Il Saggiatore 2013

Pechino, 2011. È sera quando un uomo viene scaricato sulla soglia di casa dalla polizia. Si regge con le mani i pantaloni rimasti senza cintura. Sembra stordito, forse ha paura. Un giornalista gli si avvicina ma lui farfuglia solo poche parole, si schermisce: non può rilasciare interviste e spera nella comprensione dei media. È il 22 giugno e Ai Weiwei torna a casa dopo 81 giorni di reclusione. Due mesi prima, l’opinione pubblica mondiale aveva reagito con sconcerto alla notizia dell’arresto del più famoso artista cinese vivente, simbolo di una nuova cultura in lotta per la libertà di espressione in Cina: la fama internazionale, esplosa nel 2010 con l’installazione Sunflower Seeds alla Tate Modern, non era bastata a proteggere quel tenace contestatore dall’aspetto bonario. Attraverso l’arresto di Weiwei, il mondo intero si confrontava con la violenza del regime cinese per l’assenza di diritti fondamentali dell’individuo, per le detenzioni senza un processo che verifichi la responsabilità dei reati, per la sostanziale mancanza di uno stato di diritto.