Istituto di Ricerche Internazionali
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Bambini soldato: problemi e prospettive
di Marina Aragona

INDICE

Introduzione…………………………………………………………………………………………………….1

1 - LEGISLAZIONE INTERNAZIONALE……………………………………………………………….3

2 - LE RISOLUZIONI DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA…………………………………………..4

3 - GLI EVENTI PRINCIPALI………………………………………………………………………………4

4 - RICONVERSIONE DEI BAMBINI SOLDATO…………………………………………………….5
ÿ I FASE:
1. Disarmo………………………………………………………………………………………………….5
1.2 Disarmo e traffico di armi………………………………………………………………………….....5
2. Smobilitizazione…...……………………………………………………………………………………6
ÿ II FASE
1.Riabilitazione……………………………………………………………………………………………..8
ÿ III FASE
1. Reintegrazione…….………………………………………………………………………………….10
ÿ Bambini Rifugiati e Sfollati……………….……………………………………………………………..12

5 - COSA SI STA FACENDO IN CONCRETO?..........................................................................12

6-ANALISI DI ALCUNI PAESI……………………………………………………………………….......15

7- RACCOMANDAZIONI DEL SEGRETARIO GENERALE………………………………………22

8- IMPUNITA’………………………………………………………………………………………………..23
8.1 Crimine del reclutamento dei minori e Tribunale Penale Internazionale…………………………23
8.1.1 Crimini di guerra e reclutamento di minori ………………………………………………………..24
Processo a Thomas Lubanga Dylo………………………………………………………………………….26
Arresto di cinque capi dell’LRA…………………………………………………………………………….27
8.3 Il crimine di reclutamento dei minori e il Tribunale Speciale della Sierra Leone………………28
Processo a Charles Taylor…………………………………………………………………………………...28
8.4 Crimini commessi dai bambini soldato e loro perseguibilità……………………………………….29
Sentenze di condanna di Alex Tamba Brima, Brima Bazza Kamara e Santigie Borbor Kanu……..29
Uno sguardo alla situazione in RDC……………………………………………………………………….31

9 - OSSERVAZIONI CRITICHE………………………………………………………………………..33
A) Quali limiti nelle politiche statali?.........................................................................................33
B) Quali possibili soluzioni?....................…………………………………………………………….36

CONCLUSIONI……………………………………………………………………………………………….41

BIBLIOGRAFIA…………………………………………………………………………………………………………


Introduzione

A 10 anni dalla pubblicazione del Rapporto di Graça Marchel “L’impatto dei conflitti armati sull’infanzia”, Ms.Coomaraswamy, Rappresentante Speciale del Segretario Generale per i bambini in situazioni di conflitto armato, in data 17 ottobre 2007, in collaborazione con l’Unicef, ha presentato il Rapporto “Children and Conflict in a Changing World”, una valutazione sugli effetti dei conflitti armati sui bambini.
Alla successiva sessione del 21 dicembre 2007, il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, nel suo Rapporto Annuale “Children and Armed Conflict” (A/62/609-S/2007/757, ha informato il Consiglio di Sicurezza circa i dati raccolti, sul tema, da Ms.Coomaraswamy; dal Rapporto si evince che i bambini continuano ad essere arruolati ed impiegati nei conflitti armati, in più di una dozzina di Paesi.
Successivamente, in data 12 febbraio 2008, il C.d.S., in occasione del sesto anniversario dell’approvazione del Protocollo Opzionale alla Convenzione sui diritti dell’infanzia sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati, ha tenuto un dibattito aperto sui bambini in guerra. Nel corso della discussione, rappresentanti di decine di Nazioni hanno parlato della piaga dei bambini costretti a partecipare ai conflitti armati.
Nello stesso giorno, con un comunicato stampa dell'ONU, il Rappresentante Speciale ha lamentato la mancanza di azione contro chi arruola ed impiega i bambini nei conflitti. Ms.Coomarasw ha, pertanto, raccomandato al Consiglio di Sicurezza di adottare dei provvedimenti volti a limitare l’attività dei leader, quali ad esempio, l'embargo sulle armi e le restrizioni all'assistenza militare per gli aggressori.
Nel Rapporto "Children and Armed Conflict", relativo alle missioni in loco del Rappresentante Speciale nel periodo dall'ottobre 2006 all'agosto 2007, vengono citati Paesi come Afghanistan, Burundi, Ciad, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Myanmar, Nepal, Filippine, Somalia, Sudan, Sri Lanka e Uganda, tra i principali aggressori.
Il Rappresentante Speciale ha rilevato, altresì, l’importanza di una continua attività di monitoraggio ed informazione. Invero, la pubblicazione dei Rapporti annuali e l’indicazione specifica (nella lista a questi allegata) dei Paesi che continuano a violare gli strumenti internazionali a tutela dei minori, ha sicuramente rappresentato un deterrente politico per gli Stati che permettono il fenomeno del reclutamento dei bambini. La forte pressione esercitata negli anni sul problema dei bambini soldato, ha determinato un aumento dell’attenzione della comunità internazionale sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati, tanto che il Consiglio di Sicurezza ha adottato numerose risoluzioni sul tema in oggetto.
In breve, da una rapida lettura del Rapporto del Segretario Generale, si evince che, nonostante il numero dei principali conflitti armati sia diminuito, ne è cambiata la concreta modalità di svolgimento. I conflitti interni a uno stesso Stato, sebbene meno intensi che in passato, rappresentano ormai la maggior parte dei conflitti.
Partendo da questa nuova realtà dei conflitti, il Rapporto prende atto che a livello globale i conflitti attualmente sono arrivati a 56, rispetto ai 30 citati nel primo Rapporto Machel.
Le guerre odierne sono caratterizzate da nuove forme di coinvolgimento dei bambini e sempre più spesso operano gruppi armati piccoli e poco addestrati. Si rileva, inoltre, che tali conflitti beneficiano della proliferazione delle armi leggere, vengono facilmente alimentati dallo sfruttamento delle risorse naturali e da motivazioni economiche, e spesso agiscono nel mutevole scenario del crimine internazionale organizzato o del terrorismo. La popolazione civile e soprattutto i bambini rappresentano sempre più un potenziale obiettivo del conflitto e ne subiscono le conseguenze.
L'impatto dei conflitti sui ragazzi è più brutale che mai. Le guerre violano ogni diritto dell'infanzia. Le conseguenze dirette delle guerre - reclutamento illegale, sfruttamento sessuale, fughe di popolazione, uccisioni e mutilazioni, separazioni di minori dalle famiglie, traffico di esseri umani ecc. - hanno ricevuto una crescente attenzione da parte della comunità internazionale nel corso dell'ultimo decennio. A questi effetti si aggiungono, tuttavia, le conseguenze indirette della guerra che includono l'interruzione dei servizi di base come l'acqua, i servizi igienici, la sanità e l'istruzione, così come il rischio di povertà, malnutrizione e malattia e che hanno un terribile altrettanto impatto sull'infanzia, ma sono spesso sottovalutate. L'impatto della guerra sui bambini aggrava ogni situazione di povertà, analfabetismo e mortalità infantile, privando i bambini delle proprie famiglie, della sicurezza, dell'istruzione, della salute e delle opportunità di sviluppo.
Li si consideri come causa oppure come conseguenza, i conflitti armati rappresentano, oggi, un grave ostacolo al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
Orbene, premessi brevi cenni sui recentissimi fatti di politica internazionale in tema di bambini soldato, essenziali per comprendere l’attualità del problema, passiamo ora ad approfondire la questione in esame.
Iniziamo col considerare cosa dispone il diritto in materia di tutela dei diritti dei minori coinvolti nei conflitti armati, per poi passare ad analizzare i meccanismi di approccio al problema (disarmo, smobilitazione, riabilitazione, reintegrazione) elaborati dagli esperti del settore, valutando come e se questi vengano in concreto applicati nei Paesi di seguito esaminati. Infine, alla luce degli insuccessi palesati dalle politiche statali, ci si interroga sulle reali motivazioni che li determinano e sulle eventuali soluzioni adottabili.


1 - LEGISLAZIONE INTERNAZIONALE

Preliminarmente, si precisa che, quando nel diritto internazionale si parla di “bambino” si intende “ogni persona di età inferiore a 18 anni”, così come statuito nella Convenzione sui diritti dei fanciulli del 1989; pertanto, si considera “bambino soldato”, ogni minore di diciotto anni appartenente ad un gruppo armato, qualsiasi sia il ruolo ch’egli esercita. Il minore arruolato puo’ essere un combattente, ma anche cuoco, facchino, messaggero, spia od oggetto sessuale.
Ciò premesso, si indicano i principali strumenti di diritto internazionale e regionale in materia di tutela dei diritti dei minori ed illegittimità del loro arruolamento.
- 1974 Dichiarazione sulla Protezione delle donne e dei bambini nelle emergenze e nei conflitti armati: è il primo documento giuridico internazionale che concentra la propria attenzione sull’impatto della guerra sull’infanzia;
-1977 Protocolli addizionali alle Convenzioni di Ginevra: per la prima volta si accenna al reclutamento di minori, fissando l'età minima di 15 anni;
-1989 Convenzione sui diritti dei minori: pur definendo "bambino" ogni essere umano sino ai 18 anni, si limita l'impegno degli stati a non arruolare minori di 15 anni nelle azioni di guerra; pertanto, poiché la Convenzione tutela i minori dall’arruolamento solo fino ai 15 anni, in questo caso fornisce ai fanciulli una tutela minore rispetto a quanto previsto da numerose normative interne degli Stati aderenti. Ad esempio, per l’Italia la legge n. 2/2001 prevede l’arruolamento di soldati al compimento della maggiore età.
-1990 Carta Africana sui Diritti e sul Benessere dei bambini: unico trattato regionale a menzionare la questione dei minori soldato e primo a elevare l'età minima per il reclutamento a 18 anni;
-1996 presentazione alle NU del primo Rapporto elaborato da Graça Machel, esperta indipendente ed ex Ministro dell'Istruzione del Mozambico, sulla questione del coinvolgimento dei minori nei conflitti armati;
-1997 Cape Town Principles and Best Practices on the Prevention of Recruitment of Children into Armed Forces and on Demobilization and Social Reintegration of Child Soldiers in Africa: Principi elaborati come risultato di un simposio organizzato dall’UNICEF e dal Working Group sulla Convenzione per i diritti dell’infanzia volto a trovare delle strategie per prevenire il reclutamento dei bambini e a sostenere la smobilitazione dei bambini soldato e la loro reintegrazione;
-1998 Statuto della Corte penale internazionale: nell’art 8, XXVI si legge che il reclutamento e partecipazione nei conflitti armati di minori di 15 anni sono considerati crimini di guerra;
- 1999 Convenzione 182 dell'ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) sulle peggiori forme di lavoro infantile: il reclutamento di minorenni viene inserito fra le peggiori forme di sfruttamento lavorativo minorile. Si fissa a 18 anni l'età minima per arruolare i più giovani;
- 2000 Protocollo Opzionale alla Convenzione sui diritti dell’infanzia sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati: si stabilisce che il reclutamento obbligatorio può avvenire a 18 anni, per quello volontario è sufficiente aver superato i 15 anni. Il trattato è entrato in vigore il 12 febbraio 2002, data in cui si celebra la "Giornata internazionale dei bimbi soldato”; l’Italia, che già si era dotata di una normativa di forte protezione nei confronti dell’arruolamento dei minori, ha ratificato anche il Protocollo il 2 maggio 2002.
- 2007 Paris Principles: l’Unicef, rivisitando i Cape Town Principles, ha elaborato nuovi Principi per informare e promuovere una corretta politica di approcciare al problema dei bambini soldato, alla luce dello sviluppo del recente diritto internazionale e delle politica internazionale.

2 - LE RISOLUZIONI DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA

Dal 1999, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è particolarmente attento al destino dei bambini coinvolti nei conflitti armati. Il Consiglio ha adottato sei risoluzioni concernenti i bambini vittime della guerra ed in particolare i bambini soldato:
-Risoluzione 1261 adottata nel 1999 dispone l’istituzione, da parte del Rappresentante Speciale, di Child Protection Advisers, con il compito di controllare che, durante le operazioni di peacekeeping, i diritti, gli interessi e le esigenze dei bambini non siano calpestati, come spesso è avvenuto;
-Risoluzione 1314, adottata nel 2000, richiama le parti in conflitto al rispetto delle norme di diritto internazionale relative alla protezione dei bambini e delle bambine coinvolti nei conflitti armati;
-Risoluzione 1379, adottata nel 2001, si richiede che il Segretario Generale delle Nazioni Unite inserisca sulla black list gli Stati parti che utilizzano bambini soldato;
-Risoluzioni 1460 e 1539, adottate nel 2003 e 2004, evidenziano la necessità di includere i bambini nei programmi di disarmo, smobilitazione, riabilitazione e reinserimento, ipotizzando l’adozione di misure nazionali specificatamente rivolte alle parti in conflitto;
-Risoluzione 1612 adottata il 22 aprile 2005, su proposta della Francia e del Benin, predispone un
meccanismo di monitoraggio e di informazione sulle tipologie di violazioni di diritti dell'infanzia; istituisce, altresì, un Working Group on Children and Armed Conflict presso il Consiglio di Sicurezza, composto da esperti con il compito di valutare i rapporti presentati dal Segretario Generale, ed elaborare le opportune raccomandazioni.

3 - GLI EVENTI PRINCIPALI

-1997 conferimento del primo incarico per il ruolo di Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle NU per i bambini nei conflitti armati a Olara Ottunnu, avvocato ugandese esperto di diritto umanitario; dal 7 febbraio 2006 il ruolo è ricoperto da Radhika Coomaraswamy, avvocato e ex presidente della Commissione sui diritti umani dello Sri Lanka;
-1998 Istituzione della Coalizione internazionale "Stop all'uso dei bambini soldati". Ne sono membri fondatori Amnesty International, Terre des Hommes, Human Rights Watch, Save the Children, il Jesuit Refugees Service e il Quaker United Nations Office. La Coalizione agisce anche a livello nazionale, attraverso omonimi raggruppamenti di ONG. L'UNICEF Italia è parte attiva della Coalizione italiana "Stop all'uso dei bambini soldato".





4 - RICONVERSIONE DEI BAMBINI SOLDATO

Dato uno sguardo al diritto e alle tappe fondamentali nella lotta al fenomeno del reclutamento dei minori, la cui illegittimità è stata ampiamente sottolineata dai numerosi atti internazionali sopra citati, passiamo ora ad esaminare le modalità di approccio al problema, delineate dagli operatori umanitari.
In genere gli esperti di settore ritengono che il processo di riconversione dei bambini soldato debba avvenire sostanzialmente in tre fasi 1) disarmo e smobilitazione; 2) riabilitazione fisica e psicologica; 3) reintegrazione nella famiglia e nella comunità, seguita da un sostegno costante, in cui devono rientrare un consolidamento delle capacità personali e una prolungata assistenza socio psicologica. Il tempo richiesto per ogni fase varia, ma in genere si pensa che l’intero processo vada misurato in termini di mesi, piuttosto che di settimane o giorni, come spesso capita per mancanza di risorse o scarsa attenzione ai bisogni reali. Il suo decorso non è preciso né nettamente distinto in tre fasi, ma rientra in una strategia complessiva che ha un unico fine ed un’unica mira: ripristinare le libertà e le opportunità dell’infanzia perduta.
Una volta terminato il conflitto, una delle priorità più urgenti è imporre l’immediata rimozione dagli eserciti locali di tutti i soldati che abbiano meno di diciotto anni e sostenere finanziariamente il disarmo e la smobilitazione.

ÿ I FASE: 1) DISARMO

Per “disarmo” s’intende quel programma volto a mettere fine al possesso di armi da parte dei bambini. I programmi migliori sono quelli che assegnano le armi al controllo di organizzazioni esterne, per esempio un programma di cessione delle armi monitorato a livello internazionale.
Vi sono, altresì, alcuni programmi di disarmo che si combinano con programmi che perseguono differenti obiettivi. Per esempio, il programma dell’UNDP (United Nations Development Program) “Armi in cambio di sviluppo” ha cercato di unire il disarmo a progetti di sviluppo mirati a creare mezzi di sostentamento alternativi (legali e produttivi) per i combattenti. Tuttavia, in alcuni casi è stato un errore chiedere la restituzione delle armi in cambio dell’ammissione ai programmi di smobilitazione e riabilitazione. In Sierra Leone, per esempio, la consegna di un fucile automatico rappresentava, a volte, il solo modo per ottenere il sussidio riservato agli ex combattenti. Una politica di questo tipo, però, presenta gravi limiti in quanto non contempla i bambini soldato fuggiti senza armi o utilizzati come spie, portatori o “mogli”, che rimarrebbero, pertanto, esclusi dal programma.
Particolare attenzione, inoltre, viene data alla separazione tra il processo di disarmo e smobilitazione dei soldati adulti, da quello specifico previsto per i minori

1.1 DISARMO E TRAFFICO DI ARMI

Come per ogni problema che ci si trovi ad affrontare, anche per quanto riguarda la questione dei bambini soldato vale il famoso detto “prevenire è meglio che curare”. Invero, si parla di minori armati perché qualcuno, a monte, ha armato questi bambini. Ed è proprio in considerazione di questo aspetto, che, in occasione del vertice Nato tenutosi nell’ aprile 2008 a Bucarest, la Sezione Italiana di Amnesty International e la Rete italiana per il disarmo hanno scritto una lettera (datata 3 aprile 2008) al presidente del Consiglio, Romano Prodi, esprimendo preoccupazione per l’esportazione di armi italiane verso l’Afghanistan. Facendo riferimento ai dati riportati in un recente Rapporto diffuso a Londra da Amnesty International, “Afghanistan: la proliferazione delle armi alimenta ulteriori violazioni dei diritti umani”, la Sezione Italiana dell’associazione e la Rete italiana per il disarmo hanno paventato il rischio che l’eccessiva quantità di munizioni e di armi di piccolo calibro e leggere, facilmente utilizzabili dai bambini, offerta all’Afghanistan dai paesi Nato e dagli Stati alleati, possa essere usata per gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario. Le due organizzazioni hanno rilevato che “l’impatto di una proliferazione incontrollata di armi rischia di danneggiare gli sforzi del governo afghano e della comunità internazionale per il rafforzamento della tutela dei diritti umani nel paese”. Nella lettera al presidente Prodi, Amnesty International e la Rete italiana per il disarmo hanno espresso la loro preoccupazione per il dato riguardante le esportazioni italiane che, in base ai dati Istat (Categoria SH93: Armi, munizioni e loro parti ed accessori), ammonterebbero a 3.189.346 euro per il quinquennio 2003/2007, con un netto incremento in particolare nell’ultimo anno. Le due organizzazioni hanno, pertanto, chiesto “maggiori dettagli sulla tipologia e sulla destinazione” di queste armi e “se il governo italiano abbia valutato l’impatto di tali esportazioni sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan”. Infine, Amnesty International Italia e la Rete italiana per il disarmo hanno sollecitato il governo ad attuare la raccomandazione formulata nel giugno 2006 dal Comitato delle Nazioni Unite per i diritti del fanciullo, che ha invitato l’Italia a proibire il commercio di armi leggere con quei paesi, come l’Afghanistan, in cui le persone al di sotto dei 18 anni partecipano alle ostilità come membri sia delle forze armate sia dei gruppi armati.

2) SMOBILITAZIONE

Al disarmo segue il processo di smobilitazione. Ciò comporta di solito la sistemazione degli ex combattenti in appositi alloggiamenti, per esempio speciali campi, dove i bambini vengono preparati a fare ritorno alla vita civile. Nel corso degli ultimi decenni, la comunità internazionale ha tratto da questo processo una serie di lezioni importanti da cui si evincono due aspetti principali: primo, le aree di raccolta devono essere poste a una certa distanza dalle zone di guerra. Ciò serve a garantirne la sicurezza e a impedire che i bambini siano nuovamente arruolati. Secondo, nei campi non devono essere ammesse le armi. In tal modo si crea una precisa frattura rispetto alla loro vita precedente (così come la smobilitazione è il primo passo nel reinserimento sociale dei bambini soldati), ma si evita anche il rischio che pochi combattenti irrecuperabili vanifichino l’intero processo di pace.
I programmi di disarmo e smobilitazione dei bambini sono in genere coronati da successo solo se attuati non in situazioni di crisi. Ogni volta che si è tentato il recupero quando la situazione era instabile o i combattimenti ancora in corso- valga per tutti l’intervento dell’UNICEF nella Repubblica Democratica del Congo i programmi non hanno avuto esito. Invero, l’idea del disarmo può intimorire, soprattutto nell’incerto clima politico che circonda tale processo. Ciò significa che il numero dei gruppi e dei singoli soldati che accettano di parteciparvi si riduce drasticamente se gli scontri sono ancora in corso o se la situazione è, in un modo o nell’altro, instabile. Uno dei problemi è il fenomeno del ri-arruolamento, o da parte di gruppi che non intendono abbandonare la lotta armata o persino da parte dell’esercito avversario.
Occorre, pertanto, prendere tutte le misure possibili per convincere quanti sono coinvolti in prima persona nel processo (tanto i capi dei gruppi in conflitto, quanto i singoli soldati) della necessità e dei vantaggi della smobilitazione. E’ necessario mettere a punto dei programmi che incentivino gruppi e singoli soldati a deporre le armi. Se si vuole evitare che il reclutamento riprenda, è, inoltre, necessario offrire tutela a chi si trovi in una posizione nuova e più vulnerabile. La smobilitazione dei bambini soldato può d’altro canto essere concepita in modo nuovo, come una misura capace di creare fiducia tra i gruppi in conflitto. Va fatto ogni sforzo per dare loro un senso di sicurezza e familiarità. Le loro attività quotidiane dovrebbero poter contare su una struttura e una routine. Il personale a contatto con i bambini deve cambiare il meno possibile, al fine di creare un solido legame di fiducia (cosa spesso non facile perchè lavorare con ex bambini soldato produce uno stress altissimo e di conseguenza è causa di un forte avvicendamento nell’organico). Un’altra priorità è che, ove possibile, addetti e assistenti socio psicologi siano persone appartenenti alla cultura locale o, quantomeno, persone che hanno familiarità con i rituali, le pratiche e i valori del luogo. Se è possibile, è meglio ospitare i bambini in piccole unità abitative, piuttosto che in una grande caserma impersonale. Per esempio, i programmi avviati nella Repubblica Democratica del Congo prevedono, addirittura, che i bambini partecipino alla costruzione e manutenzione della propria casa e alla preparazione del proprio cibo, in modo da aumentare lo spirito di solidarietà e la fiducia in sé, da parte dei ragazzi.
Quando entrano in un campo di smobilitazione, gli ex bambini soldati sono in genere sottoposti ad un’intervista iniziale. Il colloquio deve avvenire su base individuale e, certamente, non in presenza di ex superiori. Ciò consente maggiore libertà di discussione, al riparo dal timore della punizione, accentua la sensazione di cambiamento e aiuta il bambino a recuperare la propria identità individuale, al posto di quella collettiva. Questa fase iniziale serve ad informare il bambino delle ragioni del processo che sta per iniziare e di ciò che può aspettarsi.
Vanno, altresì valutati i bisogni fisici e psicologici del singolo. Pertanto, i programmi si focalizzano immediatamente sui bisogni primari dei bambini: cibo, cure mediche, protezione e sicurezza. Contemporaneamente, viene avviato l’importante lavoro di localizzazione dei parenti stretti o della famiglia allargata del bambino. Le ricerche rivelano che i bambini hanno meno probabilità di soffrire di conseguenze psicologiche negative da trauma, per esempio di disturbi da stress post-traumatico, se sono collocati accanto ai membri della propria famiglia. Data l’importanza dell’impresa, le organizzazioni dovrebbero cercare di definire al più presto un programma di ricerca delle famiglie. Ne è esempio il programma “Child Connect”, che offre un database interattivo in grado di aiutare a rintracciare i bambini, nonchè di condividere le informazioni con altre agenzie.
Una lezione fondamentale è che, per essere davvero efficaci, le attività di ricerca devono impegnare tanto il governo locale, quanto le varie parti in conflitto e le organizzazioni umanitarie. E non andrebbe trascurato nessuno strumento di comunicazione. Per esempio, in Sierra Leone le agenzie di ricerca sponsorizzate dall’Unicef hanno creato punti di registrazione un po’ ovunque nel paese ed hanno utilizzato la pubblicità radiofonica per aiutare le famiglie a trovare i bambini scomparsi. La rete di ricerca andrebbe mantenuta attiva anche dopo la riunificazione dei bambini con le famiglie, per permettere ai gruppi di monitorare le loro condizioni e fornire ulteriore assistenza.



ÿ II FASE: RIABILITAZIONE

Il disarmo e la smobilitazione, che preparano il distacco dei bambini dalla vita e dal controllo militari, sono i primi passi essenziali. Sono in molti, tuttavia, a credere che la parte più dura del lavoro sia quella successiva, destinata alla riabilitazione e al reinserimento degli ex bambini soldato nella società. A tal riguardo, però, si sottolinea che tutti i programmi, per essere validi, devono avere una prospettiva di lungo periodo. La condizione ideale è che ad essi partecipino non solo operatori internazionali, come troppo spesso capita, ma anche membri e capi spirituali della comunità locale. Ai fini della riabilitazione è indispensabile, infatti, creare un ambiente sociale accogliente e stabile. Inoltre, l’intervento esterno non deve avere l’obiettivo di sostituirsi alle strategie di difesa della società locale, bensì sostenerle, scoprendo, ad esempio, in che modo, in passato, la società locale abbia trattato i traumi, la sofferenza e i processi di guarigione. I programmi di riabilitazione possono, per esempio, comprendere i tradizionali rituali di purificazione, facilitando il reinserimento dei bambini nelle società locale.
Sul piano fisico, le patologie più diffuse sono morbillo, diarrea, disturbi intestinali, malattie a trasmissione sessuale. I bambini sono spesso debilitati e menomati nel corso dei conflitti. Numerose ragazze possono essere incinte o traumatizzate dalle violenze sessuali subite, il che mette ulteriormente a rischio la loro salute, esponendole a nuove malattie.
Gli effetti psicologici sono persino più vari. Generalmente gli ex bambini soldati sono vittime e/o responsabili di spaventosi e perturbanti atti di violenza. Data la loro giovane età, gli effetti sulla psiche sono ingigantiti, poiché l’evento ha luogo in una fase in cui la personalità non è ancora pienamente sviluppata. Sul breve periodo, il trauma che ne risulta può manifestarsi in pianti continui, mutismo, incubi notturni ricorrenti e depressione. Per esempio, un’indagine svolta nel 2003 tra gli ex bambini soldato in Africa ha rilevato che il 50% aveva incubi ricorrenti, il 25% soffriva di mutismo, e il 28% di paranoia. Se non vi si pone rimedio, questi danni psicologici rischiano di avere conseguenze più durature.
Il trauma è un evento esterno talmente intenso da sopraffare le capacità individuali di affrontarlo o controllarlo. In termini psicologici, sono “fattori di stress traumatico” gli eventi al di fuori della portata dell’esperienza umana, dotati di un’intensità sufficiente a provocare sintomi di angoscia nella maggior parte delle persone. Invero, non è infrequente che gli ex bambini soldato sviluppino la patologia nota come disturbo da stress post-traumatico (DSPT). Si tratta di un disturbo psichiatrico originariamente associato alla cosiddetta “battle fatigue”, la fatica da combattimento, comune tra i combattenti della prima e seconda guerra mondiale, ma può colpire chiunque. All’origine del disturbo vi è la diretta esperienza di eventi traumatici o che mettano a repentaglio la vita. Il DSPT può manifestarsi attraverso sintomi fisici e mentali: perdita di peso, depressione, incubi, flashback, disturbi della memoria e dell’apprendimento, etc. Il disturbo, perciò menoma la capacità di far fronte alla vita di tutti i giorni. Tutti o alcuni di questi sintomi, in numerosi casi, sono scatenati da una combinazione di fattori: allontanamento dalla famiglia e dalla società, senso di incertezza rispetto al futuro, memorie di violenza e di perdite. Gli operatori riferiscono che depressione, angoscia, livelli più alti di aggressività o introversione, estremo pessimismo, scarsa capacità di accettare le frustrazioni, carenza di meccanismi personali atti a risolvere il conflitto, sono assai comuni tra questi ragazzi. I DSPT possono, inoltre, produrre effetti collaterali che mettono a repentaglio la capacità dei ragazzi di reinserirsi nella società. Tra questi, la difficoltà di apprendimento, una minore capacità di concentrazione, alterazioni della memoria e una maggiore rigidità intellettuale. Tra le manifestazioni fisiche vi sono i disturbi del sonno, le emicranie lancinanti, i crampi allo stomaco, tutti disordini psicosomatici comuni. Il livello d’intensità di queste reazioni dipende da una serie di variabili: durata dell’esperienza traumatica, misura del coinvolgimento nella violenza come esecutore o come vittima, norme culturali e aspettative, età, sesso, etc.
Ciò premesso, si comprende come i costi psicologici di un lungo periodo derivanti dall’utilizzo di bambini soldato possano essere spaventosi. Un DSPT, per esempio, può durare sei mesi, ma anche vari anni. Indagini svolte in Uganda hanno rilevato che i sintomi provocati dalla cattività nelle file dell’Esercito di resistenza del Signore persistono per oltre cinque anni. A parere degli psicologi ci vogliono dai quindici ai vent’anni per valutare le dimensioni del danno subito dalla psiche in presenza di un trauma. Sicchè, è essenziale investire nella riabilitazione! Gli interventi di riabilitazione dovrebbero essere pronti a fornire assistenza sanitaria a trecentosessanta gradi. Gli operatori sanitari che lavorano con i bambini soldato, si trovano a fare un po’ di tutto: curare l’anemia, i disturbi della pelle, i vermi, le malattie a trasmissione sessuale, ma anche somministrare tranquillanti che aiutino i bambini a prendere sonno. Le organizzazioni umanitarie devono inoltre essere preparate ad assistere i bambini che hanno problemi clinici permanenti: malattie incurabili, arti danneggiati o mancanti, altri handicap. In questo settore le risorse sono troppo spesso insufficienti. Ne è un esempio amaro la frequente carenza di protesi. Nella programmazione post bellica si deve studiare il modo di incoraggiare la produzione in loco. Ciò avrebbe l’effetto secondario di incentivare un’attività economica costruttiva e di favorire la sostenibilità di lungo periodo.
La particolare situazione dei bambini “marchiati” dalle loro organizzazioni, o fisicamente sfigurati dalla guerra, andrebbe, a sua volta, presa in seria considerazione, e non trattata come una semplice questione estetica. Un concreto programma pilota avviato in Sierra Leone permette di sperare che ci sia modo di rendere reversibile questo danno. E’ gestito dall’International Medical Corps, la cui base è a Los Angeles. Attraverso un programma innovativo, l’IMC ha incaricato vari chirurghi plastici di sottoporre a trapianti di pelle e altri interventi di ricostruzione gli ex membri del RUF deturpati da cicatrici, che minacciano di farne dei paria all’interno delle loro comunità. Questo programma, fondato dall’USAID (United States Agency for Internaional Development) e amministrato dall’UNICEF, purtroppo è riuscito ad intervenire solo su centoventi ex bambini soldato in Sierra Leone. Fornisce, tuttavia, un valido modello di riferimento per altre organizzazioni, non solo in Africa occidentale.
Quasi tutte le attività dei campi di riabilitazione possono essere integrate con programmi psicosociali che favoriscano la guarigione e l’assestamento psicologico, e incoraggino l’espressione di sé, poiché la capacità di articolare spesso svolge un ruolo importante nel recupero psicosociale. Tre le iniziative più efficaci ricordiamo:
&Mac183; le attività di “normalizzazione”, che impegnano i bambini nelle responsabilità e nelle routine
positive della vita del campo: raccogliere la legna, andare a prendere l’acqua, lavare i panni etc.;
&Mac183; i corsi di base che, oltre a insegnare a leggere, a scrivere e a fare di conto, possono dare rilievo
alle competenze comunicative, all’educazione civica e agli studi culturali o sulla pace;
&Mac183; i programmi ricreativi, che liberano energia e incoraggiano una normale interazione: giochi,
racconto di storie, terapia artistica individuale o collettiva, giochi interattivi e altri laboratori di educazione creativa destinati ai bambini in difficoltà (un esempio è il programma Playing to Grow).
Purtroppo gli specialisti in psicologia infantile disposti a venire incontro al crescente fabbisogno degli enti assistenziali e delle organizzazioni umanitarie sono troppo pochi. Per esempio, nel primo intervento in Sierra Leone, le Nazioni Unite hanno provveduto ad un solo psicologo infantile al quale era affidato il compito di occuparsi degli speciali bisogni delle decine di migliaia di bambini soldato presenti. Parimenti, attraverso una successiva indagine sui bambini soldato in Asia orientale, si è scoperto che un solo centro disponeva di personale in grado di offrire counselling.

ÿ III FASE: REINTEGRAZIONE

Il processo di recupero dei bambini soldato prevede, come ultima fase, la “reintegrazione”. Ciò implica il reinserimento dei bambini nelle loro case o comunità, e di conseguenza il loro possibile ritorno in società su basi positive. Il risultato ottimale è ricongiungerli alle loro famiglie. Bambini e società possono così recuperare un senso di normalità. Il reinserimento nelle famiglie favorisce una più rapida guarigione dai disturbi da stress post-traumatico.
Purtroppo, oltre al già arduo compito del reperimento e della rilocalizzazione, il ricongiungimento familiare deve misurarsi con la sfida dell’accettazione e della disponibilità. Sono proprio le famiglie, una volta rintracciate, o gli stessi bambini a ostacolare la riunificazione, spesso per validi motivi. Uno studio condotto sul continente africano rileva che l’82% dei genitori vede negli ex bambini soldato un potenziale pericolo per la popolazione. Probabilmente, da entrambe le parti, subentra la paura, paura delle azioni dei figli, paura da parte dei bambini di essere puniti, o di essere ancora identificati con ciò che sono stati, o paura del gruppo cui appartenevano. E’ possibile poi che occorra molto tempo prima che riescano a liberarsi della rabbia che li opprime.
Talvolta, purtroppo, il ricongiungimento è impossibile perché i bambini hanno perso l’intera famiglia nel conflitto o non si riesce a rintracciare alcun familiare. Bisognerebbe, perciò, iniziare a sviluppare progetti che consentano alle autorità di affrontare la complessa situazione egli ex bambini soldato rimasti soli al mondo. In molti paesi, tra cui la Colombia e l’Afghanistan, sono state istituite delle “case della gioventù”. In queste case, simili a centri di recupero per detenuti, i bambini vivono insieme sotto la supervisione di un tutor e partecipano a programmi di scolarizzazione e formazione professionale, ideati per permettere loro di reinserirsi nella comunità. Qualora la comunità locale non fosse disposta a ospitarli o non fosse in grado di farlo, le esperienze fatte in Africa occidentale dimostrano che i bambini che non possono tornare in famiglia dovrebbero essere trasferiti in località lontane dalle zone in cui hanno prestato servizio. Ciò faciliterà il loro reinserimento nella società e limiterà i rischi di ritorsioni nei loro confronti. Inoltre, per gli orfani, andranno previsti programmi supplementari di sostegno che favoriscano la loro reintegrazione nella comunità. Lo scopo principale deve essere quello di creare nel bambino un senso di autosufficienza, che gli permetta di resistere al richiamo del riarruolamento o alle lusinghe di un’attività criminale.
In definitiva, la buona riuscita della reintegrazione dipende tanto dalla preparazione delle famiglie e delle comunità ad accettare i bambini, quanto dal corretto lavoro di riabilitazione. Bisogna, quindi, avviare un grande progetto di sensibilizzazione che aiuti le società locali ad affrontare le sfide e le difficoltà che il reinserimento degli ex bambini soldato comporta, soprattutto quando si tratta di comunità contro i cui membri i bambini hanno commesso crimini efferati. In paesi come il Sudafrica, le Commissioni di Verità e Riconciliazione hanno dato buoni frutti. Tuttavia, per i bambini soldato, vanno studiati programmi più specifici. In Sierra Leone, per esempio, l’UNICEF ha firmato un accordo con i media locali al fine di promuovere programmi radiofonici mirati a educare la popolazione e a tenerla informata sulle attività correlate. Importante è stata anche “La voce dei bambini”, una stazione radio sponsorizzata dalle Nazioni Unite dedicata ai problemi dei ragazzi. Diverso è il caso dell’Uganda, dove i bambini ricevono il pubblico perdono del Presidente per le azioni commesse durante la prigionia. In tal modo il perdono e la riconciliazione sociale sono ufficialmente sanciti.
Nelle comunità tradizionali, le cerimonie di cura e purificazione possono rivelarsi un efficace strumento di riconciliazione individuale e collettiva. I rituali, cui spesso assistono i membri della famiglia e delle comunità, servono a purificare il bambino dalla contaminazione della guerra e della morte, dal senso di colpa e peccato che lo opprimono e dagli spiriti vendicativi di coloro che ha ucciso con le sue mani. Ogni comunità e gruppo etnico ha i propri rituali: dal rogo simbolico dei vestiti (in Mozambico), al lavacro nelle acque di un fiume alle prime luci dell’alba, alla pratica di camminare senza voltarsi indietro (Angola). Le organizzazioni straniere dovrebbero essere attente a queste tradizioni e cercare di sostenerle, mettendo da parte ogni scetticismo.
Si può favorire l’accettazione ed il benessere degli ex bambini soldato coinvolgendoli nella soluzione dei problemi della comunità. Vi sono programmi che li impegnano nella riparazione di scuole, pozzi, o altre infrastrutture locali danneggiate, nell’individuazione di arsenali e campi minati e nell’opera di sminamento. Tali programmi funzionano al meglio se sono organizzati in forma di attività di gruppo mirate a ridurre lo stigma che pesa sui bambini e ad accrescere la loro autostima e valorizzazione; queste attività possono avere un enorme effetto di redenzione sia sul bambino sia sulla comunità. In tal senso, andrebbero studiati appositi programmi che incoraggino gli anziani a trasmettere i loro saperi professionali e culturali ai giovani e gliene diano concretamente merito.
Ratio di questi programmi dovrebbe essere la creazione di una rete di comunità di sostegno capace di reintegrare in modo sicuro gli ex bambini soldato. Come per altri elementi del processo, la rete dovrebbe essere quanto più possibile autonoma. Ciò significa che le organizzazioni esterne e gli esperti dovrebbero preoccuparsi di formare e sostenere operatori locali, invece di cercare di gestire i programmo in proprio.
E’, altresì, fondamentale intervenire sul sistema scolastico. Il personale docente deve essere preparato ad affrontare la sfida di insegnare ad ex bambini soldato, con tutte le difficoltà del caso. Si deve aggiornare il programma scolastico con corsi di sensibilizzazione al problema delle mine antipersona, di informazione su Hiv/Aids, e di educazione alla pace. Quest’ultimo aspetto ha lo scopo di ridurre le probabilità che i bambini adottino soluzioni violente ai problemi che si trovano ad affrontare. In Somalia, per esempio, questi programmi di costruzione di pace prevedono corsi di formazione per insegnanti, e diffusione di manuali e giochi che promuovono “diritti e responsabilità dei bambini, riconoscimento degli altri come uguali, comunicazione, consapevolezza/risoluzione dei conflitti, pace, giustizia, e tolleranza”.
E’ frequente, infatti, che gli ex combattenti siano pressoché analfabeti. In Sierra Leone è stato realizzato con successo un programma di “aggiornamento” in centri interinali di recupero per ex bambini soldato. Il programma prevede che i frequentanti acquisiscano, nell’arco dei sei mesi, le nozioni fondamentali e possano così continuare gli studi insieme ai loro coetanei, invece di tornare a scuola con i bambini molto più piccoli di loro.
Si rileva, inoltre, che i migliori programmi di formazione sono legati a iniziative di microcredito, con una prospettiva di lungo periodo. Tali programmi favoriscono la creazione di cooperative e associazioni di piccoli gruppi di giovani che possono così avviare progetti comuni. Il Centro Don Bosco, per esempio, procura ai suoi diplomati i mezzi necessari al nuovo tipo di occupazione, una piccola sovvenzione in denaro e la consulenza di un commercialista. In Sierra Leone, il Christian Children’s Fund ha istituito un programma di prestito e di recupero fondi, per avviare imprese con l’acquisto di macchinari agricoli, o tessuti e tinture per aziende tessili.
Infine, considerando che l’esperienza dei bambini soldato è irreversibile e plasma, tanto lo sviluppo del bambino quanto la sua vita adulta, si comprende per quale motivo ogni programma di reintegrazione debba seguire una serie di iniziative che fornisca agli ex bambini soldato, alle loro famiglie e comunità un sostegno sociale e psicologico di lungo periodo, cercando di monitorare i movimenti e le attività dei ragazzi. Ciò li aiuterà, nei momenti difficili, ad evitare che finiscano nuovamente nelle mani di gruppi criminali o violenti. A Timor Est, per esempio, è stato realizzato un eccellente progetto (affiancato a programmi di assistenza) che incentiva i soldati smobilitati a fare riferimento a un gruppo di sostegno. Ciò ha facilitato il loro reinserimento ed è servito a tenerli lontani da attività controproducenti o criminalità di strada. In Sierra Leone, per dar seguito ai programmi di riabilitazione, si sono organizzati comitati locali a livello di distretto, che offrono il sostegno della comunità ai bambini più indifesi.

ÿ BAMBINI RIFUGIATI E SFOLLATI

Problematica correlata alla questione del disarmo, smobilitazione, riabilitazione e reintegrazione dei bambini soldato è, evidentemente, il problema dei bambini rifugiati e di quelli sfollati.
Innanzitutto, si precisa che nel definire il significato della parola “rifugiato” così come enunciata dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 dell’UNHCR, si deve tener conto dell’età, del sesso, delle motivazioni, delle forme e delle manifestazioni della persecuzione subita dai bambini. Il reclutamento illegale o l’uso dei bambini deve essere considerato dagli Stati una delle forme e manifestazioni di “persecuzione specifica” per la categoria dei minori e per questo causa legittima di acquisto dello stato di rifugiato, così come per le altre cause indicate dalla predetta Convenzione. Pertanto, nel determinare a livello nazionale le procedure relative allo status di rifugiati, gli Stati dovrebbero dare la massima attenzione a questa forma specifica di “persecuzione”, a volte non presa nella dovuta considerazione. Invero, un minore non dovrebbe in alcun modo tornare nel Paese in cui sia stato accertato, caso per caso, che si effettua il reclutamento illegale di bambini o il re-reclutamento o l’uso da parte delle forze armate o di gruppi armati o la partecipazione nei conflitti. Ad ogni modo, nel caso in cui il bambino non abbia i requisiti per godere dello status di rifugiato in relazione alla Convenzione, e che si trovi in uno Stato che non è il suo, ha diritto di beneficiare delle forme di protezione complementari. Invero, il minore che si trovi in territorio straniero è, comunque, titolare di tutti i diritti umani che gli sono riconosciuti dal diritto internazionale, tra cui il diritto di godere, nello Stato, delle garanzie previste per le legge. Infine, nel caso in cui non avesse i requisiti per godere neanche delle forme di protezione complementari, è tutelato dalla Convenzione sui diritti dei minori e dagli altri strumenti di tutela internazionale di diritti umani e, se applicabile al caso, quelle di diritto umanitario.
Gli Stati si devono anche occupare dei bambini sfollati e delle loro famiglie.

5 - COSA SI STA FACENDO IN CONCRETO?

Tutto ciò premesso, ci si domanda quale sia l’impegno della comunità internazionale per far fronte al fenomeno dell’arruolamento di bambini soldato, ovvero cosa in concreto si stia facendo.
Innanzitutto, come già detto, si rileva l’importanza che, a livello politico, assume la pubblicazione dei Rapporti del Rappresentante Speciale del Segretario Generale presso le Nazioni Unite; invero, la continua attività di monitoraggio e la successiva stesura dei Rapporti, relativi alle varie missioni in loco, hanno contribuito a riportare l’attenzione della comunità internazionale sul dramma del coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati. Prova evidente di questo passo in avanti della politica e del diritto internazionale, sono sicuramente, sia l’attenzione che il Consiglio di Sicurezza, nelle sue risoluzioni, ha rivolto al problema in oggetto, sia gli accesi dibattiti, sul tema, sviluppatisi nelle Nazioni Unite.
A sostegno di quanto detto, si riportano alcuni importanti risultati ottenuti, relativemente allaquestione in esame, grazie alle raccomandazioni e ai provvedimenti con cui il Working Group on Children and Armed Conflict ha incoraggiato il Consiglio di Sicurezza ad adottare le sanzioni necessarie, esortando, altresì, gli Stati a seguire le raccomandazioni espresse.
Si registra, ad esempio, l’importante vittoria ottenuta nella Repubblica Democratica del Congo, dove, dopo un ritardo iniziale, il Governo ha finalmente assicurato alla giustizia l’ex comandante Mai-Mai Kyungu Mutanga, alias “Gedeon”, affinchè venisse processato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, tra cui il reclutamento (tra il 2003 e il 2006), di ben 300 minori nella Provincia del Katanga. Questa azione è stata il frutto di forti pressioni del Working Group, che, attraverso le sue numerose raccomandazioni rivolte al Governo, ha manifestato l’impellente necessità di adottare i più appropriati provvedimenti giurisdizionali nei confronti dei gruppi armati accusati di gravi crimini contro i minori. In Costa d’Avorio, inoltre, il Working Group ha richiesto alle Forces de Defense et de Sècuritè des Forces nouvelles di ordinare l’immediata liberazione di minori detenuti. Da quel momento le Nazioni Unite hanno potuto intensificare l’attività di monitoraggio nelle prigioni e nelle strutture detentive delle zone sottoposte al controllo del FDS-FN, per verificare l’assenza di giovani detenuti.
Il diretto e continuo dialogo tra il Working Group e i Governi rappresentativi dei Paesi, la cui situazione è oggetto di monitoraggio da parte dello stesso Working Group, ha avuto un ruolo fondamentale nell’incoraggiare l’attiva partecipazione alle riunioni del WG e nell’ottenere il loro serio impegno di tutelare i minori coinvolti nei conflitti armati. Il Governo dello Sri Lanka, per esempio, ha riaffermato la sua politica di tolleranza zero verso l’arruolamento e l’uso di ragazzi nei conflitti e ha reiterato il suo impegno nei confronti del Working Group on Children and Armed Conflict di istituire una Commissione costituita da ufficiali di alto livello per svolgere un’indagine indipendente e scrupolosa su alcune forze di sicurezza sospettate di appoggiare la fazione di Karuna, nel reclutare bambini soldato. Anche il Governo dell’Uganda ha confermato la sua volontà di elaborare un piano d’azione, nel rispetto della Risoluzione 1612 (2005); ciò, al fine di ottenere la cancellazione dell’ Uganda People’s Defence Forces e delle unità di difesa locale, dalla lista allegata al Rapporto annuale (cui si faceva riferimento).
Il Working Group ha instaurato, altresì, un rapporto di cooperazione con le parti in conflitto (non inserite nell’agenda del Consiglio), Filippine, Sri Lanka e Uganda; come risultato, questi Stati hanno accettato di essere sottoposti a monitoraggio da parte delle Nazioni Unite, approvando anche la stesura del relativo Rapporto, ai sensi della Risoluzione 1612 (2005).
A fronte dei progressi raggiunti in alcuni Paesi nella lotta contro il fenomeno del reclutamento di bambini, in altri Paesi, tuttavia, la situazione si presenta più complessa; è, pertanto, richiesta una politica volta a creare una forte pressione contro chi continua a violare i diritti dei minori, come, ad esempio, il dissidente Generale Laurent Nkunda nella Repubblica Democratica del Congo, il gruppo Janjaweed nel Sudan e la Liberation Tigers del Tamil Eelam in Sri Lanka. Si rileva, però, che, se si vuole raggiungere il predetto obiettivo, è necessario che questi soggetti siano effettivamente sanzionati nel modo più opportuno.
Orbene, al fine di ottenere questo risultato, nel Rapporto presentato nel 2006 al Consiglio di Sicurezza, il Rappresentante Speciale aveva raccomandato un maggiore impegno nell’attività di monitoraggio e di informazione, per tenere alta l’attenzione della comunità internazionale sulla questione dell’arruolamento di giovani. Nell’aprile 2007, il Working Group ha inserito, nella sua agenda, il monitoraggio sul reclutamento di minori in Myanmar. Invero, a dispetto dell’accordo raggiunto con le Nazioni Unite, il Governo del Myanmar ha posto numerose restrizioni sull’attività di monitoraggio e di informazione svolta dal Rappresentante Speciale nel suddetto Paese; tra queste, la più importante è sicuramente la limitazione dell’accesso alle aree colpite dal conflitto, cui il Rappresentante Speciale può accedere secondo i tempi scanditi dal Myanmar. Ovviamente questa politica mina il requisito fondamentale dell’indipendenza dell’organo “controllore”, necessaria per garantire un’efficace ed effettiva attività di monitoraggio.
Tra l’altro, queste gravi restrizioni imposte alle Nazioni Unite, quale l’accesso vietato alle zone oggetto di scontri, imposte anche da altri paesi non inseriti nell’agenda del Consiglio, come il Ciad, la Colombia e le Filippine, unite ad una situazione di scarsità delle risorse, rende l’impegno del Rappresentante Speciale ancora più arduo. In particolare, l’instabilità e la mancanza di ogni forma di sicurezza nella zona più a est del Ciad o in certe aree di operazione di gruppi ribelli nelle Filippine e nella Colombia rendono difficile ottenere accurate informazioni sulle violazioni dei diritti dei minori.
Si sottolinea, inoltre, che il Rappresentante Speciale ha intrapreso diverse missioni, in vari paesi, al fine di ottenere un appoggio più forte in questa “lotta” al fenomeno del reclutamento dei ragazzi e per sostenere le autorità, le Nazioni Uniti e i partners della società civile che si impegnano in questa battaglia per la tutela dei diritti dei minori. Molte di queste missioni hanno ricevuto mandato dal Working Group. Relativamente al periodo oggetto del Rapporto in esame (ottobre 2006-agosto 2007), si precisa che il Rappresentante Speciale ha svolto personalmente le missioni in Sudan (gennaio 2007), nella Repubblica Democratica del Congo (marzo 2007), nel Libano, nel Territorio Occupato della Palestina, a Israele (aprile 2007) e in Myanmar (giugno 2007), mentre, nel caso dello Sri Lanka (novembre 2006) l’attività è stata svolta dal suo consulente. Si rileva, inoltre, che la cooperazione offerta dai Governi locali al Rappresentante Speciale è stata essenziale per poter svolgere in modo efficace ogni attività di monitoraggio.
Ciò detto, per tornare al quesito iniziale su cosa si stia facendo in concreto per combattere il fenomeno dell’arruolamento di bambini e giovani, valida risposta è sicuramente fornita dalla nuova figura dei Child Protection Adviser (cpa) ovvero di un esperto di tutela dei minori. Orbene, dal precedente Rapporto presentato nel 2006 al Consiglio di Sicurezza da parte del Segretario Generale si evince la necessità far riferimento a queste figure professionali, operative nell’ambito delle Peacekeeping Operations delle Nazioni Unite, istituite nel 1999 con Risoluzione 1261 del CdS. Il successivo studio sulla “tutela dei minori nel corso delle operazioni di Peacekeeping”, commissionato dalla Sezione di Peacekeeping Best Practices (così come disposto nel paragrafo 20(d) della predetta Risoluzione del CdS 1612(2005)), ha evidenziato l’impellente bisogno di specialisti di tutela dei minori. L’opportunità di coinvolgere questi professionisti nelle operazioni in corso è evidente, soprattutto se si considerano i significativi risultati raggiunti da questi specialisti nel catturare l’attenzione della comunità internazionale sul tema dei minori coinvolti nei conflitti armati. La loro attività di monitoraggio e di stesura dei relativi Rapporti è stata a tal punto incisiva da indurre le Nazioni Unite ad inserire questo aspetto del diritto internazionale nell’agenda delle questioni in materia di pace e sicurezza.
Il menzionato studio ha, altresì, rilevato sia la necessità di una cooperazione tra questi attori della tutela dei minori, sia i cinque punti essenziali da tenere in considerazione per approcciare il problema dei giovani coinvolti nei conflitti: 1) l’esperto di tutela dei minori dovrebbe essere supervisionato dal Dipartimento delle Peacekeeping Operations, dall’Ufficio del Rappresentante Speciale del Segretario Generale per i minori coinvolti nei conflitti e dall’UNICEF; 2) il Dipartimento di Peacekeeping Operations deve necessariamente attivare un servizio di formazione e supporto quotidiano e costante agli esperti per la tutela dei minori; 3) le modalità d’intervento ritenute le migliori devono essere tenute in considerazione ed inserite nella politica di sviluppo, dal Dipartimento di Peacekeeping Operations, in consultazione con l’Ufficio del Rappresentante Speciale, l’UNICEF e gli altri partners; 4) la postazione delle unità di tutela dei minori o degli esperti, all’interno delle missioni, devono essere supervisionate e possibilmente standardizzate; 5) la scelta dei consulenti per la tutela dei minori deve essere rimessa al Dipartimento, in consultazione con l’Ufficio del Rappresentante Speciale e l’UNICEF.
Al momento della stesura dell’ultimo Rapporto del Rappresentante Speciale, la sezione delle Peacekeeping Best Practices, era sul punto di scegliere l’esperto per la tutela dei minori, personalità di alto livello, cui viene affidato il compito di visionare la situazione dei minori alla luce dei menzionati cinque punti e delle raccomandazioni emesse dalle Nazioni Unite.
Il Rappresentante Speciale ritiene che esperti di tutela dei minori dovrebbero essere inviati anche in Afghanistan, Iraq, Libano, nel territorio occupato della Palestina, nell’African Union-UNited Nations Hybrid Operation in Darfur e nell’operazione delle Nazioni Unite e dell ‘Unione Europea in Ciad e nella Repubblica Centrafricana, per rinforzare il sistema di monitoraggio sui diritti umani, da parte di esperti, nel corso delle varie missioni. Un siffatto intervento garantirebbe un’acquisizione tempestiva e precisa di informazioni, permettendo l’elaborazione di piani d’azione più efficaci ed immediati.
La Commissione sui diritti dei fanciulli ha recentemente adottato delle nuove linee guida relative al Protocollo Opzionale alla Convenzione sui diritti dei minori sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati, che esorta gli Stati parti a cooperare con il Rappresentante Speciale e a monitorare e ad elaborare i relativi Rapporti, così come previsto nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1612 (2005), in attuazione del Protocollo Opzionale.

6 - ANALISI DI ALCUNI PAESI

Tutto ciò premesso, passiamo ad analizzare la situazione del reclutamento dei minori, in alcuni degli stati oggetto di monitoraggio da parte del Rappresentante Speciale e inseriti nell’agenda del Consiglio di Sicurezza; le informazioni di seguito riportate sono state estrapolate dal testo del Rapporto Annuale presentato in data 21 dicembre 2007 dal Segretario Generale al Consiglio di Sicurezza.

Afghanistan: i Talebani continuano ad utilizzare bambini per attaccare le truppe afghane, i
civili e le forze internazionali presenti sul posto. La debolezza delle istituzioni e del sistema giudiziario, così come l’inadeguatezza delle forze di sicurezza afghane, hanno contribuito alla mancata protezione dei bambini coinvolti nel conflitto. Le Nazioni Unite hanno constatato l’uso di ragazzi per portare a termine attacchi suicidi. Purtroppo, questo non è nuovo fenomeno, avendo l’ONU documentato numerosi casi di arruolamento di bambini coinvolti in prima persona nei continui attacchi sferrati contro le forze nemiche.

Burundi: il 2007 è stato caratterizzato da una forte instabilità politica e da continue tensioni tra il Governo e l’opposizione; inoltre, si è registrato un momento di stallo nell’attuazione dell’Accordo di cessate il fuoco (Comprehensive Ceasefire Agreement), sottoscritto il 7 settembre 2007 dal Governo e dal gruppo armato FNL-Agathon Rwasa. Desta particolare preoccupazione il continuo arruolamento di minori nelle file dei ribelli. Dall’ottobre 2006 al luglio 2007, sono stati segnalati 85 casi di reclutamento di bambini, a cui vanno aggiunti i 60 segnalati dopo la sottoscrizione del predetto Accordo. A marzo 2007, 26 bambini, tra i 14 e 18 anni, precedentemente detenuti nei campi di disarmo in Ruanda, sono stati liberati e reintegrati nella loro famiglia e nella loro comunità. Continua, invece, a preoccupare l’allarmante dato, registrato tra l’ottobre 2006 e luglio 2007, della detenzione di 49 bambini accusati di aver preso parte attiva tra le file dei gruppi ribelli; un aumento del 35% rispetto al numero riportato nel precedente Rapporto del 2006. Molti di loro sono stati detenuti per diversi mesi senza avere avuto alcuna forma di assistenza legale e senza essere stati giudicati a seguito di un giusto processo. A marzo 2007 sono stati rilasciati più di 65 bambini detenuti.

Repubblica dell’Africa Centrale: in questo paese sono stati riportati numerosi casi di reclutamento di bambini da parte dei gruppi ribelli dell’UFDR, che controlla buona parte dell’area nord-est della Repubblica Centroafricana. Il 16 giugno 2007 è stato sottoscritto un piano d’azione concordato dall’UFDR, dal Governo e dall’UNICEF per combattere il fenomeno dei bambini soldato e per sviluppare i processi di disarmo e di reintegrazione dei minori coinvolti. Sono stati immediatamente rilasciati 200 ragazzi; poco prima, ad aprile e maggio, più di 450 minori (il 75% di età compresa tra i 13 e i 17 anni) sono stati smobilitati. Tutti questi bambini sono stati reintegrati nelle loro famiglie e nelle loro comunità. Approssimativamente il 75% di questi ragazzi è stato coinvolto attivamente nelle operazioni militari delle forze armate per un lungo periodo, circa per nove mesi-un anno, gli altri sono stati usati dai gruppi ribelli dell’UFDR per tre anni; il 10%, di circa 10 anni, è stato impiegato come supporto logistico. Una missione svolta dall’UNICEF nel giugno 2007 ha confermato l’arruolamento di 400/500 ragazzi, tra cui anche diverse ragazze, tra le file del gruppo ribelle APRD e FDPC, entrambi attivi nella regione nord-overst del paese. Nonostante siano state intavolate con l’APDR, informali trattative per prevenire il reclutamento e per organizzare l’attività di disarmo e di reintegrazione dei bambini soldato, formali negoziati ancora non sono stati sottoscritti a causa dell’instabilità politica della regione.

Costa d’Avorio: l’Accordo di pace di Ouagadougou siglato il 4 marzo 2007, tra il Presidente Laurent Gbagbo e il Segretario Generale delle Forze nuove, Guillame Soro, ha dato inizio ad un nuovo processo di pace. Nel 2007 non sono stati registrati casi di nuovi reclutamenti di minori. Le Nazioni Unite sono riuscite a monitorare regolarmente l’eventuale arruolamento di ragazzi grazie al piano d’azione elaborato con il FDS-FN e con quattro gruppi militari armati, FLGO, MILOCI, APEè e UPRGO. Il 16 gennaio 2007, il FDS-FN ha inviato una lettera all’UNICEF chiedendo un aiuto per completare l’attuazione del predetto piano. Il FDS-FN ha, inoltre, completato l’identificazione dei bambini che ancora risultavano arruolati; sono stati identificati 85 ragazzi, tra cui 27 ragazze.
E’, altresì, importante sottolineare che i quattro gruppi militari hanno collaborato con l’Operazione delle Nazioni Unite in Costa d’Avorio, con l’Unicef, con il nuovo comando centrale ( che, secondo quando statuito nell’Accordo di Ouagadougou, è responsabile della fase del disarmo e della smobilitazione nell’ambito del processo di disarmo, smobilitazione e reintegrazione) e con il PNRC (Programma nazionale di reintegrazione e riabilitazione, che si occupa appunto della successiva fase di reintegrazione e riabilitazione) al fine di avviare un processo di recupero degli ex combattenti. Aspetto interessante di questo Accordo è sicuramente il fatto che, nell’ambito di un Accordo di pace, si sia presa in considerazione espressamente ed in modo concreto la situazione dei bambini soldato.
Nell’ aprile 2007, sono stati identificati e registrati 204 minori arruolati, di cui 84 ragazze; tutti questi ragazzi sono ora inseriti in specifici programmi dell’UNICEF.
Tutti i gruppi militari sopra citati, coinvolti in questa nuova politica di tutela dei diritti dei minori, si sono impegnati a tenere sotto controllo la situazione, anche nei prossimi mesi.

Repubblica Democratica del Congo: nel 2007 si è registrata una netta diminuzione, nell’insieme, di casi di reclutamento di minori, fatto che può essere attribuito a diverse ragioni, tra le quali è sicuramente da annoverare l’attuazione del programma di disarmo, di mobilitazione e di reintegrazione dei bambini,della diminuzione del numero dei conflitti e la persistente attività di lobby volta a tutelare i minori contro ogni forma di arruolamento. Tuttavia, nonostante questi dati, tutte le parti in conflitto indicate nel precedente Rapporto del Rappresentante Speciale (del 2006) continuano ad arruolare bambini e a sfruttare e rapire minori. La presenza di ragazzi nelle file del FARDC (Forces armèes de la Republique democratique du Congo) rimane molto alta. Il 4 gennaio 2007, il Governo ha stipulato un accordo con il capo dei ribelli, Laurent Nkunda, permettendo l’unione delle truppe di Nukunda con quelle del FARDC. Ciò ha comportato un aumento nel numero di bambini arruolati. Diverse scuole sono state chiuse a causa dei tentativi di Nukunda di rapire i ragazzi per farli arruolare in modo forzato. Il Rapporto rileva, però, un aumento del fenomeno del reclutamento di minori nel Nord Kivu, così come in Rwanda ed Uganda, proprio a seguito di questo processo di unione delle truppe. A maggio 2007 l’ufficio delle Nazioni Unite dell’Alto Commisario per i Rifugiati (UNHCR) ha intrapreso, in accordo con le autorità del Rwanda, un’attività di monitoraggio nei campi dei rifugiati per verificare la situazione effettiva di reclutamento dei ragazzi presenti nei campi; l’UNHCR si è, inoltre, impegnato ad elaborare dei piani d’azione a tutela dei bambini, volti, per esempio, alla sensibilizzazione della comunità presente nei campi profughi. Ovviamente questa attività è possibile grazie anche all’aiuto delle autorità locali che hanno aumentato il controllo sull’uscita dei ragazzi dai campi dei rifugiati. Al fine di garantire un maggiore successo dell’impresa, è, altresì, essenziale porre termine al clima di impunità , assicurando alla giustizia coloro che sono stati accusati di aver reclutato minori.
Il Governo Rwandese ha iniziato un’indagine sull’arruolamento di otto bambini rapiti dal campo profughi di Kiziba il 24 luglio 2007, per essere probabilmente impiegati nel sud Kivu. L’indagine, al momento della stesura dell’ultimo Rapporto del 2007, era ancora in corso. Nell’Ituri, benché si sia registrata una diminuzione dei casi di arruolamento di minori, i ragazzi continuano ad essere comunque reclutati dal Front des nationalistes et interationnistes (FNI) e dal Front de rèsistance patriotique en Ituri (FNRPI). In particolare, durante la terza fase del processo di disarmo, smobilitazione e reintegrazione in Ituri, iniziato il 4 agosto 2007, più di 40 bambini, da quanto è stato riferito, sono stati nuovamente arruolati dalle forze locali di Petere Karim Ugada. Orbene, benché 2.900 ex combattenti siano stati smobilizzati il 16 agosto 2007, è stato stimato che il FNI, il FRPI, e il Mouvement rèvolutionnaire congolais (MRC) contano ancora tra le proprie file ben 1.500 elementi, inclusi molti ragazzi. Il FNI è anche responsabile per aver ostacolato il processo di separazione dei ragazzi nella fase del disarmo. Un totale di 4.182 minori, incluse 629 ragazze, sono stati separati dalle forze armate e dai gruppi, nella ragione più a est della RDC. Nell’Ituri, 2.472 ragazzi, incluse 564 ragazze, sono stati separati dai gruppi del MRC,del FRPI e del FNI; nel Nord Kivu, 1.372 bambini, incluse 52 bambine, sono state separati dalle truppe di Laurent Nkunda, dal FARDC e dalle truppe dei gruppi Mai-Mai.; nel Sud Kivu, 336 ragazzi, incluse 13 ragazze, sono stati separati dalle truppe Mai-Mai e da quelle associate a Laurent Nkunda.

Haiti: il Consiglio di Sicurezza ha riconosciuto le gravi violazioni commesse contro i bambini vittime dei conflitti armati ed ha richiesto la loro continua tutela. Nel corso delle operazioni militari della Haitian National Police (HNP) e dell’United Nations Stabilization Mission in Haiti (MINUSTAH), le condizioni di sicurezza sono state rafforzate, specialmente nelle zone colpite dai conflitti, come Citè Soleil e Marissant in Port-au-Prince. I suddetti gruppi armati variano nella loro organizzazione, attività, motivazione, e nel grado di affiliazione politica. Secondo il MINUSTAH, benché questi gruppi siano essenzialmente di natura criminale, il loro carattere e le loro motivazioni possono essere sia criminali sia politici (dipende dallo specifico momento e dalle specifiche circostanze) e potrebbero rappresentare una seria minaccia alla pace e alla sicurezza. La situazione dei bambini è veramente critica, dal momento che le Nazioni Unite sono venuti a conoscenza dell’uso di ragazzi come soldati, ad opera delle parti coinvolte nel conflitto. Tra l’altro, è estremamente difficile identificare un gruppo armato dall’altro a causa dell’alto numero di attori coinvolti e della frammentazione dei gruppi. Ad ogni modo è stata confermata, da più parti, la prassi di coinvolgere ragazzi nei conflitti armati, utilizzandoli come messaggeri, vedette, facchini per portare le armi pesanti, o come veri e propri soldati. In particolare, i ragazzi sono stati designati proprio per formare un gruppo a parte.

Iraq: è molto difficile ricevere informazioni sul reclutamento di ragazzi. La maggior parte delle informazioni disponibili sono state estratte da un’ampia gamma di differenti risorse ma raramente possono essere efficacemente verificate. Ad ogni modo, le statistiche delle Nazioni Unite e delle autorità irachene suggeriscono che metà dei rifugiati iracheni sono minori, così come il 38-40% degli sfollati sono ragazzi. Ci sono diverse voci autorevoli che affermano l’esistenza del fenomeno dell’arruolamento di bambini da parte dell’esercito, dei gruppi armati, come da parte delle organizzazioni insurrezionali. Recentemente è stata sollevata la questione circa la nuova tattica, delle forze insurrezionali di Al-Qaida e dei gruppi affiliati ad Al-Qaida, di usare i bambini come mezzi per attacchi suicidi. Il Multinational Forces in Iraq (MNF-I) ha pubblicamente riferito che i ribelli nella provincia di Anbar stanno usando ragazzi per piantare bombe sulle strade e come ricognitori per le squadre di detonazione. A causa delle crescenti operazioni di sicurezza sotto il “Baghdad Security Plan” e dell’aumento dei casi di arruolamento di minori da parte delle forze ribelli, è aumentato il numero di ragazzi reclutati, di età compresa tra i 12 e i 17 anni, tra le file del MNF-I: da quasi 300 nel dicembre 2006 a circa 800 nell’agosto 2007, con circa 30 giovani militanti tra i gruppi ribelli.
Si rileva, altresì, che il sistema educativo in Iraq è stato gravemente indebolito a causa dei continui attacchi alle scuole, agli alunni e agli insegnanti. L’UNICEF ha riferito che almeno il 30% dei bambini Iracheni non sta attualmente frequentando la scuola. Ciò, ovviamente, ha agevolato l’attività di reclutamento dei giovani tra le forze ribelli.
Infine, il Governo ha avviato, grazie all’intervento della Commissione per la tutela dell’Infanzia,una politica di attenzione alle necessità dei minori. A tal riguardo, la Commissione ha istituito un Comitato che ha raccomandato al Governo di ratificare il Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti dei bambini sul coinvolgimento di bambini in conflitti armati. Il Governo ha ripetutamente richiesto supporto e assistenza alla comunità internazionale e alle agenzie delle Nazioni Unite per garantire sicurezza e protezione ai giovani iracheni.

Libano: non ci sono notizie di reclutamento di giovani da parte delle forze armate. Sia il Primo Ministro Fouad Siniora, sia il Parlamentare Mohamend Raad hanno informato il Rappresentante Speciale, in visita a Beirut nell’aprile 2007, circa l’intenzione del Libano di ratificare il Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti dei minori coinvolti in conflitti, e non usare i bambini per azioni violente o per mobilitazioni politiche.

Myanmar: il Governo, attraverso la sua Commissione contro la Prevenzione del Reclutamento militare di minori, si è attivato per affrontare il problema del reclutamento dei bambini, includendo questo punto nel piano d’azione nazionale volto a combattere il commercio di bambini. Inoltre, secondo la legge nazionale, la partecipazione alle forze armate governative (Tatmadaw Kyi) è legittima solo se avviene volontariamente e se coinvolge maggiorenni. Ciò nonostante, dalle annotazioni fatte dalle Nazioni Unite si evince che l’esercito governativo attualmente arruola minori con la forza. E’, tuttavia, difficile verificare sistematicamente l’entità dell’attività di reclutamento ed il numero dei giovani arruolati, a causa dei forti limiti di accesso nei campi militari. Inoltre, la mancanza di certificati di nascita e la prassi locale di falsificare le informazioni riportate all’atto della registrazione rendono ancora più ardua la tutela dei minori da ogni forma di sfruttamento cui sono esposti nel corso dei conflitti. Dal 2005, le Nazioni Unite hanno ricevuto periodicamente informazioni dal Governo sull’attività della Commissione, incluse le informazioni relative al rilascio di minori dalle file dell’esercito; più recentemente, si è avuta contezza anche delle sanzioni adottate dal Governo contro i reclutatori che hanno violato le norme relative all’arruolamento governativo, in particolare a quello dei minori. Tuttavia, i membri delle Nazioni Unite operativi sul posto non possono verificare le informazioni riportate dal Governo, circa le sanzioni adottate contro i responsabili delle predette violazioni, nonostante in numerose occasioni siano intervenuti a controllare personalmente.
Nel corso dell’ultima missione delle Nazioni Unite, il Governo si è dimostrato disponibile a cooperare per avviare un meccanismo di controllo e di informazione sulle violazioni dei diritti dei minori; seguendo il dettame della risoluzione 1612 (2005) del Consiglio di Sicurezza, il Governo del Myanmar ha nominato il Direttore Generale del Ministero delle Politiche Sociali, come referente per le questioni relative all’attuazione delle menzionata risoluzione. Anche il Governo si è reso disponibile per attivarsi contro i reclutatori militari che arruolano minori e per elaborare una lista con i nominativi dei ragazzi rilasciati, da sottoporre al controllo delle Nazioni Unite. Al momento della stesura dell’ultimo Rapporto del Rappresentante Speciale, il Governo aveva appena inviato alle Nazioni Unite una lista con i nominativi dei bambini rilasciati, mostrandosi, inoltre, interessato ad avviare un piano d’azione in collaborazione con le Nazioni Unite e l’UNICEF. Questa nuova collaborazione, volta a rendere effettivo il rispetto degli standards internazionali in materia di reclutamento di minori, è caratterizzata dai seguenti impegni assunti dalle parti citate: istituire una Sottocommissione che si occupi di garantire l’effettiva reintegrazione degli ex bambini soldato; rendere trasparente la procedura di reclamo in caso di violazione delle norme sul reclutamento di minori, inclusa l’adozione di sanzioni disciplinari nei confronti delle parti che dovessero violare queste norme; facilitare l’accesso, per le Nazioni Unite e l’UNICEF, ai campi di reclutamento al fine di verificare se vi sono o meno dei giovani; avviare dei corsi specifici di tutela dei minori rivolti agli ufficiali del Tatmadaw Kyi; fare pressione sull’opinione pubblica, inclusi i residenti nei villaggi del Paese, per creare una maggiore consapevolezza sulle regole e sulle procedure di denuncia, per combattere il fenomeno del reclutamento di minori. Inoltre, nel febbraio 2007, il Governo ha raggiunto un accordo con l’ILO (International Labour Organization), per elaborare un’efficace procedura di denuncia dei casi di lavoro forzato minorile, tra cui, secondo la Convenzione ILO 29, deve essere annoverato l’arruolamento forzato e l’arruolamento dei minori.
Infine, il Rappresentante Speciale ha manifestato la propria preoccupazione sull’arruolamento di minori nei campi per i rifugiati, causato dalla mancanza di meccanismi di identificazione e controllo degli ex bambini soldato.

Palestina e Israele: la situazione dei bambini palestinesi nel territorio occupato della Palestina, inclusa Gerusalemme Est, rimane grave a causa sia delle continue operazioni militari da parte di Israele, sia all’aumento delle ostilità interne per l’intensificarsi dei conflitti tra le fazioni rivali Palestinesi. Conoscere l’effettiva situazione dell’arruolamento di giovani tra le file dei gruppi armati palestinesi e farsi un’idea sull’effettivo sviluppo di questo fenomeno è praticamente impossibile. Nonostante non vi sia prova del sistematico tentativo di reclutare ragazzi, militari di almeno un gruppo armato palestinese hanno contattato dei giovani fuori delle scuole di Gaza, convincendoli a prendere parte ai corsi di addestramento paramilitari. Ad aprile 2007, durante la missione del Rappresentante Speciale, il Presidente palestinese Abbas e il Ministro degli Esteri Abu Amr si sono accordati per rimettere in vigore il codice di condotta dei gruppi palestinesi per non coinvolgere ragazzi nelle violenze politiche e per elaborare con l’UNICEF un piano d’azione per prevenire l’uso dei minori nei conflitti.
Nel 2007 è stato documentato l’uso di quattro bambini palestinesi da parte dei soldati israeliani.

Sudan: il Governo dell’Unità Nazionale e il Governo del Sudan del Sud si sono impegnati, a gennaio 2007, a permettere all’UNICEF e alla Missione delle Nazioni Unite in Sudan (UNMIS) l’accesso alle caserme militari delle Forze Armate del Sudan (SAF), del Sudan People’s Liberation Armi (SPLA) e delle forze e dei gruppi armati alleati al fine di monitorare la situazione dei minori; ad adottare e rafforzare la legislazione nazionale che criminalizzi il reclutamento di giovani soldati in breve tempo; ad allocare risorse adeguate per il processo di reintegrazione degli ex bambini soldato; ad istituire una task force in collaborazione con le Nazioni Unite sulla violenza sessuale e sugli abusi contro i bambini; e ad assicurare la sicurezza e la protezione del personale umanitario.
Il Governo del Sud del Sudan ha preso alcune importanti misure per far fronte alla situazione dei bambini soldato, tra cui l’approvazione di una riforma legislativa, l’organizzazione di strutture per trattare bambini che hanno subito violenze ed abusi e il serio impegno di occuparsi del disarmo, della smobilitazione e della reintegrazione dei giovani.
L’UNMIS ha intavolato un dialogo con lo SPLA e il SAF per porre termine alle violenze contro i bambini e per far rilasciare i minori dalle unità militari. Il 7 giugno 2007, 60 capi del SAF e dello SPLA si sono impegnati a porre termine all’arruolamento di minori; hanno, inoltre, elaborato un piano d’azione per il Comitato composto da militari, provenienti da diverse aree del Sudan, con il fine di far fronte ai rapimenti e alle violenze commesse nei confronti di giovani nella zona a nord del Nilo, a Jonglei e nell’Unione degli Stati. Ad ogni modo, il SAF e lo SPLA non hanno accordato il permesso alle Nazioni Unite di accedere alle caserme militari per verificare l’effettiva situazione dei minori. Il processo di rilascio e reintegrazione dei bambini è stato fortemente ostacolato. Agli inizi del 2007 sono stati rilasciati dallo SPLA centinaia di bambini, un po’ di meno dai gruppi armati affiliati al SAF, sotto la supervisione e coordinamento della Commissione del Sudan del nord e del sud per il disarmo, la smobilitazione e reintegrazione. A maggio 2007, sono stati rilasciati 25 bambini a Bentiu, nel sud del Sudan, e si sono riuniti alla loro famiglia, nel nord del Sudan. Attualmente è in corso un programma per il disarmo, la smobilitazione e la reintegrazione di circa 600 ragazzi dalle file del SPLA nel sud del Sudan. Nonostante questi progressi, migliaia di minori si trovano ancora nelle caserme militari e alcuni minori smobilitatiti ritornano nell’esercito a causa di un inefficiente meccanismo di reintegrazione. Invero, gruppi armati affiliati al SAF e allo SPLA continuano ad arruolare bambini.
Durante il periodo preso in esame nel Rapporto, le Nazioni Unite hanno intervistato alcuni bambini che hanno confessato di aver combattuto nel Sud del Darfur per almeno tre anni. Questi bambini sono al seguito di altri gruppi armati: del Sudan Liberation Army/Minni Minawi (SLA/MM), dello SLA/Gasim (SLA/AG), dello SLA/Abdul Wahid (SLA/AW) e dello SLA/Shafi (SLA/S). Nell’aprile 2007, bambini armati di neanche 12 anni sono stati identificati come appartenenti alle file dello SLA/MM, nel Nord del Darfur. Nello stesso periodo, le Nazioni Unite e la Missione dell’Unione Africana nel Sudan (AMIS) hanno identificato molti bambini soldato associati alle truppe affiliate al SAF nell’area di Kutum. A maggio 2007, 13 ragazzi sono stati identificati come appartenenti allo JEM-Peace Wing. L’AMIS ha anche confermato la presenza di bambini soldato di 15 anni arruolati e usati dal PDF, nella zona ovest del Darfur.
L’11 giugno 2007, lo SLA/MM ha sottoscritto un piano d’azione per porre termine all’arruolamento e al reclutamento di giovanissimi come soldati; si è deciso di rilasciare tutti i minori arruolati nelle loro forze o nei gruppi ribelli a loro associati, di sviluppare e rafforzare un processo di identificazione e determinazione dell’età dei ragazzi, e di garantire un forma di protezione speciale per ragazze e donne. Il piano d’azione coinvolgerà ben 1.800 ragazzi reclutati dal SLA/MM. L’UNICEF e l’UNMIS hanno anche raggiunto un accordo con i capi dello SLA/AW, dello SLA/AS e dello SLA, secondo cui questi gruppi ribelli si impegnano a collaborare al rilascio dei minori dalle loro file.
Ad ogni modo, il 30 giugno 2007 (data dell’ultimo sopralluogo da parte del Rappresentante Speciale), non era stato fatto ancora nulla in concreto per dar seguito agli impegni presi.
Alcuni progressi sono stati fatti nell’area più a est del Sudan. Nell’Eastern Sudan Peace Agreement, siglato il 14 ottobre 2006 tra il gruppo ribelle del Fronte ad Est e il Governo dell’Unità Nazionale, è stata inserita come clausola il rilascio e la smobilitazione di 3.700 ex soldati, di cui 250 sono bambini.

7 - RACCOMANDAZIONI DEL SEGRETARIO GENERALE

A conclusione del Rapporto presentato al Consiglio di Sicurezza sulla situazione dei minori coinvolti nei conflitti armati, il Segretario Generale ha formulato delle Raccomandazioni che possono essere riassunte nei seguenti punti principali:
&Mac183; il Consiglio di Sicurezza dovrebbe preparare un concreto piano d’azione per porre termine alla
pratica dell’arruolamento, dell’uccisione e della mutilazione dei bambini, di ogni forma di violenza o abuso fatto nei loro confronti, prendendo in considerazione anche gli attacchi contro le scuole e gli ospedali; dovrebbe, altresì, affermare l’illegittimità del divieto di aiuto umanitario per i bambini, applicato in violazione delle norme internazionali a loro tutela;
&Mac183; il Cds dovrebbe adottare delle sanzioni molto severe nei confronti di chi viola i diritti
fondamentali dei minori coinvolti in conflitti armati, sottraendosi alle raccomandazioni dello specifico Working Group e alle risoluzioni del Consiglio stesso. A tal riguardo, il Consiglio di Sicurezza dovrebbe adottare una serie di misure, tra cui: porre l’embargo sull’esportazioni di armi e sull’assistenza militare, limitare la libertà di viaggio per i capi dei gruppi ribelli e disporre la loro esclusione da ogni impiego in strutture governative, vietare l’applicazione nei loro confronti dell’amnistia, ed infine, limitare ogni flusso di risorse finanziarie a beneficio delle parti coinvolte nelle menzionate violazioni;
&Mac183; il CdS dovrebbe, inoltre, conferire poteri più ampi al Working Group on Children and Armed
Conflict in modo tale che quest’organo sia legittimato a formulare delle raccomandazioni al CdS, al fine di esortarlo a sanzionare le parti che violano i diritti dei minori, e a monitorare l’applicazione effettiva delle suddette sanzioni;.
&Mac183; per quanto, poi, riguarda le Peacekeeping Operations, il Segretario Generale auspica che ogni
futura missione di peacekeeping, e tutte le missioni politicamente rilevanti includano nel loro mandato la figura del Child Protection Adviser (CPA); invero, solo un’attenta supervisione, sullo svolgimento delle missioni, da parte di esperti di tutela dei diritti dei minori, agevola la pianificazione di interventi immediati e tempestivi, a tutela dei ragazzi coinvolti nei conflitti;
&Mac183; gli Stati Parti dovrebbero porre termine al clima d’impunità, assicurando alla giustizia gli
individui responsabili del crimine di arruolamento dei minori e dell’uso di bambini nei conflitti e di ogni violenza e abuso fatta nei loro confronti. Il Consiglio di Sicurezza dovrebbe collaborare, in modo più assiduo con il Tribunale Penale Internazionale, denunciando i casi di gravi violazioni nei confronti di ragazzi coinvolti in conflitti armati, che ricadono sotto la giurisdizione del Tribunale;
&Mac183; gli Stati Parti della Convenzione sui diritti dei minori sono, altresì, incoraggiati ad adottare le
sanzioni disposte dal Comitato sui diritti dei fanciulli e a rinforzare il sistema nazionale e internazionale a tutela dei minori contro ogni forma di loro reclutamento od impiego nelle ostilità, da parte sia dell’esercito sia dei gruppi armati: in particolare, ratificando il Protocollo Opzionale alla Convenzione sui diritti dei bambini coinvolti nei conflitti armati, adottando leggi che proibiscano esplicitamente l’arruolamento e l’uso di minori sia nell’esercito sia nei gruppi armati, presentando completi Rapporti al Comitato dei diritti dei fanciulli (secondo quanto stabilito nel Protocollo Opzionale) ed, infine, esercitando la giurisdizione extraterritoriale, al fine di rafforzare la tutela internazionale dei minori contro il loro arruolamento.

8 - IMPUNITA’

Aspetto essenziale nella lotta al fenomeno dell’arruolamento dei minori nelle file dell’esercito e dei gruppi ribelli, è, senza dubbio, la perseguibilità dei responsabili di questo crimine.

8.1 Crimine del reclutamento dei minori e Tribunale Penale Internazionale

L’idea che sottende al bisogno di giustizia internazionale è il rifiuto dell’impunità per i crimini più gravi che recano oltraggio a tutta la comunità internazionale. A partire dal processo di Norimberga sono gli individui ad essere oggetto di giudizio, non più gli stati nazionali, dissipando così il mito della responsabilità collettiva. "In questo modo", ha sottolineato Antonio Cassese, "si evita di dividere il mondo in buoni da una parte e cattivi dall’altra. In ex-Yugoslavia i crimini sono stati perpetrati dai serbi così come dai croati e dai musulmani. La responsabilità e la punizione individuale permettono di andare al di là dell’odio fra i differenti gruppi " .
Sono passati cinquant’anni dalla risoluzione delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1948, che prevedeva la creazione di una "Corte Criminale Internazionale" e dalla sua realizzazione grazie all’adozione dello Statuto di Roma nel luglio del 1998. Tuttavia, ancora oggi la Corte fa fatica ad affermare la sua legittimità.
Le critiche che le sono state mosse più di frequente riguardano le sue ambizioni universalistiche e la mancanza di strumenti adeguati. Si rimprovera che un processo portato avanti a L’Aja, e che giudica crimini commessi in tutt’altro luogo, non sarà sufficiente a placare le sofferenze delle popolazioni in loco. La Corte Penale Internazionale ha riscontrato un successo che pochi avevano previsto, in particolare in quei piccoli Paesi che hanno insistito per ratificare lo Statuto come Sierra Leone, Colombia, Macedonia e Burundi. Ad oggi la Corte conta 139 Stati membri, ovvero quasi i 2/3 degli Stati mondiali. Ma quelli che mancano – Stati Uniti, Russia, Cina, Israele, India…– sono essenziali. Queste assenze limitano molto dal punto di vista geografico il potere della Corte, la cui competenza si limita solo ai crimini commessi dai suoi Stati membri o sui loro territori.
Rientra nelle competenze della Corte il potere di giudicare le violazioni più gravi del diritto internazionale: crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra.
Tuttavia permangono alcune " zone d’ombra " riguardanti la formulazione delle sue competenze. In particolare, la definizione di genocidio – distruzione intenzionale di un gruppo a causa della sua nazionalità, etnia, razza o religione – esclude le persecuzioni per ragioni politiche o ideologiche. Nel 2009, tuttavia, avrà luogo una revisione dello Statuto tale da poter allargare le competenze della Corte ai cosiddetti treaty crimes: terrorismo, traffico di stupefacenti, grande criminalità internazionale.

8.1.1 Crimini di guerra e reclutamento di minori

Seguendo la lunga elencazione e l'impostazione letterale dell'art.8 si possono tracciare quattro categorie di crimini di guerra individuati dallo Statuto. Le prime due sono riferite ai conflitti armati internazionali:1) le "gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949" ; 2) le "altre gravi violazioni delle leggi e degli usi applicabili, all'interno del quadro consolidato del diritto internazionale" . Le rimanenti sono riferite ai conflitti armati non internazionali: 3) le "gravi violazioni all'art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949" ; 4) le "altre gravi violazioni delle leggi e degli usi applicabili, all'interno del quadro consolidato del diritto internazionale". Per ciascuna di tali categorie, lo Statuto individua espressamente le singole fattispecie, dando ad ognuna una numerazione che ne consente una immediata identificazione secondo i principi propri della codificazione penalistica: vengono così individuati trentaquattro crimini di guerra per i conflitti internazionali (di cui otto riconducibili alle gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra e ventisei alle leggi e usi di guerra), nonché sedici crimini di guerra per i conflitti non internazionali (quattro in riferimento all'art.3 delle Convenzioni e dodici alle leggi e usi), per un totale complessivo di cinquanta fattispecie di crimini di guerra ascrivibili alla competenza della Corte.
La lunga elencazione indicata dall'art. 8 è il frutto, anche in questo caso, della scelta tecnico-normativa che i redattori dello Statuto hanno voluto compiere per addivenire ad una definizione attualizzata dei crimini di guerra. Si è trattato evidentemente di ricostruire lo stato dell'arte del diritto internazionale consuetudinario e convenzionale per una possibile individuazione "universale" della nozione di crimine di guerra. Lo sforzo è stato conseguentemente mirato a soddisfare il principio generale di certezza del diritto, peraltro espressamente richiamato agli artt. 22 e 23 dello Statuto, intitolati specificamente "nullum crimen sine lege" e "nulla poena sine lege". La prima nozione di crimine di guerra sembra che sia comparsa per la prima volta nel codice indù di Manu (200 a.C.), per trovare poi riferimenti nel diritto romano nello ius publicum europeum . Nel periodo della Prima guerra mondiale gli Stati avevano ormai accettato l'idea di configurare come illeciti penali le violazioni al diritto della guerra codificato dalle Convenzioni dell'Aja del 1899 e del 1907, e nel 1945 la Carta del Tribunale militare internazionale di Norimberga definiva crimini di guerra "le violazioni del diritto e delle consuetudini di guerra", includendovi l'omicidio o il maltrattamento di prigionieri di guerra, l'uccisione di ostaggi, il saccheggio di proprietà pubbliche e private, la distruzione ingiustificata di centri abitati e qualsiasi devastazione non giustificata da necessità militare . Le Quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, per la prima volta, inclusero espressamente in un trattato sul diritto umanitario una lista dei crimini di guerra, costituenti le infrazioni gravi alle previsioni volte a tutelare, rispettivamente, i feriti e i malati della guerra terrestre (Art. 49-50 Convenzione I), i feriti e i malati della guerra marittima (Art. 50-51 Convenzione II), i prigionieri di guerra (Art. 128-130 Convenzione III) e la popolazione civile (Art. 146-147 Convenzione IV). Nel complesso, l'elenco comprende: l'omicidio premeditato, la tortura e il trattamento disumano (compresi gli esperimenti medici); la deliberata imposizione di sofferenze o di gravi danni al corpo o alla salute; la distruzione a tappeto e l'appropriazione di beni non giustificata da necessità militare e condotta in modo illegale e arbitrario; la costrizione di prigionieri o civili a combattere nelle forze armate nemiche; la privazione di un processo giusto per i prigionieri e i civili ritenuti responsabili di illeciti; la deportazione o il trasferimento illegali di civili protetti; la detenzione illegale di civili protetti; la presa di ostaggi. Il I Protocollo aggiuntivo del 1977, all'art.85, estese le previsioni originarie delle Convenzioni, aggiungendo espressamente: il fare di civili e di località indifese l'oggetto e le inevitabili vittime di attacchi, l'uso sleale di simboli della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, il trasferimento ad opera di una potenza occupante della sua popolazione nei territori occupati, il ritardo ingiustificato del rimpatrio dei prigionieri di guerra, l'attacco ai beni culturali
Tenendo conto dei predetti testi giuridici e della cresciuta consapevolezza sulla questione in esame, nello Statuto del Tribunale Penale Internazionale, ex art 8, XXVI, gli Stati Parti hanno condannato espressamente, come crimine di guerra, “il reclutamento o l’arruolamento di fanciulli di età inferiore ai 15 anni nelle forze armate nazionali o il farli partecipare attivamente alle ostilità”.
Orbene, alla luce dell’evoluzione del diritto sul tema in oggetto, si comprende per quale motivo la comunità internazionale abbia ritenuto insufficiente la previsione che incrimina il reclutamento o l'impiego attivo nelle ostilità, di ragazzi di età inferiore ai quindici anni. La suddetta grave carenza ha , pertanto, indotto la comunità internazionale a sottoscrivere, nel 2000-2002, il Protocollo Opzionale alla Convenzione sui Diritti dell'Infanzia, che eleva il divieto del reclutamento obbligatorio al diciottesimo anno.
Rimane, tuttavia, ancora aperta la questione del reclutamento volontario di minori.

Processo a Thomas Lubanga Dylo
Stante quanto detto, proprio nel rispetto del menzionato art. 8, XXVI dello Statuto, in data 10 febbraio 2006, la Camera preliminare competente ha emesso un mandato di arresto nei confronti di Thomas Lubanga Dylo, fondatore e leader dell’Unione dei Patrioti Congolese, nella regione dell’Ituri della Repubblica Democratica del Congo, per sospetta attività di reclutamento e uso di minori nei conflitti armati; nel provvedimento, la Camera disponeva la comparizione del presunto colpevole dinnanzi alla Corte .
Come auspicato dal Procuratore, il 3 marzo 2004, la situazione relativa alla RDC è stata rinviata alla Corte dallo stesso governo congolese per il tramite di una lettera sottoscritta dal suo Presidente. Quest’ultimo ha, infatti, segnalato al Procuratore il presumibile compimento, in tutto il territorio del paese, di crimini rientranti nella giurisdizione della Corte, anche in un periodo successivo all’entrata in vigore dello Statuto; si richiedeva, pertanto, l’intervento del Tribunale. Sulla base di questa segnalazione, il Procuratore, " motu proprio " (ex art.15 dello Statuto), ha proceduto alle indagini preliminari previste dallo Statuto (art.53), volte a determinare sia la sussistenza di elementi ragionevoli per procedere, sia l’ammissibilità del caso sotto il profilo della competenza della Corte ratione materiae e del principio di complementarietà ; secondo questo principio, la Corte esercita la sua giurisdizione solo quando gli Stati competenti a perseguire i crimini non vogliono o non possono farlo (ex art.1 e 17 dello Statuto). Il Procuratore si è pronunciato successivamente in senso positivo, il 23 giugno 2004.
Il 10 febbraio 2006, la Camera preliminare competente ha emesso un mandato di arresto nei confronti di Thomas Lubanga. Invero, ai sensi dell’art. 58 dello Statuto, la Camera preliminare, in qualsiasi momento, dopo l’apertura di un’inchiesta, su richiesta del Procuratore, emette un mandato di arresto contro una persona, allorquando, a seguito della richiesta e degli elementi probatori a disposizione e di altre informazioni fornite dal Procuratore, emerga che " sussistono fondati motivi di ritenere che tale persona abbia commesso un crimine di competenza della Corte ", e che l’arresto sia necessario a garantire la comparizione della persona al processo, o che questa persona non ostacoli le indagini o il procedimento, o ad impedire la commissione di crimini.
Lubanga, in data 20 marzo 2006 compariva, per la prima volta, di fronte ai giudici del Tribunale Penale Internazionale per l’udienza preliminare (confirmation hearing), con l’imputazione dei seguenti crimini di guerra: reclutamento e arruolamento di fanciulli di età inferiore ai quindici anni e loro successivo impiego nei conflitti armati.
Nel corso della fase preliminare del processo sono stati ascoltati come persone informate sui fatti, cinque bambini e bambine, il cui percorso di vita confermava quanto emerso dal Rapporto redatto dalla MONUC e presentato dal Segretario Generale nel luglio del 2004 al Consiglio di Sicurezza. Questi, ed altre persone che hanno reso dichiarazioni, unitamente alle informative delle Nazioni Unite ed altri elementi di prova, sono stati considerati dai giudici della Camera preliminare come elementi sufficienti a stabilire la sussitstenza di fondati motivi per ritenere che l’imputato abbia commesso i crimini ascrittigli.
Il 29 gennaio 2007, la Camera preliminare ha pronunciato il suo primo provvedimento di rinvio a giudizio nei confronti di Thomas Lubanga, confermando le accuse contro Lubanga per i crimini di guerra da lui commessi nel periodo tra il settembre 2002, quando il movimento Forces Patriotiques pour la Liberation du Congo (FPLC) è stato fondato, e il 13 agosto 2003. Nel suddetto provvedimento, la Camera preliminare ha ritenuto, inoltre, che ci fossero elementi di prova sufficienti per poter ritenere che, a seguito della sua creazione, l’FPLC fosse solita arruolare nelle sue file bambini per impiegarli nelle ostilità, e che tale pratica fosse nota alla popolazione degli Hema; ed inoltre, che esistesse tra Lubanga e gli altri capi del FPLC una sorta di accordo in tal senso, e che Lubanga, nella sua qualità di coordinatore generale dell’ala armata, per tutti questi motivi, dovesse essere ritenuto responsabile di tali crimini di guerra.
La Camera preliminare ha, quindi, rimesso il caso alla Camera di primo grado, costituita il 6 marzo 2007 dall’ufficio di Presidenza della Corte.
La Camera di primo grado ha successivamente incaricato Ms Radhika Coomaraswamy, Speciale Rappresentante per i bambini nei conflitti armati, di ricoprire il ruolo di“amicus curiae”, ovvero di elaborare una memoria relativa al caso di Thomas Lubanga Dylo, contenente le osservazioni sulla definizione di reclutamento e impiego di minori nelle ostilità, e sull’interpretazione del termine “ participation in hostilities”. A tal fine è stata evidenziata l’opportunità che l’ufficio del Rappresentante Speciale ne valutasse l’effettivo significato, valutando caso per caso.
Per adempiere a tale incarico, lo scorso 28 aprile 2008, Ms. Radhika Coomaraswamy ha visitato il Tribunale Penale Internazionale, esponendo il proprio punto di vista sul caso. In tale circostanza, Ms. Coomaraswamy ha precisato che il processo di Lubanga rappresenta un fondamentale passo nella lotta alla prassi dell’arruolamento dei giovani.
Si ricorda, infatti, che il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo ha provocato 60.000 morti e 600.000 sfollati, estendendosi su sei differenti Stati nella regione dei Grandi Laghi. Il processo si preannuncia tortuoso, ma il Presidente della Corte Penale Internazionale, il canadese Philippe Kirsch, si dichiara fiducioso: "La Corte ha intenzione di agire con le procedure più veloci possibili, ovviamente nel pieno rispetto delle regole". L’obiettivo è quello di portare a termine il processo entro diciotto mesi.
La Camera di primo grado ha fissato, per giugno 2008, l’udienza dibattimentale.
Accusato dal Procuratore Luis Moreno Ocampo "di avere trasformato dei bambini congolesi in macchine da guerra", Lubanga continua a difendersi dicendo di essere "un politico professionale".

Arresto di cinque capi dell’LRA

Altro forte segnale del Tribunale Penale Internazionale nella lotta al fenomeno del reclutamento dei minori ed al impiego nei conflitti armati, è sicuramente l’arresto, ordinato dal Tribunale, per cinque capi del Lord’s Resistance Army (LRA), incluso il suo leader, Joseph Kony, indagato per 33 crimini di guerra, incluso l’arruolamento forzato di minori nelle ostilità, e crimini contro l’umanità,.

8.2 Il crimine di reclutamento dei minori e il Tribunale Speciale della Sierra Leone

Rappresenta, inoltre, un passo in avanti della giustizia penale internazionale, ad opera del Tribunale Speciale della Sierra Leone, sia il processo svolto, per la prima volta, nei confronti di un ex capo di Stato, Charles Taylor, sia le esemplari condanne di Alex Tamba Brima, Brima Bazza Kamara e Santigie Borbor Kanu del Consiglio della Forza Armata Rivoluzionaria: il primo è attualmente imputato, i secondi invece condannati, per le stesse fattispecie: crimini contro l’umanità e crimini di guerra, incluso il reclutamento forzato e l’utilizzo di minori nell’esercito e nei gruppi armati.

Processo a Charles Taylor

All’inizio del 2007, l'Onu ha trasferito il giudizio dell’ex-presidente liberiano Charles Taylor, dalla Corte Speciale per la Sierra Leone alla Corte Penale Internazionale; il 4 giugno 2007, all’Aja, si è svolta la prima udienza per valutare i numerosi capi d’accusa ascrittigli, tra cui l’arruolamento e lo sfruttamento di minori. Il presidente della Liberia è stato arrestato nel marzo 2006, a ridosso del confine con il Camerun, due giorni dopo la sparizione dalla sua villa in Nigeria, dove dal 2003 aveva vissuto un esilio dorato. Il processo non si è potuto tenere in Sierra Leone perché il governo del paese africano temeva sommosse e incidenti.
Dopo una sospensione di sei mesi, per dare modo all'accusato di organizzare la propria difesa, nel gennaio 2008 è ripreso all'Aja il processo contro Charles Taylor, accusato di avere sostenuto le violente milizie che, dal 1991 al 2002, hanno massacrato migliaia di civili in Sierra Leone . Su di lui pendono ben undici capi d'accusa, fra cui quello di aver sostenuto i ribelli del "RUF", il Revolutionary United Front della Sierra Leone, i cui bambini-soldato, annebbiati dalle droghe, uccidevano, mutilavano e stupravano i civili, nel corso di una guerra civile tra le più cruente che l'Africa ricordi.
Capo dello Stato africano dal 1997, Taylor venne condotto in esilio in Nigeria nel 2003, nell'ambito dell'accordo raggiunto tra comunità internazionale e ribelli, per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1999 in Liberia. Il Tribunale speciale per la Sierra Leone ha accusato l'ex presidente di crimini contro l'umanità, massacri, stupri e di crimini di guerra, quale il reclutamento di bambini. In cambio di diamanti, Taylor avrebbe, infatti, finanziato e sostenuto, per un decennio, i gruppi ribelli che hanno seminato morte e terrore nel Paese dell'Africa occidentale.
Nel 2006, il processo è stato trasferito da Monrovia all'Aja perché, nonostante la prigionia, la presenza del potente ex presidente nella Liberia è stata ritenuta pericolosa dalla comunità internazionale.
Arrestato il 29 marzo del 2006 in Nigeria, Taylor è stato trasferito prima a Monrovia e poi in Sierra Leone, ma il sostegno goduto dall'ex-presidente in Liberia, malgrado il tempo passato, è ancora così forte che si è preferito organizzare il processo in Europa.
In un decennio caotico e sanguinario come non mai, la guerra fra il Governo del Presidente e i ribelli del "LURD" ha portato centinaia di ex-combattenti della Sierra Leone in Liberia, a combattere come mercenari per una parte o l'altra.
Secondo David Crane , ex-procuratore generale del Tribunale Speciale per la Sierra Leone, il processo farà emergere le responsabilità di alcuni capi di stato africani, in primis il libico Muhammar Gheddafi e il leader del Burkina Faso, Blaise Compaore, impegnati "in un disegno sistematico di destabilizzazione dei Paesi dell'Africa occidentale". Congetture e supposizioni che forse verranno confermate o smentite dallo stesso Taylor. Il quale, non avendo più nulla da perdere, potrebbe fare il nome di tutti i "vecchi amici" che lo hanno tradito, e svelare chi fossero gli anelli successivi a lui, nella catena del contrabbando illegale che tanti danni ha arrecato al continente africano.
Charles Taylor, si ripete, è il primo presidente di un paese africano, processato per crimini contro l'umanità e crimini di guerra.

Sentenze di condanna di Alex Tamba Brima, Brima Bazza Kamara e Santigie Borbor Kanu
Esemplari sono, inoltre, le condanne emesse dal Tribunale Speciale per la Sierra Leone di Alex Tamba Brima, Brima Bazza Kamara e Santigie Borbor Kanu del Consiglio della Forza Armata Rivoluzionaria, per aver reclutato ed impiegato bambini nelle ostilità.
Per la prima volta la Corte, alla fine di giugno 2007, a Freetown, ha condannato i responsabili del crimine di guerra di reclutamento e sfruttamento di bambini nelle ostilità, impiegati nel conflitto civile divampato in Sierra Leone dal 1991 al 2001; questi scontri hanno causato oltre 300mila morti, uno dei grandi disastri umanitari dell’Africa.
Secondo l’Osservatorio sui Diritti Umani, le menzionate condanne rappresentano un grande passo avanti verso la fine dell’impunità per i comandanti che sfruttano centinaia di migliaia di bambini nei conflitti, in ogni parte del mondo. Le sentenze sono state pronunciate contro tre uomini del Consiglio Rivoluzionario delle Forze Armate (AFRC), una delle tre fazioni in guerra tra loro durante il brutale conflitto armato conclusosi nel 2002, che ha insanguinato la Sierra Leone per 11 anni. I giudici hanno trovato i tre imputati– Alex Tamba Brima, Brima Bazzy Kamara e Santigie Borbor Kanu – colpevoli di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni del diritto umanitario internazionale, compreso il reclutamento e l’impiego di bambini soldato. Sono migliaia i bambini reclutati e impiegati da tutte le fazioni in lotta nel conflitto della Sierra Leone, compreso il Fronte Rivoluzionario Unito (RUF), l’AFRC, e la governativa Forza di Difesa Civile (CDF). Spesso i bambini venivano reclutati a forza, drogati e impiegati per commettere atrocità. Sono state reclutate anche migliaia di bambine soldato, spesso soggette a sfruttamento sessuale.
Si precisa che la Corte Speciale per la Sierra Leone è un tribunale penale internazionale istituito nel 2002, con risoluzione del Consiglio di Sicurezza, per perseguire “coloro che sono maggiormente responsabili” di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni del diritto umanitario internazionale, oltre a numerosi reati contro le leggi locali, commessi a partire dal 1996. I suddetti imputati, processati dalla Corte speciale, sono stati accusati di reclutamento e impiego di bambini soldato. Per quanto riguarda riguardanti individui associati al CDF e all’AFRC, si è in attesa delle sentenze; mentre, invece, relativamente agli imputati associati al RUF, la difesa ha iniziato a maggio di quest’anno la discussione del caso.

8.3 Crimini commessi dai bambini soldato e loro perseguibilità

Infine, si rileva la complessa questione di giustizia penale internazionale, ovvero se, o con quali modalità, perseguire i bambini soldato, sospettati di aver commesso gravi crimini, nel corso dei conflitti armati.
Innanzitutto, si rileva che la Corte Penale Internazionale non ha giurisdizione nei confronti di una persona di età inferiore ai 18 anni al momento della pretesa perpetrazione di un crimine, ex art.26 dello Statuto; pertanto, ogni crimine, presumibilmente commesso da un minore , deve essere giudicato dal tribunale nazionale.
Ciò detto, diamo uno sguardo al diritto processuale internazionale minorile, rilevante ai fini del tema in oggetto. In breve, per estrapolare una normativa in materia di perseguibilità di minori presunti rei di gravi crimini, si deve far riferimento alla Convenzione ONU sui diritti dei fanciulli del 1989, alle Regole minime delle Nazioni Unite relative all'amministrazione della giustizia minorile - Regole di Pechino 1985, alla Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei bambini - Convenzione di Strasburgo 1996, ed infine, ai Principi di Parigi 2007.
Dai predetti atti giuridici internazionali, si evincono i principi di diritto processuale che ogni Tribunale deve rispettare, nel caso in cui un minore entri a contatto con il sistema giudiziario.
Innanzitutto, si precisa che il minore, parte di un giudizio civile o penale, deve essere sempre riconosciuto quale portatore di diritti e, quindi, in tutte le decisioni dei Tribunali, delle autorità amministrative e degli organi legislativi che lo riguardano, deve essere tenuto in preminente considerazione il suo superiore interesse (art. 3 della Convenzione ONU sui diritti dei fanciulli). Occorre, pertanto, compiere ogni sforzo per adottare un corpo di leggi e di provvedimenti per i giovani, anche quali autori di reati, che rispondano alle loro esigenze di soggetti in crescita (art.2 Regole di Pechino) e alle loro prospettive di maturazione .
Tutte le procedure del processo minorile civile e penale devono tendere a proteggere, al meglio, gli interessi del minore, e devono permettere la sua partecipazione e la sua libera espressione, come indicato dall'art. 14 delle Regole di Pechino, art. 9 e art. 37.d della Convenzione ONU. Pertanto, il processo minorile si deve basare sull'applicazione della regola del contraddittorio, in modo tale da assicurare, a tutte le parti interessate, di partecipare al processo e di fare conoscere le proprie opinioni (art.9.2 della Convenzione ONU) di fronte a un giudice terzo e imparziale.
Una riforma della giustizia minorile, per essere adeguata, non può prescindere dallo stabilire regole che disciplinino e garantiscano l'ascolto del minore soggetto a procedimenti civili o penali, in ottemperanza alla Convenzione ONU (art.12.) che sottolinea come "il minore capace di discernimento debba avere il diritto di esprimersi liberamente su ogni questione che lo interessa......e la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne" (art.12 co° 2). Tali regole, nel disciplinare e garantire l'ascolto, devono anche assicurare al minore un'adeguata protezione psicologica e morale per tutta la durata dei procedimenti civili e penali che lo riguardano. Pertanto, le audizioni del minore, il cui contenuto richieda una particolare attenzione e riservatezza, debbono essere svolte in modo protetto, onde evitare che la contemporanea presenza di tutte le parti in causa possa turbare il minore, o possa compromettere la genuinità delle sue dichiarazioni, nel rispetto di tempi celeri e modalità garantiste.
In particolare, nel processo penale, le competenze del giudice o del collegio giudicante, necessitano di un supporto interdisciplinare; si ritiene, quindi, importante la presenza della componente privata specializzata, affinché i provvedimenti adottati siano proporzionati alle circostanze e alla gravità del reato, alla situazione del minore e alla sua tutela (art.17.d Regole di Pechino). Per quanto concerne, invece, la presenza della componente privata nei collegi giudicanti civili, si invita il Legislatore a valutare con la massima attenzione le diverse indicazioni avanzate, a tale proposito, dalle ONG e associazioni impegnate da anni nelle tutela dei diritti dei minori, dalle categorie professionali operanti all'interno del sistema della giustizia minorile, dalle sedi scientifiche.
La condanna del minore a pene detentive deve costituire un provvedimento di ultima risorsa (art. 37.b della Convenzione ONU) e deve essere limitata al minimo indispensabile (art. 17.b Regole di Pechino), in quanto la pena deve svolgere la funzione di recupero del minore per il suo reinserimento nella società civile (art. 39 della Convenzione), oltre che la funzione di riparazione per il reato commesso. Si rileva, altresì, la necessità di separare ogni minore, privato di libertà, dagli adulti (art. 37 Convenzione ONU sui diritti dei fanciulli). Inoltre, i minori divenuti maggiorenni durante l’esecuzione della pena, devono portare a compimento i programmi di recupero per loro previsti, in appositi istituti, fino all'espletamento della pena (Regole di Pechino art. 3.3.).
Anche nel caso specifico di ex bambini soldato, che abbiamo commesso i crimini mentre erano arruolati negli eserciti governativi o nei gruppi ribelli, i ragazzi devono essere giudicati secondo il sistema penale processuale più consono per i minori, che sia alternativo rispetto a quello utilizzato per processare gli adulti. Pertanto, il minore, ex bambino soldato, deve essere trattenuto, ai fini della custodia cautelare o della detenzione, in strutture specifiche, in cui si tenga conto della peculiare situazione di sviluppo del giovane (art.8.9,8.10 Principi di Parigi). Nel corso del processo e, successivamente, durante l’esecuzione della pena, il minore deve poter usufruire di assistenza psicologica continua, che gli permetta di elaborare le drammatiche esperienze vissute nei conflitti armati cui ha preso parte.
Infine, quando a seguito di un conflitto vi sia un numero enorme di persone da sottoporre a processo, devono essere trattati per prima i casi che riguardano minori e madri con figli piccoli a carico (art 8.10 Principi di Parigi).

Uno sguardo alla situazione in RDC
Analizzate le procedure che, secondo il diritto, devono essere rispettate nel caso di minori sospettati di aver commesso dei reati, vediamo cosa, invece, succede ai bambini soldato nella Repubblica Democratica del Congo, dove Lubanga ha reclutato molti bambini soldato; fatto che lo ha condotto dinnanzi al Tribunale Penale Internazionale.
Orbene, stando a quanto riportato in una lettera delle Nazioni Unite al governo congolese, nel settembre del 2005, nelle prigioni nel Congo, sono stati individuati almeno dieci bambini, qualcuno di 15 anni, condannato a morte e in attesa di essere giustiziati . Secondo le fonti delle Nazioni Unite, si trattava di bambini soldato al servizio delle truppe governative, reclutati ed armati durante la guerra del 1998-2002.
Nella Repubblica Democratica del Congo, gli ex bambini soldato sono spesso detenuti nel braccio della morte, perché non possono provare la loro età. Più spesso, dicono i dipendenti delle Nazioni Unite, non hanno fondi per pagarsi un'adeguata difesa legale. Gli avvocati nominati dalle corti sono, di sovente, troppo oberati di lavoro e mal pagati per fornire qualcosa di più di un servizio superficiale, ed i giudici congolesi presiedono processi che non sono in grado di fornire un alto livello di giustizia, aggiungono gli ufficiali delle Nazioni Unite. "I processi sono spesso molto rapidi e non rispettano i parametri di giustizia che dovrebbero invece essere garantiti agli imputati o alle vittime. Alcuni bambini condannati non hanno nemmeno un avvocato", ha dichiarato, qualche tempo fa, in un'intervista all'IPS Daniela Baro, un avvocato delle Nazioni Unite che investiga sui criminali minorenni detenuti nei bracci della morte. Addirittura, nel 2005, qualcuno è stato condannato a morte dopo un solo giorno di pseudo processo.
Inoltre, mentre il codice penale del Congo permette la pena capitale in certe circostanze, è, comunque, illegale condannare a morte una persona per dei crimini commessi quando ancora minorenne. Ma il sistema giudiziario del Congo manca di magistrati qualificati, di fondi e di infrastrutture per portare avanti processi giusti e per proteggere i testimoni nei casi più delicati, come quelli che hanno a che fare con dei minori. La dittatura corrotta di Joseph Mobutu durata per 32 anni e i cinque anni di guerra del paese hanno lasciato le infrastrutture del paese, compreso il suo sistema legale, in una totale confusione. I giudici sono pagati meno di 10 dollari al mese e c'è una propensione a credere che cedano spesso a pagamenti sottobanco in casi lucrativi, come dispute su proprietà. Gli ufficiali delle Nazioni Unite hanno dichiarato che pochi magistrati si preoccupano di gestire adeguatamente i casi che coinvolgono minori poveri, probabilmente, perché non sono pagati per i loro servizi.
Sebbene le esecuzioni non vengano portate a termine, le persone continuano ad essere condannate a morte, principalmente dai tribunali militari del paese. I giudici di queste corti, dove viene decisa la maggior parte delle condanne a morte, seguono raramente i principi guida del codice penale, dicono gli studiosi.
Inoltre, le corti militari non dovrebbero neanche processare i minori, dal momento che la legge proibisce il loro reclutamento nell'esercito. In molti casi i magistrati decidono che gli imputati, specialmente quelli non adulti, non hanno prove adeguate per dimostrare che erano minorenni al momento del presunto crimine. Invero, i congolesi, inclusi i bambini, raramente possiedono un documento d'identità o prove della loro età. A molti cittadini, solo la campagna di registrazione dei votanti nel 2005 ha permesso di ottenere un'identificazione ufficiale per la prima volta nella vita. "Alcuni avvocati non sono in grado di provare l'età dei bambini a causa di scarsi mezzi per ottenere prove alternative, quindi i giudici li considerano adulti. Ciò vuol dire che possono condannare a morte legalmente chiunque”, ha dichiarato l’Avv. Baro .
I bambini arruolati nell'esercito durante la guerra sono stati spesso lontani dalle famiglie per anni. Gli avvocati possono andare nei villaggi natii per cercare prove della loro età, ma questo significa viaggiare per centinaia di chilometri ed allontanarsi dalle corti - qualcosa che pochi sono preparati a fare.
Il problema principale che gli abolizionisti devono affrontare in Congo, è che l'opinione pubblica congolese, affaticata da anni di guerra, è desiderosa di vedere i criminali del paese affrontare la giustizia. Queste persone credono che chi ha organizzato gli orribili massacri in Congo meriti un processo ingiusto, e meriti di morire. Anche se la pena capitale non viene poi portata a termine, la popolazione è favorevole ai processi rapidi, e qualche volta alla pena di morte. L'abolizione della pena di morte non è molto popolare tra le persone. Anche se i politici abolizionisti hanno provato a fermare le esecuzioni, non hanno il coraggio di andare contro l'opinione pubblica ed eliminare la pena capitale. La guerra in Congo ha ucciso milioni di persone, molti a causa della fame e delle malattie, ma molti durante le numerose battaglie ed i massacri politici. Un accordo di pace mise fine alla guerra, nel 2002. Fu formato un nuovo governo provvisorio che comprendeva molti ribelli e signori della guerra, alcuni dei quali ritenuti responsabili dei peggiori massacri. Dozzine di capi militari non furono coinvolti nelle trattative di pace del 2002 e continuarono, pertanto, a compiere stupri, omicidi e a reclutare bambini anche dopo la fine della guerra.
Nascondendosi nelle foreste congolesi oltre la portata delle milizie, questi signori della guerra temono dure rappresaglie per omicidi di civili, torture e schiavitù inferte a bambini, trasformati in concubini, facchini o soldati. Gli sforzi dei 17.000 portatori di pace mandati dalle Nazioni Unite in Congo, la più grande truppa governativa addestrata del mondo, sono stati focalizzati ad incastrare militanti fuorilegge come Thomas Lubanga, oggi all'Aja in attesa dell’udienza dibattimentale.
Orbene, la pena massima prevista dallo Statuto del Tribunale Penale Internazionale è l'ergastolo. Lubanga, quindi, non sarà condannato a morte se ritenuto colpevole.
La maggior parte dei suoi complici durante la guerra invece, inclusi i bambini reclutati per combattere al suo fianco, però, rimane in Congo.
Per assurdo e tragicamente, gli ex bambini soldato, giudicati nella RDC, potrebbero dover affrontare la pena di morte; il loro reclutatore, invece no, in quanto giudicato all’Aja.
Per questo motivo, alcuni congolesi credono che Lubanga sia sfuggito alla vera giustizia; invero, pur essendo uno dei peggiori criminali del Congo, una delle persone più pericolose, eviterà la condanna a morte.
Al contrario, invece, gli ex bambini soldato dovranno fare i conti con una giustizia pronta a calpestare ogni loro diritto fondamentale.

9 - OSSERVAZIONI CRITICHE
Stante quanto detto, ci si interroga ora su:
A) quali siano i limiti insiti nelle politiche degli Stati, che non permettono di risolvere, una volta per tutte, la questione del reclutamento dei minori;
B) quali potrebbero essere le possibili soluzioni da adottare per combattere ed eliminare il fenomeno dell’arruolamento di bambini.
Orbene, attingendo all’autorevole dottrina formatasi in materia, e alle interessanti teorie prospettate da alcuni autori, primo tra tutti P.W. Singer, si proverà in questa sede a rispondere alle questioni sollevate.

A) QUALI LIMITI NELLE POLITICHE STATALI?

La prima caratteristica di un programma volto ad indebolire il fenomeno dei bambini soldato, è che deve essere intelligente e ragionevole.
Innanzitutto, si deve affrontare il problema in modo realistico, tenendo in dovuto conto tutti gli aspetti del fenomeno. Invero, se attualmente buona parte dei gruppi non fanno più (quantomeno pubblicamente) mostra di reclutare bambini ed impiegarli nelle ostilità, la dottrina che si accompagna al fenomeno ha continuato a propagarsi nel globo e i bambini sono più coinvolti che mai nella guerra. Se ne evince che gli sforzi hanno dato risultati sul piano della consapevolezza, tanto che il reclutamento di bambini da parte dei gruppi non costituisce più motivo di orgoglio, ma evidentemente non sono in grado di incidere sulle pratiche in corso . In molti casi, per esempio vi è stata una forte discrepanza tra le promesse fatte alle Nazioni Unite e pratiche successive si sono manifestate con l’UNITA in Angola, le FARC e l’ELN in Colombia, l’ALIR (Army for liberation of Rwanda) in Ruanda, lo SPLA in Sudan, i Kamajors in Sierra Leone, il Lal Sena in Nepal, il governo della Repubblica democratica del Congo e i gruppi di ribelli all’opposizione in Congo, il NPA (New People’s Army) e il MILF (Moro National Liberation Front) nelle Filippine, e i talebani in Afghanistan, per nominare solo alcuni paesi. Per esempio, nel febbraio 2001, un gruppo di ribelli della Repubblica democratica del Congo si è impegnato a non utilizzare più bambini soldato. Solo qualche settimana dopo, ha organizzato una cerimonia per festeggiare i suoi nuovi graduati. Oltre milleottocento di loro avevano dai dodici ai diciotto anni. Nel corso dei successivi due anni, risulta che in alcune province della Repubblica democratica del Congo il tasso di reclutamento di bambini soldato abbia in realtà subito un’impennata .
Si rileva, inoltre, che qualsiasi tentativo di far cessare una pratica globale affronta, inevitabilmente, un’impresa ardua. Perciò, è meglio cercare di cambiare, più che si può, la vita dei bambini, là dove è possibile.
Vale dunque la pena, a detta di P.W.Singer, di concentrarsi sugli abusi peggiori, usando al meglio lo scarso capitale e la ridotta attenzione politica. Infatti, se è, comunque, sbagliato impiegare come soldati dei ragazzi di età inferiore ai 18 anni, l’impiego che se ne fa non è sempre uguale. I gruppi che si battono contro l’utilizzo di bambini soldato sono spinti da nobili ideali, ma troppo spesso si sono lasciati distrarre da altri programmi politici, sprecando così energia e capitali preziosi. La carente messa a fuoco ha, per ora, ostacolato i loro tentativi e, spesso, si è rivelata controproducente. Per esempio, se da un lato è positivo che si sia creata una coalizione internazionale, dall’altro i pregiudizi antiamericani spingono troppo spesso nella direzione sbagliata la missione che la anima.
In particolare, la Coalizione Stop all’uso dei bambini soldato ha sprecato il proprio capitale politico impegnandosi in una lunga ed estenuante guerra diplomatica con i governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Se il gruppo fosse stato capace di pensare in modo più strategico, queste potenze globali sarebbero potute essere tra i loro sostenitori. L’oggetto del contendere è stato la presenza nell’esercito degli Stati Uniti di un piccolo gruppo di reclute diciassettenni (lo 0,24% dei soldati statunitensi), arruolatesi volontarie, con il consenso dei genitori. Si tratterà anche di una pratica non gradita a ciascuno dei numerosi membri della coalizione, ma tutti concorderanno che ha ben poco a che vedere con l’abitudine dell’Esercito di Resistenza del Signore di rapire bambini e costringerli a massacrare le loro stesse famiglie. Malgrado ciò, il gruppo ha messo la questione al centro del proprio lavoro di lobby. Nel suo Rapporto annuale ha equiparato le due pratiche, riconoscendo a entrambe lo stesso grado di gravità ed elencandole sotto la stessa voce . Tale atteggiamento, ovviamente, si è dimostrato controproducente, in quanto, la coalizione ha sviluppato una rapporto antagonistico con il governo degli Stati Uniti e, in particolare, con il Dipartimento della Difesa. Il che è costato al gruppo la potenziale influenza della superpotenza mondiale a favore della causa. Tuttavia, l’aspetto forse più amaro è che questa contesa era del tutto inutile. Alla fin fine, le leggi statunitensi tutelano già a tal punto i diritti dei minori e dei genitori, che i vari trattati hanno cambiato ben poco . Il compromesso è stato trovato (quei pochi elementi che non hanno raggiunto la maggiore età non sono autorizzati a prendere parte ai combattimenti) ma si è perso del tempo prezioso e i rapporti con la comunità militare vanno senza dubbio puntellati.
Invece di dedicarsi a fissare uno standard e di concentrarsi sui casi-limite, i gruppi che operano per fermare l’impiego di bambini soldato dovrebbero andare al cuore del problema.
Per lungo tempo nei processi di pace e di pianificazione postbellica non è stata rivolta alcuna attenzione alla situazione dei bambini soldato, nonostante venissero impiegati in numerosi conflitti. Bisognerà, infatti, aspettare il secondo tentativo delle Nazioni Unite in Sierra Leone, gli accordi di Lomè del 1999, perché un trattato di pace riconosca la stessa esistenza dei bambini soldato, o prenda misure specifiche per la loro riabilitazione e reintegrazione in seno alla società. In tal senso gli accordi di Lomè sono pioneristici. In base ad essi “ il governo dovrà accordare particolare attenzione alla questione dei bambini soldati. Dovrà di conseguenza mobilizzare risorse, sia nel paese sia da parte della comunità internazionale, e, in particolare, attraverso l’ufficio del rappresentante del Segretario Generale delle Nazioni Uniti sul problema dei bambini nei conflitti armati, l’Unicef e altre agenzie, per dare risposta ai particolari bisogni di questi bambini nell’attuale processo di disarmo, smobilitazione e reinserimento”.
Un ostacolo fondamentale all’inclusione dei bambini soldato negli accordi di pace e nella pianificazione postbellica, è l’atteggiamento dei contraenti locali, che spesso, contro ogni evidenza, negano di averne mai avuti nei loro eserciti . A tal riguardo, si fa presente che, un aspetto particolarmente significativo del diniego, è il frequente tentativo, da parte dei gruppi, di trattenere le ragazze soldato, anche una volta che il conflitto è terminato. Se i gruppi scelgono la via del diniego, è perché i leader adulti spesso non sono disposti a rinunciare al valore aggiunto rappresentato dalla funzione di “mogli” o serve delle ragazze .
Inoltre, un altro gruppo di solito dimenticato dagli accordi di pace ed escluso dall’assistenza
postbellica, sono i bambini soldati diventati adulti nel corso della guerra. Molti conflitti durano talmente a lungo che chi si arruola prima dei diciotto anni ha tutto il tempo di crescere e di cessare di essere un bambino soldato. Tuttavia, diventare adulti facendo la guerra significa avere problemi verosimilmente più gravi di chi ha cominciato a combattere da adulto. Anche se ormai sono uomini, non è escluso che abbiano bisogno di un sostegno specialistico, capace di misurarsi con le conseguenze del loro passato di bambini soldato, dai danni psicologici alla perdita di prospettive scolastiche. Purtroppo, questi ex bambini soldato sono, in genere, letteralmente ignorati.
Queste manchevolezze e omissioni, oltre che tragiche, sono pericolose. A meno che non siano esplicitamente elencati nei piani di pace e di ricostruzione, i bisogni dei bambini non otterranno la priorità che meritano. Di conseguenza, se oggi le truppe impegnate sul campo devono misurarsi con il fatto che probabilmente si troveranno a combattere contro i bambini, anche gli interventi postbellici vanno pensati meglio e calibrati in funzione dei combattenti più giovani con cui ora è necessario operare. Troppo spesso, i progettati interventi di peacekeeping non sono sufficientemente studiati in funzione delle realtà specifiche. Molti ex bambini soldato non hanno accesso a programmi didattici, corsi di addestramento professionale, ricongiungimento familiare, o, persino, a cibo e riparo, tutte cose da cui non si può prescindere per riuscire a reinserirsi nella società civile .
In genere anche i fondi destinati a sostenere questi programmi sono ben lontani dall’essere
sufficienti. Per esempio, nel 2001, i programmi dell’Unicef per la smobilitazione bei bambini soldato nella Repubblica democratica del Congo, avrebbero richiesto quindici milioni di dollari. Ne hanno ricevuti quattro! Il divario fa si che i programmi operino di gran lunga al di sopra delle proprie capacità .
Un gran numero di bambini finisce così nelle strade e viene coinvolto in attività criminose
oppure ritorna alla lotta armata. In questo modo il ciclo dell’arruolamento infantile riprende.

B) QUALI POSSIBILI SOLUZIONI?

Se la comunità, che propugna la scomparsa della figura dei bambini soldato, spera di contribuire a cambiare le cose in modo definitivo, deve sostenere una strategia volta a cambiare le attuali pratiche di chi abusa con maggiore ferocia dei bambini e a scoraggiare chi pensasse di farlo in futuro. Per riuscirci, deve passare dalla critica morale a un cambiamento effettivo del calcolo politico ed economico che porta ad impiegare i bambini nei conflitti. I gruppi non scelgono di servirsi dei bambini soldato per caso o per ignoranza, né sono spinti da pura malvagità. Sono mossi da interessi precisi e ricorrono deliberatamente a speciali processi di reclutamento, indottrinamento ed impiego di bambini soldato, perché pensano di trarne determinati vantaggi. Ed è proprio su questi calcoli che bisogna agire, se si vuole sconfiggere la dottrina dei bambini soldato.
Una possibile strategia consiste nell’approntare un programma che criminalizzi tale pratica.
Dato il numero di trattati e accordi legali violati da tale pratica, in questo campo non c’è bisogno di alcuna legge internazionale aggiuntiva. Piuttosto, quel che serve è che il diritto internazionale venga pienamente applicato ai leader che adottano la prassi dei bambini soldati. Ciò eliminerebbe lo spaventoso senso di impunità con cui oggi operano
P.W.Singer rileva che in quest’area due sono le vie legali che offrono qualche speranza. Entrambe prevedono che il reclutamento e l’impiego di minori nelle ostilità siano trattati come un vero e proprio crimine di guerra e che i leader responsabili siano perseguiti per il suddetto reato. La logica sottostante sarebbe di stabilire un precedente legale che connetta la pratica ad una punizione. Considerare crimine di guerra la dottrina e concentrarsi su di essa, piuttosto che sugli abusi che ne derivano ridurrebbe, inoltre, gli impedimenti a procedere legalmente. La presenza massiccia di bambini soldato nelle file di un’organizzazione sarebbe infatti abbastanza facile da dimostrare, mentre al momento attuale provare che un leader è a conoscenza e dunque imputabile dei singoli atti di ferocia dei suoi soldati richiede un lavoro legale enorme e indagini estremamente complesse.
Inoltre, la definizione della pratica come crimine contro l’umanità vincolerebbe gli altri stati a consegnare i leader che fossero riusciti a fuggire oltreconfine. La cosa varrebbe anche per i loro beni, probabilmente acquisiti grazie all’impiego di bambini nelle ostilità. Va notato poi, che, neppure i gruppi non statali sfuggirebbero alla giurisdizione di queste leggi. Al pari dei governi, essi sono tenuti ad osservare i principi fondamentali del diritto internazionale e obbligati a rispettare tutte e quattro le convenzioni di Ginevra, anche nei conflitti interni.
I primi strumenti per realizzare un programma di questo tipo sono gli appositi tribunali internazionali, che spesso vengono istituiti a seguito di conflitti di grossa portata. Per ora i tribunali ad hoc sono stati istituiti su base geografica, in funzione di specifici conflitti, come la Sierra Leone, Ruanda, e nell’ex Jugoslavia. Tuttavia il loro campo d’azione non si è limitato ai confini statali. Per esempio, i tribunali hanno incriminato e trovato criminali di guerra che avevano cercato asilo fuori dei paesi dove erano originariamente ricercati. Ciò consente di utilizzare i tribunali in modo nuovo.
A tal proposito, un’idea che P. W. Singer suggerisce, e che vale la pena di analizzare a fondo, è
che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite convochi un nuovo tribunale a tema, che affronti il problema internazionale dei bambini soldato.
Tale tribunale sarebbe strutturato come le corti di cui si è appena parlato. Diversi ne sarebbero, tuttavia, gli obiettivi, poiché la sua funzione sarebbe di trovare i rei, a prescindere dallo specifico conflitto in cui si è consumato il crimine. Va detto che questa nuova direzione dei tribunali ad hoc sarebbe estremamente controversa. Avrebbe la probabilità di essere approvata solo se sul crimine in oggetto ci fosse ampio accordo e se le prove fossero incontrovertibili. Lo sdegno internazionale rispetto al reclutamento e all’impiego di ragazzi nelle ostilità e la documentazione in merito già raccolta dalle Nazioni Unite potrebbe fare al caso.
Un’ulteriore soluzione, potrebbe essere il rafforzamento della più stabile struttura della Corte penale internazionale.
Approvata e sottoscritta da 139 stati, la Corte cerca di definire un sistema globale di pene per chi viola le leggi di guerra e non viene condannato dal proprio paese. In particolare, la Corte ha giurisdizione sul crimine di reclutamento e di impiego di minori nelle ostilità, sia nei conflitti armati nazionali (art.8[2][b][xxvI]) sia in quelli internazionali (art.8[2][e][vvII]). Purtroppo gli Stati Uniti, affiancati da alleati improbabili come l’Iraq di Saddam Hussein e la Cina comunista, non solo non hanno aderito al trattato su cui si fonda la Corte, ma hanno altresì agito sul piano diplomatico per minarne l’autorità, facendo pressione sui più deboli per contrastarla, creando alleanze mondiali e stabilendo una serie di accordi bilaterali che escludono i propri cittadini dalla sua giurisdizione; chi non lo sottoscrive rischia di vedersi tagliare ogni forma di sovvenzione. Senza il sostegno degli Stati Uniti, tuttavia, la Corte sarà mutilata, poiché l’assenza della prima potenza mondiale ne indebolirà l’influenza. Poiché l’individuazione delle responsabilità e la cessazione dell’impunità dei criminali di guerra portano evidenti benefici, gli USA farebbero bene a riprendere in esame il loro abbandono delle istituzioni legali internazionali.
Inoltre, il Tribunale Penale Internazionale andrebbe modificato affinchè diventi uno strumento più efficace, nella battaglia contro il reclutamento e l’impiego di minori nelle ostilità.
Per esempio, suggerisce sempre P. W. Singer, i suoi regolamenti andrebbero, emendati in modo da permettere ai bambini di testimoniare davanti alla Corte (consentendo alle vittime di portare in primo piano la propria esperienza). Si dovrebbe prendere in considerazione anche la possibilità di convocare il tribunale per casi che non hanno direttamente a che vedere con le conseguenze di specifiche guerre. Si potrebbe incriminare e perseguire legalmente chi, oggi, sta utilizzando bambini soldati nel mondo. Se un crimine di guerra è in corso, non ha nessun senso aspettare che finisca di consumarsi. Un ottimo punto di partenza potrebbero essere i leader dei gruppi belligeranti che, in base ai dati raccolti dalle Nazioni Unite, fanno uso di bambini soldato, così come identificati nell’ultimo Rapporto del Segretario generale.
Un’altra via per penetrare nel ciclo decisionale dei gruppi che impiegano bambini soldato e
alterarne i calcoli è l’utilizzo delle leggi che tutelano il lavoro.
L’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) ha, da tempo, definito l’arruolamento di bambini come una delle peggiori forme di lavoro minorile e l’ha addirittura catalogata come forma di vera e propria schiavitù su bambini rapiti dalle famiglie. Nel 1973, nella Convenzione 138, l’ILO ha fissato a 18 anni l’età minima consentita per prendere parte a lavori pericolosi e, se prestare servizio come soldato non è pericoloso, allora non lo è nessun mestiere! L’ILO lo ha chiarito ulteriormente nel 1999, con la Convenzione 182, decretando che la legge internazionale del lavoro non ammette il reclutamento forzato o coatto di persone sotto i diciotto anni.
Ora, i gruppi che utilizzano bambini soldato andrebbero trattati alla stregua di altri soggetti internazionali che violano le più elementari norme del lavoro. Gli attivisti farebbero bene a cambiare strategia: invece di premere perché si varino nuovi accordi internazionali, dovrebbero cercare di utilizzare quelli che già esistono, per punire severamente chi li viola. Un’opzione che varrebbe la pena di esplorare sono le strategie della stigmatizzazione, del boicottaggio e dell’azione legale. Questi strumenti sono stati usati, con discreto successo, nei movimenti contro l’apartheid e il lavoro minorile. La semplice minaccia di farvi ricorso è, inoltre, servita a convincere le multinazionali dell’abbigliamento, del cioccolato e dei minerali ad accettare standard più elevati di controllo dei diritti umani.
Singer, aggiunge, inoltre, che una particolare tattica sarebbe prendere di mira i partner commerciali di stati e gruppi che seguono tali pratiche.
Di fatto, il problema dei bambini soldato è, non di rado, più acuto nei paesi ricchi di risorse naturali e, spesso, governati da gruppi che cercano di accumulare ricchezze, dominando gli scambi commerciali con il sistema internazionale . Orbene, visto che i leader dei gruppi che si servono di bambini soldato non si pongono problemi di ordine morale e sfuggono troppo spesso ai controlli legali, rivolgere loro appelli etici significa parlare alle orecchie sbagliate. Invece, i loro partner commerciali, dai quali dipendono le ricchezze di alcuni leader, possono essere l’anello debole su cui focalizzarsi. In queste zone, soggetti economici esterni come le imprese multinazionali hanno spesso un’influenza decisiva, sia sullo stato sia sulle fazioni armate locali. Non è raro che arrivino, addirittura, a pagare per ottenere protezione dai gruppi che si servono di bambini soldato. Il fatto che, a seguito dei boicottaggi contro il lavoro minorile e l’apartheid, aziende gigantesche come la Coca-Cola, la Gap e la Nike abbiano cambiato in gran fretta le loro pratiche, mostra che le imprese sono forse più vulnerabili dei governi alle pressioni esterne. Per evitare di esporsi alla minaccia di cause legali e boicottaggio globale, sono infatti più attente a non proiettare un’immagine negativa. La loro capacità di incidere sui soggetti locali andrebbe, dunque, usata come leva.
Va, inoltre, tenuto presente che, nella lotta contro la pratica di armare i bambini, i gruppi non statali sono meno sensibili alle pressioni esterne o legali degli eserciti finanziati dallo stato. Persino queste organizzazioni, tuttavia, rispondono ad alcune misure capaci di modificare il loro calcolo dei costi e benefici risultanti dall’impiego di bambini. Per la legge internazionale, tutti i gruppi non statali sono tenuti a rispettare i codici di guerra vigenti, inclusa la proibizione di reclutare e impiegare bambini soldato, che abbiano o meno sottoscritto gli accordi iniziali. Dunque, i loro capi sono esposti alle stesse misure legali e alle stesse pene dei leader statali. Oltre a perseguirli per crimini di guerra, è possibile sottoporli a sanzioni mirate insieme ai loro soci d’affari. Tali misure vanno dal congelamento dei conti bancari alle restrizioni su passaporti e visti di circolazione. Poiché il movente è il profitto, impedire gli scambi commerciali è un passo decisivo. Non si dovrebbe mettere al bando solo il commercio di armi, come succede in buona parte degli embarghi imposti dagli Stati Uniti, ma anche il traffico secondario e, spesso, illegale di materiali preziosi, come legname o tabacco, che, di frequente, sono usati come moneta per pagare armi illegali.
Poiché violano uno dei principi più elementari del diritto internazionale, i gruppi armati che rifiutano di rispettare il divieto di reclutare ed impiegare minori nei conflitti, non dovrebbero avere né riconoscimento né legittimità, all’interno della comunità internazionale. Questo senso di legittimità e rispetto è qualcosa cui numerosi signori della guerra sorprendentemente aspirano. A parte la gratificazione narcisistica, i contatti internazionali offrono ai leader dei gruppi uno strumento per distinguersi dai loro pari e scoraggiare subordinati e aspiranti rivali .
Infine, bisogna non concedere spazio a chi si applica in campagne di smobilitazione puramente dimostrative, continuando ad impiegare bambini soldato. Valga per tutti l’esempio del Congo orientale, dove i signori della guerra sono stati elevati a uomini di stato. Prima di poter accedere all’arena internazionale e di svolgervi legittimamente il proprio ruolo, chi recluta o impiega giovani nei conflitti, o chi favorisce lo sviluppo di queste prassi, deve assumersi l’onere di dimostrare di essere in regola con le leggi internazionali.
Ong e governi nazionali interessati dovrebbero fare pressioni perché la comunità internazionale rifiuti di dare riconoscimento, e tutti i vantaggi che ne derivano (dai seggi alle Nazioni Uniti agli aiuti e scambi internazionali), a gruppi che siano arrivati al potere servendosi di bambini soldato o a chi li sostiene. Sarebbe un modo efficace per fare sapere, in modo trasversale, ad altri gruppi che, aderendo alla dottrina dei bambini soldato, non riusciranno a raggiungere i loro obiettivi. Finchè scelgono questa via, anche le organizzazioni umanitarie dovrebbero tenerli a distanza, così come fanno con chi è impegnato in operazioni di pulizia etnica o genocidio. Si tratterebbe, poi, di fare pressione su altri gruppi e stati, per convincerli a fare altrettanto.
In positivo, a titolo di ulteriore incentivo, le Ong e gli stati interessati, potrebbero proporre una serie di accordi di intermediazione, mirati a connettere l’afflusso di fondi alla cessazione dell’arruolamento di bambini.
Ciò detto, appare chiaro che i gruppi che cercano di mettere fine al fenomeno dei bambini soldato hanno bisogno di una nuova strategia.
Bisogna convincere i capi dei gruppi in conflitto che i benefici che derivano dall’uso dibambini soldato sono inferiori ai costi.
Se risponderanno senza mezzi termini alla dottrina e alla logica politica ed economica su cui si fonda, quanti cercano di estirpare il fenomeno dei bambini soldato avranno molte più possibilità di incidere sui calcoli dei gruppi che aspirano a farne uso.
Un’altra possibile via è colpire le loro strutture di sostegno esterne.
Molti di questi gruppi dipendono dalle donazioni e dal sostegno dei residenti all’estero. Per esempio, le LTTE hanno sostenitori nelle comunità tamil residenti in Australia, Canada, Francia, India, Norvegia e Regno Unito, che forniscono una copertura finanziaria e logistica decisiva. Questi gruppi andrebbero sottoposti ad un grosso lavoro di lobby e di denuncia.
Per ultimo, pur trattandosi di soggetti privati, alla fin fine molti gruppi non statali contano sul sostegno di alcuni stati. Valga per tutti l’esempio dell’Esercito di resistenza del Signore, i cui campi d’addestramento erano nel Sudan meridionale, o del RUF, la cui base era in Liberia. E’ esattamente come nascondere un criminale nel garage.
Sostenere o ammettere nel proprio territorio gruppi che utilizzano bambini soldato dovrebbero mettere a rischio di azioni legali per violazione delle leggi internazionali, anche i paesi ospiti.
Ciò espone dunque il paese ospite a pressioni esterne, che vanno dalle sanzioni al sequestro di beni, e può agire indirettamente sull’uso di bambini soldati da parte dei suoi protetti.
Inoltre, al momento della stesura degli Accordi di pace e delle pianificazioni postbelliche i negoziatori e gli altri firmatari, non dovrebbero accettare che le parti in guerra si rifiutino di riconoscere che, nel proprio esercito, ci siano bambini soldato. Quando, in un conflitto, sono presenti dei bambini soldato, è cruciale che gli accordi di pace e le pianificazioni postbelliche, includano, con chiarezza, clausole concernenti la loro riabilitazione. In tal senso, è necessario non arrestarsi ai programmi di lavoro sui processi di pace, di pianificazione del peacekeeping e di ricostruzione.
Un altro aspetto che, sulla base dell’esperienza sudafricana, andrebbe tenuto presente da chi pianifica concretamente gli interventi di peacekeeping è la necessità di includere nel proprio organico alcuni contingenti femminili, meglio attrezzati a misurarsi con i particolari bisogni delle bambine.
Le Nazioni Unite e altre unità diplomatiche, che gestiscono e sovrintendono tali processi, dovrebbero contemplare una speciale programmazione calibrata sulle necessità dei bambini.
Il linguaggio utilizzato nella stesura dei trattati, dovrebbe essere efficace e autorevole come quello degli accordi di Lomè, che prevedevano l’accertamento che i fondi destinati al recupero postbellico dei bambini fossero sufficienti e che la pianificazione e il coordinamento di interventi di cooperazione civile militare fossero più idonei ad aiutare i bambini soldato. Per sostenere gli accordi di pace, le organizzazioni dovrebbero assicurarsi di avere in organico un numero di consulenti in materia di protezione dell’infanzia e di esperti di diritti umani, commisurato alla reale presenza di bambini nelle file degli eserciti belligeranti.
Infine, fondamentale ai fini della lotta contro il fenomeno del reclutamento e dell’impiego di minori, è, sicuramente, l’impegno degli Stati a sottoporre i bambini ad identificazione, per poter accertarne l’esatta età; gli Stati devono pertanto rafforzare il sistema di registrazione di tutti i bambini sottoposti alla propria giurisdizione, compresi i rifugiati, gli sfollati e procurare a ciascuno dei documenti di identità.
In tal senso, si devono impegnare anche le Ong locali e i leader religiosi e delle comunità, che possono invitare a combattere tale pratica sulla base dei valori e delle consuetudini locali.

CONCLUSIONE

Durante la conferenza internazionale sui bambini e i conflitti armati (Parigi, 5 febbraio 2007), un ex bambino soldato della Sierra Leone, ha esortato i delegati a garantire ai giovani, che hanno vissuto le sue stesse drammatiche esperienze, un reinserimento nella società; Ishmael Beah, 26 anni, oggi è un promettente scrittore e, come lui, anche gli altri ragazzi hanno il diritto di riconquistare la propria identità.
“Nessuno nasce violento. Nessun bambino in Africa, America Latina e Asia vuole far parte della guerra. Queste sono situazioni in cui i bambini sono forzati a prenderne parte” ha spiegato Ishmael Beah, “ma nel corso del tempo, poiché sono traumatizzati e costantemente drogati, questo diventa abituale – l’unica realtà che conoscono.”
“È facile diventare un bambino soldato ma è molto più difficile riacquistare la propria umanità” ha aggiunto. “Ma è possibile!.”



BIBLIOGRAFIA
TESTI
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DOCUMENTI
- Rapporto “Children and Armed Conflict” (A/62/609-S/2007/757)
- Rapporto “Children and Conflict in a Changing World”
- Risoluzioni del C.d.S 1261/1999; 1314/ 2000; 1379/200; 1539/2004; 1612/2005
- Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, testimonianza di Anne Edgerton di Refugees International, House Committee on International Relations, 5 maggio 2001.

LINK:
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http://www.unicef.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/2907
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