Il prof. Alberto l’Abate insegna Metodologia delle Scienze Sociali alla Facoltà di Scienze della Formazione presso l'Università di Firenze. E' tra i massimi conoscitori italiani del Kossovo dove ha trascorso lunghe permanenze insieme alla moglie Anna Luisa Leonardi, tra l’altro vi ha dedicato due anni sabbatici (95-96/96-97) di ricerche sulla resistenza non violenta degli albanesi e cercando di imbastire degli ambiti di dialogo tra serbi e albanesi. Ha lavorato a lungo con Gene Sharp, noto studioso delle lotte nonviolente. E' autore di numerosi saggi e libri sulla ricerca sociale, sui processi di emarginazione, sulla nonviolenza, sui giovani e la pace. Ha dato vita ad un'Ambasciata di Pace a Pristina, con l'obiettivo di studiare i problemi di fondo dell'area balcanica, favorendo la riapertura della comunicazione tra le parti in conflitto.


Una Premessa e Due "In Memoriam"
di Alberto L’Abate


Gli studiosi di scienze sociali non sono riusciti a spiegare quella che può essere definita “l’anomalia Kossovo”, e cioè come mai, mentre tutta la ex-Jugoslavia è stata sconquassata da una delle più terribili guerre fratricide di questi ultimi tempi, che ha visto combattere tra di loro, e ricorrere anche a pratiche crudeli e terribili per la reciproca “pulizia etnica”, serbi, croati, bosniaci, gruppi etnici cioè tra cui spesso c’era una differenza di religione (cattolici i croati, ortodossi i serbi, mussulmani i bosniaci) ma che facevano parte di uno stesso gruppo etnico (erano tutte popolazioni slave), e parlavano più o meno la stessa lingua (il serbo-croato) non è successo lo stesso, e si è evitato perciò un altro spargimento di sangue, nel Kossovo dove la stragrande maggioranza della popolazione è invece di un gruppo etnico e di lingua completamente diversa, l’albanese. Non sicuramente perchè i problemi erano meno gravi e le inimicizie storiche meno profonde. Al contrario il problema del Kossovo è sempre stato uno dei problemi di fondo della ex-Jugoslavia, un problema che nel campo dei rapporti interetnici si può definire di reciproca minoranza (mentre gli albanesi sono una minoranza, anche se non irrilevante, all’interno della Serbia alla quale sono stati legati - non per volontà loro ma di quella delle nazioni europee dopo il crollo dell’Impero Turco; i Serbi sono una minoranza della popolazione che abita il Kossovo) ed i rapporti tra questi due gruppi etnici non sono mai stati di fiducia reciproca e di collaborazione, ma, - a parte il periodo di dominazione turca, ed il breve periodo fascista, dal 1940 al 1944 - piuttosto di conflitto e di dominio dei Serbi nei riguardi degli Albanesi. E’ in questa zona che è cominciata infatti quella politica che porterà più tardi allo scoppio del conflitto anche nel Nord: infatti in un incontro pubblico dei Serbi venuti da tutte le altre regioni nel Kossovo Milosevic ha lanciato la sua politica “dove c’è un Serbo lì è la Serbia” che è stato un vero atto di guerra in una paese, come la ex-Jugoslavia, in cui le enclaves di una etnia immerse in zone di un’ altra (si pensi alla Krajina abitata in prevalenza da Serbi ma situata in Croazia, e soprattutto alla commistione di gruppi etnici presenti nella Bosnia e che era il vanto di questa area considerata un esempio, non solo locale ma mondiale, di valida integrazione interetnica ed interreligiosa) erano la normalità e non l’eccezione. Ed è in questa area che per la prima volta è stato usato l’esercito federale per imporre, con la forza, la modifica della costituzione di Tito che era tra le più avanzate del mondo nel campo del decentramento amministrativo, e che riconosceva al Kossovo lo status di quasi-repubblica. E da allora, dal 1989/90, sussiste nel Kossovo una legge marziale o di emergenza che ha eliminato qualsiasi forma di autogoverno, ed ha posto la zona sotto occupazione militare poliziesca (secondo studiosi internazionali di circa 95.000 unità bene armate). Quindi la guerra c’è stata e c’è tuttora anche in questa zona, sia pur nascosta. Ma malgrado tutto questo non si è arrivati a conflitti aperti ed ad una guerra guerreggiata. Come mai questa zona non è esplosa come le altre che pur avevano sicuramente ragioni minori per infuocarsi? Ed il fatto che non sia esplosa finora dà qualche garanzia che, ora che la guerra in ex-Jugoslavia è considerata conclusa, non esploda anche questa zona dando pratica attuazione al detto molto diffuso “la guerra jugoslava è iniziata nel Kossovo ed in questa regione finirà”?.
Questo numero nasce per cercare di rispondere a queste domande. Ma alla base del numero così come è stato organizzato c’è una chiara ipotesi di risposta alle domande su accennate su cui si sono cercati elementi di appoggio o di confutazione. Quella cioè che la non esplosione della zona sia stata in grandissima parte merito della scelta, da parte della popolazione albanese, di una strategia di lotta nonviolenta - con elementi molto interessanti ed innovativi dell’uso della tecnica del governo parallelo. E che questa scelta sia stata possibile perchè nella cultura tradizionale albanese non c’è soltanto la “vendetta”come risposta dovuta verso torti ed ingiustizie subìte, in un quadro istituzionale di mancanza di legge e di predominio dei più forti, che viene di solito messa in risalto,- mostrando così il popolo albanese come uno dei popoli più vendicativi e sanguinari del mondo occidentale - ma anche il “perdono” e la “riconciliazione”. E che sia stato proprio il grande movimento di massa per la riconciliazione, nella sua versione più recente guidato da un etnologo di fama internazionale, Anton Cetta, a porre le basi ed incoraggiare la leadership politica kossovara a portare avanti una strategia di questo tipo. Ma l’altra ipotesi alla base del lavoro è quella che la non.compresione, da parte della Comunità Internazionale, del linguaggio della “nonviolenza”, e la sua accettazione solo di quello “delle armi” stia rischiando di fare esplodere tutta la zona sud dei Balcani, con risultati che, con ogni probabilità, saranno catastrofici per il raggiungimento della stabilità e della pace in questa area dei Balcani. Per mettere a fuoco il problema e trovare conferme o confutazioni a queste ipotesi abbiamo intervistate centinaia di persone comuni, di leaders politici e di studiosi. Ma data l’impossibilità di pubblicare tutto il materiale raccolto abbiamo scelto per questo numero, per la prima parte, solo qualche saggio di alcuni degli studiosi di scienze umane e sociali che più hanno approfondito il problema dei rapporti serbo-albanesi nel Kossovo, e cioè tre studiosi Serbi (Janjic, Vasilijevic e Lutovac,) ed altrettanti Albanesi (Hislami, Kullashi, Maliqi,), e quello di uno studioso italiano di storia religiosa che si è anche impegnato direttamente, in quanto membro della Comunità di Sant’Egidio, nella ricerca di soluzioni nonviolente del conflitto (R.. Morozzo Della Rocca). La seconda parte è invece dedicata tutta al movimento della riconciliazione ed alla figura di Anton Cetta, e viene riportata l’intervista fatta da una delle delegazioni della Campagna per una Soluzione Nonviolenta nel Kossovo (cui ha partecipato anche il curatore del numero, nell’agosto 1994) e due saggi di suoi stretti collaboratori, Anton Berisha, e Mirie Rushani. Oltre a questi saggi ci è sembrato utile riportare anche la testimonianza di una osservatrice esterna, la Motes, che per vari anni ha insegnato inglese all’Università di Pristina (Kossovo) . Speriamo di riuscire, con questo numero, a far comprendere meglio e più approfonditamente non solo le ragioni di un conflitto, ma anche le difficoltà a trovare soluzioni valide ad un conflitto così radicato.
Il lavoro è il frutto della collaborazione tra l’Università di Firenze, che mi ha concesso due anni sabbatici per studio che hanno permesso a me ed a mia moglie lunghi soggiorni nella zona, e la “Campagna per una Soluzione Nonviolenta del Problema del Kossovo”, promossa da varie organizzazioni non-governative italiane (tra queste il Movimento Internazionale della Riconciliazione :MIR; Pax Christi Italia; Agimi-Caritas-Otranto; la Commissione Pace e Disarmo delle Chiese Battiste, Metodiste e Valdesi, Beati i Costruttori di Pace, la Comunità di Sant’Egidio di Roma, la Segreteria Nazionale per la DPN; il Movimento Nonviolento, l’Associazione per i popoli Minacciati, ecc.), che ha portato avanti nella zona, con un contributo economico della Campagna Nazionale per l’Obiezione di Coscienza alle Spese Militari e di vari Enti locali Italiani, una singolare esperienza di “Ambasciata di Pace” con l’obiettivo di prevenire l’esplosione della zona trovando eque soluzioni ai problemi emersi. Il lavoro di traduzione, e di revisione, di molti dei saggi qui presentati, oltre che dal sottoscritto e da sua moglie, è stato fatto volontariamente da vari collaboratori di questa campagna.
Resta da accennare ai due “in memoriam di due personaggi straordinari con cui abbiamo strettamente collaborato in questi anni”: un albanese, Anton Cetta, ed un serbo V. Vasilijevic. Alla loro memoria vogliamo dedicare questo numero. Ambedue erano persone di pace, sempre aperte al dialogo ed alla comprensione degli altri, ambedue, a modo loro, dedicati completamente alla riconciliazione, alla ricerca di soluzione pacifiche, ma eque e giuste, al conflitto qui messo a fuoco. E dedicati ambedue allo sviluppo, in Serbia e nel Kossovo, di una vera democrazia che permetta a questi due paesi di venire a far parte di una Europa Democratica in cui speravano molto e di cui si sentivano parte, un’Europa in cui i diritti umani individuali e collettivi vengano effettivamente rispettati (e non solo scritti sulla carta). Ambedue ci hanno aiutato molto a comprendere il problema, sempre disponibili ad incontrarci quando volevamo risposta a certi quesiti ed a certi nostri dubbi. Cetta, di cui Berisha ha fatto un quadro molto valido, aveva in passato incontrato i membri di altre delegazioni precedenti della Campagna. Per l’intervista qui riprodotta ci aveva promesso solo mezz’ora di tempo, ma poi ce ne ha dedicate quasi tre. Egli è morto a fine 1995 lasciando un vuoto incolmabile, ed un ricordo imperituro in tutti coloro che l’anno conosciuto. La sua morte ci ha purtroppo anche impedito di averlo come interlocutore nel periodo principale del nostro soggiorno a Pristina, ma ci hanno aiutato invece i suoi collaboratori, oltre a quelli che hanno contribuito al numero, anche quelli dell’Istituto di Albanologia con cui lui collaborava strettamente e che stanno portando avanti la ricerca sul suo lavoro e la pubblicazione delle sue opere. Vadlan Vasilijevic, Vice Presidente del Circolo di Belgrado, uno dei centri più vivi di cultura alternativa serba, era docente di diritto criminale internazionale all’Università di Belgrado, e molto interessato alla salvaguardia dei diritti umani. Tutte le volte che passavamo da Belgrado andavamo a trovarlo per discutere insieme su possibili soluzioni positive al problema del Kossovo. Si era offerto lui stesso di scrivere un saggio, per questa rivista, su “La Serbia ed il Kossovo nel mutamento politico in atto”. Purtroppo la morte improvvisa, nell’ aprile di quest’anno, prima di poter mantenere il suo impegno, e poco tempo dopo la morte dell’altro Vice Presidente dello stesso circolo Zivotic, anche lui uomo del dialogo, ha privato la Serbia di due persone illuminate molto interessate ed impegnate a trovare delle valide soluzioni pacifiche al problema Kossovo, e ci ha privato di un caro amico con cui era ormai diventato normale scambiarsi opinioni e conoscenze tutte le volte che passavamo da Belgrado. E ci ha costretto, con rimpianto, ad accontentarci di tradurre un saggio da lui già presentato ad un convegno internazionale, ma che comunque dà idea dell’alto livello umano e scientifico della sua riflessione su questi temi. Nella speranza che l’esempio di queste due persone del dialogo e della riconciliazione possa essere seguito da molti altri e che si possa arrivare, in tempi ragionevoli, al superamento dell’attuale situazione di continua violazione dei diritti umani, individuali e collettivi, della popolazione albanese del Kossovo (denunciata, tra gli altri, anche da Vasiljievic), ed all’avvio, tra le parti, di un processo di confronto e di dialogo cui collabori, in modo approfondito ed autorevole, una “comunità internazionale” più interessata alla ricerca di una valida ed equa soluzione del problema e meno interessata invece a promuovere i propri, singoli, interessi economici e commerciali.

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