Esistono da sempre due città, una legale e l’altra illegale, i cui confini si spostano a seconda delle epoche storiche e delle necessità economiche contingenti. Spesso gli abitanti di queste due città si sfiorano, interagiscono, confliggono. Sulle loro contaminazioni si costruisce il tessuto sociale. Quasi sempre gli abitanti della città oscura non hanno voce sui media ufficiali: sono un numero, una statistica o un titolo di giornale. I dannati della metropoli nasce dalla necessità di far parlare i protagonisti del disagio e della devianza che vivono e attraversano le nostre metropoli.
Sulle tracce di Danilo Montaldi e della scuola di Chicago, animato da un bisogno radicale di far uscire l’antropologia dalla torre d’avorio dell’accademia, Andrea Staid si è messo in ascolto delle voci della città oscura, senza pregiudizi. Con una ricerca che è frutto di anni passati con i migranti, iscrivendosi in maniera del tutto nuova al filone dell’antropologia delle migrazioni, contaminato con l’etnografia e la storia orale. Il cuore del saggio è rappresentato dall’analisi di un caso specifico spesso al centro della cronaca, su una via e più precisamente un grande palazzo soprannominato dalla stampa “il fortino della droga”, situato in un quartiere centrale di Milano (via Bligny 42). Un caso celebre e paradigmatico, raccontato per la prima volta attraverso le voci dei protagonisti.
Ne è uscito un affresco di storie ascritte al mondo della strada, una etnografia della criminalità migrante o meglio dell’uscita dal confine della legalità, un saggio su chi si ribella a un destino di schiavitù, cercando di fuggire da un carcere o semplicemente andando a ingrossare per scelta le fila del nuovo milieu criminale metropolitano.

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6 marzo 2014

Marginalità urbana
di Franco La Cecla

Accanto alla nostra vita quotidiana, esiste un mondo solo apparentemente nascosto dalla nostra abitudine, in cui vivere è difficile, molto di più delle nostre cronache di crisi e di penuria. A due passi da noi, che siano le spiagge di Lampedusa o i viali “bene“ di Milano si muove la realtà nel suo sconquasso più assurdo. Sono storie disperate e disperanti, ma anche storie piene di vita. Gli immigrati, lungi dall’essere carne sociale passiva, materia nuda da contrabbandare, sono soggetti che decidono di prendere atto della “non collocazione” a cui li destina l’Europa. Si inventano un ulteriore paese in cui emigrare, quello della marginalità o della delinquenza, del sottobosco urbano e se possibile della latitanza. Pensiamo a questa situazione su larga scala, a ciò che comporta a livello di destabilizzazione delle società, e poi chiediamoci se non sarebbe molto più intelligente ampliare lo spazio della cittadinanza europea. A meno che, ovviamente, in una visione negriana delle sorti progressive degli sfruttati non si veda nella marginalità e nelle tragedie umane che ne conseguono la strada per la coscienza politica di un nuovo soggetto rivoluzionario. Tutte analisi magnifiche, che non tengono però in conto i costi umani che comportano né il fatto che i protagonisti di questa storia non vogliono essere eroi della nuova rivoluzione, ma pensano di avere semplicemente diritto a una vita decente.

Succede, a leggere questo libro (I dannati della metropoli, Milieu ed., di Andrea Staid)*, di rendersi conto della tragicità del presente in cui viviamo. I racconti degli intervistati, le loro cronache, gli eventi di cui sono vittime e protagonisti coloro di cui si parla, la stessa mappa vivente dell’immobile in viale Bligny a Milano ci restituiscono un mosaico che fa violenza al senso comune, che scuote per i costi umani che comporta e che ridisegna completamente il paesaggio dell’ovvio cui siamo abituati. Accanto alla nostra vita quotidiana, esiste un mondo solo apparentemente nascosto dalla nostra abitudine, in cui vivere è difficile, molto di più delle nostre cronache di crisi e di penuria. A due passi da noi, che siano le spiagge di Lampedusa o i viali “bene“ di Milano si muove la realtà nel suo sconquasso più assurdo. Gente come noi che fugge da paesi difficili più del nostro, e si trova per questo in situazioni impensabili e deve far fronte all’assurdità scegliendo una maniera per sopravvivere.

Andrea Staid è tornato alle origini del fare antropologia, a quella scuola di Chicago che si interrogò nei primi decenni del Novecento sulle migliaia di hobos, di clochard, di senzatetto, di marginali e fuorilegge. Un approccio che ha fondato una tradizione di ricerca dove è fondamentale il coinvolgimento, ma che si astiene da qualunque romanticismo o da facili mitizzazioni.

Per fotografare il presente con la lucidità e l’apertura di chi cerca di coglierne nella follia quotidiana i segni umani e disumani.

Oggi c’è chi, come Bourgois e Schonberg, si occupa della nuova marginalità urbana negli Stati Uniti; chi come Jennifer Toth si cala nel sottosuolo di New York per riemergere con storie terribili di uomini e donne talpa che sopravvivono nel buio e nel freddo dei tunnel della metropoli. Staid ci conduce nel tunnel che inizia con la decisione di emigrare, con le tragedie nel deserto libico o altrove, con il pericolo e la morte in mare e arriva ai centri lager dove gli emigranti vengono ammassati e trattati come criminali. Fino a convincerli a diventar tali, a trovare un proprio modo di vivere nelle pieghe che la società prevede per i fuorilegge. E infine Staid ci porta tra le parole dei protagonisti, fino ai destini di marginalità e carcere.

Sono storie disperate e disperanti, ma anche storie piene di vita, dove si capisce che l’immigrato dichiarato fuorilegge a un certo punto trova una propria ridefinizione dell’esserlo.

Storie di immediata disillusione, di rivolta, di voglia di vivere nonostante. L’antropologia con la sua vocazione a testimoniare è uno strumento perfetto da questo punto di vista: ci costringe a renderci conto di come la vita quotidiana altrui non sia tanto differente dalla nostra, e nei panni dei marginali potremmo tranquillamente trovarci noi.

In più, con una sottigliezza che Staid utilizza senza ideologismi, la marginalità stessa in queste storie viene anch’essa ridefinita.

Si è marginali rispetto a una normalità che, se ristretta e ridotta, diventa un campo piuttosto ampio. Ci si “ritrova” a essere marginali anche non volendolo, quando dall’esterno le categorie di ammissione allo spazio sociale somigliano a quelle di un club per giocare a golf o a tennis. Nella tragedia dell’emigrazione verso l’Europa, oggi c’è la volontà precisa della politica europea di creare quelle che Foucault chiamava “eterotopie”.

L’Europa come luogo che si serve della cittadinanza per limitare la dialettica sociale piuttosto che per arricchirla. L’Europa che gioca col fuoco approfittando delle diaspore mondiali ma che è poi incapace di gestirle.

Le storie raccontate in questo libro dimostrano proprio che la gestione poliziesca dell’immigrazione non funziona nemmeno nelle sue intenzioni più repressive. Il flusso non si arresta e la nuova immigrazione trova vie di fuga che paga duramente, e che ampliano crisi sociale e conflitti sociali.

Gli immigrati, lungi dall’essere carne sociale passiva, materia nuda da contrabbandare, sono soggetti che decidono di prendere atto della “non collocazione” a cui li destina l’Europa.

Si inventano un ulteriore paese in cui emigrare, quello della marginalità o della delinquenza, del sottobosco urbano e se possibile della latitanza.

Pensiamo a questa situazione su larga scala, a ciò che comporta a livello di destabilizzazione delle società, e poi chiediamoci se non sarebbe molto più intelligente ampliare lo spazio della cittadinanza europea. A meno che, ovviamente, in una visione negriana e delle sorti progressive degli sfruttati non si veda nella marginalità e nelle tragedie umane che ne conseguono la strada per la coscienza politica di un nuovo soggetto rivoluzionario. Tutte analisi magnifiche, che non tengono però in conto i costi umani che comportano né il fatto che i protagonisti di questa storia non vogliono essere eroi della nuova rivoluzione, ma pensano di avere semplicemente diritto a una vita decente.

Leggendo le pagine di questo libro viene spesso da pensare al dibattito che proviene a noi da Hanna Arendt sulla cittadinanza e alle intuizioni di Giorgio Agamben sulla “nuda vita”.

È vero, questi nuovi “non cittadini” sono gettati nello spazio indifferenziato del corpo nudo di chi non rappresenta che se stesso.

È un corpo dolorante, affogato, riemerso a volte, un corpo che si mutila, che fugge, che cerca uno spazio dove nascondersi e proteggersi. Ma insistere sulla “nuda vita”, come osserva Lila Abu-Lughod (lo fa nell’ultimo libro, Do Muslim Women Need Saving?), porta anche a degli equivoci. Perché questi protagonisti e protagoniste dell’emigrazione non sono totalmente “tabula rasa”, portano con sé una storia e una dignità, una identità che non è solo “d’origine”.

Le loro strategie di sopravvivenza, la loro tattica di re-insediamento e di nascondimento, il loro scegliere lo spazio della marginalità, avviene dentro a una appartenenza culturale e a un orizzonte di rapporti. La loro stessa possibilità di fuga dai centri lager è legata alla capacità di fare rete e di avere reti di solidarietà.

Credo che il valore de I dannati della metropoli stia proprio in questo, nel mostrare molte di queste storie di vita, nel raccontare talmente da vicino il presente da non aver bisogno di un’ideologia di lettura; e avere la possibilità, invece, di tentare di capire entrando nella carne del mondo, nel suo essere così com’è e non come vorremmo che fosse. È la vocazione dell’antropologia, quella di privilegiare il “capire il mondo” sulla pretesa veloce di “cambiare il mondo”, o meglio, di mettere l’accento sui troppi errori di un transfert che operiamo “politicamente” sulle vite degli altri come materiale per il nostro desiderio di rivoluzione.