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Domenica 14 Dicembre 2014

La sinistra postmoderna, il neoliberismo e la fine della democrazia
di Stefano G. Azzarà

Qual è il nesso che va stabilito fra libertà privata e libertà pubblica? Come reagire alla crisi profondissima della democrazia? Sono queste alcune delle domande che si è posto Stefano G. Azzarà, nel suo recente “Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia” (Imprimatur Editore 2014), di cui pubblichiamo qui, per gentile concessione dell’autore, un estratto

Affinché la democrazia moderna continui o ritorni ad avere un senso [...] è necessaria anche la «libertà positiva», la «libertà di». E cioè quella libertà di agire in senso politico che Berlin e i liberali conservatori hanno inteso delegittimare, considerandola «virtualmente identica»1 all’autoritarismo. Dopo i grandi cicli rivoluzionari del Novecento, libertà significa anche e in primo luogo «aspirazione profonda e universale allo status e al riconoscimento»2, oltre che «autogoverno sociale». E significa dunque la possibilità e capacità di cambiare le cose, il potere di trasformare la realtà che ci circonda attraverso l’intervento attivo dei gruppi di interesse, delle classi sociali, dei popoli. Significa soprattutto il risveglio dei lavoratori e di nazioni intere.

Come sappiamo, è questo il cuore stesso della modernità: non si tratta semplicemente di operare una scelta che tocca solo noi stessi o si esaurisce in un rapporto privato e nemmeno di incidere sul mondo in maniera accessoria; si tratta invece di modificarlo in maniera strutturale e dunque di operare politicamente. Di affermare una libertà pubblica anche attraverso il conflitto, sebbene un conflitto sempre più formalizzato. E non vale come argomento contrario il fatto che le classi subalterne siano state sconfitte o che proprio questi soggetti un tempo rivoluzionari, privati ormai di ogni autocoscienza autonoma, siano oggi i principali sostenitori o fruitori passivi della visione egemonica postmoderna della libertà.

Queste possibilità di libertà positiva, gli orizzonti della nostra libertà reale, si sono oggi effettivamente ampliati assieme ai diritti civili? Oppure l’ossessivo richiamo al godimento di una libertà individuale immediata, che ha assecondato il riflusso nel privato sancendo (e aggravando) l’incapacità delle classi subalterne di agire il conflitto sociale, ne ha nascosto il deperimento? L’impressione è che, ben camuffato sotto la fantasmagoria di una libertà anarchicheggiante che si manifesta principalmente sul terreno immediato del consumo e degli stili di vita – «il postmodernismo è il consumo della pura mercificazione come processo»3, commenta Jameson – e abbellito da una retorica individualistica di natura compensativa o dalle ipocrisie del politically correct, il postmodernismo celi, al contrario di quanto promette, un processo di riduzione sostanziale e massiccia degli spazi di libertà.

Dietro la superficie di una mancanza di vincoli e regole che ci rende oggi potenzialmente liberi di fare quel che vogliamo a seconda delle nostre capacità di spesa, si nasconde in realtà una forte compressione della nostra capacità di autodeterminazione. Perché oggi non siamo più in grado di trasformare il mondo che ci circonda e per certi aspetti nemmeno di pensare le condizioni della sua trasformabilità. Assolutamente liberi di assumere gli stili di vita più diversi e anche improbabili – «il pensiero cessa di essere una ratio, la vita cessa di essere una reazione»4 -, siamo però molto meno liberi delle generazioni “moderne” del recente passato di determinare realmente la nostra vita, di decidere in piena autonomia, di eliminare quei condizionamenti oggettivi che limitano la nostra possibilità di scelta, di cambiare la realtà, di migliorarla. E questo perché non siamo più in grado di confliggere in maniera organizzata e di costruire la forza d’urto necessaria in vista della costruzione di un’alternativa politico-sociale.

Possiamo perciò essere liberi di vestirci come vogliamo, di orientare a piacimento i nostri gusti sessuali, di scegliere distrattamente tra le infinite offerte del mercato o del palinsesto televisivo. Abbiamo anche letto innumerevoli elogi della figura del flâneur ma non riusciamo nella nostra azione a modificare la realtà e siamo anzi condizionati pesantemente da una struttura che si è ri-naturalizzata e pretende di essere data una volta per tutte, fornendo la base materiale dell’unica ideologia vigente nell’epoca della fine delle ideologie.

Abbiamo l’illusione di una libertà individuale infinita ma questa libertà sarà inevitabilmente ristretta nella sfera privata, nel confine del consumo o di scelte individuali che non cambiano assolutamente nulla del mondo che ci circonda, se non addirittura del desiderio e dell’immaginario. E lasciandoci l’illusione di essere liberi per il solo fatto che possiamo cambiare canale, colore di capelli o fidanzata ogni volta che vogliamo, questo mondo continuerà per lungo tempo ad andare avanti come va adesso e continuerà a decidere per noi, rispettando la forma della democrazia ma neutralizzandone la sostanza politica partecipativa.

Insomma, la «produzione di bisogni»5, la «mobilitazione del desiderio e della fantasia», si configurano come una vera e propria «politica della distrazione» di stampo repressivo. E quella presunta rivoluzione costituita dal consumo immediato della libertà e dalla finta trasgressione di norme che di fatto non esistono più compensa la realissima dissoluzione di quell’unica rivoluzione che veramente conta sul piano politico.

Non si tratta di considerazioni moralistiche. Nella sua declinazione privatistica del concetto di libertà, il postmodernismo è sicuramente l’espressione elaborata e raffinata dell’arricchimento delle società occidentali nel secondo dopoguerra. Di quel «rinnovato sviluppo del capitalismo liberale» che ha «valorizzato il godimento individuale dei beni e dei servizi»6. Di un accresciuto benessere, cioè, che retroagisce sulla soggettività sollecitando il sorgere di nuovi desideri e bisogni, nuove esigenze che si sovrappongono a quelle primarie ormai soddisfatte e si differenziano in maniera crescente, spingendo ognuno di noi lungo percorsi di vita sempre più individualizzati (e che, come direbbe il marketing contemporaneo, possono essere soddisfatti on demand). Trasformazioni, queste, tutte “moderne” nella loro genesi, che coinvolgono inevitabilmente anche le classi subalterne, emancipandole dalla «morale austera»7 tipica del proletariato tradizionale e spingendole sul terreno della «morale liberale». E che coinvolgono anche gli intellettuali che a queste classi si dicono legati, i quali interpretano giustamente questi mutamenti anche come un esito inevitabile del conflitto sociale avvenuto nei decenni precedenti e del suo successo – e cioè come tappe nella conquista di nuovi diritti -, rivendicando la legittimità del benessere conseguito e del consumo che ne deriva.

L’allargamento delle libertà individuali, delle quali la diffusione della cultura di massa ha rappresentato a lungo un indicatore, dunque, è un fenomeno positivo che non può certamente essere contestato, pena la ricaduta su posizioni antimoderne, aristocratizzanti e reazionarie. Se però l’operazione postmodernista sulla libertà si limita a questo e non si pone il problema della libertà positiva, se il suo obiettivo pressoché esclusivo è la destrutturazione unilaterale del concetto moderno di libertà e non investe la nostra capacità di modificare con efficacia la realtà ma opera anzi attivamente sul piano ideologico affinché questa prospettiva risulti del tutto bloccata, le cose cambiano in maniera drastica. Allora è chiaro che questa operazione culturale, con tutte le sue buone intenzioni, si rivela essere essenzialmente un momento ideologico decisivo nell’ambito di una strategia egemonica neoliberale. Una retorica superficiale della libertà individuale che nasconde un forte restringimento della libertà stessa e dunque una «concezione antipolitica dell’individualismo»8.

In questo senso, ha ragione Harvey nel sostenere che proprio a partire dal suo fallimento «il movimento del 1968», con la sua presunta politicizzazione della sfera privata, «dev’essere visto come il messaggero culturale e politico del successivo passaggio al postmodernismo»9. E Luigi Cavallaro, scandalizzando gran parte della sinistra reducistica, conferma questa impostazione: «a offuscare le velleità normative e pianificatrici dello Stato i movimenti degli anni ‘70 hanno concorso non meno di Friedman e Hayek»10. Ecco che il pensiero oggi dominante definisce «un ordine simbolico che può essere racchiuso nella più celebre delle parole d’ordine che trionfarono nella rivoluzione mondiale del ‘68: “Vietato vietare!”».

Possiamo oggi veramente incidere nelle decisioni più importanti che riguardano il nostro paese e il nostro stesso futuro personale? Possiamo cambiare la realtà, operare nella cuore e nelle viscere delle strutture del mondo che ci circonda? Di fronte a problemi concreti che modificano in profondità la nostra vita – pensiamo alle recenti riforme della scuola e dell’università, oppure a questioni ancora più rilevanti come la pace e la guerra – noi non abbiamo più pressoché alcuna possibilità di incidere. Così come, più in generale, non abbiamo possibilità di intervenire all’interno di un quadro politico che, al di là delle differenze tra gli schieramenti, è stato assorbito dal mercato e si è reso sostanzialmente uniforme all’insegna del monopartitismo competitivo.

Anche Nadia Urbinati ammette oggi, da una prospettiva liberaldemocratica, che «l’affermarsi dei diritti civili» e «la cultura dei diritti individuali» hanno «liberato gli individui da preesistenti lacci sociali autoritari e gerarchici ma non ha consolidato nuovi vincoli». Che questa conquista, pur importante, «non ha edificato quella sorta di cemento etico capace di tenere insieme una società di individui autonomi»11, rendendo estremamente difficile «distinguere tra libertà e preponderanza degli interessi privati». Sono perciò del tutto sbagliate, illusorie e fuorvianti sino al limite del grottesco, le posizioni di chi, anche nelle figure più estreme della soggettività postmoderna dissociata, mercificata e depoliticizzata individua «processi a volte sorprendenti di affermazione di sé, di cambiamento della propria esistenza»12, processi tali da produrre «quegli scarti che la politica dovrebbe evocare e capire», e li interpreta come elementi di una fantomatica alternativa di società degli individui liberati.

É in questo senso che per comprendere la genesi del postmodernismo dobbiamo fare riferimento, oltre che all’arricchimento delle società e delle stesse classi subalterne, soprattutto alla sconfitta politica di queste ultime. Inserendo questa tendenza in quella «ridefinizione in senso antistatalista della libertà» che è avvenuta «all’interno della cornice dell’ordine internazionale della Guerra fredda e del confronto ideologico tra modello liberale e modello comunista»13, come dice ancora, giustamente, persino Urbinati. É proprio la battuta d’arresto alla quale è andata incontro la concezione moderna della libertà universalizzata tipica dalla tradizione democratico-rivoluzionaria – alla quale proprio queste classi erano prioritariamente interessate e alla quale è indissolubilmente legato il senso della democrazia moderna -, in realtà, il vero problema.

Il fallimento del tentativo di portare a compimento il progetto moderno di emancipazione umana tramite una spinta decisiva nel corso del secondo dopoguerra, e in particolare con il ciclo di lotte 1968-’77, è il fallimento di un ciclo rivoluzionario vissuto soggettivamente con grande intensità ma sconfitto anzitutto dalla forza superiore dell’avversario, oltre che dalle proprie contraddizioni interne. Questo esito ha spinto gli intellettuali postmodernisti dell’estrema sinistra, e un’intera generazione con loro, a salvare se stessi riversando ora all’interno, in una dimensione tutta privatistica, quel radicalismo che non aveva retto all’urto con la realtà esterna14. E li ha spinti reinterpretare la libertà positiva in una chiave univocamente negativa che si risolve in ultima istanza nell’anarchismo del consumo. Senza consentire loro di accorgersi che quel riflusso che stavano assecondando – «collocarsi in maniera costruttiva nella condizione post-moderna»15, «vivere positivamente quella vera e propria età post-metafisica che è la post-modernità», diceva Vattimo prima della sua estrema svolta “comunista” – costituiva il più efficace fiancheggiamento della rivincita neoliberale. Come hanno spiegato persino Negri e Hardt, «le strategie postmoderniste… che a prima vista appaiono così libertarie, non costituiscono alcuna minaccia, bensì coincidono con le nuove strategie di potere a cui forniscono, anche involontariamente, un importante sostegno!»16.

Pago della propria riscoperta della libertà privata e del venir meno di ogni tabù e senso di colpa («vivere senza nevrosi in un mondo in cui “Dio è morto”»17), il postmodernismo rovescia perciò in gioiosa indifferenza la catastrofe della sconfitta delle classi subalterne e della loro acquisita impotenza politica: «la lotta è il mezzo con cui i deboli, in quanto più numerosi, riescono a prevalere sui forti»18, dice Deleuze con nonchalance, seppellendo due secoli di conflitto politico-sociale. Il postmodernismo non si rende conto che il trionfo dell’individualismo privatistico, celebrato come la più autentica “rivoluzione”, è solo la faccia più immediatamente visibile di una tragedia, quella del movimento dei lavoratori, che coincide con la crisi della libertà politica e dunque della stessa democrazia moderna tra le classi e le nazioni. Quel luogo di emancipazione che solo una costante tensione al riconoscimento universale può – anzitutto attraverso il conflitto – nutrire e mantenere in vita.

Ecco allora «una nuova egemonia culturale e un rinnovato immaginario popolare, cucinato dalle élite e dalle superclassi a proprio uso e consumo e a feroce difesa dei propri privilegi»19. Ecco cioè, detto con maggiore rigore analitico, una «”struttura del sentimento”… “egemonica”»20 il cui «compito ideologico» consiste nel «coordinare nuove forme di prassi e abitudini sociali e mentali… con le nuove forme della produzione e dell’organizzazione economica portate alla luce dalla mutazione del capitalismo negli ultimi anni, cioè la nuova divisione globale del lavoro».

[…]

Torniamo così al punto di partenza: quella crisi del comportamento e del linguaggio che manifesta il disagio della cultura e dell’eticità contemporanea, con l’inattesa presa di coscienza che la accompagna. Non sappiamo se, come auspica David Harvey21, il blocco storico definito dall’accumulazione flessibile sia davvero reversibile o se quantomeno lo siano i rapporti di forza che lo determinano. Se, come vorrebbe Luciano Gallino, sia pensabile prima o poi dar vita ad un «contromovimento»22. Ma se la crisi nella quale siamo immersi è anche l’esito dell’efficace lavoro di egemonia del postmodernismo sulla mentalità dominante e della distorsione alla quale questa tendenza sottopone la cultura di massa, come ho cercato di argomentare sinora, si capisce che non è affatto possibile rispondere alla distorsione del significato delle parole, alla manipolazione dell’immaginario e all’avvelenamento delle relazioni sociali – «riscattare la sfera del pubblico dall’impero quasi tirannico di un individualismo possessivo e politicamente apatico»23, auspica Nadia Urbinati – unicamente su un piano culturale. Non basta, perché in un orizzonte nel quale ormai tutto è opinione, «esperienza fabulizzata della realtà»24, un discorso di questo genere, che identifichi se stesso con la missione illuministica della diffusione di una nuova consapevolezza, non sarebbe percepibile diversamente che come un punto di vista tra gli altri. Un’interpretazione tra le tante, un simulacro alla Baudrillard: al limite, come una menzogna contro altre menzogne.

Quello che sappiamo bene, infatti, è che se la menzogna è divenuta la dimensione più condivisa del discorso pubblico come produzione spettacolarizzata di opinioni intercambiabili e prive di referenti reali – «l’indifferenza assoluta a ogni prova del contrario… cioè alla realtà e alla verità»25 di cui parla De Monticelli -, in realtà «la diffusione stessa della menzogna implica l’esistenza di meccanismi sociali in grado di favorirne la produzione e la propagazione»26. É nei «rapporti sociali» e nella loro realtà storico-materiale che, dopo averne preso coscienza, va allora cercata la ragione ultima della fantasmagoria delle opinioni e della «falsificazione del vero» analizzata da Giacché.

La produzione industriale della menzogna, con le sue ricadute sul piano dell’ethos individuale e collettivo, è necessaria alla riproduzione della società capitalistica. E pertanto non è il frutto della malvagità di qualcuno, né un accidente da rimuovere per assicurare un normale e trasparente funzionamento della società di mercato, ma un elemento strutturale ineliminabile. Essa è indispensabile per trasfigurare l’irrazionalità radicale di questa società. Mentre il carattere essenzialmente «spettacolare» e postmoderno della menzogna e della deformazione delle parole, amplificato oggi dai media, è inscritto sin dall’inizio nella natura feticistica della merce.

Nonostante il fallimento conclusivo dell’esperimento situazionista, aveva visto bene dunque Guy Debord, oltre quarant’anni fa, quando aveva anticipato il decorso della società dello spettacolo. Ed è per questo che, lungi dall’essere una mera esigenza estetica o morale, il confronto critico con il postmodernismo e «la riconquista delle parole» – che è anche la riconquista della verità e della realtà oltre che di un’intera tradizione di idee politiche che appare oggi delegittimata – è oggi «una priorità» anche e soprattutto «politica». Ed è dunque sul terreno politico che [...] questa battaglia culturale va combattuta27.

 

Riferimenti bibliografici

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Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era, Fazi, Roma.

 

NOTE

1 Berlin 2010, p. 198.

2 Ivi, p. 209.

3 Jameson 2007, p. 6.

4 Deleuze 2002, p. 151.

5 Harvey 1993, p. 83.

6 Lyotard 1985, p. 69.

7 Cfr. Losurdo 1992, pp. 194-5 e Losurdo 2001, p. 339n.

8 Urbinati 2011, p. 75.

9 Harvey 1993, p. 56.

10 Cavallaro 2010.

11 Urbinati 2011, pp. 7-9.

12 Sansonetti 2011.

13 Urbinati 2011, p. 60.

14 É un movimento dialettico che, per contrappasso, sembra molto simile a quello esposta da Nietzsche nella Genealogia della morale a proposito della formazione della morale reattiva degli schiavi e che tanti spunti aveva fornito a Deleuze! V. Nietzsche 1988b, pp. 33, 66-7, 102; cfr. Deleuze 2002, pp. 167-9, 192-3

15 Vattimo 1985, pp. 19-20.

16 Negri/Hardt 2001, p. 137.

17 Vattimo 1984, p. 26.

18 Deleuze 2002, p. 122.

19 Panarari 2010, p. 5.

20 Jameson 2007, p. 10.

21 Harvey 1993, p. 239.

22 Gallino 2011, p. 298 sgg.

23 Urbinati 2011, p. 14.

24 Vattimo 1985, pp. 38.

25 De Monticelli 2010, p. 51.

26 Giacché 2011a, p.12 sgg.

27 É una consapevolezza che è stata annunciata già da qualche anno (cfr. Luperini 2005) e che va crescendo presso numerosi intellettuali anche di estrazione diversa: cfr. De Monticelli 2010, p. 163: «La partita aperta contro lo scetticismo pratico non è affatto solo teorica. É soprattutto pratica, cioè – oggi e qui – politica». Anche chi si richiama a Tocqueville, poi, auspica oggi una «riaffermazione del valore dell’eguaglianza» e «politiche di redistribuzione e politiche del riconoscimento» (Urbinati 2011, p. 15). Del resto, persino chi in passato aveva aderito con entusiasmo al postmodernismo e aveva aspramente criticato il «neoilluminismo» di Habermas sembra essersi reso conto degli esiti di quella stagione e dichiara la fine di ogni «nostalgia del postmoderno»: cfr. il netto contrasto tra Ferraris 1985 e Ferraris 2010. L’esempio più significativo di questo ripensamento viene però dal “padre” del postmodernismo italiano, Gianni Vattimo, il quale, come ho già ricordato […], ha di recente modificato in maniera molto sensibile le proprie posizioni politiche: cfr. Vattimo 2007.

 

Stefano G. Azzarà insegna Storia della filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze dell’Uomo dell’Università di Urbino.