Palestina e Israele: Che fare?

di Noam Chomsky e Ilan Pappé

Ed. Fazi, giugno 2015


Ha ancora senso oggi parlare di Palestina e Israele usando espressioni come “processo di pace”, “soluzione a due Stati”, “partizione”? Ha senso continuare con un vuoto dibattito politico, facendo il gioco dei sionisti e mantenendo lo status quo?

Le tesi di Noam Chomsky e Ilan Pappé raccolte in questo volume ruotano attorno all’idea che i tempi siano maturi per un cambio di rotta. Indugiare sulla questione israelo-palestinese significa condannare all’oblio un’intera popolazione, perciò, secondo i due autori, bisogna denunciare la natura di paese colonizzatore di Israele, spingere la comunità internazionale a prendere una posizione ferma contro le sue politiche d’occupazione e, soprattutto, ragionare in funzione di un unico Stato multietnico, dove palestinesi e israeliani possano convivere nel rispetto reciproco dei diritti umani.

Si tratta di un nuovo approccio, i cui cardini scaturiscono innanzitutto dalla necessità di superare l’ipocrisia del lessico israeliano; non più “processo di pace”, dunque, ma “decolonizzazione” e “cambio di regime”. Come scrive Pappé, c’è bisogno di «un nuovo discorso che analizzi la realtà invece di ignorarla», perciò «se si vuole superare la paralisi concettuale impostaci dalla soluzione a due Stati, chiunque sia nelle condizioni di farlo – a qualsiasi livello – dovrebbe proporre una struttura politica, ideologica, costituzionale e socioeconomica che valga per tutti gli abitanti della Palestina, non solo dello Stato di Israele».

ISM-Italia

http://www.palestinarossa.it/

13/09/2015

 

Un nuovo lessico per il nostro "Che fare?" sulla questione israelo-palestinese

di Diana Carminati

 

“Ha ancora senso oggi parlare di Palestina e Israele usando espressioni come “processo di pace”, “soluzione a due Stati”, “partizione”? Ha senso continuare con un vuoto dibattito politico, facendo il gioco dei sionisti e mantenendo lo status quo? Le tesi di Noam Chomsky e Ilan Pappé ruotano attorno all’idea che i tempi siano maturi per un cambio di rotta”. Questa breve sinossi si trova a commento del nuovo libro di N. Chomsky e I. Pappé, Palestina e Israele: Che fare?, Fazi, giugno 2015. E ancora “Si tratta di un nuovo approccio, i cui cardini scaturiscono innanzitutto dalla necessità di superare l’ipocrisia del lessico israeliano; non più “processo di pace”, dunque, ma “decolonizzazione” e “cambio di regime”.

Come scrive Pappé, c’è bisogno di «un nuovo discorso che analizzi la realtà invece di ignorarla», perciò «se si vuole superare la paralisi concettuale impostaci dalla soluzione a due Stati, chiunque sia nelle condizioni di farlo – a qualsiasi livello – dovrebbe proporre una struttura politica, ideologica, costituzionale e socioeconomica che valga per tutti gli abitanti della Palestina, non solo dello Stato di Israele».

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Cambiare lo sguardo

È necessario “cambiare lo sguardo” e respingere decisamente quello che Pappé chiama “l’egemonia retorica ancora vigente dell’ortodossia pacifista”, prima fra tutte, la “fiducia quasi religiosa nella soluzione a due stati”. Come sostengono fra molti altri, in questi giorni, alcuni analisti palestinesi come Ali Abunimah (Electronic Intifada), Mouin Rabbani (al Shabaka) e Diana Buttu (al Shabaka) [1]. Occorre sciogliere l’ANP e ricostituire l'OLP, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, rifiutare gli accordi di Oslo, perché da tempo non esiste più una leadership palestinese credibile che può resistere alle pressioni israeliane e occidentali. Una leadership che è invece complice con l’occupante e che porta alla ‘normalizzazione’ della popolazione. In caso contrario nulla cambierà se non in peggio.

Israele: una colonia d’insediamento Un altro cambiamento di lessico è necessario: non si dovrebbe più parlare soltanto di occupazione coloniale ma di colonialismo settler, come affermano studi molto noti all’estero, fra gli altri quelli di Lorenzo Veracini, docente a Melbourne [2]. Il colonialismo settler, che si riferisce alla formazione degli Stati Uniti, dell’Australia, della Nuova Zelanda, del Canada, deve applicarsi anche a Israele. Il colonialismo indica il dominio di uno Stato su un territorio lontano che sfrutta risorse e popolazione, il colonialismo d’insediamento indica un comunità d’interessi che costruisce un progetto di occupazione di un territorio, vi si stabilisce e ha come obiettivo finale quello di espellere gli abitanti nativi e di sostituirli con la propria popolazione, confinando i nativi in riserve o eliminandoli progressivamente.

Israele, ma non solo, e l’invito è a guardare anche che cosa sta succedendo dentro i nostri confini. In Occidente. Individui e gruppi di attivisti per la Palestina potrebbero superare le difficoltà e le frammentazioni proprio convergendo sulle proposte di Pappé-Chomsky e Veracini.

Tutt* gli/le attivist* si dovrebbero definire, dichiarandolo apertamente, come individui e gruppi di co-resistenza, non solo con il popolo palestinese oppresso ma con tutti gli oppressi del mondo, contro il neoliberismo e l’imperialismo/i globali. Perché non si può parlare di Palestina, di questione palestinese, come se fosse separata da tutto il resto. È ormai evidente il collegamento tra le vicende tragiche delle popolazioni oppresse del mondo globalizzato. Le moltitudini di occupati, bombardati, arrestati senza motivazioni, torturati, profughi, migranti, abitanti delle terre minacciate dal cambiamento climatico, le moltitudini degli emarginati, espulsi, eliminati dalle nuove pratiche dell’accumulazione del neoliberismo, quelle che dettano le condizioni capestro, distruttive della vita e dei diritti.

Moltitudini spinte fuori nelle riserve del non lavoro e del non consumo, perciò ridondanti e perciò facilmente eliminabili. La loro resistenza è, e deve essere, la nostra, senza distinzioni, afferma Veracini. Non è solidarietà per filantropia paternalista. Poiché, molti fra noi, sono, siamo in questo presente, che è ancora e nuovamente neocolonialismo e colonialismo d’insediamento che operano come specifico modo di dominio, in un regime neoliberista mondiale che sistematicamente espropria ed espelle questa e le generazioni future. Molti fra noi, sono, siamo o stiamo diventando degli indigeni.

 

Iraq, Siria, Yemen e...come in Palestina: pulizia etnica e normalizzazione

È ormai evidente quanto sta accadendo nel Vicino Levante, in Medio Oriente e nei territori che stanno al confine con l’Unione Europea. Vedi il piano di frammentazione e distruzione del Medio Oriente, come in Siria, i confini tra Turchia e Siria, l’Iraq, l’Afganistan, lo Yemen, i tentativi contro l’Iran (prima e dopo il trattato sul nucleare concluso di recente con gli USA, ma respinto da Israele), contro il sud del Libano, contro l’Ucraina. Non tralasciando la penisola del Sinai, l’Egitto, la Libia ormai preda di bande rivali e la Tunisia devastata socialmente ed economicamente dagli attentati di pseudo guerriglieri di uno pseudo Islam.

L’Africa intera. Ma è chiaro anche in Europa, puntando l’obiettivo su uno dei punti cruciali delle politiche europee, ad es. su quanto sta succedendo in Grecia. A monito degli altri paesi del sud, probabili prossimi ‘debitori’. Molti gli articoli di giornalisti europei e di lingua inglese su vari giornali 3 fuori dal giro mainstream, sui ricatti e la punizione del popolo greco del NO, da parte della troika, cioè l’accordo finale e la conseguente formazione di una amministrazione fiduciaria esterna (gestione ipotecaria) per la gestione delle privatizzazioni dei beni pubblici della Grecia per un valore di 50 miliardi. Ma è anche sconcertante la firma di accordi su scambi militari tra Grecia e Israele del luglio 2015. Sono imposizioni, ricatti alla situazione greca nel Mediterraneo? Certo subordinazione all’ordine dell’Impero della NATO.

 

Disinformazione come struttura base del potere

Molti eventi sono stati narrati negli ultimi mesi a una opinione pubblica sempre più distratta: ad es. l’accordo sul nucleare iraniano accolto con grande soddisfazione dalla maggior parte dei giornali come un grande trionfo della diplomazia internazionale. Al di là dell’analisi riguardo a chi giova, chi perde e chi guadagna, chi s’infuria e chi trama sottobanco. Altri possibili spunti di riflessione ci vengono offerti da un articolo dell’esperto di Medio Oriente, M. D.Nazemroaya [4] (vedi il suo libro sulla Nato, pubblicato in Italia nel 2014). Oltre alle normali analisi di tipo geopolitico Nazemroaya mette insieme una lunga serie di informazioni e osserva come la narrazione posta in atto dai commentatori occidentali, USA in primis, ma anche da altri attori internazionali per la propria agenda economica-politica, tende a porre in evidenza i conflitti, individuare il nemico, in questo caso ancora l’Iran, e in secondo piano la Russia per costruire la paura, il terrore e preparare l’opinione pubblica occidentale, eventualmente, a nuove possibili guerre. Ma in realtà la posta in gioco, è altra. L’accordo sul nucleare non passa sulle centrifughe e l’uranio più o meno impoverito, anche se su questo si agitano e minacciano le leadership israeliane. La questione del nucleare iraniano, che viene tratteggiata nei media mainstream come grave pericolo, fa parte ancora del discorso USA-Israeliano di promozione, o almeno di minaccia per una nuova guerra in Medio Oriente. Ma sono più importanti le possibilità di relazioni commerciali fra i vari attori economici. Perché l’Iran è militarmente autosufficiente. Semmai ha necessità che vengano abolite le sanzioni per esportare e vendere le sue produzioni. Mentre vende all’ovest, guarda con molta attenzione all’est....

Questa digressione sull’Iran e sull’accordo nucleare per mostrare gli aspetti meno conosciuti della questione a una opinione pubblica italiana disinformata dalle narrazioni dei regimi definiti da tempo da alcuni studiosi [5] come regimi di natura, e struttura, “clanico-delinquenziale”. In pratica i vasti poteri economico-finanziari strutturati in vere e proprie bande mafiose ad altissimo livello. Per invitare una opinione pubblica già impegnata ma disorientata a cercare maggiori informazioni per comprendere gli eventi odierni e le trasformazioni in atto nel sistema mondiale dominato da un complesso economico-militare-culturale occidentale sempre più aggressivo anche per crisi interne. Come si può notare a inizio settembre negli articoli del Sole 24 ore sui nuovi trattati economici e militari Italia-Israele. Come pure le informazioni sulle dinamiche politiche oscillanti fra gli ‘alleati occidentali’, percepibili al di là delle informazioni drammatiche sull’ondata di profughi in fuga verso l’Europa, che tendono all’identificazione immediata del pericolo nel nemico, in questo caso la Russia. Vedi gli articoli di questi giorni su “soldati russi” in Siria che provocherebbero una nuova guerra... - ma non erano lì da tempo? - ma anche le svolte imbarazzate rispetto ad Assad come interlocutore! [6] Occidente vs/Russia-Cina? Ce lo possiamo permettere da quando l’ENI ha scoperto il più grande giacimento di gas naturale nel Mediterraneo? Emblematico il modo in cui viene gestita e subito strumentalizzata la tragedia del popolo siriano, con fotografie di cartelli inneggianti a un regime change contro Assad. Non a caso Gran Bretagna e USA dichiarano che accoglieranno solo profughi siriani! E anche le ONG fanno il loro lavoro [7].

Come co-resistere: oltre la paralisi delle mitologie e contro l’ipocrisia europea

Il problema per tutt* noi da tenere in primo piano, è ancora una volta, come sempre, quello di approfondire le analisi, il saper cogliere le collocazioni, dislocazioni o spostamenti geopolitici con obiettivi economico-militari, del mondo in cui viviamo. In questa fase la questione palestinese, che è stata ed è al centro delle logiche di conquista, di occupazione e di insediamento coloniale israeliane, sfuma, svanisce, così come il suo territorio e la sua popolazione. Perde forza nei gruppi di ‘solidarietà’, viene separata da quello che accade ai suoi confini. E occorrono qui alcune osservazioni:

1) È necessario far emergere e respingere le narrazioni mitologiche sulla questione palestinese e insieme le narrazioni sulla frantumazione del Medio Oriente. Perché sono complementari. Cambiare il lessico sulla questione palestinese significa cambiarlo anche per tutto quello che accade ai suoi confini e nel mondo. Ad. es. le divisioni interne nei movimenti di solidarietà sulla comprensione reale degli eventi della ‘primavera’ siriana: “Che cosa ne è degli Amici della Siria?” si domanda Tommaso Di Francesco su il Manifesto l’11 settembre 2015, facendo tuttavia riferimento solo ai gruppi di pressione e ai governi europei. O ancora il favore ottenuto dal gen. egiziano al Sisi nel 2013, presso gli stessi movimenti, con il suo golpe, definito “rivoluzione popolare”.

2) Esiste un fenomeno per alcuni di noi strano e stravagante ma sempre più diffuso: nonostante le possibilità di informazione a quasi 360°, persiste ostinata una ‘fedeltà’ quasi assoluta da parte di attivisti nei gruppi della cosiddetta solidarietà verso la Palestina a credere ciecamente nelle mitologie della narrazione ufficiale mainstream accolta e diffusa dai propri leader. Come ad es. la narrazione dei due stati per due popoli, o il perenne riferimento e plauso agli Accordi di Oslo o i “palestinesi” visti come un unicum, non compiendo la necessaria analisi “di classe”, non identificando chiaramente le complicità, lasciandole in un territorio sfumato.

Tutto ciò è inspiegabile, poiché si penserebbe che tutt* abbiano la capacità critica di leggere e osservare la realtà. Perché ancora questa ambiguità che riproduce paralisi? È effetto del continuo riferimento ai giochi politici della moribonda sinistra di riferimento o si guarda soltanto a interessi privati, pubblici o  internazionali intoccabili? O prevale l’ossequio al leader di turno? O la difficoltà ad uscire dal sistema ghetto del gruppo visto come rifugio, protezione, grande famiglia? Ed è sufficiente e gratificante per noi occidentali la bandiera palestinese all’ONU mentre uomini, donne e bambini vengono assassinati in Cisgiordania e Gaza?

Per concludere, queste riflessioni sono un invito ai molt* che lavorano per la questione palestinese, e non solo, e a quant* chiedono a gran voce unità e non frammentazione delle forze. Una possibilità c’è solo se ci sono obiettivi comuni e condivisibili riguardanti la realtà dei “fatti sul terreno”.

Solo se si accetta di ‘cambiare lo sguardo’, ancora e sempre occidentale e ossequiente alle sue mitologie. Per cercare di comprendere insieme, e insieme a resistere in modo unitario, rifiutando nelle modalità possibili, ogni forma di subordinazione e complicità con il sistema politico esistente, che induce ad una ‘paralisi concettuale’ e, come afferma Pappé, indebolisce e frammenta i movimenti. Molti di noi sono, siamo o saremo sempre più, indigeni.

 

Note:

[1] V. intervista su Al Shabaka e su Electronic Intifada, dell’ 8 settembre 2015 su Al Shabaka e su Electronic Intifada.

[2] Lorenzo Veracini, Swinburne Institute for Social Research, Melbourne. L. Veracini, What Settler colonial studies offer to an interpretation of the conflict in Israel-Palestine? In Settler colonial studies, May 6, 2015 e Id. The settler colonial present, Palgrave, Mac Millan 2015. V. anche il suo intervento Facing the Settler Colonial Present, discusso a Firenze presso l’Istituto Europeo (e poi il 4 giugno a Torino, su invito diISM-Italia).

[3] v. art di Varoufakis del 22.7.2015 in Global Research

[4] M.D. Nazemroaya, Will America’s New Deal With Iran Leave Russia Out In The Cold? su Global Research del 17.7.2015

[5] Christian Marazzi, Capitale e linguaggio. Dalla New Economy alla economia di guerra, Derive Approdi, 2002

[6] v. art “Siria, la svolta su Assad: raid e dialogo con il rais per fermare i massacri” di Bernardo Valli su Repubblica del 10 settembre. V. le informazioni sul giornale radio di Radio3 nella prima settimana di settembre ecc

[7] nelle 24 ore successive alla pubblicazione della foto del piccolo Aylan Kurdi, trovato morto sulla spiaggia, già la ONG britannica “Hand in Hand for Syria” apriva una fondazione a nome del bimbo (v. Robert Stuart, UK Charity Which Shares Syrian Opposition “Aims and Objectives” Benefits from Alan Kurdi Tragedy, in Global Research, 10 settembre). Il 9 settembre il fondo aveva già raccolto 50.000 sterline!