluppo è rimandato, quindi, alle conclusioni della convenzione e quindi, salvo eventi eccezionali, al 2003 (28).

Nel frattempo però, sul finire dello scorso decennio, l’UE ha posto le basi per un rapido sviluppo della politica estera di Sicurezza Comune e di Difesa (PESCD). A partire dal secondo semestre del 1998 con il Consiglio Europeo informale di Portchach e la dichiarazione anglo – francese di Saint Malo sulla necessità di far nascere una politica estera di sicurezza capace di agire nel contesto internazionale, in sintonia e con gli obiettivi strategici della NATO, rivisti e riaggiornati al nuovo contesto internazionale (29), e soprattutto dal Consiglio Europeo di Colonia (3 – 4 giugno 1999), influenzato dalla tragica impotenza manifestata dall’UE nelle vicende riguardanti la ex Jugoslavia e durante la guerra in Kossovo, è stata impostata una tabella di marcia che ha condotto alla costituzione di alcune strutture e di un coordinamento in questo ambito. Con l’approvazione delle linee generali per una politica di difesa europea avvenuta al Consiglio Europeo di Helsinki (10 – 11 dicembre 1999), l’UE si è infatti prefissa l’obiettivo concreto di creare entro il 2003, un corpo di spedizione europeo multinazionale composto di circa 60.000 uomini (Forza di Reazione Rapida), mobilitabile per missioni di un anno (30). In quell’occasione è stato anche definito un programma di lavoro per inventariare, coordinare e rafforzare le risorse disponibili e idonee allo scopo di sviluppare la gestione non militare dei conflitti, costituendo un database di quelle presenti e attivabili in ogni paese membro dell’UE (31). Successivamente ai Consigli Europei di Feira (giugno 2000), Nizza (dicembre 2000) e Goteborg (giugno 2001), sono stati presentati diversi rapporti sui progressi delle capacità dell’UE in questo specifico ambito che però soffre di una minore attenzione da parte della Commissione Europea e di un disinteresse evidente del Consiglio Europeo.

Complessivamente l’UE sembra quindi concentrata a costruire, pur tra incertezze e antagonismi nazionali e in mancanza di una chiara strategia condivisa, la propria dimensione difensiva in maniera asimmetrica e senza un bilanciamento efficace per gli armamenti più che a sviluppare una politica di prevenzione della violenza e delle crisi vicine e lontane (32). Dopo l’11 settembre 2001, inoltre, questo processo sembra essersi arenato a seguito del mutamento degli scenari internazionali che hanno nuovamente subordinato, nonostante le resistenze di Francia e Germania e di qualche altro paese, qualsiasi sviluppo autonomo di una politica estera, di sicurezza comune e di difesa europea all’evoluzione della politica internazionale statunitense e atlantica (33).

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Breve presentazione di metodi e azioni nonviolente per la sicurezza e la pace

Ma quali potrebbero essere effettivamente i compiti di un Corpo Civile Europeo di Pace? Per comprendere la sua ampia possibilità di impiego si può brevemente ritornare ad accennare con maggior precisione ai tipi di interventi svolti dalle organizzazioni non governative (ONG) in aree di conflitto, riscontrabili già da tempo ed esaminati anche nella letteratura scientifica riguardanti gli studi sociali (34).

Una modalità di intervento non istituzionale e sperimentata con parziale successo, è rappresentata dalla “diplomazia popolare” o “dei popoli” intesa come insieme di “tutte quelle strutture ed iniziative, a carattere transnazionale, evidentemente distinte dalla diplomazia degli stati, ma non per questo pregiudizialmente contrapposte ad essa, realizzate da soggetti non statali che si pongono l’obiettivo di influire nella definizione e nella realizzazione delle scelte di politica internazionale” e “strumento operativo per tradurre il principio di democrazia internazionale, in quanto promuove la partecipazione politica popolare al funzionamento delle istituzioni internazionali” (35). Questa forma di diplomazia ufficiosa, condotta da ONG, è un’importante risorsa, poiché, tramite il ricorso ad azioni specifiche, differenziate, non convenzionali e meno “rigide” di quelle istituzionali, svolge un ruolo determinante nelle missioni di pace e nel peace – building (il complesso di attività del dopo conflitto atte a garantire la “ricostruzione” della pace e della convivenza civile). Inoltre, anche se eventualmente supportata da forze militari ove necessario, prevede necessariamente l’addestramento di monitori internazionali e l’impiego di metodi nonviolenti con una intensità ben maggiore rispetto alle esperienze tradizionali (36).

Si possono definire attività di diplomazia internazionale quelle iniziative che rendono le organizzazioni non governative interlocutrici nelle consultazioni con i rappresentanti di governo, le istituzioni civili, religiose e internazionali. Tra le principali forme di diplomazia non ufficiale vi sono anche le azioni dirette nonviolente, importanti soprattutto per il loro valore simbolico, che intervengono a fronte dell’incapacità degli stati di gestire situazioni in zone di crisi o di conflitto (come ad esempio, tra le iniziative intraprese durante la guerra nella ex Jugoslavia, la Carovana di pace da Trieste a Sarajevo e la Marcia di Solidarietà e Pace a Sarajevo e Mir Sada, quest’ultima mentre era in svolgimento il conflitto in Bosnia Erzegovina). A queste si aggiungono occasionalmente e in circostanze ben precise le conferenze parallele o controvertici consistenti in incontri organizzati dalle ONG in contemporanea a conferenze ufficiali internazionali allo scopo di far conoscere e di far risaltare le proposte, i piani d’azione, le denuncie della società civile internazionale e di sottoporle all’attenzione delle stesse istituzioni ufficiali (37).

Ad un livello di confronto diretto con le istituzioni internazionali si collocano le azioni di lobbying, azioni di pressione e convincimento che sono effettuate dalle ONG in virtù dello status consultivo loro concesso nelle organizzazioni internazionali e nelle agenzie specializzate e che a volte comportano la partecipazione alla stesura di convenzioni e accordi (38).

Infine le azioni di networking provvedono alla comunicazione continua e interattiva, allo scambio di informazioni attraverso reti di coordinamento permanenti e internazionali tra gruppi e organizzazioni onde rendere maggiormente efficace e incisivo il loro operato (39).

L’insieme di questi “sevizi di pace”, secondo la definizione di Reychler, costituisce una gamma estremamente variegata e ricca di “strumenti pratici per fare la pace, per mantenerla e per costruirla” che comprende “l’aiuto alla comunicazione, il miglioramento della comprensione reciproca, lo scoraggiamento all’uso della violenza, la mediazione, la riconciliazione, il mantenimento della pace attraverso l’interposizione” (40). Queste azioni richiedono una progettualità e uno sforzo costante che si devono protrarre necessariamente per tempi lunghi per poter arrivare ad una soluzione duratura dei conflitti e non ad accordi temporanei. La diplomazia non ufficiale e popolare, denominata anche “diplomazia sul campo” (field diplomacy), intrapresa nelle ONG, mira ad un coinvolgimento più profondo nel conflitto rispetto a quello della diplomazia tradizionale e si manifesta direttamente con “l’adozione del conflitto” (41). La mobilitazione per il Kossovo costituisce una chiara testimonianza, un esempio del lavoro svolto per la pace nella regione attraverso numerose iniziative di solidarietà della diplomazia popolare volte a valorizzare l’azione nonviolenta degli albanesi kossovari, purtroppo trascurata dalle istituzioni nazionali e comunitarie dell’UE (42).

Una volta guadagnata la fiducia delle parti, le ONG intermediarie possono operare per ridurre gli squilibri di potere tra le parti rivali (empowerment), precondizione necessaria per iniziare una proficua negoziazione (43), poiché la loro azione si svolge senza la rigidità, gli schemi e i limiti di mandato propri della diplomazia ufficiale che è vincolata al rispetto delle istruzioni impartite dai governi.

Da non sottovalutare è anche il ruolo dei vari Istituti di ricerca per la pace e di centri di formazione e studio sparsi per il mondo, impegnati a offrire un’adeguata preparazione teorico – pratica ai volontari e agli operatori civili, oltre che a svolgere il compito di studio dei conflitti (44).

Nel secondo dopoguerra è maturato, sulla spinta degli studi sulla pace e della sperimentazione di modalità d’azione nonviolente come le grandi mobilitazioni civili per l’indipendenza dell’India guidate dal Mahatma Gandhi, il tentativo di costruire un modello di difesa non armata o difesa popolare nonviolenta (DPN), concepito come “sviluppo di un tipo di difesa che punti sulle capacità reattive della popolazione e sia finalizzato a tutelare non tanto il territorio come tale, quanto piuttosto la funzionalità delle istituzioni sociali” (45). All’azione politica nonviolenta sono stati dedicati numerosi studi e Gene Sharp ha messo in rilievo la sua capacità “disarmante” determinata dalla caratteristica di non opporre all’avversario una forza eguale e contraria, ma di adottare condotte “asimmetriche” e inaspettate che puntano a sbilanciarlo (46).

Scotto e Arielli individuano tre caratteristiche fondamentali dell’azione nonviolenta: in prima istanza una strategia basata sull’autolimitazione, consistente nella rinuncia al ricorso alla violenza e nell’impegno di “escalation nonviolenta” del conflitto che si concretizza in un utilizza graduale e non sproporzionato dei mezzi e delle modalità di azione e di resistenza adottati rispetto al fine prefissato da raggiungere, ammettendo concessioni, accomodamenti, compromessi sulle questioni non essenziali riguardanti il conflitto; secondariamente il rafforzamento delle proprie qualità con la valorizzazione delle risorse possedute e lo sviluppo di una forte capacità di sopportazione dei costi del conflitto; infine, l’apertura di canali di dialogo e l’allargamento della cooperazione all’interno del conflitto (47).

Jean Marie Muller, in un suo recente libro presenta una descrizione sistematica degli aspetti riguardanti l’intervento civile internazionale e offre un’analisi accurata delle principali azioni svolte sotto l’egida di organizzazioni internazionali (interventi militari, missioni civili, applicazione di sanzioni internazionali, missioni di osservazione e mediazione, ingerenza informativa) o ad opera di gruppi, squadre e brigate di pace quali le Peace Brigades International (PBI) e altre esperienze più circoscritte ed essenzialmente di interposizione nonviolenta. A conclusione della sua ricca disamina Muller traccia un bilancio dei risultati o dell’avanzamento di iniziative finalizzate all’istituzione di Corpi Civili di Pace infranazionali, regionali e internazionali (48), formula una serie di proposte operative e afferma che “la prevenzione e la gestione delle crisi e dei conflitti non possono venire concepite mediante la sola messa in opera di una strategia militare di dissuasione e di intervento” ma che piuttosto “esigono per prima cosa una politica di prevenzione, una diplomazia di mediazione e una strategia civile di intervento” (49).

Una politica internazionale a favore della sicurezza umana e globale non può ragionevolmente prescindere da un approccio integrato nell’affrontare le emergenze demografiche, sociali, ambientali, economiche, militari (50). L’attuazione concreta ed efficace di una tale politica dovrebbe passare inevitabilmente attraverso istituzioni e attori dotati di poteri reali a diversi livelli e un’elaborazione pragmatica di strategie e azioni preventive dei conflitti Il superamento della logica degli stati nazionali, della contrapposizione tra alleanze politiche, militari ed economiche, potrebbe delineare un nuovo scenario mondiale sufficientemente regolato e governato dalle organizzazioni e dalle comunità internazionali, soppiantando l’attuale contesto di anarchia internazionale (51). Un chiaro monito, confermato da numerosi precedenti storici, dovrebbe guidare un’azione internazionale consapevole: come infatti affermava già nel lontano 1923 Lord Lothian, diplomatico e federalista inglese, “nessun sistema per garantire la pace può fondarsi sull’usa della guerra” (52).

La reale situazione internazionale conferma invece un drammatico incremento della produzione di armamenti degli stati nazionali a fini difensivi o di potenza, e la proliferazione e detenzione privata o da parte di gruppi e fazioni allo scopo di alimentare violenza e terrorismo. La nuova dottrina statunitense enunciata dal Presidente Bush della guerra preventiva per annientare il terrorismo rischia di legittimare il ricorso arbitrario all’uso della forza e di minare la cooperazione internazionale, ostacolando la ricerca di soluzioni politiche efficaci per costruire condizioni di vivibilità e di pace.

Risulta quindi determinante l’impegno nelle sedi internazionali per un progressivo disarmo (53) non solo riguardante le armi nucleari e i pericoli di proliferazione incontrollata di materiale radioattivo in tutto il mondo, ma anche la messa al bando di tutte le armi più letali da effettuare congiuntamente ad un’azione internazionale di lungo periodo per la diminuzione delle armi convenzionali in circolazione (54). Queste ultime, infatti, sono quelle principalmente utilizzate nella maggioranza dei conflitti e nelle guerre odierne (55) che hanno come teatro soprattutto i paesi e le zone più povere del mondo, in una situazione di forti contrapposizioni etniche, religiose e di maggiore disparità economica e sociale.

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Considerazioni conclusive generali per una politica di sicurezza europea

L’UE, dopo le numerose e strazianti tragedie susseguitesi nella martoriata ex Jugoslavia, dovrebbe costruire, senza ulteriori remore, una politica di sicurezza multidimensionale che può funzionare solo in presenza di un’Europa politica, dotata di istituzioni sovrane capace di assumere decisioni efficaci. Langer, principale artefice della proposta del Corpo Civile di Pace Europeo, affermava che:

probabilmente solo lo sviluppo di un federalismo democratico, autonomistico, paneuropeo può offrire gli strumenti possibili e credibili per realizzare una politica e cultura della convivenza e dell’autodeterminazione democratica – e dunque un’alternativa sufficientemente “attraente” alla disgregazione nazionalista.

Considerava inoltre inutile a anacronistica la conservazione delle vecchie forme statali, viste come elementi di chiusura rispetto alle tendenze multiculturali, alle pressioni migratorie e alle disuguaglianze politiche, economiche e sociali:

il ritorno agli stati nazionali non può essere la prospettiva risolutiva e pacificatrice, ne lo può essere l’unilaterale integrazione “occidentale” dell’Europa ricca con la conseguente “sudamericanizzazione” dell’Europa centrale e orientale (56).

Per costruire un ordine internazionale non più gerarchico ne imperiale, che abbandoni una visione stato – centrica a favore di una governabilità democratica mondiale, perseguibile tramite un rafforzamento dell’ONU e, in stretta correlazione con esso, delle organizzazioni internazionali regionali, risulta di primaria importanza il riconoscimento e la partecipazione politica di realtà transnazionali rappresentative della global society (57). Attraverso questo effettivo coinvolgimento di movimenti e gruppi sorti dal basso ed espressione dei popoli dovrebbero essere poste basi più salde per intraprendere un disegno politico rivolto complessivamente alla minimizzazione della violenza nei conflitti internazionali. Una sicurezza “inclusiva” opposta a quella “esclusiva” che ha seminato la paura e incentivato la rincorsa agli armamenti nei decenni passati è la prospettiva più audace verso la quale è possibile tendere. L’inclusività necessita di processi collaborativi tra i vari soggetti internazionali e rende meno utopico l’obiettivo di una politica di sicurezza planetaria rivolta alla salvaguardia delle risorse e a favore della convivenza tra i popoli, e idonea a fronteggiare problemi vasti e complessi come i processi migratori, la fame e la povertà, il degrado ambientale, la disoccupazione e le questioni sociali, “aspetti legati ai vari interessi delle popolazioni e non alle ambizioni di potenza o prestigio dei governi” (58). E’ necessario pertanto, come suggeriscono Scotto e Arielli, elaborare un’Agenda europea per la pace idonea a individuare obiettivi, compiti, strumenti e ambiti d’azione dell’UE nel sistema internazionale (59). Oltre all’inclusività delle organizzazioni internazionali sono auspicabili un ricorso più ampio a processi di mediazione da condursi con impegno e coinvolgimento qualitativamente superiore agli sforzi attuali e l’abbandono dell’illusione di poter controllare i conflitti privilegiando l’uso delle minacce e le azioni militari, spesso costose e inadeguate a risolvere le situazioni e perlopiù destinate ad accrescere tensioni tra le parti, odio, spirito nazionale o di rivalsa e a estendere i conflitti stessi ad altri attori. Il CCPE, opportunamente approfondito, organizzato e sperimentato sul campo, costituirebbe un importante strumento di questo nuovo approccio alla gestione dei conflitti e alla costruzione della pace.

Michael Emerson riscontra l’importanza di tre paradigmi per l’evoluzione dell’Europa in un area di pace: la federazione, la democrazia cosmopolita e il management. La prima fondata su base territoriale ha in se “le qualità per massimizzare le sinergie tra le sue funzioni ed un’acquisizione di maggiori poteri” (60), la seconda prevede a fronte di molte regole politiche ed economiche “una giurisdizione internazionale e istituzioni che la sostengano” (61) e la coesistenza di vari centri di potere sovrapposti, flessibili, differenziati e specializzati. Il management, infine, costituisce il criterio per il funzionamento efficiente di sistemi complessi quali l’UE e induce a combinare strategie e metodi per ottimizzare le risorse disponibili e includere nel processo decisionale una pluralità di istituzioni con il ricorso a strumenti e tecnologie adeguati, puntando nel frattempo a combattere la burocrazia ed a incentivare la cooperazione internazionale. Fondere questi tre elementi in una prospettiva di sviluppo unitaria e dinamica rappresenta per l’UE una sfida impegnativa ma possibile, finalizzata a favorire le condizioni per la convivenza e l’integrazione degli stati e dei popoli in Europa. Con gli appuntamenti scanditi dalle riforme istituzionali, che purtroppo si annunciano per il momento di basso profilo, e dell’allargamento ai paesi dell’Est Europa, l’UE dovrebbe dimostrarsi capace di assumere un’identità definita e credibile soprattutto nell’ambito della sicurezza e della prevenzione dei conflitti (62).

La proposta di CCPE, purtroppo attualmente ancora relegata ai margini dei dibattiti politici ufficiali, mette in rilievo alcune questioni essenziali ed in eludibili riguardanti il processo di democratizzazione dell’UE da affrontare nell’ambito della Convenzione Europea incaricata di presentare delle proposte di riforma dell’assetto istituzionale complessivo dell’UE entro il 2003;
1) il ruolo del PE nella determinazione delle linee di sviluppo della PESC e della PESCD, attualmente consultivo e che dovrebbe diventare invece di primo piano con l’acquisizione del potere di codecisione e di controllo;
2) la scelta di quale politica estera , di sicurezza e di difesa l’UE intende perseguire in relazione ai propri valori umani, interessi politico – economici, come soggetto unitario e coeso della politica internazionale, che dovrebbe avvenire senza ambiguità individuando gli obiettivi fondamentali da raggiungere in rapporto all’evoluzione della NATO e nei confronti dagli altri soggetti internazionali;
3) il rapporto tra PE e organizzazioni della società civile nell’ambito della PESC, attraverso azioni di pace parallele e complementari, favorendo la multitack diplomacy, la costruzione di reti di sostenitori e operatori di pace (peace contituencies) e il coinvolgimento attivo delle popolazioni nella gestione dei conflitti e mediante la costruzione di un organismo autorevole e flessibile come il CCPE, strumento a servizio dell’UE, dell’OSCE e dell’ONU, capace di valorizzare le esperienze già esistenti di intervento civile e di organizzarsi in relazione alle esigenze internazionali (63);
4) il nuovo aspetto costituzionale e dell’UE, con istituzioni dotate di poteri reali, che dovrebbero configurare la nascita di un sistema federale.

L’autorevolezza delle istituzioni dell’UE dipenderà, in ultima analisi, essenzialmente dalle capacità e dai risultati, che le istituzioni stesse, se opportunamente rinnovate, sapranno garantire per scongiurare tensioni e guerre e sostenere l’affermazione dei diritti umani. L’Europa unita deve quindi avere oggi il coraggio di proporsi come soggetto attivo per la pace e promotore di una politica di sicurezza responsabile, esplorando e sperimentando l’azione nonviolenta.

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Note
1) Si usa qui volutamente il concetto generico e ampio di conflitto per sottolineare come l’attenzione sui diversi fenomeni di contrapposizione, anche latenti, presenti nella societa’ e che possono sfociare in uno scontro violento o contribuire al peggioramento della qualità dei rapporti e del vivere civile, debbano comunque essere affrontati, anche quando la loro carica di negatività per la convivenza e la pace sia ancora ridotta. I conflitti sono peraltro momenti inevitabili che nascono dall’evolversi dei rapporti sociali e possono avere esiti di crescita e mutamento anche benefici. La distinzione netta che esiste tra conflitto e guerra (termini spesso usati come sinonimi) è così evidenziata da Enrico Payretti: “un conflitto non è una guerra, fino a quando non lo si pensa risolvibile soltanro con la distruzione o sottomissione dell’avversario”, E Peyretti, Per perdere la guerra, Torino, Grandi, 1999, p.89. Johan Galtung afferma che i confflitti non possono essere risolti, ma soltanto trasformati in modo nonviolento. Per un approfondimento del suo metodo, mutuato dalla medicina e articolato in tre tappe (diagnosi, prognosi e terapia) cfr. J. Galtung, La trasformazione nonviolenta dei conflitti. Il Metodo Transcend, Torino, RGA, 2000.
2) Per una trattazzione dettagliata della storia, dei fondamenti giuridici e degli aspetti organizzativi dei “Caschi Bianchi”, termine usato per la prima volta dal governo argentino nel 1993 per indicare i civili selezionati da impiegare nell’assistenza umanitaria e nella cooperazione tecnica per lo sviluppo cfr. M.Montipò, L’alternativa dei caschi bianchi in situazioni di conflitto, in MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione) Padova (a cura di) La diplomazia è nostra. Spazio e ruolo dei cittadini nella risoluzione dei conflitti internazionali, Atti del corso di formazione, Padova, 24 e 31 gennaio 1998, suppl. al n. 10 di “Verdeuropa”, maggio 1998 (pubblicazione interamente finanziata dal Gruppo Verde al Parlamento Europeo), pp. 37-45; F.Tullio (a cura di) La difesa civile e il progetto caschi Bianchi. Peacekeepers civili e disarmati, Milano, Franco Angeli, 2000, pp. 86-92 e 96-141. Si veda anche, in riferimento al contesto italiano, P. Di Giandomenico, I Caschi Bianchi in Italia: sviluppi e prospettive, “Il Veltro”, XLIII, n. 5-6, settembre-dicembre 1999, pp. 555-581. Per informazioni sul movimento internazionale che ha ispirato una dichiarazione sui Caschi Bianchi e sulla prevenzione dei conflitti dell’ONU in occasione del Milleniul Forum, riunione delle organizzazioni nongovernative convocata dall’ONU si veda sul sito internet http://www.nonviolentpeaceforce.org. Per una panoramica con i link delle principali iniziative per dar vita ai Corpi Civili di Pace si veda, tra gli altri, il sito http://www/superaje.com/~marsin/cps.html.
3)Mary Kaldor descrive efficacemente le “nuove guerre” come lotte tra fazioni “privatizzate” in contesti nei quali gli eserciti nazionali hanno perso il monopolio della violenza legittima. Lo sgretolamento degli stati e l’affermazione di bande paramilitari pronte ad alimentare lo scontro, l’intolleranza e la persecuzione delle etnie o delle religioni differenti, a gestire i traffici illegali e i mezzi di informazione e ad impadronirsi delle risorse economiche sono fenomeni facilmente riscontrabili in diverse parti del globo. Per esperienza personale Kaldor porta come esempio di tale situazione la Bosnia-Erzegovina; cfr. M. Kaldor, Le nuove guerre; La violenza organizzata nell’età globale, Roma, Carocci, 1999 (tit. orig. New and Old War, Organized Violence in a Global Era, Polity Press, 1999). Sulle “nuove guerre” si veda anche M. Duffield, Global Governance and New Wars: the merging of Development and Security, London, Zed Books, 2001. Per una riflessione storica sui cambiamenti dei tipi di guerre cfr. E. Hobsbawn, Geraa e Pace, “Internazionale”, IX, n. 428, 15-21 marzo 2002, pp. 20-27. Per un’analisi dell’identità di gruppo come fonte di sicurezza e di potenziale contrasto con altri gruppi all’interno degli stati cfr. J.P. Lederach, Building Peace, Sustainable Reconciliation in Divided Societies, Washington, United States Institute for Peace, 1997.
4) Cfr. K. Annan, Elogio della prevenzione, “Internazionale”, VII, n. 316, 7-13 gennaio 2000, pp. 35-36.
5) L’11 aprile è entrato in vigore lo Statuto della Corte Penale Internazionale, approvato nel 1998. La Corte, con sede a l’Aja, la cui giurisdizione non è riconosciuta dagli Stati Uniti e da Israele, avrà il compito di indagare e giudicare sui più gravi crimini che colpiscono la comuità internazionale. Dopo l’esperienza di Tribunali ad hoc nel secondo dopo guerra (dai tribunali di Norimberga e Tokyo a quelli sui crimini nella ex Yugoslavia e di Arusha per il genocidio in Ruanda e a quello ancora più recente della Sierra Leone, nato da un accordo tra lo stato africano e l’ONU) esiste oggi una corte di giustizia a vocazione potenzialmente universale. Per un approfondimento cfr. P. De Stefani, La Corte penale internazionale. Verso la “globalizzazione” della giustizia, “Aggiornamenti Sociali”, n. 6, 2002, pp. 490-500.
6) Per approfondire l’esame dei conflitti e un modello di escalation cfr. E.Arielli, G.Scotto, I conflitti. Introduzione a una teoria generale, Milano, Bruno Mondadori, 1998, pp. 88-97. Sulla ricostruzione di uno specifico conflitto cfr. G. Scotto, E. Arielli, La guerra del Kosovo. Anatomia di un’escalation, Roma, Editori Riuniti, 1999. Sul ruolo delle organizzazioni nongovernative cfr. G. Scotto, La prevenzione dei conflitti e le organizzazioni non governative, “Affari Esteri”, XXXIII, N. 132, 2001, pp. 815-826.
7) Barry Buzan ha proposto una riconcettualizzazione della sicurezza fondata su almeno cinque dimensioni: 1) militare (capacità offensive e difensive reali e percezioni soggettive delle stesse); 2) politica (stabilità degli stati in quanto istituzioni sovrane e società organizzate); 3) economica; 4) sociale (lingue, specificità e tradizioni culturali, religiose come realtà in mutamento, da tutelare come elementi identitari, ma anche elementi forieri di conflitti); 5) ambientale (mantenimento della biosfera e degli ecosistemi locali); cfr. B. Buzan, People, States and Fear. An Agenda for International Security Studies in the Post-Cold War Era, Hempstead,Wheatsheaf, 1991, pp. 19-20 . Il concetto di sicurezza multidimensionale è stato inserito anche nel paragrafo 25 del nuovo Concetto Strategico della NATO elaborato nell’aprile 1999, nel summit di Washington in occasione del cinquantenario della nascita dell’Alleanza Atlantica, che recita: “L’Alleanza si impegna in un approccio ampio alla sicurezza, che riconosce l’importanza dei fattori politici, economici, sociali ed ambientali in aggiunta all’indispensabile dimensione della difesa cfr. F. Tullio (a cura di) La difesa civile …, cit., nota 8, p. 21.
8) Sui conflitti ambientali cfr. T. Homer – Dixon, Environment, Scarcity and Violence, Princeton (NJ) Princeton University Press, 1999; P.F. Diehl, N.P. Gleditsch, Environmental Conflict, Boulder (CO), Westview Press, 2001. Sull’argomento si veda anche il seguente saggio M.T. Klare, La nuova geografia dei conflitti, in “Concetti Chiave. Nuove direzioni del pensiero globale”, n. 5, settembre 2001, pp. 59-71.
9) Risoluzioen sul funzionamento del trattato sull’Unione europea nella prospettiva della Conferenza intergovernativa del 1996. Attuazione e sviluppo dell’Unione, I. Obiettivi e politiche dell’Unione – A. Una veraarticolazione della politica estera e di sicurezza comune (PESC), punto 3, capoverso V), “Europa” (Agence Internazionale d’Information pour la presse) /Documenti n. 1936/37, 25 maggio 1995, P. 4.
10)Su questo tema cfr. A. Langer, Nuovo regionalismo e federalismo europeo. Una lezione importnate da imparare, “Comuni d’Europa”, settembre 1991, p. 3-4; ID., Diversità, autodeterminazione e cooperazione dei popoli: vie di pace, in ID., La scelta della convivenza, Roma, e/o, 1995, pp. 84-85. Tra le principali raccolte dei suoi scritti, che testimoniano un generoso e costante impegno politico, sociale e culturale in favore della pace, della tutela dell’ambiente e delle minoranze cfr. ID., La scelta della convivenza, Roma, e/o, 1996; ID., Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, acura di Edi Rabini, Palermo, Sellerio, 1996.
11) Per un approfondimento della proposta originariacfr. A. Langer, E. Gulcher, Un Corpo Civile Europeo di Pace, “Azione nonviolenta”, ottobre 1995,pp. 11-13. Langer, dopo un’intensa attività per ristabilire il dialogo e dare una speranza alla pace promuovendo diverse iniziative di dialogo e aiuto umanitario plurietniche, profondamente turbato dall’incapacità europea di intervenire nella crisi della ex Yugoslavia per impedire gli orrendi stermini che vi furono perpetrati, lasciò questa proposta come preziosa testimonianza concreta della sua azione pochi mesi prima di porre fine alla sua esistenza a Firenze il 3 luglio 1995.
12) Langer si adoprò per sollecitare una decisa azione dellUE al fine di sradicare la violenza in terra Yugoslava in collaborazione con quella parte di popolazione civile ivi presente desiderosa di pace sostenendo la necessità di alcuni passi necessari come il ristabilimento del valore del diritto, l’offerta di un’integrazione nell’UE e del massimo sostegno alle persone, gruppi e reti organizzate intenzionate a ricostruire la convivenza civile, l’attività di prevenzione in zone dove il conflitto rischiava di esplodere in maniera violenta (come si verificò di lì a pochi anni in Kosovo) e l’organizzazione di almeno una parte del volontariato internazionale già impegnato nelle aree di conflitto in Corpo Civile Europeo di Pace; cfr. A. Langer, L’Europa muore o rinasce a Sarajevo, “La terra vista dalla luna”, luglio 1995 e in ID., La scelta della convivenza, cit., pp. 87-94.
13) Il Gruppo Verde al PE organizzò il 6 novembre 1995 a Bruxelles, una tavola rotonda “For a European Civil Peace Corps”, invitando per un confronto sulla proposta ricercatori, esperti internazionali, esponenti di associazioni pacifiste. Successivamente, il 28 e 29 aprile 1997, sempre nella capitale belga, promosse una conferenza per affrontare l’insieme delle iniziative elaborate in tema di prevenzione civile dei conflitti e di disarmo, intitolata “Civilian Conflict Prevention as a Part of the EU Common Foreign and Security Policy including the European Civilian Peace Corps”, all’interno della quale venne presentata una relazione provvisoria dal ricercatore Arno Truger sul concetto di Corpo Civile di Pace Europeo, frutto del lavoro di una task force che aveva sviluppato il progetto Langer – Gulcher con il contributo dell’Austrian Study Center for Peace and Conflict Resolution di Stadtsclaining. Nel 1997 è nata la Piattaforma europea per la prevenzione dei conflitti armati che ha il compito di collegare e coordinare gruppi, associazioni ed enti che operano in ambiti diversi (diritti umani, cooperazione allo sviluppo, costruzione della pace, azioni umanitarie, ecc…) e ha un proprio sito internet: http://www.euroconflict.org .Tra i suoi contributi cfr. From Early Warning to Early Action, A Report on the European Conference on Conflict Prevention, Amsterdam, NCDO, 1997. Allo scopo di creare servizi Civili di Pace in vari paesi è stata recentemente costituita una rete di coordinamento di organizzazioni, l’European Network of Civil Peace Services (ENCPS); cfr; K. Giacinti, A. Rossi, In Italia il meeting annuale dell’European Network for Civil Peace Services, “Azione Nonviolenta”, giugno 2002, pp. 12-13 e il sito internet dell’ENCPS: http://www.4u2.ch . Attualmente è in via di costruzione un’esperienza pilota di Corpo Civile di Pace Internazionale che dovrebbe entrare in azione, nell’arco del 2003, nello Sri Lanka.
14) La relazione sul documento fu presentata per il PE da Per Garthon, europarlamentare verde svedese, il 28 gennaio 1999. Paolo Bergamaschi e Ernst Gulcher, collaboratori del Gruppo Verde al Parlamento Europeo, insieme ad Arno Truger furono i redattori della raccomandazione, frutto di un confronto europeo pluriennale tra diversi interlocutori (partiti, organizzazioni nongovernative, enti di ricerca, esperti ecc…). Per il testo del documento approvato e l’allegato illustrante il concetto di CCPE, dal quale provengono le successive citazioni qui proposte rigurdanti lo stesso CCPE, cfr. P. Bergamaschi, Istruire un Corpo Civile Europeo di Pace. Una buona idea che prende corpo…, “Azione nonviolenta”, marzo 1999, pp. 10-13. Cfr. anche la proposta integrale presentata da Garthon: www.transnational.org/forum/meet/2000CivEUCorps.html .
15) La ECHO gestisce un fondo di emergenza a favore delle vittime di catastrofi naturali o di conflitti, un fondo speciale per le esigenze dei profughi di lungo periodo e gli sfollati, un fondo per l’assistenza umanitaria a favore dell’Europa orientale e un fondo speciale per le derrate alimentari.
16) Sulle potenzialità e l’attività per la prevenzione dei conflitti dell’Organizzazione per la sicurezza e la Cooperazione Europea, derivante dalla precedente Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione Europea e istituzionalizzatasi nel 1994, cfr. S. Recchia, Conlict Prevention throught Multilateral Co-operation: a Comparative Framework Analysis, Research Paper n°7, Italian Ministry of Foreign Affairs, Policy Planning Unit, december 2001.
17) L’Organizzazione per l’Unità Africana, attiva dal 1963 e comprendente oltre cinquanta paesi del continente africano, aveva come obiettivi la promozione dell’unità e della solidarietà tra gli stati aderenti, il coordinamento di iniziative finalizzate al miglioramento della qualità della vita dei popoli, la difesa dell’integrità e della sovranità degli stati e l’armonizzazione delle politiche nazionali in campo diplomatico ed economico. Nel recente vertice dell’OUA, svoltosi a Durban dall’8 al 10 luglio 2002, essa si è disciolta per darevita all’Unione Africana (UA), nuova organizzazione costituitasi sull’esempio dell’UE, ricalcandone largamente la struttura istituzionale (Parlamento, Commissione, Banca Centrale, Corte di Giustizia, Consiglio dell’Unione) e che entrerà in funzione gradualmente, in base al reperimento dei finanziamenti necessari al funzionamento. E’ previsto un Consiglio di pace e di sicurezza con il compito di prevenire e gestire i conflitti ed è ammesso il diritto di ingerenza negli affari interni dei singoli stati (prima non previsto), in caso di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
18) L’Organizzazione degli Stati Americani, è sorta nel 1948 allo scopo di risolvere pacificamente le controversie tra gli stati membri e rafforzare la sicurezza nel continente americano.
19) “Al fine di agevolare la creazione del CCPE in base alle risorse disponibili (…) e far fronte all’insieme delle esigenze”, si prevedeva, pertanto, “un continuo ampliamento del CCPE, iniziando con un progetto pilota seguito da costanti operazioni di controllo e da adeguamenti perfettamente sintonizzati”.
20) Con l’inizio dell’ultima legislatura del PE (1999-2004) è ripresa l’iniziativa legata al progetto del CCPE, su spinta dell’interguppo parlamentare “Iniziative di pace”, presieduto da Luisa Morgantini, eurodeputata eletta come indipendente nel Gruppo Sinistra Verde Europea/Sinistra Nordica, che ha organizzato una conferenza dal titolo “Corpi Civili di Pace Europei: verso un’efficace politica europea per la trasformazione dei conflitti”. Per un approfondimento sulla conferenza e sulle iniziative nazionali e internazionali in corso cfr. A. Rossi, F. Tullio, Sicurezza europea e gestione costruttiva dei conflitti. Ruolo e strumenti della società civile, in “Europa-Europe” X, n° 2-3, 2001, pp. 219-224.
21) Comunicazione della Commissione concernente la prevenzione dei conflitti (com 2001-211)
22) Cfr. PE, doc. di seduta, A5-0394/2001, Relazione sulla Comunicazione della Commissione concernente la prevenzione dei conflitti (COM (2001) 211-C5-0458/2001 – 2001/2182 (COS)), 9 novembre 2001, Commissione per gli affari esteri, i diritti dell’uomo, la sicurezza comune e la politica di difesa, relatore; Joost Lagendijk (Gruppo Verdi Alleanza Libera Europea); PE., doc. di seduta A5-0394/2001, Risoluzione del PE sulla comunicazione della Commissione sulla prevenzione dei conflitti, cit., processo verbale del 13 dicembre 2001 (documenti allegati). Sull’argomento è stato svolto un workshop “Difesa civile e difesa militare. Elementi di formazione comune di militari e civili impegnati in missioni internazionali di pace, prevenzione dei conflitti, interposizione, ricostruzione della sicurezza, convivenza e democrazia”, promosso dalla fondazione Alex Langer Stifung e dall’EURAC (European Academy of Bozen/Bolzano) svoltosi presso il Comune di Bolzano il 14 e 15 marzo 2002. Per un intervento recentedi uno dei promotori del CCPE allo scopo di ribadire l’urgenza di una nuova politica estera e di sicurezza bilanciata dal lato civile dopo i recenti sviluppi della politica di difesa dell’UE cfr. P. Bergamaschi (a cura di), L’Europa della difesa comune e dei mercanti d’armi, non vuole far nascere il Corpo Civile europeo di Pace, “Azione non violenta”, n°3, marzo 2002, pp. 8-9.
23) Tra queste erano elencate “le tensioni che derivano da contrasti etnici, religiosi, ideologici ed economici, qualsiasi forma di terrorismo, la criminalità organizzata e il traffico di droga, la lotta per il controllo del commercio di materie prime e in particolare di diamanti, la mancanza di democrazia nonché il degrado dell’ambiente e le questioni relative alle acque”.
24) Per il testo del programma cfr. L’Unione Europea e la prevenzione dei conflitti, in “Affari Esteri”, cit., pp. 865-870.
25) Sempre a proposito della prevenzione dei conflitti si veda il Rapporto del Segretario Generale alla riunione dell’Assemblea Generale dell’ONU e del Consiglio di Sicurezza del 7 giugno 2001; cfr. K. Annan, La prevenzione dei conflitti e le Nazioni Unite. Il Rapporto del Sgretario Generale, ivi, pp. 858-960.
26) Cfr. V. Savastano, Il mantenimento della pace e il sostegno dei rifugiati, ivi, pp.849-857.
27) Cfr. Dichiarazione del Consiglio europeo di Laeken, Allegato II.
28) Cfr. G. Vilella (a cura di), Osservatorio Parlamentare Europeo. Il Consiglio di Laeken alla luce degli orientamenti parlamentari, “Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario”, XII, n°1, 2002, pp. 236-237.
29) Per un’analisi delle attuali prospettive della NATO cfr. T. Galen Carpenter (a cura di), NATO enters the twenty-first Century, London, Frank Cass, 2001. Sui rapporti tra NATO e UE cfr. S. Kay, NATO and the Future of European Security, Bpston, Rowmann and Littlefield, 1998; M. De Leonardis, Europa-Stati Uniti: un Atlantico più largo?, Milano, Franco Angeli, 2001; R. E. Hunter, The European Security and Defense Policy. NATO’s Companion – or Competitor?, Santa Monica (California), RAND, 2002 (rocerca condotta da istituzioni no profit, RAND Europe e International Security and Defence Policy Center del RAND’s National Defense Research Institute, finanziate dal Segretariato alla Difesa degli Stati Uniti).
30) Per uno studio storico sugli sviluppi della politica estera e di sicurezza comune dalle origini del processo comunitario europeo fino alla prima fase della crisi dell’ex Jugoslavia, corredato da un’ampia bibliografia ragionata, cfr. D. Veneruso, La politica estera e di sicurezza comune in Europa, “Studium”, XCVIII, 2002, pp. 195-222. Per un inquadramento generale della PESC e delle prospettive di sviluppo della gestione militare e civile dei conflitti fino al Consiglio europeo di Helsinki cfr. G. Grimaldi, La politica europea di sicurezza e di difesa comune. Attualità, progetti e proposte, “Il Politico”, LXVI, n°3, 2001, pp. 383-421. Tra i contributi internazionali più recenti sull’argomento cfr. C. Hill, K. E. Smith (a cura di), European Foreign Policy: Key Documents, London, Routledge, 2000; N. Winn, C. Lord, EUForeign Policy beyond the Nation-state: joint actions and institutional analysis of the Common and Foreign Security Policy, Basingstoke, Palgrave, 2001; C. G. Cogan, The Third Option: The Emancipation of European Defense, 1989-2000, Westport, Praeger, 2001; B. White, Understanding European Foreign Policy, Basingstoke, Palgrave, 2001. Si veda anche un articolo dell’Alto Rappresentante della PESC: J. Solana, La politique européenne de sécurité et de défense (PESD) etst devenueopérationelle, “Revue du Marché Common et de l’Union Européenne”, n°457, avril 2002, pp. 213-215. Per una recente indagine sull’opinione di un campione scelto di cittadini europei sulla politica di sicurezza e di difesa europea cfr. C. Finizio, L’esercito europeo non entusiasma gli europei, “Limes”, n°3, 2002, pp. 259-272. La prima esercitazione militare comune dell’Unione Europea denominata Crisis Management Exercise 2002 (CME 02) si è svolta dal 22 al 28 maggio 2002; cfr. (EU) UE/Difesa: la prima esercitazione militare ha permesso di individuare le misure da prendere per migliorare la fase pre-decisionale di gestione delle crisi, “Bulletin Quotidien Europe”, n°8228, 8 giugno 2002, pp. 7. Il 1° luglio 2002, a Parigi, l’Alto Rappresentante della PESC ha inaugurato il nuovo Istituto di Studi di Sicurezza, diretto da Nicole Gnesotto, che costituisce un’agenzia autonoma dell’UE, nata allo scopo di sviluppare ricerche per la difesa europea, di preparare analisi per il Consiglio e i suoi organi e di contribuire al dialogo euro-atlantico; cfr. (EU) UE/Sicurezza: Solana alla prima conferenza annuale dell’ISS, “Bulletin Quotidien Europe”, n°8244, 29 giugno 2002. Si veda anche il sito internet dell’Istituto: www.iss-eu.org .
31) Cfr. Conclusioni del Consiglio europeo di Helsinki, Allegato 2 dell’allegato IV.
32) Tra le novità è da ricordare l’avvio della missione di polizia dell’UE in Bosnia Erzegovina a partire dal 1° gennaio 2003 con durata di 3 anni e con il compito di addestrare la polizia locale e lo stato di diritto; cfr. (EU) UE/Balcani; sfida della missione di polizia dell’UE in Bosnia Erzegovina, “Bulletin Quotidien Europe”, n°8405, 21 febbraio 2003, pp. 6. A proposito degli obiettivi fissati al Consiglio di Helsinki, il Ministro della Difesa della Grecia – il paese che preside il Consiglio dei Ministri dell’UE nel primo semestre del 2003 – ha avanzato perplessità sulla possibilità che l’UE riesca a dotarsi di una Forza di Reazione Rapida di 60.000 uomini entro l’anno e ha ipotizzato un ritardo di un biennio sui tempi previsti, mentre lUE sostiuuirà la NATO nella missione Allied Harmony in Macedonia (compito accolto con favore dalla Commissione Affari Esteri del PE che ha però criticato, in un progetto di risoluzione adottato, la mancata informazione tempestiva al PE in particolare sulle conseguenze finanziarie della stessa missione); cfr. (EU) PE/NATO: Papantonou ammette che forse ci vorremmo due anni in più del previsto perché la Forza di Reazione Rapida raggiunga i 60.000 uomini, “Bulletin Quotidien Europe”, n°8405, 21 febbraio 2003, pp. 5.
33) In particolare i programmi di cooperazione sugli armamenti, dopo un primo impulso avuto nel biennio 1999-2000 con le fusioni e le concentrazioni dei principali gruppi industriali, hanno subito un impasse divergente tra gli stati membri sui programmi di sviluppo comune (in particolare per quanto riguarda il modello A400M per l’aviotrasporto). Sull’argomento si veda il dossier della campagna “Sbilanciamoci” promossa da oltre trenta organizzazioni della socità civile in Italia per lo studio delle spese militari a livello italiano ed europeo in relazione ai trend mondiali e per sostenere le proposte alternative di spesa pubblica alternativa dirottando risorse economiche dal settore militare per reimpiegarle a favore di politiche di promozione dei diritti, di pace e di solidarietà internazionale, di tutela dell’ambiente: Economia a mano Armata. Gli intrecci tra industria, finanza e spesa militare in Italia, a cura di Sbilanciamoci! E. di “Altreconomia”, s. l., 2002.
34) Per uno schema cpmpleto dei compiti di una terza parte nel corso di un conflitto si veda la tabella riassuntiva di Giovanni Scotto in F. Tullio (a cura di) La difesa civile e il progetto Caschi Bianchi. Peacekeepers civili e disarmati, cit. p. 36.
35) P. De Stefani, M. Mascia, Percorsi di pace nel villaggio planetario. Esperienze, documenti, proposte per la diplomazia popolare, Verona Bertani, 1994, p. 45, scheda 4 “La diplomazia popolare” (pp. 45-47).
36) Sull’argomento e in particolare sulle strategie d’intervento in difesa dei diritti umani a livello internazionale cfr. Amnessty International, Diritti senza pace. Difendere la dignità umana nei conflitti armati, San Domenico di Fiesole 4FI), Edizioni Cultura di Pace, 1998.
37) Esempi noti sono la controconferenza convocata simultaneamente alla Conferenza mondiale su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro nel giugno 1992, quella organizzata a Vienna prima della Conferenza mondiale sui diritti umani nel giugno 1993 e ancora la Conferenza civica per la pace e la riconciliazione della ex Jugoslavia (Verona Forum), promossa da Langer e riunitasi diverse volte per dare voce ai rappresentanti di numerosi gruppi e di varie etnie impegnati insieme a dialogare per la pace in opposizione alla logica di divisione e nazionalismo che aveva generato la guerra.
38) Da citare per esempio l’apporto determinante di Amnesty International alla Convenzione internazionale contro la tortura nel 1984.
39) In merito alla spiegazione e al resoconto di varie iniziative di diplomazia popolare praticate da ONG italiane e internazionali cfr. MIR Padova (a cura di) La Diplomazia è nostra. Spazio e ruolo dei cittadini nella risoluzione dei conflitti internazionali, cit.
40) L. Reychler, Field Diplomacy: a New Conflict Prevention Paradigm?, “Peace and Conflict Studies”, July 1997, p. 40 (pp. 35-47).
41) “Come ne caso di un bambino non lo si può adottare per una settimana o per un mese, ma richiede un impegno a lungo tempo. Gli sforzi devono essere credibili. La prevenzione di un conflitto e la riconciliazione richiedono con ogni probabilità un percorso difficile e a lungo termine”, ivi, p. 43.
42) Il sociologo e attivista nonviolento Alberto L’Abate ha presentato un rapporto su sette ONG che hanno lavorato in Kossovo per tutti gli anni novanta al “Forum del Kosovo” svoltosi a Vienna dal 18 al 20 aprile 1997 e al già citato convegno “La politica di prevenzione civile dei conflitti come parte della politica estera e di sicurezza comune nell’Unione Europea”, organizzato dal Gruppo Verde Europeo con la collaborazione del “Forum europeo di prevenzione civile dei conflitti”, tenutosi a Bruxelles il 28 e 29 aprile 1997; cfr. A. L’Abate, Prevenire la guerra nel Kossovo per evitare la destabilizzazione dei Balcani, Molfetta (BA), La Meridiana, 1997 e dello stesso autore, Kossovo; una guerra annunciata. Attività e proposte della diplomazia non ufficiale per prevenire la destabilizzazione dei Balcani, La Meridiana, 1999. In Italia era stata attivata una Campagna per la soluzione nonviolenta del problema del Kossovo: un resoconto del bilancio di queste attivitàà è contenuta nel rapporto Kossovo: una guerra non guerreggiata, presentato al Gruppo per la costituzione dei Corpi Europei Civili di Pace al Parlamento Europeo a Bruxelles, il 26 giugno 1996. Cfr. anche Resistenza nonviolenta nella ex – Jugoslavia: dal Kossov la testimonianza dei protagonisti, Bologna, EMI, 1993. Un ampio contributo su questo argomento che, partendo dall’analisi delle vicende del Kosovo illustra una serie di proposte ed iniziative a “tutto campo” per la pace è il libro scritto da un altro testimone diretto del conflitto, Giulio Marcon, Presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà (un coordinamento di più di 100 associazioni e ONG attive nei Balcani): G. Marcon, Dopo il Kosovo. Le guerre nei Balcani e la costruzione della pace, Trieste, Asterios editore, 2000. Sempre su questo tema cfr. M. Cereghini, Il funerale della violenza. La Teoria del conflitto nonviolento e il caso Kossovo, Gorizia, Istituto di Sociologia Internazionale, 2000.
43) Cfr. Alberto L’Abate, Consenso, conflitto, mutamento sociale, Milano Angeli, 1990. Come strategia in sintesi, Peyretti suggerisce: “Non cercare ne prospettare un risultato a somma zero, cioè con tutto il guadagno da una parte e tutta la perdita dall’altra (…), bensì un risultato a somma inferiore per ciascuno, ma positivo per entrambi”, E. Payretti, op. cit., p. 90.
44) Cfr. G. Frison, Un istituto nazionale di ricerca e formazione sulla pace e la risoluzione dei conflitti, in MIR (a cura di), La diplomazia è nostra, op. cit., pp. 49-52; MIR Padova, Associazione Beati i Costruttori di Pace Padova, Gli Istituti e i Centri Internazionali di Ricerca per la Pace, stampato in proprio, Padova, dicembre 1999. Per un quadro storico e di evoluzione concettuale delle scienze della pace cfr. R. Altieri, Le scienze per la pace e la formazione al metodo nonviolento, “Quaderni Satyagraha”, n°1, 2002, pp. 5-25.
45) R. Venditti, La difesa popolare nonviolenta: storia, teoria, esempi concreti, “Eirene – studi per la pace”, Bergamo, paper n°16, aprile 1996, p. 9. Per una panoramica completa cfr. Centro Studi Sereno Regis – MIR Padova, Manuale di difesa civile nonviolenta, Torino, 1998.
46) Cfr. G. Sharp, Politica dell’azione nonviolenta: la dinamica, vol. III, Torino, EGA, 1985.
47) Cfr. E. Arielli, G. Scotto, I conflitti. Introduzione a una teoria generale, cit., pp. 221 e ss. e G. Scotto, E. Arielli, La guerra del Kosovo, cit;., pp. 52-53.
48) Riguardo ad alcune ipotesi riguardanti la costituzione di specifici Corpi Civili di Pace Internazionali cfr. K. Butigan (a cura di), I Corpi Civili di Pace sono una possibile risposta alla guerra, “Azione nonviolenta”, n°4, aprile 2000, pp. 10-11.
49) J. M. Muller, Vincere la guerra. Principi e metodi dell’intervento civile, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1999 (tit. orig. Principes et méthodes de l’intervention civile, Paris, Desclée de Brouwer, 1997), p. 158. Per un recente studio del Centro Studi Difesa Civile (CSDC), Le ONG e la trasformazione dei conflitti. Le operazioni di pace nelle crisi internazionali. Analisi, esperienze, prospettive, Roma, Edizioni Associate Editrice Internazionale, 2002.
50) Si può qui accennare all’avvio di studi che sviluppano la “valutazione di impatto sulla pace e sui conflitti”, filone che intende elaborare procedure analoghe a quelle previste per la valutazione di impatto ambientale adottata per la ricostruzione di grandi opere. Per ulteriori informazioni cfr. K. Bush, A Measure of Peace: Peace and Conflict Impact Assessment (PCIA) of Development Projects in Conflict Zones, Ottawa, International Development Research Centre, 1998; L. Reychler, Democratic Peace – Building and Conflict Prevention, Leuven, Leuven University Press, 1999.
51) Già Immanuel Kant nel saggio La pace perpetua (1795) “aveva espresso la critica internazionale inteso come diritto alla guerra, la critica a un sistema politico (…) incapace di trasferire nei rapporti internazionali l’ordine, il dominio delle leggi attuali all’interno degli stati. E aveva affermato, stabilendo un nesso inscindibile tra pace, diritto e federazione, che la pace è un’organizzazione volta a impedire agli uomini o agli stati di impiegare la violenza per risolvere i loro contrasti”; D. Preda, Idee di pace tra prima e seconda guerra mondiale, in M. G. Palumbo, R. Repetti (a cura di), Gli orizzonti di pace. La pace e la costruzione dell’Europa (1713 – 1995), Genova, ECIG, 1996, p. 229, nota 10.
52) Lord Lothian (P.H. Kerr), Il pacifismo non basta, Bologna, il Mulino, 1986, p. 50 (tit. orig. Del saggio da cui è tratta la citazione P.H. Kerr, The Prevention of War, in L. Curtis, P.H. Kerr, The Prevention of War, New Haven, Yale University Press, 1923). Lord Lothian aggiungeva: “non si può umanizzare la guerra, si può soltanto abolirla”. Egli riteneva inoltre che la causa psicologica della guerra risiedesse nell’egoismo nazionale mentre quella meccanica fosse “la divisione dell’umanità in stati sovrani e divisi”; ivi, p.50 e p. 88.
53) Sul dibattito internazionale agli inizi degli anni Novanta cfr. G. Devoto (a cura di), Il disarmo in Europa. Da Vienna a Parigi: gli accordi sulla riduzione delle forze convenzionali, Milano, Franco Angeli, 1991.
54) Per contrastare il preoccupante fenomeno della proliferazione delle armi leggere (light weapons) costituite da pistole, mitragliatrici, fucili, granate, mortai, mine terrestri e responsabili della maggior parte delle uccisioni del mondo (circa l’80% delle vittime dei conflitti recenti secondo la stima effettuata da uno studio dell’Archivio Disarmo di Roma) e che rappresentano, secondo lo studioso statunitense Michael Klare il 10-20% del commercio mondiale degli armamenti con valore stimato tra i 5 e i 10 miliardi di dollari all’anno, è sorta nel maggio 1999 la Coalizione internazionale sulle armi leggere (IANSA); cfr. S. Di Lellis, Migliaia di piccole armi per grandi massacri, “La Repubblica”, 1 dicembre 1999, p. 19 e L. Bertozzi, Armi leggere danni pesanti, “Rocca”, 1 marzo 2000, pp. 27-29. Nel 2001 si è svolta la prima conferenza dell’ONU sul controllo delle armi leggere che è fallita a causa dell’opposizione degli Stati Uniti in merito all’adozione di misure di controllo internazionali.
55) Dei 49 conflitti regionali in corso dal 1990, 46 sono stati condotti esclusivamente con armi leggere e solo la Guerra del Golfo è stata contraddistinta dall’uso predominante delle armi pesanti. Le armi leggere possono essere prodotte a basso costo anche nei paesi in via di sviluppo (secondo stime dell’ONU i paesi produttori sono aumentati del 25% a partire dalla metà degli ani ottanta). Tuttavia i paesi leader nella produzione sono Stati Uniti (fucile M – 16), Russia (il noto Kalashnikov o AK 47), Germania (fucile G3), Belgio (fucile Fal), Svizzera, Italia (pistole Beretta), Austria, Repubblica Ceca e Israele (pistola mitragliatrice Uzi). Questearmi, a volte cedute gratuitamente ai paesi del terzo mondo per evitare onerose spese di eliminazione o custodia, sono di facile impiego e utilizzabili anche dai bambini, sono trasportabili anche in luoghi accidentali e possono infliggere gravi perdite al nemico. Per i dati esposti si veda L. Bertozzi Armi leggere danni pesanti, cit. ; nell’articolo, oltre a essere riportate stime e statistiche di vari paesi del mondo, viene anche evidenziato il ruolo dell’Italia nella fornitura di armi durante la guerra civile in Sierra Leone e in merito alla mancanza di trasparenza del commercio di armi leggere classificate come armi civili da caccia o di tipo sportivo e per questo motivo sottratti ai controlli.
56) A. Langer, Diversità, autodeterminazione e cooperazione dei popoli: vie di pace, cit., p. 85.
57) Per una trattazione di questo approccio alle relazioni internazionali di tipo idealistico, secondo il quale la società mondiale formata da individui è minacciata e attraversata da guerre che sono prodotti della cultura insita nell’anarchia internazionale, in una frammentazione politica che genera contrapposizione violenta, si rinvia a A. Papisca, M. Mascia, Le relazioni internazionali nell’era dell’interdipendenza e dei diritti umani, Padova, CEDAM, 1997.
58) P? De Stefani, M. Mascia, Percorsi di pace nel villaggio planetario, cit., p. 13; scheda 2 “La sicurezza internazionale secondo il principio di solidarietà”, pp. 13-15.
59) Cfr. G. Scotto, E. Arielli, La guerra del Kossovo, cit., pp. 199-208.
60) M. Emerson, Ridisegnare la mappa dell’Europa, Bologna, Il Mulino, 1999, (tit. orig. Redrawings the Map of Europe, London, Macmillian, 1998), p. 267.
61) Ivi, p. 266.
62) Un’esortazione ad elaborare “una vera e propria riflessione strategica e (…) una dottrina politica euriopea fondate sulla prevenzione dei conflitti”, proviene anche dalla ricerca pubblicata dal Gruppo di Ricerca e di Informazione sulla Pace e la Sicurezza (GRIP) nel maggio 2002. Essa propone di definire in maniera più chiara le missioni di Petersberg che, in base a quanto stabilito dal Consiglio dei Ministri dell’UE nel giugno 1992, comprendono una vasta gamma di azioni, dal peace – keeping (missioni umanitarie e di soccorso, attvità di mantenimento della pace) al peace – enforcement (missioni di rafforzamento della pace) e al peace – making (missioni militari di interposizione e intervento nelle crisi, inclusi gli interventi per il ristabilimento della pace e l’evacuazione della popolazione in pericolo). Il GRIP consiglia, inoltre, di accelerare lo sviluppo della capacità civile di gestione delle crisi dell’UE, di considerare le proposte del PE (tra cui quella del CCPE) e di stendere il mandato dei rappresentanti speciali inviati in missione nelle zone calde; cfr. F. Nkundabagenzi, C. Pailhe, V. Peclow, L’Union européenne et la prévention des conflits. Concepts et instruments d’un novel acteur, GRIP Report 2000-2002.
63) Per un approfondimento sul ruolo attuale del PE e una valutazione delle sue performances, in assenza di poteri diretti sulla PESC cfr. D. Viola, European Foreign Policy and the European Parliament in the 1990’s, Aldershot, Ashgate, 2000.

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